Donne di mafia, quale emancipazione?

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I giudici Falcone e Borsellino

Tutte le storie sulla mafia sono raccontate dal punto di vista maschile, nei saggi dedicati si usano di solito le testimonianze dei boss di mafia o dei poliziotti, avvocati e giudici. La voce delle donne diventa però sempre più presente a causa dei cambiamenti fondamentali che riguardano la posizione e i diritti delle donne, avvenuti nelle società occidentali negli ultimi decenni. Prima di analizzare la posizione attuale delle donne nelle mafia italiana vale la pena esaminare il loro ruolo tradizionale in queste strutture.

Le donne sono l’elemento cruciale della rete dei collegamenti sui quali è basato il funzionamento della mafia, la costruiscono e la rafforzano sia in modo attivo che passivo. Il compito più importante della donna è essere madre, inculcando nei bambini lo specifico codice culturale (per esempio i termini come vendetta o omertà) e la divisione dei ruoli secondo il genere. L’apoteosi del ruolo della madre è probabilmente legata all’archetipo della Madonna con il Bambino, che definisce il fine ultimo e il senso della vita delle donne: la maternità. In tali condizioni le donne rafforzano il culto della maternità, perchè è l’unico modo per guadagnare il rispetto o ottenere un’autonomia almeno parziale. Donne che hanno anche il compito di incitare alla vendetta esercitando pressioni sugli uomini della famiglia, ricorrendo alla relazione tra “la mascolinità” e l’ottenere la vendetta. La mancata difesa dell’onore macchiato porta con sé il senso di vergogna, debolezza e codardia, che sminuisce la “mascolinità”. Accade però che a volte per porre fine al bagno di sangue di una faida tra famiglie mafiose rivali la donna viene data in sposa ad un membro del clan ostile e in questo caso viene ridotta ad oggetto. In questo contesto è importante notare il simbolismo del sangue: il sangue vergine della sposa annulla il sangue versato dalla sua famiglia nella lotta per la supremazia.

Oltre alle tendenze sociali che hanno cambiato la posizione della donna sia nella società che nei rapporti con gli uomini, l’estensione delle attività della mafia (in particolare nel traffico della droga) ha anche influenzato i cambiamenti del ruolo di donna nelle attività criminali della mafia.

All’inizio le donne furono coinvolte nel trasporto della droga come corrieri, il che era dovuto soprattutto al modo in cui le donne si vestivano e alla forma del loro corpo che permettevano di nascondere efficacemente i pacchi di droga sotto l’abbigliamento. Successivamente l’attività criminale invase lo spazio fortemente legato alle donne, cioè la cucina; la droga veniva confezionata proprio lì. Marina Pino, giornalista italiana, ha raccolto le storie di donne coinvolte nel traffico di droga nel suo libro Le signore della droga. Come risulta dalle sue indagini, le donne non spendevano soldi per particolari investimenti ma solo per le spese quotidiane. La mafia sfruttò la disperazione delle donne dovuta alle tragiche condizioni economiche, ma anche alla loro preoccupazione per le famiglie e le spinse non solo ad avere un ruolo nel traffico di droga (p.e. negli Stati Uniti), ma anche alla prostituzione contro la loro volontà. Nonostante il coinvolgimento delle donne nelle attività criminali della mafia, la loro posizione non è migliorata. Al contrario venivano loro affidati i compiti più rischiosi e meno redditizi, quelli che gli uomini non volevano più svolgere.

Inoltre le donne cominciarono a far parte dell’attività criminale della mafia tramite il loro coinvolgimento nel ruolo di corrieri che trasmettevano le informazioni e gli ordini tra i membri della mafia e i boss quando questi erano in carcere oppure si davano alla latitanza. Un interessante esempio di questa strategia è la storia di Cinzia Lipari, che sfruttò la sua posizione di avvocato per aiutare suo padre a dirigere dal carcere l’organizzazione criminale. Mentre il padre scontava la pena, Cinzia Lipari gestiva il patrimonio e in un certo senso dava gli ordini ai subordinati, sempre però sotto l’influenza del padre. Cinzia raggiunse una posizione di solito riservata agli uomini anche se il suo potere era comunque limitato dalle decisioni superiori del padre.

A partire dal 1992, quando furono uccisi i giudici Falcone e Borsellino, lo Stato italiano intensificò la lotta contro la criminalità organizzata, con il risultato che nelle strutture mafiose, fortemente colpite dall’azione di polizia e magistratura, si liberarono molti ruoli di vertice che vennero ricoperti da donne affidabili: mogli, sorelle e figlie dei boss imprigionati. Le donne che salirono al potere in questo modo garantivano agli uomini separati dal mondo la continuità del loro potere, soprattutto in caso di rivalità tra i clan. Se il boss cedeva il potere ad un uomo c’era il rischio che questo volesse mantenere questo ruolo in modo perenne. Rischio che invece non c’era quando a sostituire provvisoriamente il boss era una donna, il che illustra con estrema chiarezza che il potere della donna non è mai al livello di quello dell’uomo.

Vale la pena impiegare il concetto di “pseudoemancipazione” introdotta da Ombretta Ingrascì, studiosa del ruolo delle donne nelle strutture di mafia. Le donne, sia svolgendo i ruoli tradizionali, ad esempio crescendo i bambini nel rispetto del codice d’onore o incitando gli uomini alla vendetta, che dedicandosi ai ruoli tradizionalmente riservati agli uomini, sono soggette comunque al potere maschile. Il potere degli uomini sulle donne è una parte immanente delle struttura della mafia. Non esiste dunque la possibilità di ridefinire il concetto di “femminilità” al di fuori dell’ottica della maternità, ovvero attraverso una evoluzione personale delle donne tramite l’istruzione. I cambiamenti avvenuti nel corso degli anni del ruolo e della posizione delle donne di mafia mostra che, pur avendo accresciuto il loro potere, non si è mai arrivati ad una vera e propria emancipazione.