“IRENE E ARCANGELA”

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“IRENE E ARCANGELA”

Siamo a Firenze, ai giorni nostri. Si accendono sulla scena luci colorate, di taglio e a pioggia. Appare l’interno: d’una bottega da pittore. La pittrice e poetessa Irène Duclos Parenti è seduta di spalle sopra uno sgabello al centro del palcoscenico che declama, tra se e se, alcune sue rime anacreontiche (*).

IRENE: (Voltandosi di scatto) Sarò breve. Qui, in quest’altro mondo nessuno è mai libero di muoversi, di comportarsi. E comunicare con qualcuno è difficilissimo. Dappertutto sono distribuiti custodi che ci controllano, a volte anonimi, mescolati tra di noi. Allora, adesso che ho l’impressione d’essere sola qui con voi, vorrei approfittare di questa occasione unica per provare a dissipare ogni vostro dubbio sulla mia vita e sulla mia natura di donna e di artista. Ma non credo sarà facile. Dopo chissà quanto tempo dalla mia morte, potrei addirittura fare confusione circa la cronologia e l’esposizione dei fatti. Devo premettere che qui, in quest’altro mondo, dove non regna il tempo, sogno e realtà si alternano nella nostra mente e spesso si mescolano tra di loro. Così la nostra immaginazione e la nostra fantasia viaggiano continuamente a briglie sciolte. Sulla terra, dove invece il tempo confonde la mente in un’altra maniera, accade il fenomeno contrario: che spesso si è propensi a credere…, (Si alza in piedi e voltandosi di spalle) si è inclini a credere…, sì, a credere…, (Si volta di nuovo verso il pubblico) a non credere!? Si crede, si pensa. E così la giovinezza passa. (Mostra una tela dipinta ad olio: l’Autoritratto di Arcangela Paladini) Ne sa qualcosa lei, Arcangela Paladini, che fu condannata a vivere tutta una vita nell’arco della sola giovinezza. (Urla, facendo un giro su se stessa, con lo sguardo rivolto verso l’alto. Poi da sopra un cavalletto prende una tela con l’autoritratto di Arcangela Paladini. Lo guarda e lo mostra al pubblico) Non è stato così? (Rimette a posto quel ritratto e mentre lo osserva) Tu però, Arcangela, per quanto riguarda la tua arte, devi riconoscere, sei stata favorita dalla sorte. È vero, sei vissuta nel Seicento, un secolo e mezzo prima di me! Ma tu hai ricevuto ogni bene e ogni beneficio in anticipo, per poter dare poi. Io invece ho solo offerto la mia conoscenza e la mia esperienza, acquisite a dura fatica, finanche le mie sostanze, senza aver mai ricevuto né beni né benefici dalla vita, senza mai aver ricevuto compensi spontanei: con tutto quello che ho donato agli uomini che ho amato! O quello che ho saputo dare alla mia allieva preferita Emma Greenland! Quando poi non sono stata più in grado di dare o nessuno aveva più bisogno di me, allora mi sono chiusa in me stessa, senza ricevere un benché minimo sostegno da chicchessia. E ne ho conosciuti di egoisti! Ce ne sono di tutte le risme al mondo, di egoisti. Di quelli che puoi ricoprire d’oro, ma che non sarebbero mai disponibili nei tuoi confronti, per nessuna ragione. Qualche volta mi son sentita morire. Ebbene, nulla da fare, non c’era nessuno disposto ad assistermi. Se qualcuno poi è comparso, questi era un estraneo, che passava di lì, così, per caso. Ecco quindi perché oggi sono arrivata alla conclusione che anche nel privilegiato ambito dell’amore o dell’arte, il mondo è dei cosiddetti furbi. Allora voglio cambiare mondo, cambiare universo, fatemi scendere da questa carrozza, fermatelo questo mondo, questo universo! Fermatelo, devo cambiare mezzo di locomozione, devo cambiare direzione, cambiare mondo, cambiare universo! Immaginereste che neanche i miei genitori mi hanno mai capita? Finanche mio marito, un temperamento artistico anche lui! Benché, devo dire, tutti loro mi abbiano comunque amato tanto. Il mio sposo era un gran signore, un perfetto gentiluomo, un uomo estremamente galante che sapeva, forse fin troppo, corteggiare una donna. Pensate, mi conquistò con un biglietto con su scritto “Ad una donna come voi, Madame, manca un solo dettaglio per essere perfetta…, un difetto!”, quella stessa galanteria che, devo dire, mi riservava il Principe Michele Poniatowski, Primate di Polonia, uno tra i miei estimatori e acquirenti più assidui il quale, oltre alle copie che, di volta in volta, mi andava commissionando, un giorno – in mancanza d’un mio ritratto – volle acquistare per sé, a tutti i costi, un ritratto di mia figlia, magari chissà, come ricordo di me. Emma, la mia allieva inglese prediletta invece, furbescamente ha carpito dovunque ha potuto: dai maestri, da Roma, da Firenze, dall’Italia…, da me. E poi traeva sempre profitti dai rapporti con gli uomini: “Sono così mutevoli oggi questi nostri amanti, che se non approfitti subito dei loro favori nel momento in cui hanno perso la testa per te, va a finire che poi ti ritrovi all’improvviso abbandonata e con un pugno di mosche in mano!” soleva dire. Capite l’astuzia di questa mia allieva! Alla fine se n’è tornata nella sua Gran Bretagna, per sposarsi felicemente con un vicario, per raccogliere ogni gloria da sola, ignorando in particolar modo me, quasi non fossi mai esistita, proprio me che a lei – una capace pittrice, non lo nego, ma disorientata, fuori dal giro degli artisti e dei mercanti d’arte che contavano veramente – l’avevo introdotta a Firenze e in Italia, nel complesso e sconosciuto mondo della pittura ad encausto. Appena s’è realizzata non ha saputo spendere una sola parola per farmi apparire nel suo saggio pubblicato sulla famosa rivista Society Transaction, non mi ha neanche menzionata nel suo curriculum quando ha esposto l’autoritratto alla Royal Academy of Art di Londra. Il suo successo è stato suo e basta! I geni raccontano soltanto la loro storia, non storicizzano! E loro che nascono geni, non si propongono, non si confondono con gli altri: amano essere scoperti, per essere considerati tali. Lei si sentiva un genio, anche se a me non è parso lo fosse. A suo dire si sarebbe fatta tutta da sola. Nessuno l’avrebbe mai aiutata. Alla fine neanche suo marito, il Reverendo Vicario Thomas Hooker di Rottingdean, un uomo potente, titolare d’una scuola per nobili rampolli, che, di tutta risposta, ella seppe ripagarlo con una trasgressiva storia d’amore, diventando, credo, almeno per un periodo, l’amante di Johann Christian Bach figlio del grande Johann Sebastian. Non è un caso infatti se questo compositore le dedicò “Sei Sonate”. Capite? Io dovevo scomparire dalla scena; perché io, a quel punto, per lei, potevo essere soltanto un testimone scomodo. A quel punto non aveva più bisogno di me! Anche se, quand’era ancora una ragazza, io l’avevo accolta in casa come una figlia. E la Storia? Neanche lei m’ha reso giustizia! Se oggi non ci fosse stato quell’Alberto Macchi, ricercatore silenzioso, altruista, imbecille come me, a disseppellirmi, dopo oltre duecento anni, malgrado tutto quello che ho fatto, sarei restata ancora immersa nell’oblio sia come pittrice che come poetessa, benché fossi stata Membro dell’Accademia des Beaux-Arts in Francia, e Membro dell’Accademia di San Luca e dell’Accademia dell’Arcadia in Italia. Lo so, è sconveniente per me dire certe cose e sgradevole per voi stare ad ascoltarle per bocca di una povera donna, irrisolta, un’artista fallita, che ora per giunta si sta manifestando logorroica come una vecchia pazza. Allora parliamo d’altro. Benché avrei da dire anche su Macchi. Questo drammaturgo che tutto d’un tratto s’improvvisa biografo, m’ha fatto passare, per una mangiatrice di uomini, per una che ha sconvolto la vita a più d’un abate gesuita, in particolare quella di Jacopo Vittorelli; quando invece in realtà io potrei essere stata una donna così timida e riservata che aveva fin troppe difficoltà a relazionarsi con gli altri. E poi questo teatrante ha stabilito che io dovessi essere un’italiana sposata con un francese. Non potevo essere invece una francese sposata con un italiano? Insomma secondo lui io dovevo essere figlia del Sig. Parenti e moglie del Sig. Duclos, quando poteva essere l’esatto contrario. Ed avrei avuto una sola figlia, quando invece potevo avere avuto anche un figlio, che si sarebbe arruolato poi nell’esercito di Napoleone. Mah! Queste cose, certo, possono capitare a chi si cimenta con le ricerche storiche. Sentite, per divagare un momento, voglio farvi ascoltare dei versi che però credo possano risultare familiari soltanto ai francesi; qualcosa che i parigini cantavano negli anni ottanta del Settecento, mi riferisco al Re di Francia Luigi XVI: “Louis si tu veux voir/bâtard, cocu, putain/regarde en ton miroir/toi, la reine et le dauphin!”, ovvero “Luigi se vuoi vedere un cornuto, una puttana e un bastardino/guardati allo specchio con la regina e il Delfino!” (Lunga pausa). Ritornando ad Arcangela Paladini, lei, ancora più di me, è stata penalizzata da Macchi. Per costui, infatti, questa pittrice e poetessa del Seicento, sarebbe morta, oltre che giovanissima, anche senza il sollievo d’essere diventata madre. Quando invece Arcangela nella realtà ebbe due figlie, Maddalena che ntraprese, come sua madre, la strada del cantoi e Neera, una creatura dolcissima, che sposò un noto personaggio di Firenze, tale Giuseppe Verdi. Ma, tornando a me, è bene che si sappia: io non sono stata soltanto una copista! Non ho copiato soltanto Guido Reni, Andrea del Sarto, Guercino, Raffaello, Zoffany, Tiziano ed alti. Anzi approfitto ora di questa forse unica opportunità che ho di parlare e lo dichiaro qui davanti a questa platea: io ho realizzato ad olio, a pastello o ad encausto, anche in miniatura, parecchi dipinti originali, come gli autoritratti, il ritratto di mia figlia, quello di vari personaggi italiani e stranieri, da Guido III Villa a Joseph Eckhel, paesaggi, teste e statue ispirate ad antiche sculture, Cleopatra, Polimnia,  … E, prima di scomparire dalla vostra vista, ribadisco: “La mia breve esistenza terrena non è stata allegra e spensierata, fatta di soli amori e di seduzioni!” (Scena tratta dal dramma teatrale “Irène Duclos Parenti e Arcangela Paladini Broomans” di Alberto Macchi, Roma 2012)