Verrà la guerra e avrà i tuoi occhi

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Fabio Turco

Oggi, ore 7:45, Claudia è uscita da circa dieci minuti, quando sento battere alla porta. All’inizio penso che sia lei che si è dimenticata qualcosa, ma è un battere strano, di qualcuno che sbatte con il palmo, forte. Sento imprecare in polacco, e mi spavento un po’. Poi la maniglia che va su e giù, come se qualcuno stesse cercando di entrare e delle chiavi infilate nella toppa, che però non girano. Devo dirlo, in quel momento ho avuto un tuffo al cuore. Un paio d’anni fa ho vissuto la spiacevole esperienza dei ladri in casa. Quella mattina io non c’ero, ma avrei dovuto esserci. Avevo preventivato di prendermi una giornata di ferie, siccome era il giorno dopo il mio compleanno, ma poi all’ultimo ci avevo ripensato. Tante volte mi ero chiesto cosa sarebbe successo se quel giorno fossi rimasto a casa anziché andare a lavorare, come avrei reagito, se il ladro avrebbe tentato comunque di entrare. Ecco, ho pensato stamattina, è il momento. Il karma ha percorso il suo giro è  adesso avrai risposta alle tue domande. Con la voce più minacciosa che ho in corpo esclamo “Kim jest tam?” (chi è lì). Mi risponde una voce di vecchia, agitata, che sbraita qualcosa, e poi mi chiede, anzi mi intima di aprire, mentre continua a sforzare la porta. Io chiedo di nuovo chi è, la signora mi urla il suo nome, sembra arrabbiata, e continua a spingere. Decido di aprire. Una donna minuta e asciutta, coi capelli corti tinti di biondo, di circa una novantina d’anni mi piomba in casa trafelata. Come una furia mi grida che lei abitava lì settantasette anni prima, va a vedere in sala e in camera da letto, come a cercare qualcosa o qualcuno, mi chiede chi sono. Io le rispondo che abito lì da quasi un anno, lei sembra non ascoltarmi. Mi grida contro che in quella casa erano passati i tedeschi a portare via la gente, che avevano radunato le persone di sotto, poi dice qualcosa sul ghetto.

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Il ghetto. Io abito di fronte all’unico pezzo di muro del ghetto di Varsavia rimasto ancora in piedi. E il comprensorio in cui abito, è miracolosamente scampato alla furia dei nazisti che dopo l’insurrezione del ’44 rasero al suolo la città casa per casa.

Io ascolto la signora che mi grida contro e mi insulta, come se avessi occupato indebitamente la sua dimora. Resto attonito, non so che dire, la signora è visibilmente alterata, ha gli occhi vacui, probabilmente soffre di demenza senile e sta in gran parte delirando. Ma un fondo di verità c’è. In quella casa, i nazisti ci sono passati per certo settant’anni fa. In quel cortile gli ebrei sono stati radunati, uccisi e deportati. E io non ho la competenza linguistica necessaria per parlare con una donna di novant’anni che delira e mi attacca, per discutere di Hitler, del ghetto, di giustificarmi che non le ho portato via la casa, che ho un contratto di affitto che pago regolarmente. Resto zitto e l’ascolto, poi faccio l’unica cosa che posso fare in quel momento. Chiamare la proprietaria. La ragazza che ci affitta l’appartamento abita fortunatamente un portone più in là. La chiamo e le spiego la situazione, lei resta interdetta. Mi rassicura che arriverà in cinque minuti. Mi rivolgo alla signora e le dico che pani Ida (la signora Ida) sta arrivando. Lei mi grida, che deve arrivare zaraz! (subito). Io la rassicuro che sì, arriverà subito, ma lei continua a inveire, e mi dice di vestirmi che andiamo noi da pani Ida. In effetti sono ancora scalzo e con i pantaloni del pigiama e non so esattamente perché mi trovi in quella situazione. Le dico che no, pani Ida sta arrivando. Lei minaccia di chiamare la polizia. Poi dopo un po’ comincia a scendere le scale. La sento che si ferma al piano di sotto, dove incontra una signora che sta uscendo. La signora cerca di calmarla e rassicurarla, poi dopo poco arriva Ida. Ida è una ragazza di circa trent’anni. La nonna del suo compagno, Krzystof, era proprietaria del blocco di case insieme alle sue due sorelle, ma quando arrivarono la guerra e i nazisti, queste cedettero la loro parte di proprietà ad altre persone prima di essere deportate  e uccise a Treblinka. La nonna di Krzisztof invece sopravvisse. Finì la guerra e arrivò il comunismo. La proprietà privata non esisteva più, ma come atto formale le fu fatto firmare un foglio di carta in cui si attestava che quella era stata la sua proprietà. All’epoca questo foglio di carta valeva quanto un kleenex usato, ma settant’anni dopo, caduto il regime, fu determinante per restituire ai legittimi eredi della signora, le sue case.

Ida arriva con un cane, e mi fa cenno che è tutto ok. Prende sotto braccio la signora e se la porta via. E io resto lì, un po’ inebetito a ragionare su quanto è successo. Dopo circa un quarto d’ora Ida mi chiama e mi spiega tutto. Si tratta dell’inquilina del piano terra, madre dell’uomo che abita al secondo piano. È quel signore che ogni mattina presto esce dall’interno 48 e va al 46. Io e Claudia avevamo supposto avesse un’amante, invece andava solo a trovare la mamma. La donna soffre di Alzheimer, non esce spesso di casa e questa mattina deve avere avuto una crisi. Improvvisamente mi ricordo. Un paio di mesi fa l’ho aiutata a entrare in casa sua. Aveva delle difficoltà a far girare le chiavi. Quella volta mi colpì per il fatto che mi sorridesse e mi bisbigliasse in polacco cose che non capivo. Quel giorno, sì sorrideva. Quel giorno probabilmente i nazisti non erano tornati a bussare alla sua porta.

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