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Home Blog Page 3

Settima edizione del Premio Gazzetta Italia 08/02/2024

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Gazzetta Italia 103 (gennaio-febbraio 2024)

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Marco Polo forever! Con il numero 103 iniziamo il 14° anno di Gazzetta col botto! Marco Polo blogger in copertina e all’interno un approfondimento dello storico Pier Alvise Zorzi, dedicato al più famoso dei viaggiatori a 700 anni dalla sua morte, ed un articolo che sottolinea la differenza culturale tra il comportarsi da viaggiatori o da turisti quando si viaggia. Ancora una volta Gazzetta vi sorprenderà offrendovi interviste con lo scenografo italiano Luigi Scoglio che lavora a Lodz, articoli sull’inventore degli spaghetti western Sergio Leone, e poi ancora raccontiamo il poco noto viaggio di Maria Sklodowski Curie in Italia, e ancora articoli su Palermo, Vercelli, l’approfondimento linguistico del professor Tucciarelli sulle comunanze linguistiche tra italiano e polacco e poi naturalmente tutte le nostre rubriche. Questo e tanto altro nel numero 103 e quindi volate negli Empik a prendere la vostra copia di Gazzetta Italia!

Apple pie

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Per la base: 

225 g di burro freddo

450 g di farina 00

100 ml di acqua ghiacciata

1 pizzico di sale

Per il ripieno:

1 kg di mele renette già pulite

100 g di zucchero

1 limone

2 cucchiai di acqua

1 cucchiaino di cannella in polvere

1 pizzico di noce moscata

Qualche noce di burro 

Latte intero per spennellare

Per guarnire:

200 g di panna fresca da montare

1 cucchiaio di zucchero semolato

2 pizzichi di cannella

Procedimento:

In planetaria o in una grande ciotola se lavorate a mano, mettete il burro freddo a pezzetti con la farina e un pizzico di sale e iniziate ad impastare. Aggiungete poco per volta l’acqua ghiacciata e continuate a lavorare l’impasto prima in planetaria e poi a mano, su un piano infarinato, per circa 10 minuti, fino ad ottenere un impasto liscio ed elastico. Coprite con pellicola e mettetelo a riposare a temperatura ambiente per circa 20 minuti. Nel frattempo occupatevi delle mele. Pulitele, sbucciatele e riducetele in quarti. Ricavatene poi delle fettine da circa 5 mm di spessore. Mettetele in ammollo in acqua fredda e succo di limone per evitare che anneriscano. In una padella antiaderente con fondo doppio mettete lo zucchero, la cannella e la noce moscata, fate sciogliere a fuoco lento, aggiungendo due cucchiai di acqua. Aggiungete anche una noce di burro morbido. Unite poi le mele a pezzetti e cuocetele per circa 5 minuti, finché non risultino croccanti fuori e morbide dentro. Fate intiepidire. Riprendete la pasta e dividetela in due parti, una più grande dell’altra. Stendetela con il matterello su un piano infarinato e ricavate una sfoglia dello spessore di 4 mm.

Stendetela dentro una tortiera dai bordi scanalati (tipica dell’Apple pie americana) imburrata, e fate aderire bene la pasta al fondo e ai bordi. 

Versate le mele tiepide, tenendo la parte centrale del ripieno più alto e abbondante, per dare la classica forma della torta americana, arricchite il ripieno con qualche fiocco di burro morbido.

Stendete anche l’altro pezzo di pasta e coprite il ripieno. Tagliate con un coltello affilato l’impasto in eccedenza e unite sui bordi i due strati di pasta pizzicandoli con le dita.

Incidete il “coperchio” di pasta con piccoli tagli a raggiera. Spennellate la superficie con il latte. 

Cuocete a 200° in forno statico per 20 minuti, spennellate di nuovo con il latte e infornate nuovamente abbassando la temperatura a 180° per circa 20 minuti, poi spennellate di nuovo e cuocete a 170° per gli ultimi 20 minuti. Spegnete il forno e fate raffreddare la torta all’interno.

Servite direttamente dentro l’apposita tortiera accompagnando la fetta di torta con panna leggermente montata aromatizzata con zucchero e cannella.

Papalina, pennette uovo e zucchine

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Ci sono molte storie su questa pasta, la più antica è quella secondo cui nel 1796, durante la campagna  di Napoleone in Italia, alcuni generali francesi furono accolti in Vaticano. Fu offerto loro di mangiare con il Papa Pio VI, ma visto che i francesi non gradivano la carne lo chef papale propose una pasta a base di uova e zucchine. Ci sono altre storie legate a questa ricetta, una risale al 1933 quando un oste romano realizzò questa pasta per il futuro Papa Clemente Pio XII che non voleva mangiare la già “famosa” Carbonara perchè troppo pesante e poco raffinata. Si può dire che è un piatto saporito ma delicato e indubbiamente aristocratico.

Per cortesia non chiamatela carbonara di zucchine, di carbonara ce n’è una sola! 

Ingredienti della mia versione per 2 persone:   

200 g di pennette rigate

2 tuorli grandi

300 g di zucchine

1 cipolla piccola

50 g provola o parmigiano

Origano, pepe nero, olio evo, burro, q.b.

Preparazione:

Tagliare la cipolla molto sottile e brasarla dolcemente in una padella con un po’ d’olio evo e burro, mettere da parte. Tagliare le zucchine a rondelle di ca. 4 mm metterle su una padella con un po’ d’olio evo e cuocere a fuoco vivace, 2-3 minuti prima della fine cottura aggiungere l’origano e il sale, mettere da parte. Nel frattempo mettete a bollire l’acqua, salate e versate  la pasta. Mettete in una ciotola i tuorli d’uovo, un pizzico di sale, il pepe a piacere e la provola o parmigiano grattugiati. Mescolare energicamente per ottenere una crema, aggiungendo un po’ di acqua di cottura della pasta. Unire la cipolla nella padella delle zucchine, accendete il fuoco molto basso, solo per intiepidire, quando la pasta sarà pronta, scolatela e mettetela nella padella con le zucchine e cipolla, mescolate delicatamente e di seguito unite la salsa d’uovo, amalgamare bene senza scaldare troppo l’uovo, impiattare, aggiungete ancora un po’ di provola grattugiata e servite.

Buon Appetito!

Venezia, il Vino e il Vetro: Una degustazione emozionale attraverso la grande pittura rinascimentale

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fot. Marta Buso

La storia della Serenissima si interseca in modo indissolubile con le culture del vino e del vetro tra vicissitudini, conquiste e commerci preziosi. Ripercorriamo le tappe di questo legame profondo, celebrandolo con un evento tra gusto, arte e bellezza nel contesto di The Venice Glass Week 2023 di cui Nexa Event&Travel Designers è partner ufficiale.

La location prescelta è un Palazzo del 1200 con affaccio sul Canal Grande; anticamente “fondaco”, luogo in cui i mercanti forestieri depositavano le loro merci e esercitavano i loro traffici. Il palazzo ospita ora il The Venice Venice Hotel dove ogni spazio, in perfetto equilibrio tra modernità e tradizione, è testimone delle tendenze più rimarchevoli nel campo dell’arte contemporanea internazionale.

Alla luce soffusa delle candele di questa cornice storica dal gusto irriverente, Nicola Sabbatini, mentore d’eccezione, cultore del vino e sommelier, ci guida in un viaggio seducente  ripercorrendo la storia del vino e le trasparenze dei suoi contenitori in vetro.

Tra il 1200 e il 1700 Venezia è il più grande mercato del vino nel mondo.

La scintilla che accende l’avventura risale agli eventi della IV crociata in cui la valenza religiosa si trasforma ben presto in sete di conquista. L’obiettivo è Costantinopoli, capitale del ricchissimo impero romano-bizantino. Venezia guida la conquista di Costantinopoli, acquista crediti nei confronti dei crociati, ed è ricompensata con isole e territori della Grecia.

In Grecia, a Monemvasia (in greco “porto con una sola uscita”) parola in seguito storpiata dai veneziani in “Malvasia”, viene scoperto un vino dolce, intenso, pregiato e adatto al trasporto via mare. Da quel momento tutti i vini che arrivano a Venezia e provengono dall’Oriente, sono chiamati Malvasie; sono vini leggendari, legati a storie affascinati, pregiati, ricercati e costosi. Diventano l’oro liquido della Serenissima. Venezia è capitale mondiale del vino, ed esporta il nettare “navigato” nelle corti di tutta Europa. 

Contemporaneamente, e sempre a seguito dei commerci con l’Oriente, Venezia è una delle poche città in cui si fa uso del vetro sulle tavole della nobiltà mercantile. Nell’isola di Murano, a partire dal 1300, si cominciano a produrre manufatti in vetro. Ma è a seguito del lavoro di Angelo Barovier, nella seconda metà del ‘400, che il vetro, reso non solo trasparente, ma addirittura cristallino, diventa di moda sulle tavole dei ricchi commercianti veneziani.   

fot. Marta Buso

Questo mutamento si nota nei dipinti della scuola veneziana del 1500; d’un tratto è possibile ammirare il colore, la trasparenza e la luminosità del vino attraverso i calici cristallini di squisita fattura, prodotti a Murano. A testimonianza di quanto ormai sia di moda il vetro nelle tavole e nei banchetti del Rinascimento, troviamo i calici trasparenti nella Cena in Emmaus del Tiziano, nel Convito in Casa Levi del Veronese, nell’Ultima Cena del Tintoretto, e anche Caravaggio, (sul finire del secolo) nel suo celebre Bacco, dipinge una squisita coppa troncoconica, di chiara fattura veneziana. Questo significa che anche a Roma, dove il Caravaggio all’epoca operava, si degusta “alla moda di Venezia”. 

Attraverso i dipinti di questi grandi maestri abbiamo intrapreso un percorso inesplorato, con la degustazione di quattro vini provenienti da cantine d’eccezione. Il percorso, fluido ed emozionale, è iniziato con il Durello dei Monti Lessini Borgo Rocca Sveva, proseguendo con il Malvasia Venica&Venica e il Venusa Venissa, per concludersi con il Raboso del Castello di Roncade. Durante la narrazione, abbiamo gustato i signature bites della cucina, ispirati alla tradizione veneziana con un twist innovativo: sposalizio perfetto. 

Un’esperienza unica, divertente e utile, un evento lungo un tramonto, che, quasi come un sogno, è svanito quando le ultime luci del giorno hanno lasciato spazio alla notte.

fot. Marta Buso

I falsi amici della dieta

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In linguistica, i falsi amici sono le parole o le espressioni che, in due differenti lingue, appaiono quasi uguali per grafia o pronuncia, ma a dispetto di ciò hanno un significato molto diverso. Termini ingannevoli, fonte di malintesi e momenti più o meno imbarazzanti, presenti anche tra italiano e polacco. Qualche esempio a tema alimentazione? 

Il termine italiano panna in polacco significa signorina. Presente in entrambe le lingue anche la parola cena, solo che in polacco ha il significato di prezzo, mentre il pasto serale si traduce con kolacja, a sua volta simile al nostro colazione che si traduce invece con śniadanie. 

Anche nell’alimentazione ci possono essere molti falsi amici. Si tratta di quei cibi che siamo convinti che facciano bene e magari che facciano anche dimagrire, mentre al contrario sono poco salutari o comunque sono ipercalorici e per niente dietetici. Ma da dove arrivano le nostre convinzioni errate? A volte da luoghi comuni, da leggende metropolitane, ma il più delle volte da efficaci strategie di marketing che fanno leva sul desiderio più diffuso: quello di stare bene ed essere magri. Questi falsi amici dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che è necessario imparare ad acquistare e mangiare con maggiore consapevolezza. 

Cominciamo dalla colazione: granola, muesli, corn flakes. Li chiamiamo comunemente cereali, ma spesso contengono davvero molti, troppi zuccheri semplici, grassi e conservanti. Nel migliore dei casi gli eccessi derivano da frutta secca e disidratata, ma il più delle volte sono arricchiti da zuccheri aggiunti (presenti anche come sciroppo di riso o di glucosio) per rendere il prodotto più goloso. Al loro posto si possono scegliere dei cereali soffiati: ad esempio riso, farro, miglio, grano saraceno. Volendo aggiungere una nota croccante e golosa, la colazione può essere arricchita da frutta secca oleosa in quantità adatta al proprio fabbisogno calorico, e scaglie di cioccolato fondente con alta percentuale di cacao. 

Ma la frutta disidratata non è salutare? Se non ci sono zuccheri aggiunti, in effetti lo è, ma è anche ipercalorica. A pari quantità di alimento, ad esempio, le albicocche disidratate apportano 5 volte più calorie rispetto a quelle fresche, e sono prive di vitamine e ovviamente di acqua, quindi non danno senso di sazietà. Avremo la sensazione di aver fatto una merenda sana, e dopo un’ora avremo fame più di prima. 

Anche centrifughe ed estratti non possono essere considerati un buon sostituto della frutta fresca, e andrebbero consumati con moderazione. Anche senza l’aggiunta di edulcoranti, il succo 100% frutta contiene tutti gli zuccheri dei frutti da cui è ricavato: in media, una porzione di 200 ml contiene 24 grammi di zucchero, pari a 6 bustine in un solo bicchiere! La frutta fresca inoltre è ricca di fibre, che nutre il microbiota intestinale, e ci costringe alla masticazione che induce il senso di sazietà. 

Sempre per quanto riguarda colazione e merenda, anche lo yogurt può essere un falso amico. Considerato l’alimento sano per eccellenza, uno yogurt alla frutta può contenere anche 13 grammi di zucchero (più di 3 bustine). La soluzione è sempre quella di leggere l’etichetta: i prodotti a basso contenuto di grassi saturi e di zuccheri semplici possono essere considerati di buona qualità. 

In generale tutti i prodotti con la scritta light dovrebbero destare la nostra attenzione: spesso si tratta di alimenti con ridotto contenuto di grassi, ma ricchi di zuccheri, edulcoranti, additivi. Scelta dettata dal fatto che i prodotti devono comunque essere resi gustosi. Anche se ipocalorici, possono essere poco sazianti, e indurci a ricercare altri spuntini. 

Falsi amici sono anche crackers e gallette di riso. Di solito consumati al posto del pane, nella convinzione che siano meno calorici. In realtà, contengono una maggiore quantità di carboidrati (quindi zuccheri) e di grassi. E diciamocelo: sono anche meno buoni! Il pane non è un nemico: basta consumarlo in quantità moderata, adatta al proprio stile di vita, meglio ancora se integrale per aumentare l’apporto di fibra. 

Infine, anche un alimento che lascerà molte persone stupite: l’olio d’oliva. Ha un ottimo equilibrio di grassi, contiene antiossidanti e vitamine e certamente non può essere considerato un alimento poco salubre. Il problema è che il culto della dieta Mediterranea, pur facente parte del Patrimonio Immateriale dell’UNESCO, con l’adattamento alla vita moderna ha portato a degli eccessi. Tra questi ci sono i grassi: in una dieta equilibrata dovrebbero rappresentare il 25-30% delle calorie totali, ma nella dieta moderna superano facilmente il 50%. Ecco perché anche l’olio d’oliva, per quanto salutare, va consumato in quantità ridotte: la dose consigliata per una persona normopeso è di 3-4 cucchiai al giorno, compreso ovviamente quello utilizzato per cucinare. 

Spero che la vostra alimentazione non conosca molti falsi amici. E ora che sapete a cosa prestare attenzione, vi auguro una buona colazione e una ancora migliore kolacja!

Italia ospite d’onore alla Fiera Internazionale del libro di Varsavia 2024

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È stata siglata oggi (16.01.2024) presso l’Ambasciata d’Italia a Varsavia l’intesa che vede, per la prima volta, la partecipazione dell’Italia come paese ospite d’onore alla Fiera Internazionale del Libro di Varsavia, in programma presso il Palazzo della Cultura e della Scienza dal 23 al 26 maggio 2024. L’intesa è stata sottoscritta per parte italiana da S.E. Luca Franchetti Pardo, Ambasciatore d’Italia a Varsavia, e, per parte polacca, da Waldemar Michalski e Jacek Oryl, rispettivamente Presidente e Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Storia e Cultura”, organizzatrice della Fiera.

La Fiera del Libro è un evento centrale nel calendario culturale della capitale polacca, e riunisce numerosi espositori provenienti dalla Polonia e da diversi Paesi del mondo.

L’Italia sarà al centro dell’edizione di quest’anno con una ricca serie di eventi, tra presentazioni di libri, incontri con gli autori e incontri tra operatori del settore: un’ottima occasione di conoscenza e promozione per il mondo editoriale italiano in Polonia. Come sottolineato dall’Amb. Franchetti Pardo “La fiera del libro di Varsavia, che quest’anno vedrà l’Italia quale ospite d’onore, rappresenterà una straordinaria opportunità per l’editoria italiana di promuoversi in un mercato di 40 milioni di abitanti che, come ho potuto sperimentare in diverse occasioni, nutre un profondo e sincero interesse, quasi “un’avidità”, verso la cultura italiana nelle sue varie manifestazioni”.

Il progetto della partecipazione italiana è reso possibile grazie alla collaborazione e al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, del Ministero della Cultura (Centro per il libro e la lettura -CEPELL) dell’Agenzia ICE e dell’Associazione Italiana Editori e coordinato, in Polonia, dall’Ambasciata d’Italia, dall’Istituto Italiano di Cultura e dall’Ufficio ICE di Varsavia.

Anna Ziaja – casa polacca, casa italiana

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traduzione it: Sara Kmak

Anna Ziaja nel 1979, si è laureata con lode presso la Facoltà di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia con diplomi in pittura, presso lo studio del prof. Jacek Sienicki, e arti grafiche, nello studio del prof. Andrzej Rudziński. Da 46 anni divide la sua vita tra la sua casa in Polonia e l’Italia. L’album “Anna Ziaja. W pełnym świetle / In piena luce, paintings 1980-2020” in polacco, italiano e inglese è appena arrivato sul mercato. 

I titoli delle sue opere si riferiscono chiaramente all’Italia?

La luce dell’Europa meridionale mi ha formato come artista e mi ha fatto capire cosa è più importante nell’arte. Ritorno a visitare luoghi in Italia che ho già visto perchè una volta ero impotente davanti all’arte dei grandi maestri, solo oggi capisco davvero i loro risultati creativi. Un luogo di visite frequenti è la Galleria Estense di Modena e sebbene non sia il museo più famoso d’Italia, le opere di Guercino, Cosme Tura, Guido Reni e il famoso Trittico di Modena di El Greco esposte sono state e sono tuttora per me un punto di riferimento per il mio pensiero sulla pittura. Una grande bottega di artisti sensibili che sono stati l’humus delle più importanti realizzazioni dell’arte italiana. È in questi luoghi che puoi vedere gli standard che i nostri predecessori hanno stabilito e io continuo ad esplorare questa conoscenza inestimabile. 

Com’è iniziata la sua avventura italiana?

Sono stata portata in Italia dalla passione per i film di Bernardo Bertolucci, per capirlo bene bisogna immaginare l’atmosfera di quei tempi e scoprire il suo affresco cinematografico “Novecento”. Sono arrivata a Modena nel 1976, subito dopo il terremoto in Friuli-Venezia Giulia, e nel cuore della notte ho visto scene come quelle di un film di Bertolucci! Mi sono innamorata di questa terra. Così l’Emilia è diventata il “mio” luogo dove vivere. Vivo a Modena da 46 anni, unendo il meglio della sensibilità italo-polacca. Entrambi questi mondi si integrano a vicenda e completano il mio percorso artistico.

La sua casa “italiana” è qui.

Rimango nella casa e nello studio estivo circa 6-7 mesi all’anno, posso farlo perché i miei figli hanno completato l’istruzione obbligatoria. Dopo mesi trascorsi a Varsavia, è qui che prendo le distanze e ricarico le batterie, così che poi con nuova energia, inizio la successiva fase di lavoro e lo sviluppo di nuove idee. In Italia guardo e leggo i miei maestri sempre più consapevolmente. E come fa ogni artista, lavoro sui miei strumenti di espressione artistica. Ho sempre cercato di mantenere il meglio delle tradizioni polacche e italiane, in modo che i miei figli conoscessero bene entrambe le culture. A Varsavia, tutto il mio ambiente è subordinato alle esigenze dello studio, ho assolutamente tutto ciò che è necessario per il lavoro creativo. Adoro questo casino! È un posto così stimolante. Quasi tutte le mie idee per le prossime tele nascono lì.

Con chi crea questa “casa italiana”?

Con mio marito Giorgio. Ci siamo incontrati a Rimini. Ero lì per una specie di “en plein air” subito dopo il primo anno di studio. Affascinata dal paesaggio, ho abbozzato tutto quello che potevo, spiagge piene di gente in pose bizzarre, che si muovevano davanti a me come in una cornice cinematografica, il mare e la pineta intorno a Rimini (chi ci è stato, sa di cosa sto parlando). È stato amore a prima vista. Mio marito è la mia forza nei momenti di dubbio e mi aiuta molto. Io curo la creatività e lui si occupa di tutta la logistica e della documentazione. Gli devo molto.

Nel 1980, subito dopo la laurea, ha avuto la sua mostra d’esordio a Roma.

Sì, ma anche se ho trascorso molto tempo lì, specialmente i viaggi di studio durante i miei giorni da studente, non è stata Roma a formarmi. Sono stata maggiormente influenzata dai soggiorni a Milano, Ferrara, Firenze e Mantova, Arezzo, Sansepolcro e persino a Castiglione Olona, un piccolo paese vicino a Varese, dove c’è un bellissimo Battistero con affreschi di Masolino da Panicale. Rimasi incantata di fronte a questo bellissimo mondo ispirato dall’immaginazione dell’artista. I miei maestri sono anche: Piero della Francesca, Masaccio o Domenico Ghirlandaio e maestri veneziani come Vittore Carpaccio o Giovanni Bellini. Una rivoluzione nel mio pensiero sull’essenza della pittura e dell’arte in generale è stata anche la mostra retrospettiva dei dipinti di Balthus (Balthasar Klossowski de Rola), che ho visto a Venezia in occasione della Biennale del 1984. Nelle opere di questi giganti dell’arte è racchiuso ciò che mi interessa della pittura. Attenzione al mondo che ci circonda, espressa ogni volta con i nostri strumenti e la nostra sensibilità.

Nei suoi dipinti ci sono echi della fascinazione per l’opera di Pablo Picasso, per il romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust e per il realismo magico della letteratura iberoamericana?

L’intransigenza di Picasso mi ha sempre affascinato, e il suo “trovare” piuttosto che “cercare” come diceva lui è diventato per me un approccio importante al processo creativo. Nel romanzo di Proust, invece, sono più incuriosita dalle descrizioni dei dettagli della vita quotidiana e delle relazioni tra i personaggi, che costruiscono l’intera atmosfera. Il mondo intorno per me è sempre stato un’ottima scusa per costruire la struttura della tela e lo spazio pittorico. La pittura è un’arte non ovvia, non letterale, ma magica. La mano del maestro fa emergere l’opera dal profondo della propria immaginazione e mostra al mondo una nuova versione del talento, che nel tempo cambia, creando un nuovo linguaggio espressivo, che è il segno distintivo di ogni grande artista.

In una delle interviste ha detto: “In effetti, nessuna comprensione tra le persone è possibile”.

Questo è quello che penso, perché ho l’impressione, guardando gli eventi attuali, che le persone non siano più d’accordo tra loro su nulla. Ci stiamo allontanando sempre di più gli uni dagli altri. Non siamo più curiosi l’uno dell’altro, ma cerchiamo comunque di stabilire contatti che possano proteggere ognuno di noi dal sentirsi soli. Guardo queste relazioni mentre tengo il mio diario interiore e voglio parlarne nella mia pittura, voglio far parlare il bel linguaggio della tavolozza dei colori, l’amore per gli animali e la natura, dove l’armonia di tutti questi elementi dà tregua al cuore tormentato dell’osservatore. Preferisco questo volto migliore dell’uomo e posso esprimerlo solo attraverso metafore e riferimenti a codici culturali noti a noi tutti. Ho dedicato la mia vita alla pittura e non me ne pento.

Lei viene definita colorista, perché nei suoi dipinti cani, cavalli, uccelli sono astrattamente colorati, viola, arancione, blu.

Questo è un grande complimento e vorrei ringraziare tutti coloro che la pensano così. Aderisco anche al principio, seguendo Emil Bernard, che prima che qualcosa diventi un elemento dell’immagine che si sta costruendo, è prima di tutto una macchia colorata che decide e determina tutto il resto. Amo la luce e il colore visto in tutta la sua brillantezza, il più puro possibile e capace di esprimere emozioni. Un colore che non lascia indifferente lo spettatore.

 Il fascino contemporaneo della maschera

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Padovano, “teatrista” dal 1993, Andrea Pennacchi è autore e regista di opere tra le quali “Eroi”, “Mio padre – appunti sulla guerra civile”, “Una Piccola Odissea”. Coprotagonista della serie “Petra” per Sky e “Tutto chiede salvezza” per Netflix (vincendo il Nastro d’Argento), ha recitato in diversi film tra cui “Io sono Li” e “Welcome Venice”, entrambi per la regia di Andrea Segre, ne “La sedia della felicità” a firma di Carlo Mazzacurati e in “Suburra” diretto da Stefano Sollima.

Nel 2018 recita l’ormai celebre monologo “This is Racism – Ciao terroni”, grazie al quale viene invitato come ospite fisso a Propaganda Live (La7) e conquista il grande pubblico con la sua ironia pungente. Ha pubblicato “Pojana e i suoi fratelli”, “La guerra dei Bepi”, “La storia infinita del Pojanistan” (People, 2020 e 2021), e il recente “Shakespeare and me” (People, 2022). Attore e autore di spessore (con respiro internazionale) e capace di una disarmante schiettezza, Pennacchi è oggi uno dei volti più apprezzati del teatro e del cinema italiano, aggiungendo un pizzico di intelligenza anche alla televisione.

Andrea, come si inserisce il teatro italiano sulla scena europea?

Vedo un forte scambio a livello di formazione. Ci sono iniziative europee molto belle che portano a relazioni interessanti, soprattutto con l’Europa orientale. I grandi movimenti e i progetti condivisi di teatro di ricerca o di innovazione li vedo più fermi, mentre c’è una buona “esportazione” di Commedia dell’Arte e di abilità circensi, rispetto alle quali però c’è uno scambio con altri paesi che vantano una scuola di tradizione. Invece la Commedia è un patrimonio che portiamo nel mondo, perché lavorando sulle maschere, anche nella sua espressione più intellettuale o filologica, comunque rappresenta un esperimento interessante. È allo stesso tempo un teatro molto arcaico e molto pop. E poi lavorare sulla Commedia dell’Arte è affascinante perché deve per forza funzionare qui e ora. Ecco perché – tornando alla formazione – ci sono molti giovani europei che vengono in Italia soprattutto per studiare quella che è la nostra specialità.

Come si costruisce invece una maschera contemporanea? 

Nella mia esperienza la maschera è una cosa che viene da te. Ovviamente non parliamo di Pantalone, Arlecchino e delle maschere della tradizione, che devi studiare per costruire la tua professionalità attoriale.

Parliamo invece di “maschere” come Fantozzi o come il tuo Pojana…?

Esatto. Fantozzi (per parlare di quello più famoso) è una cosa che viene da te e dopo un po’ ti accorgi che quel personaggio divertente che hai creato in realtà ha una profondità superiore rispetto alla macchietta o alla battuta da cabaret. È un’espressione che affonda le sue radici in una società e ne svela i lati oscuri. Improvvisamente ti accorgi che hai una maschera che funziona. Lo stesso è accaduto con Pojana. Franco Ford detto Pojana era nato nel 2014. Era il ricco padroncino di un mio adattamento delle “Allegre comari di Windsor” ambientato in Veneto, con tutte le sue fisse: le armi, i schei e le tasse, i neri, il nero. La prima evoluzione deriva dalla proposta della banda di Propaganda Live, che l’ha voluto sul palco in Tv. Ecco, da allora continua ad evolversi, si adatta a un presente che non manca di offrire spunti tragicomici.

Dove stanno le radici?

Volendo trovare una traccia comune nella tradizione della maschera, si torna ai drammi sacri di prima della controriforma, nei quali i dèmoni in scena vestivano grandi mascheroni da demone, appunto, e facevano ridere e spaventavano, ma dicendo delle grandi verità. La gente li ascoltava ed era la parte “creativa” di un culto. Lo stesso accade adesso: ci sono maschere, ogni tanto anche in televisione, che non sono la macchietta nata per far ridere o un personaggio superficiale, ma ti dicono: ‘sto parlando anche di te’. Come artista, con le mie maschere scelgo di parlare dei problemi e della nostra società e di riderne in maniera condivisa, nella speranza che poi qualcuno risolva anche questi problemi…

Tu hai detto che il Pojana è un demone di basso rango, non è potente, e allo stesso tempo che non è meschino ma ha una sua dignità. Cosa intendi?

Quando lo definisco un demone intendo che non è un uomo piccolo, come ce ne sono tanti. Ha una sua grandiosità, una sua cosmologia e una sua filosofia anche. Però è uno di quei piccoli demoni interessati a uscire dall’inferno più possibile, a stare meglio possibile, a tentare gli esseri umani per acquisire più energia. E alla fine gli interessano ‘sti umani, anche se in maniera negativa. Ecco, questo vale anche per il Pojana: non è cattivo, ma è chiuso dentro il suo mondo. Non è vero che questo lo renda piccolo, lo rende prigioniero dei propri stereotipi e probabilmente se fosse libero sarebbe più grande.

Pennacchi in Europa. Qual è stato e qual è oggi il tuo rapporto con questa grande casa che ci accomuna?

Io sono profondamente europeo. Tanto che, ad esempio, la Gran Bretagna a me manca e mi dispiace che siano andati via, perché in fondo sono un po’ come quei cugini che ti fanno arrabbiare ma poi ti mancano. Per me un’Europa forte e unita anche culturalmente sarebbe un elemento di salvezza mondiale. A livello culturale c’è una ricchezza infinita, perché ogni singolo paese d’Europa ha qualcosa di comprensibilmente e visibilmente europeo e però con delle peculiarità che lo rendono unico, come accade per il teatro o il cibo. Tutti hanno qualcosa da dare di arricchente e io mi sono nutrito di tutte queste cose, per cui mi piacerebbe riprendere a viaggiare attraverso il vecchio continente come ho fatto quando ero più giovane. Sono appassionato di letteratura e di parole da ogni territorio e da ogni tradizione. Peraltro ho avuto la fortuna di abitare a Praga per un periodo e di conoscere autori della parte orientale dell’Europa.

Esistono esperienze o legami con la Polonia?

In realtà non ho esperienze specifiche, non ci sono mai stato. Ho un carissimo amico d’infanzia che ora vive e lavora a Cracovia; ogni tanto mi invia foto molto belle e spero di riuscire prima o poi a raggiungerlo.

Parlando di Polonia e formazione teatrale non possiamo non citare Jerzy Grotowski…

Certo, però negli anni in cui Grotowski era al culmine del suo percorso lavorativo non c’ero. Ho invece avuto la fortuna di essere invitato al suo Workcenter di Pontedera e lì ho visto una delle cose più raffinate e più toccanti di cui ho fatto esperienza nella mia vita. Solo che non era teatro, perché ormai la sperimentazione dell’ultimo Grotowski andava verso dinamiche simili a un culto. Il percorso di ricerca era più simile a quello dei dervisci, avvicinandosi dunque a una forma di contemplazione mistica e quasi religiosa, ma aveva completamente perso la dimensione teatrale cioè non era più rivolta verso un pubblico. Eppure per me è stata un’occasione molto importante, perché ho capito che il teatro poteva avere anche quella profondità lì e di questo sono molto grato a Grotowski. Lavorando nel teatro, infatti, impari che si deve aver a che fare con i biglietti e i borderò e la burocrazia, ma non si può non avere a che fare con lo spirito, con l’anima, altrimenti il teatro diventa cose che uno dice su un palco. Invece il teatro è una cosa sacra e questo non lo dimenticherò mai.

In questo scenario come si colloca il tuo lavoro su Shakespeare?

Per me Shakespeare, sul quale sto lavorando in questo momento, rappresenta un grande collante per l’Europa. Nel suo percorso autoriale ha incontrato tutti i grandi fermenti che hanno reso importante il vecchio continente nel Seicento, ha preso i fermenti artistici e gli insegnamenti dei grandi pensatori, portandoli nei suoi testi. Sono fermenti che ancora agitano questo continente e infatti il mio sogno sarebbe fare uno spettacolo a partire da Shakespeare e portarlo in giro per l’Europa… per esempio in Polonia. (ride)

E poi torniamo a Omero che ha gettato le fondamenta…

Senza Omero non c’era Shakespeare, senza Omero non c’è l’Europa. Ne sono convinto, non lo dico per vezzo. Per secoli il curriculum base di tutti gli intellettuali erano i poemi omerici. Sì, poi c’è l’Eneide (che è una sorta di bignami…) ma alla fine tutto torna all’Iliade e all’Odissea.