Stanisław Dziekoński, aprirsi agli altri invece di circondarsi di beni superflui

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Gli anni passati in Italia, a Maletto in Sicilia e poi a Motta Visconti in Lombardia, hanno lasciato un segno indele­bile nella vita e nell’azione di Stanisław Dziekoński, rettore dell’Università Cardinale Stefan Wyszyński, ateneo che vanta intense relazioni scientifiche e di interscambio studentesco con il Bel Paese.

“Sono andato a Maletto, piccolo comune a 60 km da Catania, per imparare l’italiano. Ero nel pieno dei miei anni di formazione e quella esperienza ha avuto un ruolo fondamentale nella mia crescita spiri­tuale e culturale. Sono stato accolto in maniera meravigliosa da persone di grande cuore, piene di energia posi­tiva e aperte verso il prossimo. Arri­vavo da un paese all’epoca conside­rato “povero” ma nessuno mi ha mai fatto sentire estraneo o mi ha messo in secondo piano, anzi era come se fossi nato e cresciuto lì. Poi sono stato trasferito a Motta Visconti in Lombardia, dove ho iniziato la mia azione pastorale. Per tante cose era come essere finito in un altro mondo rispetto a Maletto. Mi dice­vano “ndom in cies”, io li guardavo perplesso perché “cies” mi suo­nava come “jazz” e pensavo ma che c’entra il jazz? Poi finalmente ho capito che significava “andiamo in Chiesa”. Ho provato di per­sona quanto l’Italia sia ricca di diversità anche se gli italiani di ogni regione sono accomunati dall’essere un popolo aperto, generoso e spirituale. Una spiritualità che secondo me gli italiani hanno nel DNA, anche chi non è religioso partecipa spesso con grande tra­sporto agli appuntamenti della tradizione come ad esempio l’incre­dibile processione di barche sul fiume Ticino per la Festa dell’As­sunta. Una spiritualità unita alla capacità di vivere in comunità.”

Italia e Polonia sono notoriamente connesse da antiche rela­zioni culturali e religiose ma, soprattutto queste ultime, decli­nate in modo diverso.

Si dice “Polonia semper fidelis” citazione che fa intendere quanto lo scambio culturale italo-polacco corra da secoli sul filo del cat­tolicesimo, la Polonia era il bastione della chiesa romana nella dif­ficile area del Nord Europa. Questo porta anche ad un diverso approccio verso i precetti della Chiesa che se in Italia sono sug­gerimenti in Polonia sono Vangelo, ovvero una verità diretta che prendiamo senza filtri. Per questo a volte i polacchi sono definiti più papisti del Papa.

A proposito durante le Giornate della Gioventù, svoltesi l’anno scorso a Cracovia, alcuni media sollevavano dubbi sull’amore dei polacchi verso Papa Francesco.

Innanzi tutto va detto che prima delle Giornate della Gioventù in tanti pensavano che sarebbe stata una catastrofe organizzativa. E questo ha seminato un clima di incertezza che ha spinto alcuni a dire che sarebbe stato meglio rinunciare all’evento anche per un possibile rischio di attentati. Invece i fatti, ovvero l’enorme suc­cesso delle Giornate cracoviane, hanno smentito queste paure e hanno mostrato al mondo una Polonia ospitale, moderna, attrez­zata. È stata una meravigliosa occasione di arricchimento per tutti quelli che vi hanno partecipato e di conseguenza per Cracovia e per tantissimi polacchi. Papa Francesco ha mostrato un approccio verso i giovani completamente diverso rispetto a Benedetto XVI e il suo modo di rapportarsi può essere stato scioccante per una parte dell’opinione pubblica polacca. È chiaro che Papa France­sco vuole comunicare con forza, senza mezzi termini, che dottrina e forma non bastano, ci vuole la sostanza. Non basta dire sono cat­tolico e andare a Messa, ma bisogna esserlo nella quotidianità. Ed essere cattolico oggi significa riscoprire il vero significato del Van­gelo: l’amore, l’andare verso la gente, aprirsi a chi è respinto dal sistema. I media poi non devono fare l’errore di contrapporre Fran­cesco a Wojtyla, perché si tratta di due epoche diverse e in coe­renza a questa distanza storica il messaggio apostolico e il ruolo dei due papi è stato doverosamente diverso. Nella Polonia comu­nista tanti erano perseguitati per le loro idee e la loro fede, in quel momento Wojtyla oltre ad essere la guida religiosa era il difensore del popolo polacco, un padre della patria.

Dopo mezzo secolo di guerra fredda oggi siamo tutti nell’U­nione Europea che però da tempo è al centro di un profondo dibattuto riguardo l’identità del Vecchio Continente e le sue prospettive, anche alla luce del fenomeno migratorio.

Io credo che l’Europa oggi abbia fame di spiritualità, ovvero di valori condivisi che diano senso alla nostra esistenza e questa esi­genza la si riscontra ovunque dalla vita quotidiana – in cui si cerca di colmare il vuoto spirituale con beni materiali superflui – fino alla scuola dove gli insegnanti non sono più visti come figure impor­tanti che aiutano la crescita dei giovani. In Europa oggi l’ateismo è la regola, la religione è vista come ostacolo, come nemico dello sviluppo mentre invece coltivare la spiritualità spinge le persone ad aiutarsi, ad avere un canone di vita cui ispirarsi, dei ruoli e delle regole che contribuiscono a far crescere meglio la comunità in cui viviamo. Il vuoto di spiritualità lo si vede nella ricerca continua di soddisfazioni materiali, di una felicità fatta di cose e non di condivi­sione con altre persone. Nel denunciare questa situazione europea Papa Francesco è sempre molto efficace attraverso i suoi richiami alla sensibilizzazione verso l’altro. In questa realtà il tema migra­torio porta una ulteriore complessità. È chiaro che non possiamo rinunciare a prenderci cura di chi è in stato di necessità ma proprio per questo dobbiamo pensare a quale sia, al di là dell’emergenza, la via migliore per aiutare le persone che lasciano tutto per cercare un lavoro in Europa. Siamo sicuri che non preferirebbero avere una vita dignitosa nel loro paese, con le loro famiglie? Siamo sicuri che accettiamo l’immigrazione per carità e non perché sono economi­camente utili ai nostri sistemi produttivi? Non sarebbe più umano dare loro le tecnologie necessarie a sviluppare i loro paesi invece di proporre le tecnologie solo come merce che quei paesi non possono acquistare? L’immigrazione è un tema complesso e molto politico, preferisco affrontarlo ponendo domande che magari aiu­tano ad intravvedere le responsabilità di una economia senza valori dietro questo problema mondiale. Intanto all’università Wyszyński nel nostro piccolo cerchiamo di portare un contributo accogliendo ogni anno decine di studenti provenienti dai paesi più martoriati da guerre e povertà. Studenti che noi educhiamo e manteniamo in tutto e per tutto e che poi fanno ritorno nei loro paesi arric­chiti di una preparazione universitaria e di una esperienza all’estero che crediamo possa dargli qualche strumento in più per diventare motore di cambiamento nei loro paesi.

E nella moderna università Wyszyński, frequentata da ben 12 mila studenti, si continuano a sviluppare nuove collaborazioni proprio con l’Italia.

La novità è l’apertura della facoltà di Medicina in collaborazione scientifica con l’ospedale romano Policlinico Gemelli, ma la gran parte dei nostri undici dipartimenti ha collaborazioni a livello didat­tico e di interscambio studentesco con altrettante facoltà italiane, in particolare con le università di Firenze, Roma e Bari.

Alla fine l’Italia torna sempre protagonista nella sua vita.

Gli italiani mi hanno dato molto, ho imparato quanto importante sia cercare di costruire una quotidianità di relazioni e scambi, di fratellanza e amicizia. Ricordo con grande piacere la vita semplice e autentica di Motta Visconti, dopo la Messa si andava a bere insieme con i parrocchiani, e non si stupivano affatto di incontrarmi vestito sportivo quando andavo ad allenarmi con la bicicletta. Ecco questo è un aspetto degli italiani che amo moltissimo, la capacità di sdrammatizzare, di trasformare un contrattempo in una oppor­tunità per vedere la vita sotto un altro aspetto. Se qualcuno arriva in ritardo non è un dramma perché c’è un senso della vita più pro­fondo e esistenziale, c’è una maggiore disponibilità ad accettare quello che la vita ti dà. E se perdono un aereo dicono “è la vita”, e non è detto che per forza un inconveniente sia portatore di nega­tività. Il loro modo di vivere è bellissimo e salutare per la psiche, c’è una maggiore accettazione ed elasticità e poi si impegnano profondamente nell’aiutare il prossimo. Ho incontrato tanti italiani, anche molto benestanti, che il fine settimana invece che andarsi a divertire si dedicavano ad aiutare gli altri e lo facevano con pia­cere senza farlo pesare. Forse è anche per questa umanità e spiri­tualità, oltreché per le ben note bellezze del Paese, che quando i polacchi parlano dei paesi in cui hanno viaggiato dicono: “sì belli… ma… l’Italia…” e sul volto si dipinge un’espressione di felicità mista a nostalgia per una cultura che ci rassicura e a cui noi polacchi sen­tiamo d’appartenere.