Salari bassi e niente euro: da Varsavia concorrenza scorretta?

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Mentre noi ci danniamo per un decimale di Pil in più o in meno attorno a quota zero, la Polonia nel 2014 crescerà alla media del 3,3% ed è l’unico Paese della Ue che dal 2008 a oggi abbia attraversato la Grande Crisi senza conoscere la recessione. Si spiega così come oggi Varsavia sia coccolata dai media e dai think tank internazionali. L’Economist le ha dedicato di recente un intero inserto con il titolo

E’ l’unico Paese della Ue che dal 2008 a oggi abbia attraversato la Grande Crisi senza conoscere la recessione

«A golden opportunity», la rivista Foreign Policy l’ha definita come il miglior Paese europeo dove investire, Bloomberg l’ha catalogata tra i 30 Paesi più innovativi del mondo e anche negli indici sulla libertà economica la Polonia è ancora al 57° posto ma progredisce di 7-8 posizioni l’anno. Davanti a così importanti attestati di stima la domanda diventa immediatamente una: qual è il segreto del miracolo polacco? Per tentare di rispondere bisogna fare i conti innanzitutto con un paradosso: la Polonia esprime il presidente del Consiglio europeo ma non fa parte dell’eurozona, in un primo tempo l’ingresso era stato calendarizzato per il 2015 ma visto che la maggioranza dell’opinione pubblica è contraria ed è necessario cambiare la Costituzione con un voto parlamentare di due terzi la data è quantomeno ballerina. Lo stesso Donald Tusk aveva parlato prima di uno spostamento al 2017 e successivamente di un ulteriore rinvio al 2019. È chiaro che le fluttuazioni dello zloty e la possibilità di svalutarlo sono un fattore competitivo decisivo al quale i governanti di Varsavia non vogliono rinunciare a cuor leggero. A controbilanciare le convenienze di carattere economico potrebbe però pesare la crisi ucraina, che consiglierebbe ai polacchi di aumentare il loro grado di integrazione europea.

Il sistema produttivo

Sarebbe però un errore pensare che i successi polacchi siano figli solo di un’accorta tattica del doppio binario europeo, c’è stata anche la capacità di uscire in maniera ordinata dalla vecchia economia pianificata e di gestire il declino dei due settori chiave, le miniere e i cantieri. Per fare un esempio i leggendari cantieri di Danzica, quelli che hanno visto nascere Solidarnosc, davano lavoro ai tempi di Lech Walesa a 27 mila addetti, oggi se ne contano al lavoro solo mille. Nelle miniere di carbone l’occupazione è ancora alta ma nel frattempo è stata pareggiata dalle attività di offshoring e outsourcing . In sostanza il sistema produttivo tedesco ha spostato in Polonia o intere fabbriche o significativi segmenti della componentistica. Ad attirare le aziende tedesche come Volskwagen, Man o Hugo Boss, sono le paghe più basse unite però alla forte etica del lavoro che fa parte della tradizione degli operai polacchi. Il modello di delocalizzazione tedesca grazie a queste virtù non perde qualità, manager teutonici e tute blu polacche rappresentano una combinazione perfetta che fa dire agli osservatori che il sistema produttivo di Varsavia è pienamente integrato nella catena del valore dell’industria tedesca. Lo dimostrano anche le statistiche quando parlano della Polonia come un Paese che esporta il 46% del proprio Pil. Vista dall’Italia questa combinazione di zloty fluttuante e salari più che contenuti appare come una concorrenza imbattibile soprattutto nei settori e nelle lavorazioni ad alto impiego di manodopera. A Olawa, in Bassa Slesia, opera, ad esempio, quello che viene considerato una sorta di distretto dell’elettrodomestico pronto ad accogliere il made in Italy: un operaio prende 600 euro, il costo del lavoro è calcolato in 11 euro contro i nostri 24. Un confronto impari che ha fatto gridare in un recente passato (la vertenza Electrolux) all’esistenza di un sistema di dumping sociale dentro la cittadella della Ue.

(Dario Di Vico – www.corriere.it)

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