Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl
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Che Dante sia il padre della lingua italiana parrebbe essere dato assodato e del tutto indiscusso, eppure – forse proprio per la straordinaria qualità ed originalità della sua produzione letteraria – la sua primazia spesso non è stata adeguatamente riconosciuta. Infatti, sin da Petrarca, nei confronti di Dante s’è palesato un atteggiamento censorio, contraddistinto da un falso disinteresse sottovalutativo: al punto che il poeta del Canzoniere arrivò a negare addirittura di aver mai letto i versi in volgare dell’Alighieri, nonostante evidentissimo sia invece stato l’influsso dantesco tanto nelle liriche del Canzoniere quanto ancor più nei Trionfi.
Ma simile sottostima del sommo vate fu praticata anche in altro campo, quello linguistico, pure da Alessandro Manzoni, che – in una polemica, volutamente tenuta riservata, con Ruggero Bonghi, avvenuta ai tempi della stesura della famosa relazione al ministro della pubblica istruzione del nuovo Regno d’Italia intitolata “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla” – spiegava sussiegoso il motivo della mancanza di cenno alcuno al “De vulgari eloquentia” (il celebre trattato in latino di Dante sulla questione della lingua scritto nei primi anni del Trecento), asserendo che nel testo dantesco “non si tratta di lingua italiana né punto né poco”. Perché per Manzoni la “lingua italiana” doveva essere un qualcosa di nazionale, mentre Dante non avrebbe avuto in mente una “lingua nazionale”, ma semplicemente la valorizzazione di tutti i volgari illustri rispetto al latino. Secondo l’autore dei “Promessi Sposi”, nessun uomo di buon senso avrebbe mai considerato “lingua nazionale” un volgare dalle caratteristiche indicate da Dante; anzi, addirittura, per Manzoni nel “De vulgari eloquentia” non si sarebbe parlato affatto di “lingua”, né italiana né straniera, giungendo ad affermare che chi pensa il contrario è solo perché quel trattato non l’ha mai letto.
In realtà è evidente che ai tempi di Dante non potevano esserci i presupposti di una lingua nazionale, data la divisione del territorio in così tanti piccoli stati contrapposti; cosa di cui Dante stesso era ben consapevole: e forse per questo l’Alighieri s’era limitato ad affrontare il problema per vie traverse, facendo sostanzialmente capire, con un immediato sillogismo, che se il volgare più illustre era quello della sua Commedia, e lui era fiorentino, ne conseguiva che la lingua migliore fosse appunto quella fiorentina. Cosa che poi sarà creduta e confermata dallo stesso Manzoni, che non per niente deciderà di riscrivere il suo romanzo sciacquando i panni proprio in Arno.
fonte dell’immagine in evidenza: https://www.nicolaporro.it/la-sinistra-arruola-dante-e-manzoni-contro-il-populismo/
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ADELAIDE RISTORI (Cividale del Friuli, 29.1.1822 – Roma 9.10.1906). Attrice teatrale italiana. Nasce per caso a Cividale del Friuli, durante la permanenza dei genitori Antonio Ristori e Maria Maddalena Pomatell, entrambi modesti attori, in tournée con la Compagnia di Antonio Cavicchi, ivi impegnati per una recita. Quindi, in questa stessa città, viene battezzata il 31 gennaio dentro la Chiesa di San Silvestro, con i nomi di Adelaide, Teresa e Gaetana Ristori.
Come attrice tragica, a soli quattordici anni, entra a far parte della Compagnia di Moncalvo, dove debutta nella “Francesca da Rimini” di Silvio Pellico, per essere scritturata, subito dopo, dalla Compagnia stabile Reale Sarda di Torino. Figlia d’arte, è anche parente dei noti attori di prosa Francesco Augusto Bon, Luigi Bellotti Bon e Laura Bon. Ha imparato perfettamente in inglese e in francese, quindi si ripropone di lavorare molto presto anche all’estero.
Convinta sostenitrice dell’Unità d’Italia e a favore di Re Vittorio Emanuele II, ad un certo momento della sua carriera artistica, comincia ad esprimere pubblicamente i suoi sentimenti patriottici, lanciando, dai palcoscenici dei teatri in cui si esibisce, continui slogan a favore del Risorgimento, sì in terra italiana, ma ancora sotto il dominio asburgico o borbonico, per cui accade che le sue rappresentazioni vengono regolarmente interrotte dalla polizia.
Nel 1847 sposa il Marchese Giuliano Capranica del Grillo, dal quale avrà quattro figli. Questo matrimonio, però, suscita tra la gente un grosso scandalo, poiché ella è una commediante e i commedianti e le commedianti, un po’ dovunque, ormai da tempo, vengono considerate persone ai margini della società, persone non gradite ai più, che dopo la morte dovranno essere sepolte in terra sconsacrata. Malgrado ciò Adelaide va ad abitare nel sontuoso Palazzo Capranica del Grillo a Roma da cui la sua Compagnia Teatrale Tommaso Zocchi potrà ostentare tutta la sua ricchezza, tanto da potersi permettere perfino un lussuoso vagone ferroviario con cui viaggiare in giro per tutta l’Europa. Poco più che trentenne, infatti, è già ricca e famosa.
Nel 1855 effettua una felice tournée a Parigi, proprio all’epoca dell’Esposizione Internazionale. Nella capitale francese la Ristori trionfa con “Mirra” di Vittorio Alfieri. Critica e pubblico la preferiscono alla Elisabeth-Rachel Félix, fino ad allora la loro gloria nazionale e, addirittura, in molti la considerano come la più grande attrice tragica di tutti i tempi. In questa città ha occasione di conoscere grossi personaggi come Alexandre Dumas, Alphonse de Lamartine, George Sand, parecchie teste coronate d’Europa, nonché tutta quella società privilegiata che solitamente va a teatro soltanto per far sfoggio della propria eleganza. La Ristori nel 1866 affronta per la prima volta l’Oceano per esibirsi nei teatri degli Stati Uniti, dove è appena terminata la guerra di secessione.
In seguito, sempre più spesso, con spirito d’esploratrice, si accinge ad affrontare lunghissimi e pericolosi viaggi per mare e per terra. La tournée più incredibile che compie è quella che viene subito definita “Giro del Mondo” iniziata il 9 maggio del 1874 che la porta in Sud America sfidando le insidie dello Stretto di Magellano, fino all’Australia dove deve superare i terribili venti contrari di quelle parti. Questo perché ha deciso di esibirsi in tutte quelle città che non sono mai state visitate da Compagnie drammatiche italiane. Fa ritorno a Roma, dopo circa due anni, il 13 gennaio del 1876, attraverso l’Oceano Indiano e il Mar Rosso tra i pericoli delle guerre in atto in quelle zone.
Come donna la Ristori, malgrado tutti questi spostamenti ed impegni, riesce a dimostrare amore a suo marito e ai suoi figli, inondandoli di un calore quasi morboso; riesce a dimostrarsi particolarmente rispettosa dei propri genitori mentre li mantiene economicamente; può dimostrar d’amare anche i suoi fratelli e le sue sorelle, benché, a volte, poi, al momento opportuno, non sa nascondere il suo carattere notoriamente irascibile.
Nella sua Italia è acclamatissima dal pubblico e lodata, in genere, dai suoi contemporanei. Per il suo patriottismo riceve, perfino, un elogio da Camillo Benso Conte di Cavour, che le scrive: «Se ne serva di questa sua autorità a pro della nostra Patria, ed io applaudirò in Lei non solo la prima artista d’Europa, ma il più efficace nostro cooperante nei negozi diplomatici».
Dal 1855 al 1885, per trenta lunghi anni, insomma, è costantemente in scena all’estero: Francia, Germania, Belgio, Austria, Ungheria, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Russia, Polonia, Portogallo, Egitto, Grecia, Stati Uniti, Brasile, Argentina, Uruguay, Cile, Perù, Messico, Australia, Nuova Zelanda. Reduce dai successi di Berlino, la Ristori arriva in Polonia e si esibisce dal 31 ottobre al 3 novembre del 1856 presso il teatro di Breslavia. Anche qui, come sempre, si avvale della collaborazione del drammaturgo milanese oriundo francese Napoleone Giotti, pseudonimo di Carlo Jouhaud, autore di uno studio sul poeta polacco Adam Mickiewicz; operante presso il Teatro del Cocomero di Firenze, seguace di Giovanni Battista Niccolini, il quale nei suoi drammi esprime costantemente un sentimento patriottico molto ardente e un linguaggio così eloquente che sa arrivare diritto al cuore della gente.
A Varsavia il Teatro Nazionale – attivo in Polonia già nel XVIII secolo, ai tempi di Re Stanislao Augusto Poniatowski – dal 4 al 14 novembre dell’anno 1856, la ospita insieme a tutta la sua troupe. In quest’occasione ella interpreta la tanto attesa commedia di Carlo Goldoni dal titolo “La Locandiera” nella versione originale integrale, già tradotta dal tedesco in polacco da Borys Halpert, e rappresentata venti anni prima in Polonia nel 1836 con il titolo di “Mirandolina”. La successiva interprete di quest’opera a Varsavia sarà, quaranta anni dopo, la grande Eleonora Duse, nel 1896. In entrambi le occasioni, il testo della commedia viene pubblicato. Dopo Varsavia, porta ancora “La Locandiera” in scena a Cracovia, ottenendo, anche qui, un grande successo. Adelaide Ristori racconta alcuni dettagli di questa sua tournée in Polonia, nella frequente corrispondenza che ha con i suoi amici Lauretta Cipriani Parra e Giuseppe Montanelli. A Montanelli, il 23 novembre del 1856, in particolare, scrive: “Mio Carissimo Montanelli, senti cosa m’accadde a Varsavia” … e descrive una lunga storia. Nel 1907 i teatri di Varsavia e Cracovia proporranno ancora “La Locandiera” nella versione polacca, tradotta dall’italiano, questa volta per mano di Zygmunt Sarnecki.
Da notare che le opere di Goldoni e della Commedia dell’Arte in genere, hanno sempre riscosso e riscuotono tutt’oggi, in Polonia, un gran successo. Se si pensa all’opera “Arlecchino servitore di due padroni”, testo tradotto in polacco dal tedesco da Andrzej Horodyski con il titolo “Kartofel Palka”, andata in scena per la prima volta a Varsavia nell’aprile del 1807, replicata, poi, in tutto il paese, durante il XIX secolo, per ben trenta anni di seguito e ripresa, poi, da Giorgio Strehler per alcune decine di anni ancora nel XX secolo (Io stesso, nel 1996, ebbi occasione di collaborare a tal proposito, col grande regista milanese, anche se soltanto per un breve periodo, pochi mesi prima della sua morte).
Nel 1885, all’età di sessantatré anni, Adelaide Ristori si ritira dal teatro e, una volta rimasta vedova nel 1892, trascorre il resto della vita occupandosi di assistenza ai bisognosi. Scrive “Ricordi e Studi Artistici”, e nel 1902, in occasione del suo ottantesimo compleanno, a coronamento della sua profonda fede nella Monarchia, ha l’alto onore di ricevere una visita da parte del Re Vittorio Emanuele III. Muore a Roma nel 1906 all’età di 84 anni e viene sepolta nel Cimitero del Verano a Roma. La sua città, Cividale del Friuli, le dedica un monumento.
Secondo la finalista del prestigioso “Arte Laguna Prize” di Venezia per ottenere successo bisogna avere voglia di lavorare, seguire le offerte sul mercato ed essere aperti. Laureata all’Accademia delle Belle Arti di Varsavia si è trasferita in Toscana nel 2005, subito dopo l’università. Da 8 anni abita a Milano dove ha fondato la sua scuola “Arte con Marta”. Ha già all’attivo circa 50 mostre individuali e collettive ed è stata premiata in numerosi concorsi.
Sei la finalista di “Arte Laguna Prize 2019” di Venezia, brava!
Sì l’anno scorso sono entrata nel gruppo di 30 finalisti, scelti tra 8365 artisti di tutto il mondo! Pensavo che questo concorso fosse troppo grande per me. Qualche anno fa ho preparato un’opera ma non l’ho mandata. Ma quando ho ricevuto una mail che mi diceva che sono tra le finaliste ho dovuto prima assicurarmi che non fosse un errore e subito dopo mi sono iscritta ad altri tre concorsi. Gli artisti oggi hanno tante possibilità per far conoscere i loro lavori! Bisogna solo essere determinati, stare al passo con le offerte, iscriversi ai concorsi. Tanti artisti dopo la laurea diventano pigri e si lamentano in continuazione. Aspettano che qualcuno li scopra, offra loro qualcosa, gli organizzi la vita. Invece dobbiamo agire! I contatti verranno col tempo, io non ne avevo nessuno quando mi sono trasferita in Italia. I genitori dei miei studenti chiedono spesso: “Marta, che cosa farà mio figlio/a dopo la scuola artistica?” Che domanda! È una professione come le altre. Lavori e guadagni. Attualmente sto lavorando ad un progetto di pittura di un cappotto per la stilista milanese Fiorella Ciaboco per la Fiera della canapa di Milano. Gli ordini sono una grande soddisfazione.
Dopo “Arte Laguna Prize” hai avuto una mostra a Białystok
Ho vinto il concorso del presidente della regione per la borsa di studio artistico. Ho scritto un progetto per una mostra collegata al giubileo annuale della strada storica Kilińskiego in cui si trova la Galleria WOAK (Centro di animazione culturale del Voivodato).
È un posto speciale per me perché il mio professore di disegno, Bogdan Marszeniuk, ha esposto le sue opere lì. Alle sue lezioni ho perfezionato la mano. Il professore era severo ma dopo non ho avuto problemi di passare gli esami per ASP (l’Accademia delle Belle Arti). Grazie al concorso nella Galleria WOAK, ho avuto la prima mostra nella mia città da quando l’ho lasciata nel 2001, prima per Varsavia e dopo per la Toscana e Milano.
Che cosa ti piace di più in Italia?
Il caffè e la moda. Qui gli uomini non hanno paura di sperimentare con i colori, non bisogna essere un artista per indossare una giacca viola con i calzini gialli.
Al quarto anno dell’Accademia ho partecipato al programma Erasmus e sono partita per la Toscana che mi ha incantata così tanto che, dopo la laurea nel 2005, mi ci sono trasferita. Dal punto di vista professionale e finanziario sono stata alla grande. Ho realizzato murales, vetrine, insegne, mobili, mi sono occupata di arti applicate e grafica. Ma non era quello che mi aspettavo dalla mia vita. Non mi sono trasferita in Italia per essere una decoratrice. Ho sempre voluto dipingere quadri. Dunque, dopo 5 anni, ho deciso di ricominciare in una città grande. Non avevo niente da perdere. Nella vita bisogna rischiare, avventurarsi in acque profonde.
Non potevi dipingere in Toscana?
Pietrasanta è una città artistica con tante gallerie ma è difficile per i giovani sfondare li. E io volevo andare avanti. Ho preso in considerazione Bologna, Torino, Firenze. Come al solito, ha deciso il caso, perché non ho mai considerato Milano. Ho rischiato. Solo dopo un anno i proprietari delle gallerie milanesi hanno cominciato a notarmi. Le mie prime mostre le ho fatte in Galleria Arte Utopia. Attualmente collaboro con la Galleria Question Mark Daniele Decia, accanto cui ho aperto la scuola Arte con Marta. Abito a Milano da 8 anni e sto bene.
Potresti lasciare Milano?
Sì ma solo per New York che mi ha incantata con la sua frenesia! Sono strana, mi piacciono i posti rumorosi, il disordine, la varietà e il dinamismo. Voglio vivere dove sta succedendo qualcosa. I miei quadri sono il contrario del mio carattere. Il lavoro mi rilassa dipingere è come fosse la mia terapia.
Sono pazza dell’architettura e penso che sia la mia strada da anni. In Toscana mi sono innamorata dell’architettura, dei palazzi, grazie alla luce e ai colori. In Italia il sole è forte, sottolinea e dà vita ai colori. Non solo palazzi ma perfino la biancheria stesa ad asciugare è bella. Perciò, nonostante il diploma in pittura, questo era il mio campo di studio, ho fatto una specializzazione addizionale: la pittura murale. Al liceo ho fatto studi di grafica e questo è visibile nel mio stile. Dipingo quadri semplici e lineari, tutti sono sorpresi che non uso un righello. Ho percorso una lunga strada di sviluppo e oggi sento che con la preparazione fornita dal liceo artistico a Supraśl e ASP a Varsavia non ci sono cose che non posso fare.
Come lavori?
Ti faccio un esempio. Uno dei dipinti più grandi, Via Negroli, è stato creato dal fascino dell’edificio, visibile dal mio balcone. In posizione fantastica, con splendidi appartamenti. Ho deciso di dipingerlo con le luci in tutte le finestre. Così ho dato ai proprietari degli appartamenti le schede con le informazioni su chi sono, che vivo di fronte e sto preparando la documentazione fotografica per il prossimo quadro. Insomma gli ho spiegato che non sono una stalker.
Ho chiesto di accendere tutte le luci alle 21:00 in un giorno specifico. Lo hanno fatto, mi hanno persino salutato dai balconi. Era buio solo in un appartamento, i cui proprietari hanno trovato la scheda dopo essere tornati dalle vacanze. Poi mi hanno trovato su internet e mi hanno scritto. Sapevano che stavo dipingendo il loro edificio perché avevano guardato i miei quadri col binocolo. Dopo avermi contattata, mi hanno invitato a cena. Ammetto che da allora ho iniziato ad abbassare le tende. Il quadro alla fine è stato realizzato, anche loro hanno acceso la luce e ho aggiunto la loro finestra. Siamo diventati amici. E alla fine hanno comprato questo quadro e l’hanno appeso in casa in modo tale che quando le finestre sono aperte posso vedere il mio quadro sulla loro parete di casa.
La tua scuola
La scuola Arte con Marta l’ho sviluppata gradualmente, dalle lezioni individuali alle case di clienti, alle lezioni di gruppo. Al momento ho circa 70 studenti e la mia scuola è stata selezionata per partecipare al Festival del Disegno di Fabriano 2019, il che per i miei studenti significa una esperienza di prestigio e lezioni gratuite di natura morta. Faccio lezione nella mansarda della galleria d’arte Question Mark. Nelle vetrine puoi vedere i quadri. Le persone entrano, parlano, prendono il tè e spesso rimangono in classe. Confermo che gli italiani sono una nazione di artisti; ci sono molte persone con passione e non è difficile trovare studenti di ogni età, una signora di 80 anni ha iniziato a dipingere in pensione.
I prossimi progetti
A giugno lavorerò per l’organizzazione benefica del Lions Club, saranno murales sul tema di Milano. Dopo prenderò parte all’arrangiamento dell’Hotel Vik Milano a 7 stelle, che avrà anche una galleria d’arte. Per questo progetto sono stata selezionata dal critico d’arte italiano Alessandro Riva. Ogni camera d’albergo è decorata con opere di un artista diverso. Inoltre, come complemento dei miei dipinti, dipingerò la struttura di un armadio in legno con l’immagine degli edifici di notte. Quest’estate, su commissione delle autorità di Milano, 10 artisti, con me inclusa, copriranno con i dipinti le mura della cittadella che circonda l’archivio della città. Ogni artista deve dipingere un argomento, selezionato da documenti storici dall’archivio, e mantenere i colori dei simboli di Milano, in modo che tutte le opere formino un insieme. Naturalmente, io sono stata diretta al dipartimento di architettura. A settembre presenterò un’installazione dei miei dipinti alla prima mostra collettiva della SAC Art Foundation, recentemente creata dalla scultrice italiana Nicoletta Candiani.
Come ti guardano gli italiani?
Secondo gli stereotipi l’artista è visto come un perditempo che sta al bar e un polacco come una persona laboriosa. Bè allora c’è qualcosa di vero perché da polacca lavoro molto anche se ormai mi considero in parte italiana, abito qui da 13 anni, ho la famiglia italiana e penso in italiano quando preparo nella mia testa il piano della giornata.
Le cime delle montagne sopra la città che sembrano essere innevate è la prima immagine che si apre davanti agli occhi dei turisti che visitano Carrara. Questa illusione, tuttavia, evapora come una bolla di sapone quando notiamo che queste macchie bianche trionfanti nella parte superiore non sono altro che ampi detriti di roccia formati durante l’estrazione di depositi di marmo, e che ci troviamo nella terra del cosiddetto “oro bianco”.
Carrara è una città di medie dimensioni situata nella parte settentrionale della Toscana, al confine con la Liguria. Da un lato, circondata dalle acque sconfinate del Mar Ligure, dall’altro, dalla catena bianca delle Alpi Apuane. Il fenomeno geologico delle montagne di marmo, che, contrariamente al loro nome, non appartengono alle Alpi, ma agli Appennini, ha dominato il carattere della città, la sua architettura, la vita e le tradizioni dei suoi abitanti, insomma costituisce un elemento inseparabile di Carrara. Lo incontriamo ad ogni passo, indipendentemente dal fatto che sia un elemento strutturale della città (gli abitanti scherzano che Carrara è l’unica al mondo che può permettersi di pavimentare le strade con il più nobile dei materiali) o che abbia un carattere decorativo. La città è piena di sculture, monumenti, fontane, panchine nonché vasi di fiori in marmo e spesso anche i cordoli. L’inizio di questa stretta relazione tra la città e i suoi dintorni con il marmo risale all’epoca romana durante il regno di Giulio Cesare. È dalle miniere locali che proviene la pietra, che è stata utilizzata per costruire fori, templi e palazzi romani. Nel Medioevo fu usata per decorare l’interno delle chiese, mentre nel Rinascimento divenne oggetto dei desideri di numerosi scultori. Michelangelo, Filippo Brunelleschi e Giovanni Lorenzo Bernini, per ciascuno di questi grandi artisti il marmo di Carrara era il più prezioso di tutte le pietre possibili.
L’amore più grande di Michelangelo
La scarsa disponibilità di marmo di alta qualità a Firenze e Roma, così come l’incessante desiderio di approfondire la conoscenza della pietra, fecero sì che il famoso Michelangelo visitasse spesso Carrara alla ricerca di blocchi perfetti di oro bianco. Considerava la fase di selezione dei materiali una parte estremamente importante nel processo di creazione. La sua prima visita è datata all’autunno del 1497, quando il ventiduenne Michelangelo arrivò a cavallo a Carrara per ottenere la pietra necessaria per scolpire la Pietà ordinata dal cardinale francese Jean de Bilhères-Lagraulas. Sebbene non abbia lasciato nessuna delle sue opere d’arte nella terra del marmo, i suoi rapporti con la città erano sempre molto stretti. Sulla facciata della casa dove ha vissuto durante uno dei suoi soggiorni, c’è il suo busto e una lapide che commemora la presenza dell’artista a Carrara. Così Irving Stone descrive nel suo libro “Il tormento e l’estasi” l’atteggiamento peculiare dello scultore verso il marmo: “Per lui, il marmo bianco latteo era una materia viva che respira, sente, dà giudizio. (…) Da qualche parte nel profondo della sua anima una voce disse: questo è amore. Non era spaventato, non era neanche preoccupato. Lo prese per scontato. Il suo amore voleva soprattutto reciprocità. Il marmo era il suo protagonista, il suo destino. Fino a quando non teneva la mano posta teneramente e amorevolmente sul marmo, non viveva davvero. Perché è quello che voglio essere tutta la mia vita: uno scultore che forgia in marmo bianco, non desidero altro.”
Viaggio nelle profondità dei massicci rocciosi
Nel corso degli anni e dello sviluppo della tecnologia, gli artigiani hanno perfezionato il processo di estrazione del marmo. Dove una volta l’uomo veniva lasciato solo con una pietra e disponeva solo della forza delle proprie mani e strumenti primitivi come uno scalpello, diverse zeppe di ferro, martelli e corde, oggi è possibile ascoltare il suono di seghe per la pietra e di altri dispositivi tecnologicamente avanzati. Tuttavia, durante il processo di estrazione del marmo, ogni anno qualcuno perde la vita. Le strade asfaltate che scendono giù sono strette, tortuose, ripide e un camion caricato con marmo pesa circa 30 tonnellate. Esistono diverse varietà di marmo che vengono estratte a Carrara e dintorni. Supponendo una divisione generale, possiamo distinguere il prezioso marmo bianco (venduto in blocchi, 40.000 / 45.000 euro per un blocco di 30 tonnellate) e marmo grigio chiaro o giallastro destinato all’uso generale. Le aziende specializzate nel taglio, nella molatura e quelle che si occupano della vendita di pavimenti, piastrelle per pareti e cucine di marmo sono così onnipresenti che quasi si fondono con il paesaggio della terraferma di Carrara. La gita in una delle vicine cave costituisce una parte indispensabile del programma del tour della città. È un’esperienza straordinaria che permette di sentire un’atmosfera indimenticabile e sembra in qualche modo un vero viaggio nel tempo.
Tra le innumerevoli agenzie di viaggio che offrono tour nella terra del marmo, ce ne sono diverse che portano i turisti all’interno delle cave attualmente operative. Il marmo viene estratto in tre cave: Torano, Fantiscritti e Colonnata. Durante la visita conosciamo la storia del marmo, le sue tipologie e la sua destinazione; ci vengono mostrati modi per tagliarlo ed estrarlo. I turisti possono anche visitare le cave dall’esterno, ammirando i massicci rocciosi dalle terrazze panoramiche oppure assaggiando le prelibatezze locali nei bar. La Colonnata non può essere lasciata senza aver prima gustato in una delle diffuse “larderie” della pancetta del posto, considerata una delizia locale. Ai piedi delle montagne si trovano numerosi negozi di souvenir.
Non solo il marmo
Carrara, tuttavia, non è solo le Alpi Apuane e l’onnipresente marmo. È anche il rilassante turchese del Mar Ligure e tante diverse spiagge. La capitale mondiale dell’oro bianco ci offre principalmente spiagge selvagge, rocciose, ma davvero affascinanti. Nel raggio di meno di 10 chilometri da Carrara, si può raggiungere la località balneare Marina di Carrara, che fa parte della città di Massa, che stupisce i turisti con le sue ampie spiagge sabbiose e con una localizzazione straordinaria. Facendo un bagno nel mare, si possono ammirare le vette frastagliate e “innevate”. Carrara è anche un ottimo punto di partenza per visitare molte altre città piccole e più grandi che si trovano dintorno. In un’ora si può raggiungere Lucca, la città natale del compositore Giacomo Puccini e allo stesso tempo una delle più belle città toscane che abbia mai visto e poi ancora si può andare a Pisa, a Forte dei Marmi, una delle località toscane più alla moda, frequentemente visitata da famosi attori, cantanti e uomini d’affari italiani (bisogna notare, tuttavia, che tale piacere è piuttosto costoso, per due lettini e un ombrellone possiamo pagare fino a 300 euro al giorno). Si può poi andare a Viareggio città che attira turisti con il suo carnevale colorato che si tiene qui ogni anno, a Lerici, piccolo villaggio di pescatori situato all’ombra delle Cinque Terre, che fu luogo ispiratore per scrittori famosi come Byron e Woolf; a La Spezia e alle Cinque Terre: cinque città insolite iscritte nella lista del patrimonio culturale e naturale mondiale dell’UNESCO.
Per la frolla:
Per la ganache:
Per il caramello salato:
PREPARAZIONE:
Preparate la frolla lavorando su un piano ampio e pulito la farina con il burro e il sale, fino ad ottenere delle grosse briciole. Aggiungete poi lo zucchero e continuate ad intridere. Unite gli aromi e le uova e impastate fino ad ottenere una massa solida e compatta. Mettete in frigorifero a riposare per almeno 2 ore.
Stendete la frolla con il matterello e rivestite una tortiera di 24 cm di diametro, possibilmente a cerniera o con il fondo amovibile. Punzecchiate con i rebbi di una forchetta il fondo e fate cuocere in forno preriscaldato a 180° per 25 minuti circa, finché la frolla non risulta brunita. Fate raffreddare bene prima di estrarre il guscio di frolla e riponetelo su un piatto da portata.
Preparate la ganache portando la panna a ebollizione e versandola sul cioccolato spezzettato. Mescolate fino a ottenere un composto omogeneo. Versate questa ganache nel guscio di pasta frolla freddo, e lasciar riposare in frigorifero finché la ganache si sarà rappresa.
Preparate intanto il caramello scaldando, a fuoco basso e in un pentolino a fondo spesso, lo zucchero con l’acqua, fino a quando lo zucchero si sarà sciolto. Aumentate poi la fiamma fino a quando lo sciroppo diventerà dorato (non farlo diventare troppo scuro, il sapore del caramello dipende interamente di questa fase). Togliete dal fuoco e, stando attento agli schizzi, aggiungete la panna e il burro. Rimettete su fuoco basso e fate cuocere mescolando per 5 minuti. Fate raffreddare il caramello e versartelo sulla ganache rappresa. Mettete la torta in frigorifero per un paio di ore.
“Corpus Christi” è la storia vera del ventenne Daniel che durante il suo periodo al riformatorio passa attraverso una trasformazione spirituale e sogna di diventare prete, una cosa impossibile visti i suoi precedenti criminali. Quando è mandato in una piccola località a lavorare in una falegnameria, dopo l’arrivo si traveste da prete e per caso viene assunto come sostituto alla parrocchia locale. La presenza del giovane e carismatico Daniel permette alla comunità del paese di uscire da un trauma psicologico dopo una tragedia subita.
Con il regista Jan Komasa e il protagonista di “Corpus Christi” Bartosz Bielenia abbiamo parlato appena dopo la prima mondiale del film alla Mostra di Venezia, dove presentato nel concorso Giornate degli Autori, il terzo lungometraggio di Komasa, a parte essere ben accolto dal pubblico e dalla critica, ha vinto il premio Label Europa Cinemas, che offre supporto finanziario alla produzione e distribuzione nella rete dei cinema europei. Nel frattempo il film ha continuato il percorso alla conquista dei vari festival e adesso può vantarsi di una serie di premi del Festival del cinema polacco di Gdynia, tra cui quello per la miglior regia e la miglior sceneggiatura per Mateusz Pacewicz, e inoltre della nomina a candidato polacco agli Oscar come miglior film straniero.
In Polonia ci sono numerosi casi all’anno di persone che si fingono di essere sacerdoti, che cosa ti ha affascinato proprio di questa storia, in cosa era diversa dalle altre?
Jan Komasa: Sono stato fortunato perché ho ricevuto un testo che, dopo le piccole correzioni, era quello che volevo fare. La sceneggiatura è basata su un articolo che Mateusz Pacewicz ha scritto per Duży Format di Gazeta wyborcza ed è stata scritta da lui sotto la supervisione di uno sceneggiatore esperto Krzysztof Rak (autore, tra l’altro, delle sceneggiature dei film “Bogowie” e “Sztuka kochania”). Il protagonista della storia è speciale perché voleva solamente fare qualcosa di buono. Mi è piaciuto che è una storia scritta bene, sembra un aneddoto incredibile, a metà tra kitsch e commedia. Leggo tantissime sceneggiature e di solito ogni scena è fedele ad un genere solo. Questa invece era diversa, contorta, a volte divertente a volte seria e in più in modo geniale descriveva pluridimensionalità del protagonista. È bello quando leggi qualcosa e sai che non capisci tutto ma la storia ti incuriosisce perché contiene un segreto e percepisci che la persona che l’ha scritta sa più di te.
Bartosz Bielenia: Mi è sembrata una storia strana e interessante nello stesso tempo, inoltre volevo lavorare con Janek quindi già questo mi ha attirato su questo progetto. Un ragazzo con il passato criminale che finge di essere un prete è un bel inizio per costruire un’identità affascinante che è lontana dalla mia. Ho cercato di non avere nessun tipo di ispirazione, era più importante per me assorbire tutto quello che pensiamo di questo mondo e capire quali potessero essere le motivazioni del protagonista.
La forza del protagonista è il suo carisma, la capacità di rompere con gli schemi e saper comunicare con tutti. Da una parte è lui che ha bisogno della comunità da cui arriva perché sta cercando un accettazione, dall’altra anche loro hanno bisogno di qualcuno che li cambi e gli faccia vedere un altro modo di vivere.
J.K.: Daniel ha conosciuto la vita dal lato peggiore, ha oltrepassato ogni limite e vince perché conosce le situazioni diverse e sa parlare con tutti. Paradossalmente è un valore in più che gli permette di capire tutti e non respinge nessuno anche perché lui stesso è respinto dalla società per quello che ha fatto. Un’altra cosa importante è che arriva in mezzo a persone che anche loro si sentono respinte. Potrebbe sembrare che sono fatti l’una per l’altro, fino ad un certo punto sicuramente è così, ma una cosa che mi sorprende sempre, e succede anche nel mio film, è che anche le persone respinte sono in grado di trovare la forza di respingere altri. Quindi questo film è anche sulle divisioni tra le persone. È più forte di noi stessi e in qualche modo ci identifica dimostrando che siamo unici, e lì iniziano le tragedie. Dall’altra parte quando arriva qualcuno che non respinge, questa persona ad un certo punto diventa un pericolo perché la struttura o la gerarchia è in grado di esistere finché ci sia qualcuno da respingere.
Bartek è un attore con esperienza soprattutto teatrale, recita al teatro di Warlikowski e a Teatr Stary di Cracovia, quindi parte da un altro livello, come era la collaborazione tra di voi?
J.K.: In effetti mentre nei film precedenti ho lavorato con attori giovani che non sapevano ancora bene se continuare la carriera o no, qui ho incontrato una persona con molta esperienza e soprattutto consapevole, nonostante la giovane età. Ho avuto sul set un partner che conosce le proprie capacità e al limite può sorprendersi che sa fare di più. L’unica novità per lui era che il film era completamente basato sul suo personaggio, era lui il film alla fine.
B.B.: Sono molto grato per l’incontro con Janek perché è un regista molto attento e tenero che sa ascoltare. Non è attaccato alla sua visione e se proprio vuole che qualcuno segua il suo immaginario sa spiegarlo bene e convincere delle sue ragioni. Per me lavorare con lui è stato un misto tra fiducia e dialogo.
Fino a trent’anni fa la Polonia sembrava agli italiani un paese davvero molto lontano, separato dall’impenetrabile “cortina di ferro” che spezzava l’Europa in due blocchi contrapposti. Eppure i rapporti tra l’Italia e la Polonia si sono sviluppati senza interruzione sin dai tempi più antichi. Grazie a ciò in questo paese la lingua italiana è da sempre annoverata tra le più popolari. I contatti italo-polacchi si sono sviluppati sin dal XII secolo, quando in Polonia, come primi dalla penisola italiana, fecero la loro comparsa i legati papali. Nel Trecento arrivarono invece i primi mercanti, quasi tutti genovesi, che si occupavano del commercio di sale, pelli, schiavi e quant’altro. Nella maggior parte dei casi si comunicava con quei rudimenti di latino che si possedeva, ma senza dubbio la folta colonia genovese presente nelle città di Poznań, Cracovia e Leopoli a volte utilizzava anche alcuni termini appartenenti agli idiomi allora parlati nella penisola italiana.
Nei primi anni del Quattrocento l’afflusso di italiani verso il Regno di Polonia aumentò sensibilmente: mentre la presenza genovese andava lentamente scomparendo, in Polonia arrivarono toscani, lombardi e veneti. Ma è nel Cinquecento che si assistette a un vero e proprio arrivo in massa di italiani. Come ben sappiamo, allora in Polonia si stava affermando la corrente rinascimentale. Il nuovo stile proveniente dalle terre italiche in breve soppiantò il gotico tedesco, fino a quel momento assai diffuso nel regno di Polonia. I nobili polacchi, intanto, iniziarono a recarsi in Italia per motivi legati alla loro formazione; le università di Padova e Bologna erano infatti ritenute il modello ideale di studio. Dopo alcuni anni i nobili in questione facevano ritorno in Polonia culturalmente formati e preparati, con i rudimenti della lingua italiana. Fu così che il soggiorno in Italia di alcuni polacchi si rivelò essere di grande influenza per la loro produzione letteraria. Si pensi ad esempio a Fraszki, Le Frasche, di Jan Kochanowski, oppure a Dworzanin di Łukasz Górnicki, realizzato su modello de il Galateo di Baldassarre Castiglione. Altri polacchi sarebbero diventati in seguito professori dell’Università Jagellonica, quindi Padova e Bologna (cui col tempo si sarebbero aggiunte anche Ferrara, Roma, Siena, Venezia e Napoli) erano il completamento ideale del loro percorso di studio. Da una parte venivano rafforzati i rapporti accademici tra lo Stato polacco e la penisola italiana, dall’altra i professori stessi, che alla Jagellonica insegnavano varie materie (ma non la lingua), avevano occasione di trasmettere ai loro discepoli rudimenti della cultura e lingua italiane apprese in loco. Inoltre, già dal Quattrocento è attestata la presenza di docenti provenienti direttamente dall’Italia. In questa sede si possono citare Tomaso di Andrea de Amelia e Giovanni de Sakis de Papia «egregius magister artium et medicinae doctor». L’insegnamento vero e proprio della lingua italiana in Polonia rimaneva però prerogativa dei soli nobili, dell’intellighenzia, e del clero; avveniva privatamente tramite il lavoro di precettori, di solito polacchi, che conoscevano molto bene l’idioma italico.
Molto importanti in ambito linguistico e culturale furono i rapporti dinastici ̶ già attivi con gli Jagelloni per poi trovare piena fioritura con la regina Bona Sforza ̶ tra la corte reale polacca e quelle delle città italiane. Di particolare importanza si rivelò essere il matrimonio dell’italiana Bona con il monarca polacco Sigismondo il Vecchio (1518). Al seguito della regina arrivarono architetti, scultori, pittori, filosofi e molti altri. La lingua ufficiale rimaneva il latino, ma l’italiano a corte era comunque assai diffuso. Ce ne dà una conferma lo storico Marcin Kromer (1512-1589) che, sottolineando la popolarità della lingua italiana negli ambienti del re, ne identifica il motivo non solo nella folta presenza di italiani, ma anche e soprattutto nella facilità con cui i polacchi apprendevano questa lingua: “Complures libenter peregrinantur […] Itaque linguas earum gentium, ad quas pervenerint, cupide et facile discunt”.
La lingua italiana era ritenuta dai polacchi (e non solo) di grande prestigio, in quanto, oltre a rappresentare il genio artistico del Rinascimento, incarnava quella figura, in generale ben vista, del mercante italico, rispettato e bravo negli affari.
In seguito a questa massiccia affluenza di italiani in Polonia avvenuta tra il tardo medioevo e il rinascimento, si potrebbe immaginare una forte penetrazione delle parole italiane nella lingua polacca. In realtà non fu proprio così: i prestiti dall’italiano si limitarono a campi ben specifici come l’architettura, la cucina italiana, i vestiti la musica e la vita di corte. Caso emblematico sono i nomi delle varie verdure arrivate in Polonia proprio tramite la corte di Bona: ecco allora che troviamo p.es. kalafior, cavolfiore, cebula, cipolla, szpinak, spinaci, cykoria, cicoria, pomidor, pomodoro, etc.
Nei secoli successivi lo studio della lingua italiana in Polonia rimase appannaggio dei nobili, tramite l’insegnamento privato. Si hanno notizie certe di come i reali polacchi (da Ladislao IV a Poniatowski) conoscessero le basi dell’italiano, alcuni di essi mandavano i propri figli a studiare in Italia e in Francia. Anche alcune consorti dei reali, come per esempio Maria Kazimierza, moglie di Jan Sobieski, studiarono la lingua italiana che poi utilizzarono per la loro corrispondenza pubblica e privata.
I metodi per imparare la lingua italiana erano semplicemente di tipo traduttivo, spesso si leggevano testi in originale per poi tradurli e arrivare a comprenderli. Strumenti per l’apprendimento della lingua erano i glossari multilingui, antenati dei dizionari.
Nel Seicento abbiamo notizia della pubblicazione delle prime due grammatiche di italiano per polacchi, la prima (1649) scritta in latino, venne realizzata da François Mesgnien-Meniński, la seconda (1675), Grammatica Polono-Italica (titolo abbreviato), è opera del polacco Adam Styła ed è la prima grammatica della lingua italiana scritta in polacco. Si trattava chiaramente di strumenti per autodidatti integrati dai citati glossari. Entrambe le grammatiche erano ancora fortemente legate al modello latino.
Nel Settecento, secolo dell’Illuminismo, la lingua dominante in Europa era il francese, eppure, grazie alla folta presenza di italiani alla corte di Stanislao Augusto Poniatowski, a Varsavia spesso capitava di sentire parlare italiano. In Polonia allora si assisteva a un sensibile sviluppo del teatro e la maggior parte delle compagnie teatrali presenti nella capitale erano costituite proprio da italiani. Lo stesso re Stanislao Augusto comprendeva l’italiano, sebbene, al pari di alcuni suoi predecessori, si esprimesse con difficoltà. Proprio in questo periodo l’idioma italico offre ancora il suo contributo a livello di prestiti nel settore teatrale.
Alla fine del Settecento la Polonia scomparve dalle carte geografiche, spartita dalle tre potenze occupanti, Austria, Prussia e Russia. Le varie rivolte e insurrezioni, oltre alle terribili repressioni e le numerose vittime, ebbero come conseguenza un esilio di grandi proporzioni. Chi aveva partecipato alle insurrezioni era costretto a lasciare la patria per trovare rifugio in paesi come la Francia, la Gran Bretagna e la stessa Italia. Nel Belpaese alcuni di essi, nel sogno del rispristino dell’indipendenza, organizzarono le Legioni polacche, altri vedevano la penisola italiana come una meta di viaggio, per sfuggire dalla triste realtà della Polonia occupata. Ed è proprio nel contesto romantico polacco che la Polonia divenne la rappresentazione dell’Inferno di Dante, un inferno che, secondo l’interpretazione dei romantici polacchi, non si trovava più nelle viscere della terra, bensì sulla terraferma, esattamente nelle terre polacche soggiogate. La generazione dei romantici polacchi (e non solo) attinse alla Divina Commedia: reminiscenze dantesche in cui si utilizzano termini in lingua italiana si trovano in molte loro opere (basti pensare ad Adam Mickiewicz e Juliusz Slowacki). Leggere la Commedia era un modo per imparare l’italiano. Proprio in questo contesto nel 1856 venne pubblicato il primo dizionario bilingue italiano-polacco, polacco-italiano con il titolo Dokładny słownik włosko-polski, polsko-włoski. L’autore è Erazm Rykaczewski, un esule polacco che, trovatosi in Italia, aveva partecipato anche alla fallimentare Repubblica Romana. Nella seconda metà del XIX secolo nelle terre polacche occupate vennero attuate le riforme dell’insegnamento; la lingua italiana non venne inserita tra quelle straniere obbligatorie da studiare a scuola ̶ che, a seconda della zona di spartizione, erano il russo o il tedesco, più il francese e un’iniziale presenza dell’inglese ̶ ma nonostante ciò ne registriamo la presenza in alcuni licei. La situazione più favorevole per la lingua italiana si riscontrava nella Galizia austro-ungarica, anche grazie alla relativa tolleranza che vigeva in questa zona di spartizione rispetto a quelle russa e tedesca. Importante è qui il contributo dato dalle università di Leopoli e Cracovia, dove già verso la fine dell’Ottocento agli studenti di filologia romanza si offrivano corsi di italiano pratico. Sempre in Galizia veniva pubblicata la maggior parte delle grammatiche di lingua italiana per polacchi, mentre a Varsavia, viste le difficoltà che procurava la censura russa, spesso si doveva ripiegare sulla scelta di opere occidentali, tradotte poi in polacco. Nella zona di spartizione russa bisogna comunque segnalare l’importante presenza dell’insegnamento dell’italiano a Vilna e nel Liceo di Krzemieniec in Volinia.
Spesso lo studio della lingua italiana nelle università si identificava con alcune personalità concrete: a Leopoli un grande contributo alla materia venne dato da Edward Porębowicz, professore e poi rettore dell’Università Jana Kazimierza, poeta e traduttore della Divina Commedia (si tratta della prima traduzione completa in polacco) mentre a Cracovia un forte sviluppo allo studio pratico dell’italiano fu dato da Fortunato Giannini, padre scolopio di origine toscana. Il religioso sviluppò i lettorati di lingua italiana all’Università Jagellonica, facendone crescere il numero degli studenti. Giannini fu anche autore di alcune grammatiche della lingua italiana e di un dizionario bilingue italiano-polacco, polacco-italiano che ebbe una certa fortuna editoriale nella prima metà del XX secolo.
Lo studio dell’italiano continuava a essere popolare: nell’immaginario polacco l’Italia, ormai unita, continuava a essere una sorella che aveva combattuto per una causa comune, ovvero l’indipendenza dall’occupante. Il sentimento di simpatia era reciproco: bisogna infatti ricordare che agli inizi del XX secolo in Italia era sorto il Comitato Pro Polonia che raccoglieva intellettuali e politici di alto rango i quali diffondevano l’idea del ritorno a una Polonia indipendente. La questione polacca, che sembrava stare così a cuore al popolo italiano, continuava a suscitare tra i polacchi simpatie e interesse verso il Belpaese e di conseguenza anche verso l’apprendimento della lingua e lo studio della letteratura. Un altro fattore che manteneva alto l’interesse dei polacchi verso l’Italia era il viaggio. Molti polacchi benestanti vi si recavano per visitare le vestigia greche e romane, così come per rendere omaggio alle tombe di Dante e Virgilio. Il tutto assumeva anche un significato patriottico, mentre lo studio della lingua italiana presentava anche finalità pratiche.
Subito dopo l’indipendenza della Polonia (1918) a Varsavia venne creata la missione diplomatica italiana, mentre nei primi anni Venti fece la sua comparsa la Società Dante Alighieri. Il primo Comitato fu fondato a Cracovia, cui seguirono quelli di Leopoli, Vilnius, Poznań e Katowice. Negli anni Trenta queste istituzioni vennero sciolte, a Varsavia e Cracovia iniziarono la loro attività gli Istituti Italiani di Cultura, mentre nelle università polacche, affrancate dal potere dei paesi occupanti, il percorso di sviluppo dell’insegnamento della lingua italiana nell’ambito della filologia romanza continuava a grandi passi.
I primi anni del dopoguerra furono assai complessi in quanto vigeva la chiusura stalinista, ma i rapporti tra Polonia e Italia ripresero con il Disgelo. Durante gli anni Sessanta e parte degli anni Settanta del XX secolo nel paese era ancora diffuso un metodo di insegnamento dell’italiano assai tradizionale. Senza dubbio in tale contesto la chiusura dei regimi dell’Europa centro-orientale alla possibilità di espatriare per turismo, così come la mancanza di modelli d’insegnamento occidentali avevano avuto un certo peso.
In quegli anni in Polonia iniziò a diffondersi il manuale La lingua italiana per stranieri (1972) di Katerin Katerinov che sarebbe diventato uno dei testi più importanti nella didattica della lingua italiana in Polonia. Come sappiamo, lo studio di una lingua è dettato, oltre che dalla bellezza dell’idioma stesso, anche dall’importanza geopolitica di un dato paese, cui si aggiungono singoli eventi. Verso la fine degli anni Settanta, con l’elezione al soglio pontificio di Karol Wojtyła il richiamo verso l’Italia e la lingua italiana crebbe sensibilmente: agli interessi letterario e filologico si affiancò anche quello comunicativo, necessario per i molti polacchi che si recavano in Italia in pellegrinaggio.
Nel 1989, in concomitanza con l’apertura delle frontiere e del mercato, i manuali di lingua italiana per polacchi si moltiplicarono, mentre si svilupparono anche i corsi di lingua al di fuori dell’ambito scolastico e universitario.
Oggi la lingua italiana in Polonia si studia nelle seguenti università: Cracovia, Varsavia, Danzica, Breslavia, Toruń, Łodź, Stettino, Poznań, Katowice, Lublino, Zielona Góra. Cracovia e Varsavia possiedono più di un’università dove è presente il dipartimento d’italianistica, ma l’italiano viene studiato anche in altre facoltà, come ad esempio gli studi della cultura mediterranea. Inoltre, molti studenti specializzandi in altre filologie scelgono volentieri l’italiano come seconda lingua. Quindi, si può senza dubbio affermare che l’italiano come lingua studiata negli atenei polacchi se la passa piuttosto bene. Lo stesso si può affermare riguardo alla situazione nei licei: l’insegnamento dell’italiano è presente in ogni città di medie dimensioni, in alcuni casi, nelle città più grandi, si ritrova anche nelle scuole primarie. In alcune delle città più grandi del paese si registrano i primi tentativi da parte di alcune organizzazioni e fondazioni nel creare corsi di lingua italiana ̶ o incontri in cui si diffonde la lingua ̶ per i più piccoli con particolare attenzione alle famiglie miste, realtà che in Polonia negli ultimi dieci anni ha visto un sensibile incremento dovuto soprattutto all’ottimo sviluppo economico che il paese sta vivendo e alla conseguente attrattività lavorativa. Tornando ai licei, è doveroso segnalare il concorso nazionale della lingua italiana Bel paese che ogni anno si svolge a Breslavia, presso il liceo numero 9, a cui tutti gli alunni delle scuole superiori polacche in cui si studia italiano possono partecipare, dimostrando la propria conoscenza della lingua e della cultura del nostro paese.
Alcuni professori dei vari dipartimenti di italianistica di tutta la Polonia hanno anche dato il via a un’associazione, Stowarzyszenie Italianistów Polskich, Associazione degli Italianisti polacchi, che si occupa dell’ulteriore sviluppo della ricerca scientifica della lingua e letteratura italiane.
Molto importante è la presenza sul territorio delle istituzioni italiane: a Varsavia e a Cracovia è presente l’Istituto Italiano di Cultura che organizza corsi a tutti livelli. Oltre ai corsi è possibile partecipare a numerosi incontri e convegni dove si promuove la cultura italiana. Un altro sensibile contributo è dato dalla presenza delle Società Dante Alighieri con tre sedi, a Cracovia, a Breslavia e a Katowice, riattivate alcuni anni fa. Questi comitati, tramite volontariato e raccolte di fondi, organizzano conferenze, concerti e rassegne di cinema, così come corsi di lingua italiana. Sul territorio sono presenti anche le certificazioni CELI e PLIDA. La presenza di un mensile bilingue come Gazzetta Italia stimola allo studio della lingua e cultura italiane, anche perché, oltre a proporre interessanti tematiche culturali riguardanti soprattutto il Belpaese, questa rivista si presenta in una veste bilingue, ovvero con testi in lingua italiana e polacca a fronte. Tutte le istituzioni citate partecipano attivamente alla Settimana della lingua italiana, evento culturale che si celebra in tutto il mondo. Quest’anno si è giunti alla XVIII edizione, che verrà celebrata dal 15 al 21 ottobre.
Insomma, lo studio della lingua italiana in Polonia vanta una lunga storia. Abbiamo avuto modo di vedere come i motivi per iniziare o approfondire la conoscenza di questa lingua da parte dei polacchi siano stati diversi nel tempo, ma quello principale rimane sempre lo stesso: la musicalità e la bellezza.