Giacomo Casanova. I Piombi e la fuga

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Avevamo lasciato Giacomo Casanova in una calda giornata di luglio del 1755 con la porta del camerotto dei Piombi che pesantemente si richiudeva alle sue spalle, l’inizio di una detenzione che sarebbe stata costellata di episodi e personaggi curiosi da lui descritti magistralmente nella sua “l’Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu’on appelle les Plombs”, tramandato oralmente nei salotti di tutta Europa e pubblicato solamente nel 1788 a Lipsia, ben trentadue anni dopo la sua fuga.

I Piombi non sono i Pozzi con celle umide, fredde d’inverno e asfissianti d’estate, ricavate al livello del rio di Palazzo sormontato da quel ponte dei Sospiri che nulla ha a che fare con gli innamorati come molti credono visto che i sospiri erano quelli dei carcerati che attraverso la sua finestrella vedevano per l’ultima volta la luce del sole, ai Piombi i reclusi avevano la possibilità di portarsi sia parte del mobilio che molti effetti personali ed erano ricavati nel sottotetto di Palazzo Ducale dalle cui lastre, appunto di piombo, prendevano il nome.

Giacomo Casanova adesso è solo, in attesa di processo, senza sapere quanto dovrà rimanere ai Piombi e affidato alle cure del suo carceriere, Lorenzo Basadonna, che deve provvedere sia alla sorveglianza che alle necessità del recluso ma la reciproca antipatia fa in modo che il rapporto non parta sotto i migliori auspici.

Nell’iter giudiziario e detentivo di Casanova emerge subito un’incongruenza abbastanza macroscopica ovvero il fatto che non esiste traccia del processo che porta alla sentenza del 21 agosto 1755: “Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. (riferito ai tre Inquisitori di stato) lo fecero arrestare e passar sotto li piombi”.

Rinaldo Fulin, scrittore ottocentesco, sostiene che le carte del processo a Giacomo Casanova furono perse durante la dominazione austriaca per un temporaneo spostamento degli archivi ma viene smentito dal fatto che tutte le riferte (verbali di sorveglianza degli Inquisitori ndr) sono tuttora presenti in archivio di Stato, sono infatti in molti a pensare che il processo non venne mai celebrato per evitare di scomodare molti membri di famiglie patrizie in vista quali i Memmo, i Morosini ed altre oltre ad alcuni dignitari esteri allora residenti a Venezia.

Anche le relazioni amorose con due monache sarebbero state abbastanza difficili da giustificare oltre all’appartenenza alla setta massonica dei “Liberi Muratori”, cosa alquanto mal vista dalle istituzioni della Repubblica di Venezia.

In sintesi si parla di “riflessibili colpe” e di  “disprezzo pubblico della Santa Religione”, entrambi capi d’accusa troppo generici per giustificare l’intervento degli Inquisitori dì Stato come magistratura, tanto che sono in molti tra i commentatori a pensare che i motivi fossero altri, in primis la scandalosa liaison con la monaca M.M. e la frequentazione contemporanea di dignitari esteri e di membri del patriziato veneziano, la Repubblica infatti proibiva ai patrizi la frequentazione di residenti esteri per la paura che venissero divulgati segreti di Stato.

La cella è scomoda, dotata solo di una mensola e di un bugliolo (secchio ndr) per i bisogni corporali, il caldo di luglio è opprimente, il libertino chiederà di avere alcuni mobili ed alcuni effetti personali che gli verranno accordati eccetto il rasoio che non era consentito, Matteo Zuanne Bragadin provvede a fargli avere danaro e si informa costantemente delle sue condizioni di salute.

Durante la detenzione, oltre al carceriere Basadonna, Casanova verrà in contatto con altri personaggi tra i quali lo strano barbiere Soradaci, il conte Asquini di Udine e quel Marin Balbi, monasco Somasco che nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre 1756 sarà il suo ingombrante compagno di fuga e complice nell’attuazione del piano.

Il primo tentativo viene scoperto e Giacomo Casanova viene trasferito di cella passando da una che si affacciava sul cortile di Palazzo Ducale ad una affacciata a levante sul Bacino di San Marco, più ampia e luminosa, dalla cui finestrella si poteva vedere il Lido e una piccola parte di Venezia.

Il fallimento non fa desistere Giacomo Casanova che assieme a Marin Balbi continua nel tentativo di fuga che vede il successo nella notte di Ognissanti.

La data della fuga non è casuale ma il risultato di una strana, quanto opportuna, interrogazione cabalistica dell’anima di Ludovico Ariosto che gli risponde con tre numeri: 9-7-1.

Il perspicace, e furbo, libertino interpreta i tre numeri come il primo verso della settima strofa del nono canto de “L’Orlando furioso” che recita esattamente “Tra il fin d’ottobre ed il capo di novembre”

Una fuga rocambolesca attraverso le stanze di Palazzo Ducale fatta di porte forzate con attrezzi di fortuna fino ad imboccare la Scala d’Oro la cui porta però risulta chiusa e difficilmente forzabile ma quando tutto sembrava perduto uno dei custodi, un certo Andreoli, li nota e pensando di che fossero rimasti chiusi all’interno per errore apre l’ultima cancellata che divideva il libertino ed il monaco dal mondo libero.

I due, felici ed increduli, percorrono velocemente la Scala dei Giganti e guadagnano la libertà attraverso la Porta della Carta, attraversano di gran carriera la piazzetta e passando vicini alle colonne di Marco e Todaro arrivando all’imbarco del Traghetto della Zecca ai cui gondolieri Casanova chiede di essere portato a Fusina ma alla fine del Canal de la Giudecca chiede di cambiare destinazione e di essere portato a Mestre, forse per depistare eventuali inseguitori.

Sono stati in molti a mettere in dubbio la veridicità del racconto di Giacomo Casanova, il primo a farlo fu Francesco Zanotto, dando apertamente del bugiardo al libertino, seguito da Ugo Foscolo che definì la fuga “Romanzo né più, né meno” ma verranno entrambi categoricamente smentiti da prove inconfutabili tra le quali le ricevute dei lavori necessari alla riparazione della cella i cui danni corrispondono esattamente al racconto fatto dal libertino.

E mentre sono in molti a chiedersi come sia riuscito a fuggire Giacomo Casanova dai Piombi il libertino a bordo della gondola che lo porta verso Mestre in una fredda alba veneziana di novembre scoppia in un pianto dirotto “elevando l’anima a Dio”.