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La Costituzione polacca del 3 maggio 1791

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“La Costituzione del 3 maggio è probabilmente il bene pubblico più puro che sia mai stato dato all’umanità”Edmund Burke

Nella storia della legislazione polacca, scriveva Stanisław Smolka, “non esiste un altro atto insignificante come la Costituzione di Maggio. La sua durata fu come un soffio: un anno solo. Essa fu soffocata nella culla. Ciò nonostante il suo ricordo incancellabile rimane molto caro; è sempre vivo e presente nell’immaginario nazionale, nonché nei cuori e nella coscienza dei polacchi.” Sono parole importanti, eppure la conoscenza delle esperienze costituzionali polacche, da parte della dottrina giuridica europea, è piuttosto scarsa. Questo è stato, ed è ancora oggi, un grande errore; la Polonia infatti è ricca di tappe importanti nel panorama giuridico, oltre che storico.

Basti ricordare che nel 1505, durante il regno degli Jagelloni, venne emanato l’atto del “Nihil Novi”, che viene considerato come “il documento che ha dato inizio al parlamentarismo polacco, e che stabiliva un principio fondamentale nell’affermazione seppur primordiale del costituzionalismo”. Secondo tale norma, una legge non poteva essere approvata dal Re senza il consenso di Camera e Senato. Nel 1574 si afferma inoltre un altro passo importante con la sottoscrizione degli “Articuli Henriciani”, dal nome di Henryk Walezy, neoproclamato Re della Rzeczpospolita Obojga Narodów, Repubblica polacco-lituana; questi articoli, nel codificare i nuovi principi di governo, stabilirono espressamente che il re non poteva più ricevere la corona su base ereditaria, ma solo in seguito a libere elezioni viritim, e si affermò altresì che fosse suo obbligo convocare il Sejm (Parlamento) almeno ogni due anni per 6 settimane. Insomma, passaggi non da poco, se li osserviamo con gli occhi del costituzionalista.

Oltre a detenere il primato temporale ponendosi come prima Costituzione scritta in Europa, nonché seconda al mondo dopo quella degli Stati Uniti del 1788, di cui “assorbe parte dei suoi principi liberali”, la Costituzione polacca del 1791 si afferma in modo del tutto particolare; potremmo dire, usando un termine latino, sui generis rispetto alle esperienze giuridiche che si susseguiranno nel resto d’Europa:  non si va a delineare come elemento di rottura (a differenza di quella francese del settembre 1791), ma si afferma in modo pacifico, pur collocandosi tra gli eventi più importanti della settecentesca fase di trasformazione dello Stato (da Ancién Regime a Stato moderno); essa è il frutto non di una guerra civile, ma di una evoluzione del sistema politico; non di una frattura rivoluzionaria, ma di un progresso culturale. La Konstytucja 3-go maja racchiudeva sia contenuti tradizionali che elementi di novità e di riforma: il passaggio dall’Unione alla monarchia costituzionale si guadagnò il nome, appunto, di “rivoluzione pacifica”; il francese Louis Bonafous sottolineava che la costituzione polacca era stata creata “senza i soldati, senza le armi, senza nessuna violenza.” Simili considerazioni esprimeva Antoine-Joseph Gorsas, che scrisse: “La Polonia è libera. E senza spargimento di sangue, ha dato vita alla più bella rivoluzione.” Anche il filosofo e scrittore britannico di origine irlandese Edmund Burke, criticando certe prassi del movimento rivoluzionario francese, annotò: “Se ci sono dei miracoli in questo secolo, uno è accaduto in Polonia.”

La particolarità di questo percorso è da intravedere anzitutto nel ceto nobiliare polacco, principale attore politico e nazionale. La peculiarità di questo ceto è infatti insolita rispetto al resto d’Europa; una studiosa come Beata Maria Pałka, a riguardo, scrive che “la nobiltà rappresentava il 10% dei polacchi, contro, ad esempio, l’1% di quella francese”. La loro posizione sociale infatti era particolarmente marcata, tanto che venne definita da più autori come “democrazia nobiliare”, e le sue ideologie di aurea libertatis influirono in maniera decisiva nel processo costituzionale, caratterizzato in primo luogo dalla tutela delle libertà acquisite dalla nobiltà; si potrebbe parafrasare, richiamando l’antico celebre motto del Re francese Luigi XIV “Lo Stato sono io” (L’Etat c’est moi), che nell’esperienza polacca la nobiltà avrebbe potuto dichiarare “Lo Stato siamo noi”. Ma la nobiltà non era l’unica a spingere verso un processo riformatore; è infatti con l’ascesa al trono polacco-lituano del re illuminista Stanislao II Augusto Poniatowski che si apre un nuovo capitolo della storia, e soprattutto una fase cruciale nella ricerca dell’identità dello Stato polacco; anni che sono denominati dalla storiografia come “il periodo delle riforme”, che andarono a interrompere il cosiddetto periodo di ristagno intellettuale denominato “notte sassone”.

I due grandi ideologi che contribuirono alla stesura furono i sacerdoti Stanisław Staszic e Hugo Kołłątaj, l’uno monarchico e l’altro repubblicano; essi andarono a teorizzare la respublica polacca non più come una mera difesa del liberum veto e dei privilegi nobiliari, ma come la delineazione di un vero governo, basato su una reale limitazione dei poteri e su una prima tutela dei diritti civili; un progresso culturale che era frutto della storia, origine di processi e di riforme antecedenti, di risvolti culturali che contribuirono a creare una stagione riformatrice di cui la Costituzione di maggio è solo l’ultimo e più alto prodotto, e che si fa strada dal 17 novembre 1789, quando il Sejm nominò una deputazione allo scopo di preparare una bozza di Costituzione.

Il ruolo principale all’interno di questo nuovo organo fu ricoperto da Ignacy Potocki. Tale progetto venne discusso con la fondamentale mediazione di un italiano, Scipione Piattoli, personaggio chiave nella mediazione politica tra le due parti, che fu definito da un eminente storico quale Aleksander Gieysztor, come “un vero e proprio tramite tra le posizioni monarchiche e quelle repubblicane, collaborando con entrambe nella stesura del progetto costituzionale”. Intorno alla Carta si formò un vero e proprio pactum di salda fede patriottica, all’insegna del motto “Il re con il popolo, il popolo con il Re”. D’altronde, già nelle considerazioni sul governo di Polonia di Rousseau del 1771, emerse un concetto romantico più che illuministico; in quest’ottica la nazione appare come un’entità storico-culturale, prima ancora che un aggregato tra classi differenti, e fu anche questo che diede vita ad una lunga fede quasi “religiosa” al testo costituzionale. Anche per ciò la Costituzione del 1791 ha svolto, pure nella storia contemporanea, un ”ruolo fondamentale nella coscienza dell’indipendenza della Polonia, che cancellata per 123 anni dalle mappe d’Europa, rimaneva salda e viva nella mente e nel cuore dei polacchi”; ne è dimostrazione il fatto che, dopo aver riacquistato l’indipendenza perduta, la Costituzione del 1921 (nel suo preambolo) fa esplicito riferimento alla Costituzione di Maggio.

Essa però venne applicata, come sappiamo, per pochissimo tempo. Nel 1792, appena 1 anno dopo, il re fu costretto ad aderire alla Konfederacja targowicka, di magnati polacchi sotto l’egida della Russia di Caterina II. Russia e Prussia imposero il ritorno delle antiche leggi e consuetudini, per poi procedere ad ulteriori spartizioni. Ma l’importanza del costituzionalismo polacco, che ha segnato l’affermazione della Nazione, resta ancora oggi nella storia europea. Emblematiche, a riguardo, le parole del nostro Giovannino Guareschi: “la voce della Polonia è un dolore dignitoso di gente usa da secoli ad essere schiacciata e a risorgere. Di gente che viene uccisa sempre ma che non muore mai. (…) Ogni cosa in Polonia, ogni gesto, ogni accento, parla della passione polacca.” Soprattutto la Costituzione.

Grande successo per i film di Kieślowski a Roma

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Lunghe code e sale piene al cinema stanno accompagnando il 14esimo festival cinematografico polacco, quest’anno dedicato a Krzysztof Kieślowski, che si sta svolgendo all’interno del Palazzo delle Esposizioni a Roma. La rassegna “Passione Kieślowski” è uno degli eventi del Festival della cultura polacca “Corso Polonia” ed è un’iniziativa dell’Istituto Polacco di Roma. I quotidiani italiani sottolineano che il regista, morto 20 anni fa, è stato uno dei più grandi e apprezzati artisti nel XX secolo grazie al suo genio e singolarità. Durante il festival saranno mostrati 40 film, compresi cortometraggi e documentari, firmati dal regista. Sabato scorso, giorno dell’inaugurazione della rassegna, era presente un’ospite speciale: l’attrice francese Irene Jacob che ha recitato in due film di Kieślowski (“La doppia vita di Veronica” e “Tre colori. Rosso”). Il 3 e 4 giugno sarà invece Jerzy Stuhr a presentare altre due pellicole del regista che lo vedono protagonista. Le serate stanno avendo un grande successo tra il pubblico. All’esterno del Palazzo si registrano lunghe code già un’ora e mezza prima dell’inizio delle proiezioni .

rp.pl

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Niccolò Paganini, il violinista del diavolo

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Niccolò Paganini (Genova 27/11/1782 – Nizza 27/5/1840). Terzogenito, nasce da Antonio Paganini e Teresa Bocciardo. Ha 2 fratelli, Carlo, anche costui violinista e Biagio, vissuto un anno appena, entrambi nati prima di lui e due sorelle, Angela e Nicoletta, entrambe, invece, più giovani. Niccolò apprende i primi rudimenti musicali da suo padre, operaio al porto di Genova, ma anche bravo chitarrista e mandolinista dilettante. Si appassiona così alla chitarra, strumento che non abbandonerà mai, approfondendone, anzi, la tecnica e la scrittura. Giovanissimo, viene affidato al musicista Giovanni Servetto e più avanti a Giacomo Costa, celeberrimo violinista. È a Genova che si esibisce per la prima volta in pubblico, assieme a suo fratello Carlo, durante le feste del carnevale 1793. Un anno dopo – e ancora l’anno successivo – sotto la guida di Costa, il giorno 26 maggio, suona di nuovo in pubblico, durante le solennità per i festeggiamenti del santo patrono nella Chiesa di San Filippo Neri. Un’altra esibizione pubblica la effettua, questa volta, in occasione della festa di Sant’Eligio, nella Chiesa di Santa Maria delle Vigne, il 1° dicembre del 1794.

Il suo primo debutto ‘in concerto presso un’accademia’, lo tiene, invece, al Teatro di Sant’Agostino, il 25 luglio del 1795. In questo periodo Paganini, intanto, si sta perfezionando in armonia e in composizione con l’operista genovese Francesco Gnecco. Due anni più tardi egli si trasferirà a Parma, ancora per consolidare la sua formazione di armonia e composizione, con il violinista Alessandro Rolla prima e con Ferdinando Paer e Gasparo Ghiretti, poi. Tornato a Genova, si reca subito dopo in Toscana, prima a Livorno, quindi a Lucca, dove il 22 gennaio del 1805 viene nominato Primo Violino della Cappella Nazionale della Repubblica. Stabilitosi presso la corte di Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, impartisce lezioni di violino. Tra il 1810 e il 1813 Paganini lavora in Lombardia e in Emilia-Romagna. A Milano entra in contatto con l’editore Giovanni Ricordi e lì stringe una durevole amicizia con Gioacchino Rossini. Il 29 ottobre del 1813 esegue, per la prima volta, l’opera “Le streghe” al Teatro alla Scala e, nel corso di oltre 20 anni, percorrerà tutta l’Italia e l’intera Europa, soggiornando a Roma, a Berlino, a Londra, a Parigi, malgrado sia estremamente cagionevole di salute per aver contratto la tubercolosi. Incorre in guai giudiziari per bancarotta e viene condannato a pagare debiti di gioco e un indennizzo per aver sedotto e, in un certo senso, rapito una giovane, sposata e per giunta, minorenne. Nel 1817 muore suo padre. Nel 1824, a Como, Paganini avvia una relazione con Antonia Bianchi, una cantante, con la quale convive per quattro anni. Nel 1825, il 22 luglio, nasce Achille Ciro suo unico figlio, ma soltanto tre anni più tardi si separa dalla sua compagna, ottenendo però dal giudice l’affidamento del bambino. Nel 1827, intanto a Roma, gli viene conferito il titolo di Cavaliere dello Speron d’Oro. Nel 1831 muore sua madre.

I primi contatti con il mondo polacco li ha nel 1810 quando compone  l’affascinante “Polacca con variazioni” e quando, nel 1818, a Piacenza, incontra il violinista Karol Lipiński. Nel 1829 finalmente si reca a Varsavia per partecipare, il 24 maggio, alla cerimonia d’incoronazione di Nicola I Re di Polonia. Lì, nel 1830 compone la straordinaria Sonata “Varsavia”. Molte personalità del mondo della musica, tra cui Federico Chopin, assisteranno ad un concerto che il musicista italiano terrà in quella capitale, dove deciderà di sostare per oltre due mesi, riscuotendo, per tutto il tempo, una infinità di successi, tanto che dovrà protrarre il suo soggiorno in Polonia ancora un altro mese, per esibirsi ancora a Breslavia, prima di raggiungere, in agosto, la meta successiva: Berlino.

Niccolò Paganini, ormai in condizioni precarie di salute, trascorre gli ultimi anni della sua vita, tra medici e, anche, tra avvocati. Nel gennaio del 1839 si reca a Genova e da lì si trasferisce a Nizza per curarsi, ma ormai senza alcuna speranza di guarire. Il 27 maggio dell’anno successivo, infatti, smette di vivere.

Però la vicenda biografica di Paganini non si concluderà con la sua scomparsa. Le autorità ecclesiastiche, a causa di un probabile malinteso tra Paganini e il sacerdote che lo ha assistito nei momenti estremi, vieteranno i suoi funerali e la sua sepoltura in terra consacrata: il grande violinista viene considerato un empio! Dopo interminabili vicissitudini, solo nel 1876 le sue spoglie mortali troveranno finalmente una collocazione definitiva nel Cimitero della Villetta di Parma.

Tra le sue opere vanno ricordate, “I Capricci per violino solo”, composti nel 1817, il “Carnevale di Venezia”, la Sonata “Napoleone”, i cinque “Concerti”, composti fra il 1816 e il 1830, “Le Streghe”, del 1813, i lavori: “Dal tuo stellato soglio”, del 1818-19, “Non più mesta”, del 1819 e “I Palpiti”, del 1819; la Sonata con variazioni “Pria ch’io l’impegno”, del 1819 e gli inni nazionali, tra cui “La Maestosa Sonata sentimentale”, del 1828; oltre alla copiosa Musica da Camera, come i “15 Quartetti per violino, viola, violoncello e chitarra”, le “37 Sonate per violino e chitarra”, del 1829 e i “43 Ghiribizzi per chitarra sola”, del 1820.

Una curiosità! Ecco come appare la figura di Niccolò Paganini, a detta del pittore Ludwig Emil Grimm in una lettera al fratello Wilhelm, riportata da Roberto Grisley: «Una persona pallida e magra, ‘stanca e sazia di vita’, con i capelli neri a ciocche e la sciarpa al collo, con l’ampia fronte contrapposta alla parte inferiore del viso sorprendentemente corta e con l’asimmetria delle due guance che sembrano confermare l’assenza di denti». E poi «Con un naso ‘non meno celebre del suo talento’», affermazione, questa, della stampa francese di allora.

POLONIA OGGI: La Storia a portata di click con Zabytek

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Il Narodowy Instytu Dziedzictwa (Istituto Nazionale del Patrimonio) ha patrocinato un servizio dove si possono ammirare on line 24mila monumenti storici in 3D. Anche su smartphone si potranno compiere tour virtuali grazie al collegamento della versione mobile con Google Maps. Zabytek è un servizio dedicato a diversi utenti come accademici, scienziati, studenti, turisti o semplici appassionati. Lo scopo principale è lo sfruttamento delle più avanzate tecnologie per offrire un nuovo modo di riflettere sul nostro passato.

Il servizio offre: descrizioni dei diversi monumenti, gallerie fotografiche e pareri di architetti e storici. Il servizio sarà molto utile per i turisti o semplici cittadini perché Zabytek riesce anche a calcolare il percorso più facile e veloce per raggiungere i luoghi di maggiore interesse per gli utenti.

culture.pl

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Dante, dalla Torre di Babele al volgare illustre

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Fra il 1303 ed il 1304 Dante Alighieri, ormai già esiliato dalla sua Firenze, sente la necessità di progettare, destinandolo ad un pubblico “specialistico”, quello dei chierici, cioè dei letterati di professione, un trattato dedicato alla “vulgari eloquentia”, cioè alla retorica in lingua volgare. E sceglie come “lingua” per discettare del volgare proprio quel latino, che – come argomenterà – non viene ritenuto una lingua-madre naturale, ma una grammatica, anzi la “gramatica” per antonomasia, inalterabile strumento convenzionale, creata artificialmente perfetta e per mezzo della quale i popoli riescono a intendersi al di sopra degli idiomi particolari, in quanto prodotto di un’alta elaborazione logica, rigidamente definito e destinato alla comunicazione dei concetti più complessi e difficili del sapere.

D’altronde, per Dante, considerare il latino una lingua non naturale significa essere in linea con l’allora comunemente accettata teoria della monogenesi di tutte le lingue del mondo, che sarebbero derivate dall’idioma di Adamo, la lingua delle Sacre Scritture, destinato a dividersi nelle varie parlate volgari plebee locali a seguito del biblico episodio della Torre di Babele. Dio, infatti, per punire il peccato di presunzione che aveva indotto l’umanità a tentare la scalata al cielo, fece obliare l’originario idioma parlato nell’Eden, stabile e non soggetto a mutamenti, dividendo, con la confusione delle lingue, il genere umano in una pluralità di gruppi linguistici ed etnici non più in grado di capirsi e di comunicare tra loro.

Dante, seguendo il mito sacro, raggruppa così l’umanità in tre diversi ceppi: uno insediato dal Danubio fino all’Inghilterra, che parla un idioma caratterizzato dalla forma affermativa “io”; un altro stabilito nelle regioni orientali e in parte dell’Asia, che parla il greco; e un ultimo stanziato nelle regioni meridionali e occidentali, che si sarebbe andato via via differenziandosi nel corso del tempo e della storia in altre aree, le cui lingue caratterizzanti erano diventate la lingua d’Oc, d’Oui e del Sì, cioè il provenzale, il francese e l’italiano.

A questo punto Dante, guardando idealmente la penisola italiana dall’alto, cioè da nord, ed utilizzando come spartiacque gli Appennini, identifica quattordici dialetti del Sě, mappandone sette a destra, quelli tirrenici, e sette a sinistra, quelli adriatici, costringendoci così a veder capovolto lo stivale geografico, rispetto alla nostra attuale abitudine a pensare l’est a destra e l’ovest a sinistra. Ma, drasticamente, il sommo poeta ritiene che nessuno di essi possa aspirare a diventare il linguaggio eletto, comune a tutti i letterati italiani; nessuno, compreso lo stesso toscano, che non era oggettivamente considerabile null’altro che “turpiloquium”, al punto da indurre a ritenere “infroniti” (dissennati) coloro che, solo perché parlanti, lo ritenevano il dialetto migliore.

Con razionale lungimiranza Dante ipotizzava che una lingua nazionale si sarebbe potuta facilmente avere in Italia solo se ci fosse stata un’unificazione nazionale, perché alla corte del sovrano unico si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro contatto quotidiano sarebbe nato un idioma che, senza identificarsi con un dialetto particolare, avrebbe ritenuto il meglio di tutti. Ma non essendo politicamente possibile pensare nella sua epoca un’unità, risultava necessario elaborare artisticamente una lingua comune, quello che lui chiamerà “il volgare illustre”, che non poteva essere il prodotto di fattori storici e naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti e letterati: una lingua, però, solo scritta, non parlata o parlata solo in ambienti molto ristretti, da persone di rango elevate.

Il volgare illustre doveva dunque diventare il prodotto di un processo di depurazione delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili. In Italia, infatti, Dante ravvisava l’esistenza di “un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, quello che è di ogni città italiana e non appare essere di nessuna, col quale i volgari tutti degli italiani sono misurati, pesati, ragguagliati”, quella lingua che egli stesso diceva di inseguire e ricercare come una “pantera” che s’aggira “per monti boschivi e pascoli d’Italia”, mandando ovunque il suo profumo, senza apparire in alcun luogo. Anche se non mancava evidentemente nell’Alighieri una implicita consapevolezza della superiorità del proprio volgare, dato che l’unico volgare illustre ch’egli intende veramente salvare, per la poesia, è quello degli stilnovisti (come Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e se stesso), definito “egregio, limpido, perfetto, urbano”.

E così, questa nuova lingua sprovincializzata avrebbe dovuto per Dante possedere le quattro caratteristiche, essere cioè illustre, dando onore e gloria a chi lo usa; cardinale, fungendo da “cardine”, attorno al quale far ruotare le minori parlate locali; aulico, risultando degno d’essere ascoltato in una corte regale, in una “aula” appunto; ed infine curiale, adatto all’uso di un’assemblea legislativa o di un senato. Un’unica corte regale e un unico senato ancora l’Italia non li aveva, però le forze intellettuali, secondo l’Alighieri, costituivano potenzialmente la curia imperialculturale d’Italia. Non solo: anche nell’uso del volgare letterario sarebbero valse le norme della retorica del tempo, distinguendosi lo stile elevato tragico (proprio della canzone) che può trattare gli argomenti più significativi (come la prodezza delle armi, l’amore e la rettitudine), dallo stile medio o comico (che si addice alla ballata e al sonetto) e da quello umile o allegorico. E con il “Convivio” prima e con la “Commedia” poi il sommo poeta darà proprio concreta prova di ciò, applicando quel che nel “De vulgari eloquentia” aveva teorizzato.

Ma forse Dante aveva visto con troppo anticipo la storia: infatti nel corso del Quattrocento si perse memoria del suo avveniristico trattato, che sopravviveva in pochissimi esemplari, e quando nel 1529 Gian Giorgio Trissino lo ripropose in una sua traduzione alla pubblica opinione molti sostennero che Dante non avrebbe mai potuto scrivere un’opera come il “De vulgari eloquentia”, accusando addirittura il Trissino di mistificazione.

POLONIA OGGI: Più di 500 studenti sosterranno l’esame di lingua italiana per la maturità

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Il 23 maggio, 227 studenti in tutta la Polonia sosterranno l’esame di italiano, livello di base, mentre 383 al livello avanzato, per la maturità. Gli studenti che svolgeranno l’esame scritto e orale per la lingua straniera propendono solitamente per inglese, tedesco o russo; meno popolari sono spagnolo, francese e italiano. L’esame è destinato non solo ai giovani studenti, ma anche alle persone che non hanno mai sostenuto la maturità o coloro che vogliono migliorare il voto ottenuto in anni precedenti.

rp.pl

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I legumi: non solo fagioli

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I legumi, grandi dimenticati dall’alimentazione moderna. Eppure quando parlo di legumi, c’è sempre qualcuno che mi dice: “Certo che mangio i fagioli, mi piacciono tantissimo nell’insalata!”.

Ma a far parte della famiglia delle leguminose non sono solo i fagioli, e tutti possono essere consumati in molti altri modi, oltre all’insalata (che a dire il vero, è il modo in cui mi piacciono di meno!). Ovviamente nelle zuppe, ma anche sottoforma di burger, polpette, addirittura in un panino e perché no, nei dolci!

Il loro consumo dovrebbe essere più frequente e anche più fantasioso. Negli ultimi anni sono diventati il simbolo della cucina povera e tradizionale, ed è un vero peccato considerando le loro proprietà nutrizionali: straordinari benefici alla salute (diete ricche di legumi sono utili ad abbassare i livelli di colesterolo e ridurre il rischio di diversi tipi di cancro), elevato contenuto di proteine di buon valore biologico (perché costituite da aminoacidi essenziali), basso indice glicemico e minima quantità di grassi (contenuti soprattutto nella soia e nell’arachide).

Ecco perché la FAO ha stabilito che il 2016 sarà l’Anno Internazionale dei legumi, definiti “semi nutrienti per un futuro sostenibile”: verranno proposte una serie di attività e progetti utili ad incentivare la conoscenza e il consumo di questi alimenti, che finalmente avranno l’attenzione che meritano!

Ce ne sono di tanti tipi, ma i più consumati sono sicuramente i fagioli borlotti e i fagioli cannellini, seguiti da i fagioli neri, rossi e dall’occhio. A seguire le lenticchie, i ceci normali e quelli neri, piselli, fave, soia. Meno conosciuti i lupini, le cicerchie e la roveja. Appartengono alle leguminose anche le arachidi, anche se normalmente sono associate alla frutta secca!

Perché sono così preziosi? Offrono una potente azione antiossidante, e sono ricchi di proteine, sali minerali, fibre e vitamine; nello specifico contengono ferro, potassio, magnesio, fosforo e vitamine del gruppo B, forniscono un importante contributo energetico e sono una buona fonte di acido folico.
I ceci in particolare sono indicati per chi è anemico e durante la gravidanza per l’apporto di ferro e calcio; fave e lenticchie hanno proprietà remineralizzanti; le lenticchie stimolano la produzione di latte; la soia è altamente proteica e contiene tutti gli aminoacidi essenziali.

È consigliabile associare sempre i legumi ai cereali, per un corretto apporto nutrizionale, poiché questi due alimenti si compensano a vicenda. Fidiamoci dei piatti popolari, come pasta e fagioli, pasta e ceci, riso e piselli!

Secchi, surgelati o in scatola? In commercio si trovano in diverse forme: freschi (solo in stagione), surgelati, precotti in barattolo o in vaso di vetro (conservati nel liquido di governo, costituito da acqua con sale e zucchero) oppure secchi.

Da un punto di vista di conservazione delle proprietà organolettiche e quindi dal valore nutrizionale, i legumi freschi sono ovviamente i migliori, seguiti da quelli surgelati, poi da quelli secchi e infine da quelli in barattolo, che si rivelano utilissimi per le “emergenze” o cene veloci!
I legumi secchi necessitano di un periodo di tempo di ammollo per ammorbidirsi e reidratarsi; quelli freschi non hanno bisogno di riposare in acqua e quelli surgelati non hanno nemmeno bisogno di essere scongelati prima della cottura.

Il lavaggio: se utilizzate i legumi secchi, prima di tutto bisogna lavarli in acqua corrente per eliminare eventuali scarti di lavorazione (frammenti di baccello, picciolo, ecc.), impurità o difetti (polvere, semi scuri, frammenti di sasso, ecc.).

Sempre riguardo i legumi secchi, l’ammollo è fondamentale per la buona riuscita della preparazione, poiché l’amido e le fibre solubili contenuti all’interno, se sottoposti direttamente al calore, reagiscono indurendosi ulteriormente, rendendoli  quindi sgradevoli da mangiare.
Il tempo varia a seconda della grandezza e della varietà del seme: poche ore per le lenticchie, fino ad una giornata per i fagioli. Nel dubbio, sempre meglio eccedere: un tempo di ammollo superiore al necessario non rovinerà i legumi, anzi.
L’acqua va utilizzata a temperatura ambiente, in una quantità pari ad almeno 3 cm sopra i legumi immersi, e non va mai riutilizzata per la cottura.
L’ideale sarebbe aggiungere un cucchiaio di bicarbonato, per renderli ancora più morbidi e digeribili.

La cottura dovrebbe essere lenta e prolungata nel tempo, a fuoco basso e con acqua abbondante (almeno 2 volte il volume dei legumi) e fredda al momento dell’immersione dei legumi.
Durante la cottura, si può aggiungere qualche foglia di alloro o salvia, per donare sapore, profumo, e renderli più digeribili evitando anche il fastidioso rischio di gonfiore e flatulenza.

A proposito di “effetti indesiderati”, se non siete abituati a mangiare spesso legumi, è bene aumentare il loro consumo gradualmente, iniziando da quelli più piccoli: mangiandoli più spesso, l’organismo si abituerà a digerirli e nel giro di breve tempo avrete risolto il problema del gonfiore!

Per conservare i principi nutritivi durante la cottura, la bollitura andrebbe trasformata in una sfumatura, togliendo il coperchio per far evaporare l’acqua. Il sistema più pratico, in alternativa, è utilizzare la pentola a pressione, che permette anche di dimezzare i tempi di preparazione.
Ricordate che il sale va aggiunto solo alla fine, per evitare che la buccia diventi dura.

E quindi ora a tavola… Ma come li prepariamo?

  • Antipasto di hummus di ceci: lessati e poi frullati con aglio, prezzemolo, sale, paprika e olio extravergine d’oliva, fino ad ottenere una crema da gustare con dei crostini di pane oppure come ripieno nelle verdure.
  • Zuppe di legumi misti, cucinati direttamente nel brodo con un trito di verdure e cereali.
  • Burger e polpette, fatti con legumi lessati e poi frullati, aggiungendo verdure miste, olive, capperi, e pangrattato fino ad ottenere la giusta consistenza. Da mangiare a tavola o dentro a un panino: ottimi quelli di lenticchie!
  • Per gli amanti dei gusti esotici, provate il Cholay: lessate i ceci aggiungendo qualche bustina di tè nero, e poi stufateli con cipolla e pomodoro.
  • E per lasciare tutti stupiti, lessate dei fagioli cannellini e poi frullateli con aggiunta di nocciole, cacao amaro in polvere, zucchero, un pizzico di latte vegetale e volendo della farina di cocco. Otterrete una morbida crema da spalmare, che non ha nulla da invidiare alla “nocciolata” più famosa in commercio!

POLONIA OGGI – Esplosione a Wroclaw: la polizia sulle tracce dei colpevoli

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Gli agenti di polizia sono alla ricerca dell’uomo che, giovedì scorso, ha posizionato una bomba su un autobus a Wroclaw. “E stata effettuata un’ispezione sulla scena del crimine e abbiamo rilevato tutte le possibili tracce utili. Le ipotesi sono diverse”, ha dichiarato Robert Tomankiewicz, capo del Dipartimento contro la criminalità organizzata e la corruzione della Procura Nazionale. Gli investigatori sono convinti che giovedì scorso, a Wroclaw, si sarebbe potuta verificare una tragedia. Se il pacchetto, lasciato sull’autobus 145 da un giovane uomo, fosse esploso le vittime sarebbero state numerose. Pertanto le autorità sono sulla pista dell’atto terroristico. L’uomo ricercato sembra essere salito sul mezzo con il pacchetto, contenente una bomba artigianale, quando l’autobus non era ancora affollato. Quando il bus si è poi riempito l’uomo è sceso rapidamente lasciando la bomba sul mezzo. Il ricercato è stato ripreso dal sistema di videosorveglianza della stazione centrale. Grazie a queste immagini la polizia è già in possesso di alcune informazioni: il soggetto è un uomo di costituzione magra, di circa 25 anni e alto 180 cm. L’autista, dopo aver notato il comportamento dell’uomo, ha buttato il pacchetto fuori dall’autobus, violando le procedure aziendali, ma salvando la vita dei passeggeri che sono rimasti illesi. Il pacchetto è poi esploso sul marciapiede senza causare feriti. L’indagine è stata avviata per i seguenti reati: tentato omicidio con l’uso di esplosivi con l’intento di creare un evento che avrebbe potuto minacciare la vita di molte persone, che comportano pene detentive fino a 10 anni.

rp.pl

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Giustizia e avanguardia sociale di Venezia

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Lungo tutto il Rinascimento, e fino al Seicento inoltrato, Venezia alimentò molto il suo stesso mito: l’emblema della città – bene in vista sulla sommità di Palazzo Ducale – è la Giustizia. La Repubblica Serenissima, caduta nel 1797 dopo quasi un millennio di storia, si identifica profondamente con l’idea di una giustizia equanime e dunque il doge diviene nell’immaginario il massimo amministratore e custode di questa Giustizia, poiché il doge è Venezia.

Il diritto vigente a Venezia era un diritto “proprio”, ossia particolare della Serenissima, per distinguerlo dal diritto comune (di derivazione romana) che, in quanto diritto dell’Impero, era considerato universale. Escludendo formalmente il diritto romano dalla propria giurisprudenza (sebbene nella sostanza ne derivasse in buona parte) i veneziani affermavano con grande forza la loro indipendenza. I giudici erano membri della classe patrizia, cui era concesso l’arbitrium in fase di giudizio, presupponendo che fossero in grado di risolvere i casi secondo equità (ovvero secondo il supremo interesse della Serenissima). Per capire lo spirito con cui la giustizia veniva amministrata a Venezia è sufficiente tradurre l’iscrizione latina che sta sopra la porta d’ingresso all’Avogaria di Palazzo Ducale: “Prima di ogni cosa indagate sempre scrupolosamente, per stabilire la verità con giustizia e chiarezza. Non condannate nessuno, se non dopo un giudizio sincero e giusto. Non giudicate nessuno in base a sospetti, ma ricercate le prove e, alla fine, pronunciate una sentenza pietosa. Non fate agli altri quel che non vorreste fosse fatto a voi”.

Il filosofo francese Saint Didier, in visita a Venezia nel corso del Seicento esclamerà, scandalizzato: “Gli inferiori sono completamente esenti da qualsiasi riguardo verso i loro superiori”. Gli farà eco Monsieur Payen, un altro francese, che sul finire di quel secolo ricordava con meraviglia in un suo libro di memorie la gran libertà che si godeva a Venezia e l’imparzialità con cui era applicata la legge: “In qualsiasi parte della Repubblica un padrone non aveva il diritto di battere il suo servo, qualunque cosa avesse commesso; poteva solo rimproverarlo, scacciarlo o denunciarlo alla giustizia. Se avveniva che un servo battesse il padrone, poteva essere assolto provando di averlo fatto per legittima difesa”.

Riprende il Saint-Didier: “Non esistono divertimenti che il Popolo non divida con la Nobiltà… Esso può unirsi a loro in qualsiasi luogo, alle feste e nelle baldorie pubbliche, senza nessun obbligo, e questi stessi Nobili non esigono dai sudditi a ogni ritrovo alcun rispetto esteriore che li metta in soggezione!”

Ancora un filosofo francese, Montesquieu, scrive che “è difficile trovare in qualunque altro luogo tanto rispetto e obbedienza verso le Autorità come a Venezia”. Più ancora dell’obbedienza, tuttavia, era l’affetto che il Governo aveva saputo ispirare. E nulla può meglio descrivere il vero clima politico che regnava a Venezia di questo grido, sfuggito al Granduca Paolo Petrowitz, figlio di Caterina di Russia, che approda a Venezia per un glorioso viaggio nel 1782: “Ma… questo popolo è UNA FAMIGLIA!”

Abolizione della tratta degli schiavi

Il primo paese a proibire la tratta degli schiavi fu la Repubblica Serenissima di Venezia nel 960, con la promissione del XXII Doge Pietro IV Candiano. La cronaca di Andrea Dandolo ci fa sapere però che un altro doge, Orso Partecipazio, già dall’876 aveva promulgato una legge che vietava di vendere, comprare, trasportare per mare schiavi o comunque prestar denaro a stranieri che esercitassero la tratta.

Il divieto di commercio non escludeva la proprietà o la schiavitù in sé, e che spesso le famiglie veneziane tenevano schiavi e schiave comprati altrove; ma il dato fondamentale è che ufficialmente, a rischio di sanzioni quali la mutilazione, la morte, la confisca dei beni e la scomunica, nessuno poteva vendere o comprare schiavi. Siamo nell’anno 960!

Bisognerà poi aspettare il 1750 perché Sebastião José de Carvalho e Melo abolisca lo schiavismo nei confronti dei nativi delle colonie portoghesi. In epoca moderna una svolta di portata mondiale nel processo di abolizione avvenne in Inghilterra, tra il 1792 e il 1807, quando il parlamento approvò lo Slave Trade Act, innescando così un processo che avrebbe portato all’abolizione da parte delle altre potenze coloniali. Nel trattato del 30 marzo 1814, concluso a Parigi tra la Francia e la Gran Bretagna, furono assunti da parte francese impegni formali di abolizione della tratta, seguiti poi da analoghi impegni da parte dei Paesi Bassi (15 giugno 1814).

Alla fine del XIX secolo, tutta l’Africa era stata spartita in colonie, e praticamente tutti i regimi coloniali avevano imposto l’abolizione della schiavitù. Nel continente africano tuttavia il commercio continuava in paesi come l’Etiopia, che lo proibì solo nel 1932. Un’altra pietra miliare fu la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, il cui articolo 4 vieta la schiavitù in tutte le sue forme. Yemen e Arabia Saudita la abolirono nel 1962. La Mauritania nel 1980 è stato l’ultimo paese ad abolire ufficialmente ogni forma di schiavitù.

Legge veneziana a tutela del lavoro minorile

10 marzo 1396, dichiarazione del Consiglio dei Quaranta: “Sempre e più frequentemente si presentano molte persone all’Ufficio della Giustizia Vecchia per chiedere di essere autorizzate a collocare fanciulli e fanciulle di ambo i sessi presso artigiani di questa città di vari mestieri ed arti. Spesso accade che i maestri aggirino il controllo legale ponendo a carico dei predetti fanciulli le imposizioni che loro aggrada, che spessissimo sono contro Dio e la sua Giustizia. Gli stessi genitori di tali ragazzi spesso non hanno alcun rispetto dei loro figli e nessuna considerazione del loro vero profitto. Il predetto nostro Ufficio della Giustizia Vecchia a unanimità dei suoi componenti fa voti che il Senato ponga un preciso divieto ai notai di rogare simili atti e patti, a tutela e difesa di quei fanciulli e per amore della Giustizia”.

Tale Legge viene perfezionata qualche anno più tardi con la seguente dichiarazione:

“E per altro nessun notaio, in qualunque modo costituto, sia per incarico imperiale che dei Veneziani, osi o presuma di intraprendere o far intraprendere in qualunque modo o stratagemma che comporti un qualsiasi utilizzo dei bambini e delle bambine in attività lavorative, di servizio o di accompagnamento” (il 25 settembre 1402).

Condizione della donna

(estratto da un articolo di Roberta De Rossi, La Nuova Venezia)

Le donne della Serenissima avevano diritti sui figli e sui propri beni personali, godevano di libertà nella vita sociale e nella gestione in proprio di attività economiche, nell’arte, nel mondo intellettuale: spazi di autonomia d’azione e pensiero che le donne degli altri stati europei non potevano neppure lontanamente sognare, tra XVI e XVIII secolo, al punto da elaborare – con Arcangela Tarabotti, Moderata Fonte, Lucrezia Marinella – uno dei primi nuclei del pensiero femminista in Italia.

Le donne veneziane avevano la possibilità di nominare i tutori dei propri figli, avevano una patria potestà che non esisteva altrove. Potevano disporre dei propri beni e dettare testamento, al punto che le norme prevedevano esplicitamente che i mariti non dovessero essere presenti alla dettatura, per non condizionarle, come hanno dimostrato studi recenti (di Anna Bellavitis). Potevano gestire caffè, negozi, attività economiche senza essere sottoposte alla tutela di un uomo. Questo è stato possibile perché Venezia era una Repubblica e non una monarchia e perché era una civiltà mercantile: un’economia dove il ruolo della famiglia era strategico, come pure quello delle donne a partire proprio dalla famiglia.

La prima donna laureata al mondo, e la prima giornalista

Il Palazzo Ca’ Loredan appartenne a lungo a un ramo della nobile famiglia dei Corner: tra le sue mura è nata e vissuta Elena Lucrezia Corner Piscopia, che conseguendo il dottorato in filosofia nel 1678 (il 25 giugno) divenne la prima donna laureata al mondo. Elena Corner conseguì la nomina nella cattedrale di Padova, gremita all’inverosimile, con una dissertazione su Aristotele. Aveva da poco compiuto i trent’anni. Schiva, modesta e timida, Elena morì giovane, a 38 anni: oltre all’italiano, conosceva il greco, il latino, l’ebraico, il francese, lo spagnolo e l’arabo, tanto da meritarsi l’appellativo di Oraculum Septilingue.

Venezia può anche vantare la prima donna giornalista e direttrice di un giornale: Elisabetta Caminer Turra, nata nel 1751, iniziò a scrivere giovanissima collaborando con il padre Domenico a “L’Europa Letteraria”. Si trasferì a Vicenza nel 1769 per sposare il naturalista Antonio Turra, e cinque anni dopo fondò “Il Giornale Enciclopedico”, uno dei principali periodici illuministi italiani. Il suo salotto divenne in quegli anni il punto di riferimento di scienziati e letterati italiani.

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POLONIA OGGI: Alto rischio di obesità tra i bambini polacchi

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Le organizzazioni dei genitori chiedevano da tempo, al governo, l’introduzione di consigli nutrizionali personalizzati. Le autorità hanno introdotto l’anno scorso uno speciale programma di educazione alimentare, che ha coinvolto le abitudini alimentari di 380 mila bambini. La percentuale di coloro che presentano un problema con l’obesità è diminuito dell’1%, scendendo al 20,9%. Si sono osservati dei cambiamenti anche nelle abitudini alimentari: è aumentato il numero di bambini che fanno colazione. mentre è diminuito quello di coloro che sgarrano mangiando tra i pasti. L’iniziativa è stata coordinata dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione nel quadro del programma denominato “Mantieni l’equilibrio”. Quest’anno, però, non vi sono fondi per la continuazione del piano. Medici e genitori chiedono quindi al governo l’istituzione di un servizio medico dedicato all’educazione nutrizionale dei bambini nei primi 3 anni di vita. I nuovi dati mostrano che nel 2025 il problema dell’obesità coinvolgerà il 18% degli uomini e il 21% delle donne polacche. Altre ricerche classificano la Polonia al 33° posto su 42 paesi per l’incidenza del problema dell’obesità nei bambini tra gli 11 e i 15 anni. Nel 2014, nel paese, il 14,8% dei bambini presentava problemi legati all’obesità.

focus.pl

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