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Home Blog Page 4

I falsi amici della dieta

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In linguistica, i falsi amici sono le parole o le espressioni che, in due differenti lingue, appaiono quasi uguali per grafia o pronuncia, ma a dispetto di ciò hanno un significato molto diverso. Termini ingannevoli, fonte di malintesi e momenti più o meno imbarazzanti, presenti anche tra italiano e polacco. Qualche esempio a tema alimentazione? 

Il termine italiano panna in polacco significa signorina. Presente in entrambe le lingue anche la parola cena, solo che in polacco ha il significato di prezzo, mentre il pasto serale si traduce con kolacja, a sua volta simile al nostro colazione che si traduce invece con śniadanie. 

Anche nell’alimentazione ci possono essere molti falsi amici. Si tratta di quei cibi che siamo convinti che facciano bene e magari che facciano anche dimagrire, mentre al contrario sono poco salutari o comunque sono ipercalorici e per niente dietetici. Ma da dove arrivano le nostre convinzioni errate? A volte da luoghi comuni, da leggende metropolitane, ma il più delle volte da efficaci strategie di marketing che fanno leva sul desiderio più diffuso: quello di stare bene ed essere magri. Questi falsi amici dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che è necessario imparare ad acquistare e mangiare con maggiore consapevolezza. 

Cominciamo dalla colazione: granola, muesli, corn flakes. Li chiamiamo comunemente cereali, ma spesso contengono davvero molti, troppi zuccheri semplici, grassi e conservanti. Nel migliore dei casi gli eccessi derivano da frutta secca e disidratata, ma il più delle volte sono arricchiti da zuccheri aggiunti (presenti anche come sciroppo di riso o di glucosio) per rendere il prodotto più goloso. Al loro posto si possono scegliere dei cereali soffiati: ad esempio riso, farro, miglio, grano saraceno. Volendo aggiungere una nota croccante e golosa, la colazione può essere arricchita da frutta secca oleosa in quantità adatta al proprio fabbisogno calorico, e scaglie di cioccolato fondente con alta percentuale di cacao. 

Ma la frutta disidratata non è salutare? Se non ci sono zuccheri aggiunti, in effetti lo è, ma è anche ipercalorica. A pari quantità di alimento, ad esempio, le albicocche disidratate apportano 5 volte più calorie rispetto a quelle fresche, e sono prive di vitamine e ovviamente di acqua, quindi non danno senso di sazietà. Avremo la sensazione di aver fatto una merenda sana, e dopo un’ora avremo fame più di prima. 

Anche centrifughe ed estratti non possono essere considerati un buon sostituto della frutta fresca, e andrebbero consumati con moderazione. Anche senza l’aggiunta di edulcoranti, il succo 100% frutta contiene tutti gli zuccheri dei frutti da cui è ricavato: in media, una porzione di 200 ml contiene 24 grammi di zucchero, pari a 6 bustine in un solo bicchiere! La frutta fresca inoltre è ricca di fibre, che nutre il microbiota intestinale, e ci costringe alla masticazione che induce il senso di sazietà. 

Sempre per quanto riguarda colazione e merenda, anche lo yogurt può essere un falso amico. Considerato l’alimento sano per eccellenza, uno yogurt alla frutta può contenere anche 13 grammi di zucchero (più di 3 bustine). La soluzione è sempre quella di leggere l’etichetta: i prodotti a basso contenuto di grassi saturi e di zuccheri semplici possono essere considerati di buona qualità. 

In generale tutti i prodotti con la scritta light dovrebbero destare la nostra attenzione: spesso si tratta di alimenti con ridotto contenuto di grassi, ma ricchi di zuccheri, edulcoranti, additivi. Scelta dettata dal fatto che i prodotti devono comunque essere resi gustosi. Anche se ipocalorici, possono essere poco sazianti, e indurci a ricercare altri spuntini. 

Falsi amici sono anche crackers e gallette di riso. Di solito consumati al posto del pane, nella convinzione che siano meno calorici. In realtà, contengono una maggiore quantità di carboidrati (quindi zuccheri) e di grassi. E diciamocelo: sono anche meno buoni! Il pane non è un nemico: basta consumarlo in quantità moderata, adatta al proprio stile di vita, meglio ancora se integrale per aumentare l’apporto di fibra. 

Infine, anche un alimento che lascerà molte persone stupite: l’olio d’oliva. Ha un ottimo equilibrio di grassi, contiene antiossidanti e vitamine e certamente non può essere considerato un alimento poco salubre. Il problema è che il culto della dieta Mediterranea, pur facente parte del Patrimonio Immateriale dell’UNESCO, con l’adattamento alla vita moderna ha portato a degli eccessi. Tra questi ci sono i grassi: in una dieta equilibrata dovrebbero rappresentare il 25-30% delle calorie totali, ma nella dieta moderna superano facilmente il 50%. Ecco perché anche l’olio d’oliva, per quanto salutare, va consumato in quantità ridotte: la dose consigliata per una persona normopeso è di 3-4 cucchiai al giorno, compreso ovviamente quello utilizzato per cucinare. 

Spero che la vostra alimentazione non conosca molti falsi amici. E ora che sapete a cosa prestare attenzione, vi auguro una buona colazione e una ancora migliore kolacja!

Italia ospite d’onore alla Fiera Internazionale del libro di Varsavia 2024

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È stata siglata oggi (16.01.2024) presso l’Ambasciata d’Italia a Varsavia l’intesa che vede, per la prima volta, la partecipazione dell’Italia come paese ospite d’onore alla Fiera Internazionale del Libro di Varsavia, in programma presso il Palazzo della Cultura e della Scienza dal 23 al 26 maggio 2024. L’intesa è stata sottoscritta per parte italiana da S.E. Luca Franchetti Pardo, Ambasciatore d’Italia a Varsavia, e, per parte polacca, da Waldemar Michalski e Jacek Oryl, rispettivamente Presidente e Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Storia e Cultura”, organizzatrice della Fiera.

La Fiera del Libro è un evento centrale nel calendario culturale della capitale polacca, e riunisce numerosi espositori provenienti dalla Polonia e da diversi Paesi del mondo.

L’Italia sarà al centro dell’edizione di quest’anno con una ricca serie di eventi, tra presentazioni di libri, incontri con gli autori e incontri tra operatori del settore: un’ottima occasione di conoscenza e promozione per il mondo editoriale italiano in Polonia. Come sottolineato dall’Amb. Franchetti Pardo “La fiera del libro di Varsavia, che quest’anno vedrà l’Italia quale ospite d’onore, rappresenterà una straordinaria opportunità per l’editoria italiana di promuoversi in un mercato di 40 milioni di abitanti che, come ho potuto sperimentare in diverse occasioni, nutre un profondo e sincero interesse, quasi “un’avidità”, verso la cultura italiana nelle sue varie manifestazioni”.

Il progetto della partecipazione italiana è reso possibile grazie alla collaborazione e al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, del Ministero della Cultura (Centro per il libro e la lettura -CEPELL) dell’Agenzia ICE e dell’Associazione Italiana Editori e coordinato, in Polonia, dall’Ambasciata d’Italia, dall’Istituto Italiano di Cultura e dall’Ufficio ICE di Varsavia.

Anna Ziaja – casa polacca, casa italiana

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traduzione it: Sara Kmak

Anna Ziaja nel 1979, si è laureata con lode presso la Facoltà di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia con diplomi in pittura, presso lo studio del prof. Jacek Sienicki, e arti grafiche, nello studio del prof. Andrzej Rudziński. Da 46 anni divide la sua vita tra la sua casa in Polonia e l’Italia. L’album “Anna Ziaja. W pełnym świetle / In piena luce, paintings 1980-2020” in polacco, italiano e inglese è appena arrivato sul mercato. 

I titoli delle sue opere si riferiscono chiaramente all’Italia?

La luce dell’Europa meridionale mi ha formato come artista e mi ha fatto capire cosa è più importante nell’arte. Ritorno a visitare luoghi in Italia che ho già visto perchè una volta ero impotente davanti all’arte dei grandi maestri, solo oggi capisco davvero i loro risultati creativi. Un luogo di visite frequenti è la Galleria Estense di Modena e sebbene non sia il museo più famoso d’Italia, le opere di Guercino, Cosme Tura, Guido Reni e il famoso Trittico di Modena di El Greco esposte sono state e sono tuttora per me un punto di riferimento per il mio pensiero sulla pittura. Una grande bottega di artisti sensibili che sono stati l’humus delle più importanti realizzazioni dell’arte italiana. È in questi luoghi che puoi vedere gli standard che i nostri predecessori hanno stabilito e io continuo ad esplorare questa conoscenza inestimabile. 

Com’è iniziata la sua avventura italiana?

Sono stata portata in Italia dalla passione per i film di Bernardo Bertolucci, per capirlo bene bisogna immaginare l’atmosfera di quei tempi e scoprire il suo affresco cinematografico “Novecento”. Sono arrivata a Modena nel 1976, subito dopo il terremoto in Friuli-Venezia Giulia, e nel cuore della notte ho visto scene come quelle di un film di Bertolucci! Mi sono innamorata di questa terra. Così l’Emilia è diventata il “mio” luogo dove vivere. Vivo a Modena da 46 anni, unendo il meglio della sensibilità italo-polacca. Entrambi questi mondi si integrano a vicenda e completano il mio percorso artistico.

La sua casa “italiana” è qui.

Rimango nella casa e nello studio estivo circa 6-7 mesi all’anno, posso farlo perché i miei figli hanno completato l’istruzione obbligatoria. Dopo mesi trascorsi a Varsavia, è qui che prendo le distanze e ricarico le batterie, così che poi con nuova energia, inizio la successiva fase di lavoro e lo sviluppo di nuove idee. In Italia guardo e leggo i miei maestri sempre più consapevolmente. E come fa ogni artista, lavoro sui miei strumenti di espressione artistica. Ho sempre cercato di mantenere il meglio delle tradizioni polacche e italiane, in modo che i miei figli conoscessero bene entrambe le culture. A Varsavia, tutto il mio ambiente è subordinato alle esigenze dello studio, ho assolutamente tutto ciò che è necessario per il lavoro creativo. Adoro questo casino! È un posto così stimolante. Quasi tutte le mie idee per le prossime tele nascono lì.

Con chi crea questa “casa italiana”?

Con mio marito Giorgio. Ci siamo incontrati a Rimini. Ero lì per una specie di “en plein air” subito dopo il primo anno di studio. Affascinata dal paesaggio, ho abbozzato tutto quello che potevo, spiagge piene di gente in pose bizzarre, che si muovevano davanti a me come in una cornice cinematografica, il mare e la pineta intorno a Rimini (chi ci è stato, sa di cosa sto parlando). È stato amore a prima vista. Mio marito è la mia forza nei momenti di dubbio e mi aiuta molto. Io curo la creatività e lui si occupa di tutta la logistica e della documentazione. Gli devo molto.

Nel 1980, subito dopo la laurea, ha avuto la sua mostra d’esordio a Roma.

Sì, ma anche se ho trascorso molto tempo lì, specialmente i viaggi di studio durante i miei giorni da studente, non è stata Roma a formarmi. Sono stata maggiormente influenzata dai soggiorni a Milano, Ferrara, Firenze e Mantova, Arezzo, Sansepolcro e persino a Castiglione Olona, un piccolo paese vicino a Varese, dove c’è un bellissimo Battistero con affreschi di Masolino da Panicale. Rimasi incantata di fronte a questo bellissimo mondo ispirato dall’immaginazione dell’artista. I miei maestri sono anche: Piero della Francesca, Masaccio o Domenico Ghirlandaio e maestri veneziani come Vittore Carpaccio o Giovanni Bellini. Una rivoluzione nel mio pensiero sull’essenza della pittura e dell’arte in generale è stata anche la mostra retrospettiva dei dipinti di Balthus (Balthasar Klossowski de Rola), che ho visto a Venezia in occasione della Biennale del 1984. Nelle opere di questi giganti dell’arte è racchiuso ciò che mi interessa della pittura. Attenzione al mondo che ci circonda, espressa ogni volta con i nostri strumenti e la nostra sensibilità.

Nei suoi dipinti ci sono echi della fascinazione per l’opera di Pablo Picasso, per il romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust e per il realismo magico della letteratura iberoamericana?

L’intransigenza di Picasso mi ha sempre affascinato, e il suo “trovare” piuttosto che “cercare” come diceva lui è diventato per me un approccio importante al processo creativo. Nel romanzo di Proust, invece, sono più incuriosita dalle descrizioni dei dettagli della vita quotidiana e delle relazioni tra i personaggi, che costruiscono l’intera atmosfera. Il mondo intorno per me è sempre stato un’ottima scusa per costruire la struttura della tela e lo spazio pittorico. La pittura è un’arte non ovvia, non letterale, ma magica. La mano del maestro fa emergere l’opera dal profondo della propria immaginazione e mostra al mondo una nuova versione del talento, che nel tempo cambia, creando un nuovo linguaggio espressivo, che è il segno distintivo di ogni grande artista.

In una delle interviste ha detto: “In effetti, nessuna comprensione tra le persone è possibile”.

Questo è quello che penso, perché ho l’impressione, guardando gli eventi attuali, che le persone non siano più d’accordo tra loro su nulla. Ci stiamo allontanando sempre di più gli uni dagli altri. Non siamo più curiosi l’uno dell’altro, ma cerchiamo comunque di stabilire contatti che possano proteggere ognuno di noi dal sentirsi soli. Guardo queste relazioni mentre tengo il mio diario interiore e voglio parlarne nella mia pittura, voglio far parlare il bel linguaggio della tavolozza dei colori, l’amore per gli animali e la natura, dove l’armonia di tutti questi elementi dà tregua al cuore tormentato dell’osservatore. Preferisco questo volto migliore dell’uomo e posso esprimerlo solo attraverso metafore e riferimenti a codici culturali noti a noi tutti. Ho dedicato la mia vita alla pittura e non me ne pento.

Lei viene definita colorista, perché nei suoi dipinti cani, cavalli, uccelli sono astrattamente colorati, viola, arancione, blu.

Questo è un grande complimento e vorrei ringraziare tutti coloro che la pensano così. Aderisco anche al principio, seguendo Emil Bernard, che prima che qualcosa diventi un elemento dell’immagine che si sta costruendo, è prima di tutto una macchia colorata che decide e determina tutto il resto. Amo la luce e il colore visto in tutta la sua brillantezza, il più puro possibile e capace di esprimere emozioni. Un colore che non lascia indifferente lo spettatore.

 Il fascino contemporaneo della maschera

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Padovano, “teatrista” dal 1993, Andrea Pennacchi è autore e regista di opere tra le quali “Eroi”, “Mio padre – appunti sulla guerra civile”, “Una Piccola Odissea”. Coprotagonista della serie “Petra” per Sky e “Tutto chiede salvezza” per Netflix (vincendo il Nastro d’Argento), ha recitato in diversi film tra cui “Io sono Li” e “Welcome Venice”, entrambi per la regia di Andrea Segre, ne “La sedia della felicità” a firma di Carlo Mazzacurati e in “Suburra” diretto da Stefano Sollima.

Nel 2018 recita l’ormai celebre monologo “This is Racism – Ciao terroni”, grazie al quale viene invitato come ospite fisso a Propaganda Live (La7) e conquista il grande pubblico con la sua ironia pungente. Ha pubblicato “Pojana e i suoi fratelli”, “La guerra dei Bepi”, “La storia infinita del Pojanistan” (People, 2020 e 2021), e il recente “Shakespeare and me” (People, 2022). Attore e autore di spessore (con respiro internazionale) e capace di una disarmante schiettezza, Pennacchi è oggi uno dei volti più apprezzati del teatro e del cinema italiano, aggiungendo un pizzico di intelligenza anche alla televisione.

Andrea, come si inserisce il teatro italiano sulla scena europea?

Vedo un forte scambio a livello di formazione. Ci sono iniziative europee molto belle che portano a relazioni interessanti, soprattutto con l’Europa orientale. I grandi movimenti e i progetti condivisi di teatro di ricerca o di innovazione li vedo più fermi, mentre c’è una buona “esportazione” di Commedia dell’Arte e di abilità circensi, rispetto alle quali però c’è uno scambio con altri paesi che vantano una scuola di tradizione. Invece la Commedia è un patrimonio che portiamo nel mondo, perché lavorando sulle maschere, anche nella sua espressione più intellettuale o filologica, comunque rappresenta un esperimento interessante. È allo stesso tempo un teatro molto arcaico e molto pop. E poi lavorare sulla Commedia dell’Arte è affascinante perché deve per forza funzionare qui e ora. Ecco perché – tornando alla formazione – ci sono molti giovani europei che vengono in Italia soprattutto per studiare quella che è la nostra specialità.

Come si costruisce invece una maschera contemporanea? 

Nella mia esperienza la maschera è una cosa che viene da te. Ovviamente non parliamo di Pantalone, Arlecchino e delle maschere della tradizione, che devi studiare per costruire la tua professionalità attoriale.

Parliamo invece di “maschere” come Fantozzi o come il tuo Pojana…?

Esatto. Fantozzi (per parlare di quello più famoso) è una cosa che viene da te e dopo un po’ ti accorgi che quel personaggio divertente che hai creato in realtà ha una profondità superiore rispetto alla macchietta o alla battuta da cabaret. È un’espressione che affonda le sue radici in una società e ne svela i lati oscuri. Improvvisamente ti accorgi che hai una maschera che funziona. Lo stesso è accaduto con Pojana. Franco Ford detto Pojana era nato nel 2014. Era il ricco padroncino di un mio adattamento delle “Allegre comari di Windsor” ambientato in Veneto, con tutte le sue fisse: le armi, i schei e le tasse, i neri, il nero. La prima evoluzione deriva dalla proposta della banda di Propaganda Live, che l’ha voluto sul palco in Tv. Ecco, da allora continua ad evolversi, si adatta a un presente che non manca di offrire spunti tragicomici.

Dove stanno le radici?

Volendo trovare una traccia comune nella tradizione della maschera, si torna ai drammi sacri di prima della controriforma, nei quali i dèmoni in scena vestivano grandi mascheroni da demone, appunto, e facevano ridere e spaventavano, ma dicendo delle grandi verità. La gente li ascoltava ed era la parte “creativa” di un culto. Lo stesso accade adesso: ci sono maschere, ogni tanto anche in televisione, che non sono la macchietta nata per far ridere o un personaggio superficiale, ma ti dicono: ‘sto parlando anche di te’. Come artista, con le mie maschere scelgo di parlare dei problemi e della nostra società e di riderne in maniera condivisa, nella speranza che poi qualcuno risolva anche questi problemi…

Tu hai detto che il Pojana è un demone di basso rango, non è potente, e allo stesso tempo che non è meschino ma ha una sua dignità. Cosa intendi?

Quando lo definisco un demone intendo che non è un uomo piccolo, come ce ne sono tanti. Ha una sua grandiosità, una sua cosmologia e una sua filosofia anche. Però è uno di quei piccoli demoni interessati a uscire dall’inferno più possibile, a stare meglio possibile, a tentare gli esseri umani per acquisire più energia. E alla fine gli interessano ‘sti umani, anche se in maniera negativa. Ecco, questo vale anche per il Pojana: non è cattivo, ma è chiuso dentro il suo mondo. Non è vero che questo lo renda piccolo, lo rende prigioniero dei propri stereotipi e probabilmente se fosse libero sarebbe più grande.

Pennacchi in Europa. Qual è stato e qual è oggi il tuo rapporto con questa grande casa che ci accomuna?

Io sono profondamente europeo. Tanto che, ad esempio, la Gran Bretagna a me manca e mi dispiace che siano andati via, perché in fondo sono un po’ come quei cugini che ti fanno arrabbiare ma poi ti mancano. Per me un’Europa forte e unita anche culturalmente sarebbe un elemento di salvezza mondiale. A livello culturale c’è una ricchezza infinita, perché ogni singolo paese d’Europa ha qualcosa di comprensibilmente e visibilmente europeo e però con delle peculiarità che lo rendono unico, come accade per il teatro o il cibo. Tutti hanno qualcosa da dare di arricchente e io mi sono nutrito di tutte queste cose, per cui mi piacerebbe riprendere a viaggiare attraverso il vecchio continente come ho fatto quando ero più giovane. Sono appassionato di letteratura e di parole da ogni territorio e da ogni tradizione. Peraltro ho avuto la fortuna di abitare a Praga per un periodo e di conoscere autori della parte orientale dell’Europa.

Esistono esperienze o legami con la Polonia?

In realtà non ho esperienze specifiche, non ci sono mai stato. Ho un carissimo amico d’infanzia che ora vive e lavora a Cracovia; ogni tanto mi invia foto molto belle e spero di riuscire prima o poi a raggiungerlo.

Parlando di Polonia e formazione teatrale non possiamo non citare Jerzy Grotowski…

Certo, però negli anni in cui Grotowski era al culmine del suo percorso lavorativo non c’ero. Ho invece avuto la fortuna di essere invitato al suo Workcenter di Pontedera e lì ho visto una delle cose più raffinate e più toccanti di cui ho fatto esperienza nella mia vita. Solo che non era teatro, perché ormai la sperimentazione dell’ultimo Grotowski andava verso dinamiche simili a un culto. Il percorso di ricerca era più simile a quello dei dervisci, avvicinandosi dunque a una forma di contemplazione mistica e quasi religiosa, ma aveva completamente perso la dimensione teatrale cioè non era più rivolta verso un pubblico. Eppure per me è stata un’occasione molto importante, perché ho capito che il teatro poteva avere anche quella profondità lì e di questo sono molto grato a Grotowski. Lavorando nel teatro, infatti, impari che si deve aver a che fare con i biglietti e i borderò e la burocrazia, ma non si può non avere a che fare con lo spirito, con l’anima, altrimenti il teatro diventa cose che uno dice su un palco. Invece il teatro è una cosa sacra e questo non lo dimenticherò mai.

In questo scenario come si colloca il tuo lavoro su Shakespeare?

Per me Shakespeare, sul quale sto lavorando in questo momento, rappresenta un grande collante per l’Europa. Nel suo percorso autoriale ha incontrato tutti i grandi fermenti che hanno reso importante il vecchio continente nel Seicento, ha preso i fermenti artistici e gli insegnamenti dei grandi pensatori, portandoli nei suoi testi. Sono fermenti che ancora agitano questo continente e infatti il mio sogno sarebbe fare uno spettacolo a partire da Shakespeare e portarlo in giro per l’Europa… per esempio in Polonia. (ride)

E poi torniamo a Omero che ha gettato le fondamenta…

Senza Omero non c’era Shakespeare, senza Omero non c’è l’Europa. Ne sono convinto, non lo dico per vezzo. Per secoli il curriculum base di tutti gli intellettuali erano i poemi omerici. Sì, poi c’è l’Eneide (che è una sorta di bignami…) ma alla fine tutto torna all’Iliade e all’Odissea.

Aosta Segreta

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foto: Federico Moro

Aosta, capitale delle Alpi e crocevia d’Europa: storia, arte e leggende tra Dora Baltea e cime di ghiaccio. Accoccolata sul fondo della valle, la città respira al ritmo di una storia antica. Nevralgico punto d’incontro di strade che, un tempo, varcavano i passi del Piccolo e del Gran San Bernardo e ora anche il traforo del Monte Bianco, accoglie con le testimonianze di un passato affascinante. Saint-Martin de Corlèans ricorda epoche lontanissime e narra di misteriosi riti segreti dai significati e dai contorni a noi ignoti. Un racconto parla di Cordelo, discendente di Saturno e capostipite dei Salassi oltre che compagno di Eracle, il quale nel 1158 a.C. avrebbe fondato la città di Cordela, mentre i molti resti romani rievocano la sua nascita storica.

Attraverso il Medioevo ci giunge la profondità della voce di Sant’Anselmo, al quale è seguita una schiera di donne e uomini che hanno forgiato la storia e il sogno della città di luce sfumata nelle ombre allungate dalle montagne. Un paesaggio capace di produrre leggende in cui agiscono eroi, streghe, fantasmi, demoni e santi che danno vita a un universo cosmopolita e sempre in movimento. Come la città contemporanea, vitale come la corrente della Dora che transita veloce.

Aosta sono tre città: l’antica, la medievale e la moderna. Aspetti diversi, sottoposti a influssi lontani, eppure fusi in unità armonica che di continuo diviene e si trasforma, simile in questo alle montagne che la circondano, all’apparenza ferme testimoni della frenesia degli uomini e in realtà natura in cambiamento. Passeggiando nel chiostro di Sant’Orso, accarezzati dalle ombre pensose di quanti qui hanno riflettuto a lungo sul senso dell’esistenza e sul perché della morte, torna in mente l’antico dibattito tra chi sosteneva che «l’Essere è e nulla non è»1 e l’irriducibile rivale per cui «Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo»2. L’Immobilità contro il Movimento, l’Uno abissale opposto alla Totalità del ciclo.

Un dubbio che ritorna passeggiando per gli assi ortogonali di vie che rimandano a un perfetto tracciato ippodameo3, voluto dai progettisti romani i cui progenitori l’avevano adottato per lo schema dell’accampamento mobile delle legioni: ragioni di sicurezza, di logica di montaggio, di disposizione razionale di funzioni specializzate, che si ritrovava nelle nuove fondazioni urbane, facilitandone con il pregio della serialità la realizzazione e il ritrovarsi degli uomini, tra gli schemi di una socialità già nota. Unità e Molteplicità, Stabilità e Cambiamento attraverso il fluire del tempo, come sottolineano le imponenti montagne e l’irrequieta Dora Baltea, sempre uguale eppure diversa.

Non è neppure vero che Aosta sia solo “tre città in una”: ne esiste, infatti, una quarta, collocata fuori dalla Storia e inserita nel Mito. La più sfuggente e per questo meno conosciuta. Relegata per secoli nell’ambito dei racconti tramandati oralmente e poi fissati su pagine di dubbia verità da mani attente alle sfumature e alla ricerca delle preesistenze. Poi, un giorno, il piccone rimuove la zolla giusta e il fantasma tante volte evocato si manifesta. Con la durezza della pietra e la straniante levità dei messaggi di ardua interpretazione. Allora si è costretti a riavvolgere il filo delle vicende umane per avventurarsi nelle pieghe di epoche schizzate solo con effetti impressionistici. Sfuggono i nomi, i luoghi diventano incerti, i fatti restano ignoti. Eppure, le testimonianze sono lì, davanti a noi e ci osservano beffarde nell’attesa di venire decifrate. Se mai riusciremo a farlo.


Ci stiamo solo accostando ad Aosta e già gli interrogativi si accumulano. Ritornano in mente Cordela e i Salassi, storicamente esistiti e ricordati nella titolazione della città romana: Augusta Pretoria Salassorum. Qui, però, sbattiamo contro una realtà molto più antica, sprofondata in un’epoca, il quinto millennio prima dell’Era Comune, dai contorni indefiniti e dai contenuti nebulosi. I misteriosi disegni su pietra veicolano messaggi ancora ignoti. Segni simili a tracce lasciate dagli elementi atmosferici sulle rocce. Forse una prova dello stretto legame esistente un tempo tra esseri viventi e ambiente.

Ironia vuole che le tracce ancestrali si trovino sul lato opposto della città rispetto a chi risalga la valle provenendo da Ivrea, cioè l’Eporedia dei Romani. Per noi, dunque, diventano quasi il punto d’arrivo di una visita che comincia, invece, con il ponte costruito per scavalcare il torrente Buthier ed entrare in città. Quasi un nascosto architetto del Cosmo avesse voluto far coincidere inizio e conclusione dell’avventura urbana, assecondandone una sorta di circolarità della vicenda esistenziale. La quale finisce per dispiegarsi davanti al nostro sguardo carica di suggestioni, nascoste dalla trama all’apparenza ordinata di una cortina di fatti ed edifici disposti secondo ferree regole. La Storia, invece, ancora una volta si dimostra soltanto la porta d’ingresso per un viaggio del tutto diverso: perché aperto, per chi lo voglia e abbia la giusta predisposizione d’animo, sull’Abisso della Conoscenza. La quale scintilla dal suo fondo in modo speculare al tramonto sui ghiacciai accoccolati tra le rocce, lassù in alto.

Mistico è un aggettivo che proviene dal greco mystikòs, a sua volta imparentato con il sostantivo mystêriòn. La radice comune è my- collegata al verbo my’ò: chiudere. Il mystêrion, quindi, si riferisce a quanto deve rimanere “chiuso”, nel senso di segreto. Servirà a indicare al plurale, mystêria, particolari culti ai quali si poteva partecipare solo dopo essere stati accettati e previo superamento di una serie di riti d’introduzione. A questo punto il fedele diventava mystês, iniziato.


Nel mondo greco antico, i misteri per eccellenza furono quelli di Eleusi, incentrati sulle figure divine madre-figlia di Demetra e Kore-Persefone. Senza dimenticarne altri, quali quelli di Samotracia con la coppia dei Cabiri, gli orfici e i bacchici, gli ultimi due di particolare diffusione nel mondo magnogreco e romano. La trasfusione della cultura misterica antica nelle vene della nuova religione nascente produrrà la mistica cristiana, tanto cattolica o d’occidente che ortodossa o d’oriente.

Esattamente come l’incontro tra la tradizione ebraica e la filosofia greca, in particolare con il neoplatonismo ellenistico, forgia in generale il cristianesimo, così la mistica affonda le proprie radici nella spiritualità degli antichi misteri e come questi affida la speranza dell’estasi, cioè della fuoriuscita dell’anima del corpo per l’ascesa spirituale capace di produrre l’incontro diretto con l’Abisso inconoscibile di Dio, all’illuminazione improvvisa che tutto rischiara e stravolge. Liberando dalle catene del corpo e proiettando il fedele nello spazio assoluto della verità.

A pensarci bene, non è poi quanto accade a chi sale quassù, percorrendo come è capitato a noi, l’antica via delle Gallie e si è inoltrato nella valle della Dora sino alla città magica sorta sul conoide del Buthier? Quando lo sguardo vaga tra le mute testimonianze del passato e alimentate da queste osa spingersi sino alle vette di montagne, tanto vicine quanto assise in un’indeterminata lontananza? E lassù si perde nel vuoto assoluto di spazi infiniti che ben rappresentano la perfetta pienezza del Tutto?

Vertigine di un pensiero completamente svuotato, anche da sé stesso; suono del silenzio che si tramuta in musica; sottile vibrazione che diventa immobilità: Aosta, dunque, è questa. Segreta perché satura di mistero e quindi mistica per chiunque abbia voglia e capacità per coglierne l’anima nascosta. La quale, a ben vedere, è invece sempre davanti a qualunque occhio appena attento, solo che sia sufficientemente “educato”, cioè iniziato. Perché il vero “segreto” di ogni luogo consiste nella sua Verità e questa semplicemente è sempre e comunque distesa davanti a noi.

Conosci ciò che ti sta davanti e ti si manifesterà ciò che è nascosto. Giacché non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato4.


Ci siamo mai soffermati a considerare quanto sia vero? Persino le scoperte più incredibili in realtà se ne stavano spesso là, quietamente, in attesa di qualcuno che, con grande semplicità, se ne accorgesse. È un dato di fatto. Accettato ovunque. A partire dalla comunità scientifica. Il nuovo è solo diversa sistemazione dell’esistente. Un rimescolamento di carte o, per essere più precisi, di tessere di mosaico. Se ci ostiniamo a seguire gli stessi criteri nel disporle otterremo solo disegni identici. L’illuminazione altro non è se non l’intuizione che fa guardare con spirito diverso i medesimi elementi. Forse la conoscenza è vaporizzata dentro e tutt’intorno a noi, data una volta e da quel momento disponibile per sempre e per chiunque. Il sapere, allora, diventa un continuo sforzo per ricordare. Come sosteneva Platone.

Da qui l’importanza della memoria e l’ossessione che alcuni avvertono verso la necessità della sua conservazione. A dispetto dell’azione demolitrice attuata dal tempo con l’aiuto dei troppi dimentichi di chi sono. Le pietre, sistemate con ordine dalla natura o disseminate nelle rovine, diventano aiuto prezioso. Assieme alla Storia e alle storie. Tutti elementi indispensabili per comprendere.

Una città è un organismo vivente: nasce, muta, può anche morire. Quando accade può non essere per sempre. Basta anche solo un uomo che, in momento di lucidità, ne parli perché scrittore, pittore, scultore, musicista, architetto perché vie e piazze riprendano a respirare, comunicando con noi. Un miracolo che supera i limiti dello spazio-tempo. Aosta è qui a dimostrarlo. Basta guardare, appunto. Sapendolo fare. Il viaggio è appena cominciato.

 

1 Parmenide di Elea, Sulla Natura, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano, 1998, frammento 6

2 Eraclito di Efeso, Frammenti, a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Mondadori, Milano, 2001, frammento 16

3  Da Ippodamo di Mileto, l’architetto e urbanista greco al quale la tradizione rimanda per l’invenzione della pianta ortogonale nelle nuove fondazioni cittadine.

4 Vangelo di Tomaso, in Luigi Morialdi (a cura di), «Vangeli gnostici», Adelphi, Milano, 1989, p.6

Il Duomo di Amalfi visto e dipinto da Aleksander Gierymski

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Il Duomo di Amalfi, Aleksander Gierymski, Museo Nazionale a Kielce

traduzione it: Maciej Wilińśki

Amalfi, pittorescamente situata sulla costa dell’Italia meridionale, era già una località affollata di turisti nella seconda metà del XIX secolo. La sua popolarità era certamente dovuta alla vicinanza di Pompei e di Napoli che, grazie alle scoperte e al rapido sviluppo dell’archeologia e della storia dell’arte, suscitavano un vasto interesse. Anche tra gli aristocratici polacchi si diffuse la moda di visitare questi luoghi. Il conte Potocki, tra l’altro, rimase affascinato dagli scavi e decise persino di esplorare l’interno del Vesuvio, descrivendolo in modo estremamente interessante nel suo resoconto della spedizione. Amalfi e i suoi dintorni furono dipinti da diversi artisti. Aleksander Gierymski, appassionato viaggiatore in Italia, fu ispirato dalla Costiera Amalfitana e vi realizzò almeno due dipinti e uno schizzo. Viaggiò verso sud nell’inverno del 1897 e immortalò la zona nei dipinti “Cattedrale di Amalfi” e “Veduta di Amalfi sulla costa”, purtroppo andato perduto (oggi conosciuto solo attraverso le fotografie). Realizzò anche uno schizzo del pulpito di una chiesa di Ravello, a pochi chilometri da Amalfi.

Si dichiarò un amante del Rinascimento italiano, studiò a Monaco di Baviera per quasi sei anni; si diceva che fosse il “sacerdote della luce”. Era anche perennemente insoddisfatto di se stesso e, secondo le testimonianze dei suoi contemporanei, aveva difficoltà a finire un quadro; aveva sempre un po’ di vernice in più sul pennello, sempre un tocco in più, una pennellata in più, una linea, una macchia, un riflesso del sole o grattando via con la spatola quello che c’era per crearne uno nuovo, diverso, migliore. Chi era Aleksander Gierymski e perché i suoi quadri nascevano nel dolore di infinite modifiche e alterazioni, ricominciando tutto da capo?

Il giovane Gierymski fu ammesso all’Accademia di Belle Arti senza esami grazie al fratello Maksymilian, che ormai vi studiava. Inizialmente si inserì nella comunità di Monaco, come veniva solitamente chiamata la colonia polacca di artisti che studiavano e lavoravano lì, e si modellò in qualche modo sul fratello maggiore. Molto presto trovò la propria strada come pittore. I suoi primi dipinti portavano il segno della sua ammirazione per i coloristi veneziani, in particolare di Tiziano e Tintoretto, che entrambi i fratelli potevano ammirare nelle ricche collezioni della Pinacoteca. Dopo qualche anno, Gierymski si recò in Italia e soggiornò principalmente a Roma, nonostante in questo periodo visitasse più volte Varsavia. Dipinse quadri italiani e scene realistiche di Varsavia.

La creazione del dipinto “Il pergolato”, raccontata da Stanisław Witkiewicz, divenne famosa e avvolta nella leggenda. Gierymski iniziò a lavorare all’opera già nel 1875, ma il suo fascino e i suoi esperimenti con la luce lo portarono quasi ad ammalarsi mentalmente. Soffriva di una nevrosi che, nel caso del suo lavoro pittorico, si manifestava in una morbosa cesellatura di ogni macchia di colore e di ogni dettaglio. Il processo di creazione del dipinto, la sua probabile distruzione da parte dell’artista, i frammenti o bozzetti dell’opera monumentale sparsi in vari musei, fatti e aneddoti, pettegolezzi e scandali legati al suo lavoro creativo sono materiale per un romanzo o un film, che furono utilizzati già nel 1963 nel film “Mansarda” diretto da Konrad Nałęcki. Gli autori si basarono sul racconto di Witkiewicz e sulle lettere di Gierymski. Witkiewicz scrisse del quadro “Il pergolato” che la composizione sembrava essere stata dipinta per anni, raschiata, tirata, tutti i mezzi pittorici portati all’ultimo limite e infine, in preda a un disperato sconforto, senza raggiungere il risultato voluto, (la composizione) è stata gettata nella cornice. 

Nel corso del tempo Gierymski cadde sempre di più nella nevrosi. Verso la fine della sua vita, manifestò segni di malattia mentale. Soffre di depressione e muore in un ospedale psichiatrico italiano tra il 6 e l’8 marzo 1901. 

Le sue opere vengono esaminate in due modi: da un lato, viene analizzato come realista, come pittore e cronista della vita dei poveri a Varsavia, evidenziando la sua visione reportagistica della realtà; dall’altro, la sua pittura viene confrontata con le tendenze dell’Impressionismo e con l’intera tradizione artistica della luce e dell’ombra. Vale la pena ricordare che lo stesso Gierymski riteneva che ci fosse molto da imparare dagli impressionisti, ma la sua pittura, in cui studiava in modo simile la luce, era una precisa costruzione dello spazio sulla tela e si distingueva per una grande disciplina nei dettagli. Si concentrava sul luminismo ma non rinunciava ai dettagli. Il dipinto proveniente dalla collezione del Museo Nazionale di Kielce “Cattedrale di Amalfi” costituisce una combinazione dei due punti di vista del pittore, se li prendiamo come punti di partenza per un giudizio. L’opera è sia una sorta di cronaca della vita in una città italiana alla fine del XIX secolo, sia un eccezionale studio sulla luce.

Il Duomo di Amalfi, le cui origini risalgono al XIII secolo, affascinava gli artisti con la sua architettura e divenne anche il motivo principale del dipinto di Gierymski. Il suo aspetto attuale è dovuto alla ricostruzione e alla riedificazione della seconda metà del XIX secolo, intrapresa dall’architetto italiano Enrico Alvini dopo il terremoto del 1862. Prima della catastrofe, la cattedrale aveva una facciata barocca, ma si decise di ripristinare l’aspetto del periodo più antico e di tornare allo stile arabo-normanno, tipico dell’Italia meridionale. 

Il quadro di Gierymski può essere analizzato in termini di documentazione, e capita che venga paragonato alla fotografia. Vale la pena estendere questa visione e prestare attenzione a valori aggiuntivi che vanno oltre il mezzo moderno della fine del XIX secolo, che era la fotografia, ovvero considerare i colori e la luce oltre ai dettagli architettonici. La fotografia dell’epoca non offriva certamente una tale qualità e fedeltà, quindi l’immagine rappresenta un valore molto più elevato. La ripresa realistica era accentuata dalla presenza di persone. Oggi la cattedrale ha lo stesso aspetto, ma non ci sono fioriste con grembiuli colorati su ampie gonne, né uomini in cilindro che salgono le scale con signore altrettanto eleganti. Tuttavia, si può notare una certa convergenza e permanenza del luogo. Il sole splende sugli stessi edifici della piccola Piazza Duomo, sulla scalinata che porta alla cattedrale e sul tempio stesso. Le stesse montagne si accumulano sullo sfondo, la torre dell’orologio misura ancora le ore. Un tempo fiori, ora frutta. Nella piazza sotto la scalinata, in grandi ceste di vimini e cassette di legno appoggiate direttamente sul marciapiede, si vendono arance e limoni maturi della varietà sfusato amalfitano, per cui è famosa la regione amalfitana.

Gierymski dipinse il quadro nell'”ora d’oro”, poco prima del tramonto, i raggi del sole quasi illuminano le decorazioni sulla facciata della cattedrale. La pietra assume calde tonalità ambrate con brillanti riflessi di bianco. Sopra la metà della scalinata, la parte superiore che brilla al sole e la facciata della chiesa contrastano con la parte inferiore in ombra grigia, con la piazza del Duomo che si estende in primo piano. L’orologio sul campanile della chiesa indica le 17:20, l’ora in cui i raggi del sole sono più intensi, ma non arrivano più in tutte le parti. Grazie ai contrasti della luce e alla gestione del colore, il dipinto mostra che il terreno sale dal primo piano verso i giardini terrazzati e gli edifici che emergono tra la torre e la sommità della facciata, per stagliarsi contro il cielo con picchi rocciosi. Gierymski era un attento osservatore e aveva una grande consapevolezza del colore. La facciata della cattedrale e la torre dell’orologio risplendono nella luce che rende ancora più nitido ogni dettaglio architettonico. Per un edificio in stile arabo-normanno, questa era un’enorme sfida artistica, poiché la sua decoratività fu pensata per evocare stupore e giochi di luce sui numerosi dettagli scultorei e sulla pietra variegata generando un vero e proprio mosaico colorato e scintillante. 

Come scrisse Bolesław Prus, che all’epoca parlava spesso dell’arte polacca, ‘Gierymski non è né un pittore di “genere”, né un pittore di “storia”, né un “fotografo”, ma piuttosto un sacerdote della luce, di cui ripercorre i misteri e ce ne insegna le bellezze’.  L’opera potrebbe essere stata in parte realizzata all’aperto, ma sappiamo che Gierymski la completò solo due anni dopo, ormai a Parigi. Lo testimoniano la firma e la data in basso a destra: “A.GIERYMSKI 99”. 

L’Amalfi di oggi offre ai turisti un’esperienza estetica simile a quella di cento anni fa? È una delle centinaia di città italiane che si vorrebbero visitare sotto il bel sole pomeridiano. A parte la Cattedrale di Sant’Andrea, con le reliquie di Sant’Andrea Apostolo portate in città dopo la quarta crociata, e il tentativo di confrontarsi con la fotografia contemporanea con il dipinto di Gierymski, ci sono alcuni luoghi bellissimi che meritano di essere visitati. Ad Amalfi non mancano e sono certamente in grado di attirare il nostro sguardo più a lungo,  magari non per i due anni che Gierymski ha trascorso a dipingere la vista della cattedrale e le colline rocciose in profondità, ma almeno per un momento, per un bicchiere di limoncello fatto con limoni locali sotto l’ombrellone di un caffè in Piazza Duomo, per vedere se i colori del sole pomeridiano sono cambiati negli ultimi cento anni o per lasciarsi andare alla festa estetica dell’”ora d’oro” e percepire così il dolce far niente italiano.

Il soggiorno romano della regina Maria Casimira d’Arquien Sobieska

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Maria Kazimiera d’Arquien Sobieska, Jacques Blondeau, 1684- 1696, Biblioteca Nazionale di Varsavia [Polonia]

traduzione it: Maciej Wiliński

La regina polacca Maria Casimira d’Arquien Sobieska lasciò la Polonia nel 1698 in seguito alla perdita delle elezioni che privò il suo figlio primogenito Giacomo di ogni possibilità di ottenere la corona reale. Il caos politico scatenato dal mancato riconoscimento della maestà di Federico Augusto I, Elettore di Sassonia, da parte dei sostenitori della candidatura del duca francese Francesco Luigi di Borbone-Conti, accelerò la sua decisione di lasciare il Paese. Tale decisione, però, richiedeva il consenso del Sejm e l’assicurazione delle rendite e obbligazioni della vedova del re Giovanni III. L’invito rivolto da papa Innocenzo XII alla regina a partecipare alle celebrazioni del Giubileo straordinario del 1700 divenne un comodo pretesto. Tuttavia, la regina, politicamente attiva, non voleva essere privata di una vera influenza e non si accontentava del suo status di magnate, come lei stessa suggerì più volte nelle lettere: “È necessario che io mantenga la mia posizione di regina con la stessa dignità, come all’inizio, e per questo ho solo le mie proprietà […] sono sempre la stessa regina ”.

Il viaggio della regina a Roma iniziò il 2 ottobre 1698 con la benedizione impartita nella chiesa domenicana di Jaworów. Maria Casimira intraprese il viaggio con un corteo numeroso e abbondante. Attraversando Lwów, Przemyśl, Wysock, Przeworsk, Łańcut, Rzeszów, Tarnów, Dunajec, Szczepanów e Tyniec, la regina raggiunse Cracovia alla fine di ottobre. Il 29 ottobre, il corteo lasciò i confini della Polonia ed entrò nella Slesia imperiale, proseguendo per l’Italia via Opava, Olomouc, Reichenhall e il Trentino. Il percorso continuò da Venezia passando per Ferrara, Modena, Bologna e Ancona fino a Loreto, dove, come promesso, la regina si sarebbe recata in pellegrinaggio al santuario mariano.

La richiesta della regina di rimanere in incognito fu rapidamente respinta dagli ospiti. Quando uno dei suoi servitori, Jan Kosmowski, si recò a Verona per monitorare i preparativi per l’accoglienza della regina, divenne evidente che la città si stava preparando per una grande festa. Lo dimostrarono la costruzione di porte trionfali, la decorazione delle finestre delle case con ricchi arazzi e ghirlande di fiori. Maria Casimira mantenne dunque una parvenza di identità, ma lo fece solo simbolicamente, per rimanere coerente con la decisione presa in precedenza. Può darsi che la volontà di celarsi sotto il nome di contessa “de Jaworów” e rimanere in incognito fosse dovuto alla sua riluttanza a sostenere i possibili costi di rappresentanza, a investire in ulteriori costumi sfarzosi per sé e per i suoi cortigiani, in carrozze decorative e in oggetti che ormai possedeva. Lo status di incognito garantiva inoltre l’inviolabilità e permetteva una discreta penetrazione nella società della corte per conoscere le persone che componevano l’entourage del sovrano e le relazioni tra di loro. Maria Casimira era anche incerta se sarebbe stata trattata come una sovrana presso le corti principesche a causa del fatto che il re polacco veniva scelto per elezione. Come affermò la stessa regina: “Cosa c’entra il fatto che io sia cognito con il fatto che si commettano degli errori? […] Inoltre, l’incognito aiuta in tutto. Si cessa di essere un principe polacco quando non si usa il proprio nome e si fa sedere il proprio servitore nel posto più importante durante un viaggio in carrozza”.

Intanto, papa Innocenzo XII si stava impegnando per creare delle regole di cerimoniale che permettessero a Maria Casimira di essere accolta degnamente al soglio apostolico. Allo stesso tempo, Pompeo Scarlatti, residente bavarese a Roma e consigliere della regina, stava determinando il luogo della sua permanenza. Il papa aveva proposto un castello a Bracciano, vicino a Viterbo, come residenza, ma inaspettatamente suo nipote, il duca Livio Odescalchi, si offrì di ospitare la regina. Nel Palazzo Odescalchi le mise a disposizione le stanze un tempo appartenute alla regina svedese Cristina, decorate con dipinti, sculture e oggetti preziosi. Così si stabilì un legame storico tra le due regine, sebbene diverse per origine e status.

Palazzo Zuccari a Roma, la sede della regina Maria Kazimiera d’Arquien Sobieska dal 1704 al 1714, fot. J. Pietrzak

La permanenza della regina sul Tevere cominciò con un’udienza ufficiale alla corte papale, preceduta da un ingresso trionfale, che ebbe luogo il 21 giugno 1699. Partendo da Porta Flaminia e da Piazza del Popolo, il corteo composto da cinque carrozze guidate da schiere di cortigiani e da una guardia di valletti in esotici costumi orientali giunse al Quirinale. Lì l’esercito pontificio presentò le armi alla regina e il maestro di stalla papale Giuseppe Lotario Conti, duca di Poli, la condusse fino ai gradini dello scalone, dove il ruolo di accompagnatore fu assunto dal duca di Colonna, che, assieme ad arcivescovi, vescovi e protonotari, scortò la regina fino alla sala delle udienze, dove l’attendeva papa Innocenzo XII. La regina si avvicinò al trono e baciò umilmente i piedi del Santo Padre. Successivamente i due conversarono tra loro, con la mediazione di padre Jan Kurdwanowski. Al termine della conversazione, il papa impartì la benedizione ai cortigiani di Maria Casimira. Dal Palazzo del Quirinale, il corteo si recò nella Basilica di San Pietro per ricevere la comunione e pregare sulla tomba dell’Apostolo. Altrettanto dignitosa fu l’udienza concessa alla regina da Clemente XI circondato da senatori romani in Campidoglio l’8 aprile 1701. La regina, a sua volta, diede udienza a illustri ospiti e membri della Curia romana in una sala appositamente allestita nel Palazzo Odescalchi.

Il soggiorno romano di Maria Casimira, durato quasi quindici anni, fu un periodo pieno di eventi che permisero alla regina di affermare sistematicamente la sua posizione dominante. Non c’è dubbio che ella abbia basato la sua reputazione sulla memoria del defunto marito Giovanni III, difensore della cristianità e comandante in capo della campagna di Vienna. Questo si manifestò non solo nella commissione di opere musicali sul tema dell’assedio di Vienna, ma anche nell’organizzazione di celebrazioni annuali della Vittoria. In questa occasione, il 12 settembre, la regina ordinò di addobbare il suo palazzo, di illuminarlo con torce o di organizzare uno spettacolo di fuochi d’artificio. Tali celebrazioni furono anche accompagnate da festeggiamenti tenuti nella Chiesa di San Stanislao a Roma, che, eccezionalmente nel 1702, furono presieduti da papa Clemente XI. La testimonianza della grande venerazione del marito divennero i monumenti che a tutt’oggi si possono ammirare durante le visite alla Città Eterna. La memoria della Vittoria di Vienna è immortalata da una lapide incastonata nel Palazzo Capitolino e da una meridiana nella chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, costruita nel 1702.

Lo stemma della regina Maria Kazimiera sopra il portone principale del Palazzo Zuccari, fot. J. Pietrzak

La vita quotidiana della regina si incentrò su attività culturali, viaggi e manifestazioni di religiosità. Il cardinale Pietro Ottoboni, vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, introdusse la regina nel mondo culturale romano dell’Accademia Arcadica e le infuse l’amore per la musica e i drammi teatrali. Egli stesso disponeva di una grande cappella e di enormi risorse finanziarie, che utilizzava per commissionare opere liriche. La regina era l’ospite principale del Palazzo della Cancelleria e del Collegio Nazareno per oratori e opere teatrali. Nel Palazzo Zuccari, sua residenza permanente dal 1702, Maria Casimira preparava spettacoli teatrali e rappresentazioni di opere occasionali con contenuti che celebravano il marito e rafforzavano lo splendore della famiglia Sobieski. In concorrenza con i teatri del cardinale Ottoboni e del duca Francesco Maria Ruspoli, la regina offriva al pubblico opere note come drammi per musica, il cui contenuto fu creato dai librettisti e segretari Carlo Sigismondo Capece, Giacomo Buonaccorsi e Giovanni Domenico Piola, con musiche composte da Alessandro e Domenico Scarlatti e dal liutista Sylvius Leopold Weiss. I libretti degli otto drammi per musica e le partiture di singole arie, serenate e oratori sono noti ancora oggi. L’ambientazione musicale delle opere veniva completata dalle decorazioni sceniche disegnate da Filippo Juvarra a partire dal 1710, che in seguito fu impiegato alla corte di Torino come architetto principesco. Tipicamente, il luogo di rappresentazione delle opere era un ponte di legno sulla via Felice (oggi via Sistina), noto come Arco della Regina, che collegava il terzo piano del Palazzo Zuccari e la Casa Stefanoni, dove risiedeva il padre della regina, Henri de la Grange d’Arquien. Proprio dal livello del ponte scorrevano nelle orecchie del pubblico le arie eseguite dai magnifici cantanti alle dipendenze della regina, tra cui Anna Maria Giusti, detta la Romanina, Maria Dominica Pini, Caterina Lelli, Giovanna Albertini, detta la Reggiana, e i castrati Giuseppe Luparini-Beccari “della Regina” e Pippo della Grance.

Durante la permanenza, la regina compì numerosi viaggi a Roma e nei dintorni della penisola italiana. Inizialmente veniva accompagnata dai suoi cortigiani in brevi passeggiate nella Città Eterna e, come raccontò uno dei suoi ufficiali, Jan Kosmowski, amava ammirare le antiche rovine. D’estate, desiderosa di sfuggire dal caldo torrido di Roma, Maria Casimira si recava nelle ville di Frascati, Tivoli, Nettuno e talvolta al Castello di Palo, di proprietà del duca Livio Odescalchi. In due occasioni, nel 1699 e nel 1702, la regina visitò Napoli, dove partecipò a cerimonie in onore di San Gennaro e assistette al miracolo della trasformazione del sangue coagulato in sostanza liquida, considerato un segno di grazia e di protezione del patrono celeste sulla città. Di grande interesse furono anche le spedizioni intraprese nel 1704, quando la vedova di Giovanni III si recò a Loreto e poi a Venezia per incontrare la figlia dell’Elettore di Baviera, Teresa Cunegonda Sobieska-Wittelsbach. In questo modo, la regina cercò di prevenire un attacco alla Baviera da parte delle truppe imperiali e di fare appello all’imperatore Leopoldo I per ottenere aiuto nella liberazione dei suoi figli, i principi Giacomo e Alessandro, dalla prigionia sassone. Nel 1707, invece, Maria Casimira giunse a Bari, dove rese omaggio a Bona Sforza, sua predecessora, davanti alla lapide nella Cattedrale di San Nicola.

La regina era estremamente pia e il clima religioso di Roma la spingeva a diverse forme di devozione. Veniva anche coinvolta in fondazioni monastiche, come dimostra il convento di monache benedettine dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento, importato dalla Francia nel 1702 e allestito nel palazzo di Trinità dei Monti. La regina desiderava evitare pubblicità, ma il suo soggiorno attirò fin dall’inizio l’ammirazione del popolo romano, che riconobbe la sua pietà, durante le sue visite alle chiese, tra cui la Basilica dei Dodici Apostoli, San Pietro in Vincoli, San Pietro in Montorio, Santa Maria in Via Lata, Santa Maria Nuova e Santa Maria in Portico. Maria Casimira espresse il suo attaccamento alla Polonia e alle questioni legate al Paese pregando sulla tomba di Stanislao Kostka, allora beato.

Tempietto di Maria Kazimiera d’Arquien Sobieska, Francesco Juvarra, 1711, Francesca Curti, Lothar Sicke, Dokumente zur Geschichte des Palazzo Zuccari 1578–1904, Roma 2013

Durante il suo soggiorno a Roma, Maria Casimira non rinunciò a tentare di imporre la sua volontà politica e non si sentì una figura relegata, dipendente dalla volontà del papa. Dal momento del suo ingresso, attraverso la partecipazione alle cerimonie, ai rapporti con i vari gruppi sociali, cercò di identificarsi con la regina Cristina. Si può supporre che tale comportamento non avrebbe avuto effetti negativi, se non fosse stato per l’emotività e l’esaltazione con cui la regina si rapportava ai suoi benefattori. I suoi tentativi di influenzare la politica papale e il suo coinvolgimento nell’alternare il sostegno all’Impero e alla Francia, a seconda del mutare delle azioni politiche nei confronti della famiglia Sobieski e degli insediamenti militari nel teatro di guerra per la successione spagnola, la esposero a critiche e la condannarono a trattamenti sgradevoli. Già nel 1710, dopo una discussione con Clemente XI, la regina minacciò di partire per la Francia. Mise in pratica le sue minacce quattro anni dopo quando, con il pretesto di una convalescenza, ottenne da Luigi XIV il permesso di recarsi a Marsiglia e poi a Blois.

La voce più carismatica d’Italia

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foto: Gianfranco Tagliapietra

traduzione it: Katarzyna Lewandowska

Lo scorso 6 settembre è stato il sedicesimo anniversario della morte di una delle voci più potenti al mondo: Luciano Pavarotti, che ha ottenuto tutto ciò che poteva e anche di più, passando dall’opera alla musica popolare. Una grande voce nata a Modena.

Federico Fellini, il grande mago del cinema e ritrattista del sogno italiano, diceva che tutto prende forma nell’infanzia. Luciano Pavarotti ha aiutato l’opera a raggiungere luoghi precedentemente sconosciuti. È stato un grande diffusore del ricco patrimonio dell’opera italiana, che ha portato negli angoli più remoti del mondo attraverso le sue apparizioni televisive e esibendosi in immensi stadi stracolmi. È uno dei più grandi cantanti della storia, specializzato nel repertorio del belcanto, in particolare delle opere di Bellini, Donizetti, Rossini e Verdi. Ha conquistato tutti i possibili palcoscenici operistici del mondo, e tra le star della musica popolare che sono state al suo fianco si possono citare Celine Dion, Mariah Carey, Sting, Elton John, Grace Jones, Erik Clapton e James Brown. Vi racconto com’è iniziata la storia di uno dei sogni più belli del mondo, che scorre sulle note del “Nessun dorma” di Puccini.

Luciano Pavarotti nacque, nel bel mezzo del regime di Benito Mussolini, a Modena in Emilia-Romagna, in una piccola famiglia, piuttosto singolare per quei tempi. Abitava in un piccolo caseggiato in periferia con i genitori, la sorella Gabriella di cinque anni più giovane, la nonna e il nonno. Dietro la sua casa si estendevano campi e foreste. Nacque il 12 ottobre 1935, poco dopo la morte della zia Lucia, sorella della madre, da cui ha ereditato il nome Luciano. Come ha poi ricordato nelle interviste, la sua nascita ha segnato la fine del lutto e della tristezza che da tempo attanagliavano la casa. Luciano era il figlio prediletto, perciò gli era concesso più degli altri bambini. Fu anche il primo ragazzo a nascere nel caseggiato, diventando subito popolare.

Suo padre Fernando era un fornaio che faceva il pane per i tedeschi durante la guerra. La vita trascorreva modesta ma dignitosa, senza povertà né ricchezza. “Avevamo tanto, quanto serviva per vivere”, ha confessato nelle interviste. Non possedevano la macchina, e la radio arrivò molto tempo dopo che era diventata un elemento comune in ogni casa. Senza radio e musica non si poteva immaginare la vita, mentre la mancanza della macchina era accettabile. Il mezzo di trasporto per tutta la famiglia era il motorino di suo padre. La madre del futuro tenore era un’amante della musica. Diceva che sebbene la voce di Luciano fosse stata ereditata da suo padre, c’era però il suo cuore e il suo amore per la musica. La madre di Pavarotti, Adele Venturi, oltre a occuparsi della casa, lavorava duramente in una fabbrica di sigarette che le limitava il tempo con i figli. Non aveva tempo per dare un’educazione completa, quindi quando trovò il tempo per loro, lo riempì di musica, commossa dalle arie verdiane. Nella formazione di Pavarotti la figura più importante è stata sua nonna Giulia, che il piccolo Luciano adorava e ammirava moltissimo per la sua forza e per il rispetto universale che tutti nutrivano per lei. Era sua nonna che aveva l’ultima parola su tutte le questioni, ma nonostante il suo carattere forte, trattava il nipote con leggerezza, come “un piccolo animale selvatico, così caro, delicato e dotato di un’anima”.

Il mondo di Luciano finiva sulla via principale della città, a poche case da dove abitava, ma la sua fantasia era sconfinata e sempre in contatto con la natura. Da bambino gli piaceva cacciare rane e lucertole e passava ore a saltare con i suoi amici più piccoli sugli alberi che crescevano intorno alla casa. Amava ammirare e osservare la natura, in particolare gli animali. A nove anni li vide “fare l’amore” per la prima volta, fatto che lo scioccò, come avesse scoperto lo spazio. Uno spazio brutalmente interrotto dalla guerra.

La guerra fu indubbiamente l’evento più drammatico dell’infanzia di Pavarotti, anche se inizialmente ne era ignaro. La vita a Modena nei primi mesi di guerra fu relativamente tranquilla. Fu solo quando gli americani e gli inglesi iniziarono a bombardare la città che il piccolo Luciano si rese conto di cosa fosse questo gioco innocente con le pistole che faceva con i suoi amici in cortile. Il bombardamento della città, dovuto ai suoi numerosi impianti industriali, la rese pericolosa e la famiglia si trasferì per qualche tempo nei dintorni di Napoli. La più sanguinosa repressione nella regione modenese avvenne a soli venticinque miglia da dove abitava la famiglia Pavarotti. Nella città di Marzabotto furono radunati e fucilati 1830 abitanti, persone indifese, innocenti, civili, tra i quali molti amici e vicini di Luciano. Un giorno, il ragazzo non se ne accorse e calpestò un vicino morto che giaceva per strada. Per un bambino di nove anni, tale esperienza fu un incubo.

Nei ricordi di Luciano del periodo bellico c’è un unico ricordo positivo, il lavoro nei campi, che lui amava. A parte il trasferimento successivo da Modena, le loro vite erano relativamente sicure. I giorni erano sorprendentemente calmi, solo le notti ricordavano che c’era una guerra nelle vicinanze. Non si sentivano soltanto i rumori degli spari, a casa Pavarotti arrivavano anche i soldati feriti e assetati d’acqua, e spesso subito dopo arrivavano i tedeschi a chiedere informazioni. Ma la famiglia Pavarotti poteva sentirsi più al sicuro rispetto ad altri. In primo luogo perché Fernando faceva il pane per i soldati tedeschi, in secondo luogo, il nonno lavorava all’Accademia Militare e portava a casa tutto ciò di cui i soldati non avevano bisogno o che non mangiavano. Quindi avevano le due cose più preziose: il pane e il sale. Soprattutto il sale era prezioso e permetteva lo scambio, per mezzo chilo di sale si potevano comprare due chilogrammi di zucchero o un litro di olio d’oliva.

L’avventura canora del futuro tenore iniziò con l’iscrizione al coro della chiesa, di cui faceva parte anche il padre. La sera andavano insieme a cantare musiche di vari compositori durante i vespri. Uno degli eventi più importanti nella vita del piccolo Luciano fu l’incontro con Beniamino Gigli, che a quel tempo era uno dei tenori più famosi al mondo. Pavarotti, dopo aver saputo dell’arrivo del suo idolo a Modena, si recò a teatro durante le prove per ammirare il grande Gigli, un sessantenne ancora in ottima forma. Dopo un’ora di canto, si avvicinò al piccolo Luciano, il quale, incantato, gli confessò di voler diventare anche lui un tenore, Gigli gli accarezzò la testa e gli disse: “Bravo, ragazzo mio! Ma ricordati che devi imparare tutta la vita. Mi hai appena sentito praticare”. Questo incontro segnò fortemente Pavarotti, che si immerse ancora di più nel mondo della musica. Ascoltava dischi in vinile di famosi tenori praticamente senza sosta, indirizzando inconsciamente il suo destino all’età di dodici anni.

La carriera di Luciano Pavarotti è materiale per un articolo diverso. La storia di un uomo che ha attraversato tutti i confini musicali. Vale la pena ricordare, però, che questo ragazzo modenese, che giocava ad acchiappare lucertole, iniziò la sua carriera come tenore in piccoli teatri d’opera regionali italiani, debuttando nel ruolo di Rodolfo ne “La bohème” al Teatro Municipale di Reggio Emilia nell’aprile del 1961. Dopo i numerosi successi in Europa arrivò il momento di andare negli Stati Uniti. Il 17 febbraio 1972 si esibì nell’opera “La fille du régiment” al Metropolitan Opera di New York, in cui fece impazzire il pubblico con i suoi acuti fatti senza sforzo in una delle arie caratteristiche dell’opera. Nel 1990, la sua interpretazione dell’aria “Nessun dorma”, dalla “Turandot” di Giacomo Puccini, fu scelta quale colonna sonora per la copertura della BBC della Coppa del Mondo FIFA 1990 in Italia. L’aria è così diventata una hit pop, diventando la colonna sonora dei Mondiali di Calcio. Successivamente Luciano ha realizzato il primo concerto con il progetto Three Tenors, che si è svolto alla vigilia della finale dei Mondiali FIFA 1990 nelle antiche Terme di Caracalla a Roma, con la partecipazione dei tenori Plácido Domingo e José Carreras e il direttore d’orchestra Zubin Mehta.

Un altro sorprendente e rivoluzionario risultato è stata la registrazione dell’album “Carreras Domingo Pavarotti in Concert” dei tre tenori, nominato per il Grammy Award nella categoria “album dell’anno”, un evento senza precedenti. È l’album di musica classica più venduto di tutti i tempi e ha portato a un cambiamento nel modo in cui l’industria musicale commercializza la musica classica. Attraverso la collaborazione dei tenori, Pavarotti ha raggiunto luoghi dove nessuno del mondo della lirica, nemmeno l’adorata Maria Callas, era mai giunto prima. Approfittando del suo successo nella musica pop nel 1995 registrò la canzone “Sarajevo Girl” con la rock band irlandese degli U2. Questo fu l’inizio dei duetti che sarebbero diventati un elemento importante della carriera di Pavarotti fino alla sua morte, con tra gli altri: Spice Girls, Celine Dion, Mariah Carey, James Brown, Erik Clapton, Deep Purple, Queen, Bon Jovi e Sheryl Crowe. Nel 1998, Luciano ha ricevuto il Grammy Legend Award. Fino ad allora, solo altri 11 artisti avevano ricevuto lo stesso premio, inclusi Billy Joel, Liza Minelli e Michael Jackson. Pavarotti era, è e sarà la voce più bella d’Italia, che risuona ancora in tutto il mondo.

Sciabola, mazurka, polonaise

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Parlando delle etimologie delle parole che si usano sia in polacco sia in italiano, quasi sempre si tratta di vocaboli di provenienza greca o latina e che sono entrate nella lingua polacca o direttamente dal latino o attraverso una lingua neolatina come ovviamente l’italiano o anche molto spesso il francese. Le parole che invece dal polacco entrano nella lingua italiana sono pochissime e la loro etimologia è o incerta o, anche se provengono dal polacco, hanno un’origine diversa, ad esempio tedesca o turca.

Sciabola

Le parole che vengono prestate dalle altre lingue spesso riguardano cose inventate in una regione specifica oppure elementi caratteristici per certe nazioni e per cui sono divenute famose. La sciabola, probabilmente l’arma più popolare tra i nobili polacchi del Seicento e non solo, è divenuta un vero simbolo della nobiltà polacca e fin ad oggi è sempre usata dall’esercito polacco come un elemento cerimoniale in alcune occasioni. La parola sciabola in italiano proviene dal polacco szabla, che però è d’origine ungherese. L’ungherese szablya deriverebbe a sua volta da una parola prestata da qualche lingua turca e contaminata dal verbo ungherese szab che significa tagliare. Si tratta, riassumendo, di un nome che descrive la funzione principale della sciabola, cioè tagliare.

Mazurka

Probabilmente uno dei prestiti linguistici dal polacco più sicuri è il termine musicale mazurka. La parola può derivare da Mazurka, nome etnico femminile per le abitanti della regione Masovia. È un termine un po’ confuso, perché in polacco si usa il nome maschile mazur, mentre mazurek (sempre maschile), derivato di mazur, indica una danza stilizzata. Così mazurka può derivare anche dal genitivo della parola mazurek. A parte il fatto di come mazur sia diventato mazurka in italiano, tutte le parole riguardano la regione Mazowsze, la cui radice maz– (come in mazać nel senso di sporcare) si riferisce alla originariamente grande quantità del fango e umidità in questa regione.

Polonaise

Il nome della danza nazionale polacca, cioè polonez, non solo in italiano, ma anche in polacco, proviene dal francese e significa semplicemente “(danza) polacca”. Per questo motivo anche in italiano esiste la forma “polacca” al posto del francese polonaise. Anche se al giorno d’oggi in Polonia si dice prevalentemente polonez, questo non significa che non c’è un nome nativo e tradizionale. Anzi, ci sono molte alternative, probabilmente quella che si può incontrare più spesso è chodzony ovvero che si cammina, perché la danza somiglia a una passeggiata di molte persone in fila. Vale la pena aggiungere che, anche se può sembrare lo sia, la danza polka non è d’origine polacca (in polacco polka significa donna polacca). Invece, la parola viene dal ceco půlka (metà) perché è un ballo a tempo binario.

Le città visibili: intervista con Christian Costa

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Pineta Castel Volturno

Le città visibili è una performance presentata nell’ambito del Campania Teatro Festival il 18 giugno 2023, che usa il teatro per far emergere il genius loci, le urgenze delle comunità, attraverso la voce di ragazzi che vivono nella zona di Castel Volturno. Lo spettacolo è ispirato a Le città invisibili di Calvino. La regia è dell’artista Christian Costa.

A Napoli in estate si è svolto il Campania Teatro Festival dove è stato presentato il tuo spettacolo Le città visibili. Tra incanto e disincanto. Come è nato questo progetto?

La Fondazione Campania Teatro Festival organizza da anni due eventi: il Campania Teatro Festival a giugno, e in autunno Quartieri di vita, una sezione di teatro sociale, da cui a novembre dell’anno scorso è partito il nostro progetto. L’idea era quella di affiancare 12 artisti internazionali (io rappresentavo la Polonia) con artisti che fanno teatro sul territorio campano in contesti difficili. Io ho lavorato con Antonio Nardelli sull’area di Castel Volturno: un territorio complicato, rischioso. A novembre del 2022 abbiamo fatto 10 giorni di prove con 10 ragazzi adolescenti del territorio che non avevano mai fatto teatro in vita loro. Hanno preso seriamente questo impegno, sono venuti alle prove nonostante la pioggia o i problemi personali. Come conclusione abbiamo presentato una restituzione scenica.

Come è andata?

L’abbiamo presentata a dicembre (2022) a Grazzanise, un paesino vicino a Castel Volturno, con il pubblico locale che ha reagito in maniera fortissima. Non ho voluto realizzare una rappresentazione unidirezionale in cui la gente è seduta e guarda. Il pubblico era intorno ai ragazzi, volevamo coinvolgere le persone. Questa dimensione è stata impossibile da realizzare, invece, durante il festival di giugno, perché il teatro Trianon è un classico teatro monumentale in cui tutto converge verso il palco. Abbiamo dovuto riadattare lo spettacolo per uno spazio diverso.

Come avete fatto?

Abbiamo fatto recitare i ragazzi in tutti gli spazi disponibili del teatro: per gran parte del tempo loro stavano in platea. Sul palco c’era un video. I ragazzi interagivano con le persone, si muovevano tra le poltroncine, ogni tanto salivano sul palco e ridiscendevano: lo spettacolo era molto dinamico. Il feedback del pubblico è stato molto buono anche a Napoli.

Siete partiti da Le città invisibili di Italo Calvino.

Sì, è stata una cornice. I ragazzi hanno letto il libro insieme a noi. Poi abbiamo deciso di provare a descrivere delle nostre città. In un paio di giorni i ragazzi hanno scritto i loro testi che poi sono stati recitati durante lo spettacolo: ognuno ci ha messo la propria vita. La qualità mi ha soddisfatto, alcuni testi sono veramente buoni. 

Come sono queste «città visibili»?

Sono tutte città molto cupe. C’era un grande contrasto tra l’atteggiamento generale, che era allegro, e il tono che era accusatorio o grottesco. I ragazzi hanno sottolineato in maniera molto forte le cose che non vanno sul territorio. Essenzialmente tutti i testi girano intorno al fatto che la gente è intollerante, che gli extracomunitari sono trattati male, che l’ambiente non è rispettato, che non ci sono posti dove andare. Hanno inserito tutte queste tematiche. Che loro abbiano trovato la maniera per farlo attraverso il teatro, per me, è perfetto.

Secondo te, l’arte può avere un impatto reale sulla vita?

Assolutamente sì, uso l’arte per cambiare la realtà. Lavoro prevalentemente a progetti di arte pubblica sotto di profilo relazionale: lavoro con gruppi di persone sull’identità di un territorio per capire cosa c’è di interessante nell’area e poi trovare una maniera per parlarne in modo stimolante. E di conseguenza devo occuparmi sia dei luoghi, che delle persone. Per me l’attività artistica è quello che dice Rancière: il politico è l’estetico e l’estetico è il politico; qualunque gesto estetico ha valenza politica. L’uso dei linguaggi estetici non deve essere una cosa confinata ad un teatro, una galleria, ma li si usa per intervenire sui propri luoghi. Se uno vuole che succeda, succede.

Cosa mi dici dei luoghi?

Sono abituato a lavorare sui genius loci. Perciò dall’inizio ho detto: non limitiamoci a fare delle prove chiusi in una stanza, andiamo in giro ad esplorare il territorio. Avevo già visitato la pineta di Castel Volturno qualche anno fa; era un bosco di pini che andava verso le dune per poi finire in mare. C’erano cumuli di frigoriferi, di bufale morte, era un posto complicato. Lavorando a Quartieri di Vita ho proposto di andare a vedere la pineta. E siamo rimasti scioccati, perché la pineta non c’era più. Un insetto l’ha mangiata letteralmente tutta. Sembrava il paesaggio dopo un’esplosione nucleare. Ho fatto delle foto e poi sul “Corriere della Sera” è uscito un articolo La pineta di Castel Volturno sta morendo, che ha attirato molta attenzione. Così il lavoro con i ragazzi è diventato immediatamente una denuncia sociale, senza nemmeno averlo pianificato.  

Invece dopo?

Quando siamo ritornati a maggio per il secondo spettacolo, era ancora peggio. Tutti gli alberi morti erano stati rimossi. Al posto dei pini stanno piantando cespugli e piante aromatiche, rosmarino: nascerà una sorta di area pic-nic. Invece della pineta meravigliosa che avrebbe potuto attrarre turisti, portare soldi, c’è questa devastazione totale. E la gente non se ne rende conto, è così abituata al degrado degli ambienti, che non riesce nemmeno ad immaginare come dovrebbe essere. Questa cosa è entrata nello spettacolo immediatamente.

Hai realizzato anche tanti altri progetti, tra cui Spazi Docili a Firenze, Biennale Urbana a Venezia, il progetto Isole a Palermo che consisteva nel dipingere a colori alcuni frangiflutti in cemento. Quale progetto ti è particolarmente caro?

Il progetto in Sicilia era il primo di questo tipo. Per me l’opera non sono i frangiflutti colorati, ma è tutto quello che è successo intorno: appena abbiamo cominciato a dipingerli, è venuta una marea di gente. Un’azione estetica deve essere un’occasione per far nascere delle discussioni più profonde. Per far capire che tu il tuo paesaggio non lo devi subire, lo puoi anche cambiare. Poi un ragazzino che per tutta la sua vita, aprendo  la finestra, vedeva quelle cose grigie, l’ha aperta e ha trovato un cubo rosso. Ed era raggiante, felicissimo: per me l’opera è quella, non l’oggetto fisico. Anche per Spazi docili a Firenze abbiamo fatto tantissime azioni, sempre insieme all’artista Fabrizio Ajello, che insieme a me ha concepito il progetto e ci lavora dal 2008. 

Lavori tra la Polonia e l’Italia. Come quest’esperienza si rispecchia nelle tue opere?

Mia madre è polacca, mio padre era napoletano. Sono nato in Polonia: per l’identità sono polacco, o semmai metà napoletano, metà polacco, ma italiano non tanto. Sono molto legato all’identità locale di Napoli. Il punto è essere bilingue: per me dal punto di vista linguistico c’è sempre un paragone tra il mondo italiano e il mondo polacco. Qualunque cosa può essere descritta con due approcci totalmente diversi. Mi capita spesso mischiare l’italiano e il polacco: è il desiderio di introdurre altri campi semantici nella comunicazione. Questo ovviamente si riflette anche nell’immaginario visivo.