
Sebastiano Giorgi e Agata Pachucy
Varsavia 17 giugno 2025
Il Premio Strega è un riconoscimento importante per la letteratura italiana. Cosa significa per voi essere finalisti in questo momento della vostra carriera?
Andrea Bajani: “Credo che chiunque cominci a scrivere senta il bisogno di esprimersi rifacendosi a dei modelli, ecco quei modelli a cui rifarsi in Italia li offre il Premio Strega. Vivo negli USA dove la cultura è relegata nei campus universitari e in certi ristretti circoli della borghesia, in Italia per fortuna ci sono iniziative come il Premio Strega che rendono popolare la letteratura anche tra chi non legge o tra i lettori occasionali. Magari un bambino si imbatte alla televisione sul vincitore del Premio Strega e sogna “ah anch’io vorrei essere un giorno come lui”. Aggiungo che lo Strega Tour da un lato, andando in giro a parlare dei nostri libri, affina incontro dopo incontro il nostro modo di proporci e dall’altro è per me una occasione di portare in giro complessità al posto della superficialità, storie al posto di minacce di guerra o di dazi”.
Paolo Nori: “Per me è una cosa singolare. Pubblico libri dal 1999, quindi sono 26 anni, e negli ultimi anni ho fatto parte della cinquina del Premio Campiello e adesso della cinquina dello Strega. Non ero mai stato neanche in dozzina. È stata una sorpresa, quando me l’hanno chiesto non ci pensavo. Io ci metto del tempo a capire le cose, quindi se mi fai questa domanda tra due anni ti darò una risposta bella, intelligente”.
Elisabetta Rasy: “Intanto c’è il piacere e l’onore di contribuire alla diffusione della lettura ed in particolare di opere di autori che alla letteratura dedicano il massimo impegno. Personalmente è poi una bella esperienza umana, sia la preselezione che poi con i finalisti sono state occasioni per fare amicizia e scambiare idee sulla letteratura. Frequentazioni che penso ci abbiano aiutati tutti anche a capire meglio il nostro lavoro sentendo parlare gli altri, all’inizio eravamo un po’ legnosi poi lo stare insieme ci ha aiutato ad approfondire ed esporre meglio quello che abbiamo dentro è stata una esperienza molto stimolante”.
Michele Ruol: “Per me è una grande sorpresa, perché questo è il primo romanzo che pubblico uscito con una casa editrice piccola, indipendente, che non era mai arrivata in cinquina. C’è molto stupore da una parte, gratitudine dall’altra per chi ha creduto, mi ha sostenuto e dato questa possibilità. È anche un’occasione per esplorare un mondo effettivamente nuovo che non conosco e ricco di incontri sia con gli altri scrittori, sia della cinquina che della dozzina, sia con i lettori. Lo Strega Tour ci sta portando anche in molti luoghi dove non ero mai stato come Varsavia. Anche questo è molto bello, incontrare persone, scoprire luoghi, parlare di libri, un’esperienza molto arricchente”.
Nadia Terranova: “È la seconda volta che sono finalista al premio Strega. Era successo sei anni fa con il mio secondo romanzo. All’epoca era tutto nuovo, inaspettato e quindi c’era un certo tipo di emozione che veniva dalla novità. Era una edizione turbolenta, non nel senso che andassero male le cose tra noi, si va sempre molto d’accordo, nel senso che c’erano molte novità in quella cinquina, anche editoriali, eravamo due libri dello stesso editore per la prima volta. Ovviamente quest’anno una parte di me conosceva un po’ le regole di ingaggio, ma nonostante questo c’è stata molta sorpresa nella scoperta di alcuni dei finalisti e dei semifinalisti, quindi qualcuno della dozzina che non è arrivato fino alla cinquina ma con cui comunque abbiamo condiviso un pezzo di strada. Alla fine la cosa più bella del Premio per me è sempre quella: conoscere degli scrittori e trovarne magari qualcuno che è anche affine al mio modo di vivere, di vedere le cose. Oppure è completamente diverso, ma mi incuriosisce per quello”.
L’incontro con il pubblico polacco offre uno sguardo “altro” sulla vostra opera. C’è qualcosa che sperate di ricevere o scoprire nel dialogo con lettori non italiani? Quale aspetto del vostro libro pensate possa parlare anche a un pubblico internazionale, come quello che vi accoglie qui in Polonia?
Andrea Bajani: “L’internazionalizzazione è un tema che ho a cuore, ho una formazione cosmopolita, ho vissuto a Parigi, Berlino, Amsterdam ed ora negli USA il mio nutrimento letterario è in qualche misura una nazione di letteratura che contiene Gombrovicz, Celine, Falkner, Tolstoj, Cechov, autori che trattano la condizione umana e non il luogo in cui questa si esprime. Il mio libro “Anniversario” tocca il tabù di un figlio che celebra i dieci anni di abbandono dei genitori come gli anni più belli della sua vita. Libro già acquistato in 25 paesi con diverse reazioni tra paesi cattolici, dove ha suscitato maggiore scandalo e curiosità, e protestanti”.
Paolo Nori: “Io cerco di non sperare mai. Io stimo molto, come sentimento, la disperazione, il fatto di non prevedere niente. Sono un appassionato di letteratura russa e mi piace molto l’Est, la Russia in particolare. Mi piace anche la Polonia. Sono stato a Cracovia sette volte, sono stato ad Auschwitz, è un posto che mi piace. Mi piace l’odore che c’è qua. L’est a me mi attira molto più dell’ovest. Posso fare a meno dell’America e lei può fare a meno di me, immagino. Mi piace anche il modo in cui i polacchi si muovono in giro per strada, sembrano persone serie. Però è difficile capire cosa succederà. Delle volte uno ha delle aspettative e non succede niente, delle volte invece hai degli incontri memorabili. Ho fatto tante presentazioni quando ho cominciato, me ne ricordo una a Sassari dove c’erano tre persone. Dopo 20 anni ho incontrato una signora che ha partecipato a questa presentazione e mi ha detto: io ero una di quelle tre persone, è stato memorabile, è stato un momento bellissimo. Però prima non possiamo saperlo, chissà, anche qui oggi cosa succede? Ma devi chiedermelo tra qualche anno… Quale parte del mio libro può parlare ad un pubblico internazionale? Tutto il mio libro. Io provo a scrivere i libri per tutti. Ho scritto prima un libro su Dostoevskij qualche anno fa, nel 2021, e l’ho regalato alla mia commercialista. E lei mi ha detto: “non ho mai letto Dostoevskij”. E io ho detto: “Roberta, è un libro per te”. Perché non è un libro per specialisti, io non sono uno specialista ma un appassionato. Quindi chi condivide la passione per la letteratura, forse, può condividere anche la passione per Raffaello Baldini, protagonista del mio libro, che i polacchi non conoscono tanto, purtroppo, per loro”.
Elisabetta Rasy: “La capacità di rivolgersi e di raggiungere chiunque è il grande mistero della letteratura. Leggi Szymborska che parla del gatto e pensi che parli del tuo gatto. Noi non portiamo storie dell’Italia ma storie di condizioni umane che credo i lettori di ogni Paese possano sentire vicine. La Szymborska, che ho avuto la fortuna di conoscere, rendeva universale un bicchiere preso in mano, trasfigurava il quotidiano, è questo il mistero della letteratura. Lo scrittore si augura sempre che il suo scrivere contribuisca a creare un ponte, ogni racconto è un contributo. Il tema del mio libro è la famiglia, una dolorosa separazione tra figlia e padre vissuta in vari tempi che poi la figlia da adulta cerca di ricostruire. I problemi della famiglia sono un tema universale che dall’antica Grecia arriva fino ad oggi il mio contributo vuole essere quello di far capire che non bisogna mai essere sbrigativi o sommari nei rapporti umani che anche se sono difficili e tormentati hanno in sé qualcosa di archetipo che va indagato, l’enigma familiare travalica nazioni, civiltà, epoche.
Michele Ruol: “Il mio romanzo è in qualche modo sospeso, nel senso che non ci sono i nomi dei personaggi, non ci sono i nomi dei luoghi e quello che succede, succede tutto all’interno di una casa. E quindi ecco, io credo che poi i legami che ci uniscono, le relazioni che si instaurano tra una coppia che si ama e cerca di crescere dei figli e fa errori, in qualche modo, cerca di rimediare i propri errori, credo che siano dinamiche che poi possono essere vere in un paesino del nord Italia, così come in Polonia o in un altro paese. Sarei proprio curioso, invece, di capire magari se ci sono delle risonanze che si innescano magari in punti per me inaspettati, che possono essere diffusi, di abitudini, oppure appunto, anche quello che si dice all’interno di una relazione, quello che non si dice, quello che si mostra all’esterno, che cosa si racconta ad altri, che invece teniamo protetto”.
Nadia Terranova: “Hanno tradotto due miei libri in Polonia, tra cui uno dedicato a Bruno Schulz, che è uno scrittore che ho amato moltissimo. Schulz per me è uno di quegli autori della vita, letto a vent’anni e poi da allora altre 30 volte. Quindi diciamo che è stato lui il mio cavallo verso la Polonia. E poi l’anno scorso è stato tradotto “Trema la notte”, che è un libro che ho scritto sul terremoto dello Stretto di Messina nel 1908. E venendo qui ho capito che cosa di quel libro poteva avere parlato a buona parte dei polacchi. A radere al suolo Messina è stato un evento naturale qui a Varsavia è invece stata la mano dell’uomo. Però comunque questa idea di azzeramento delle città e di ricostruzione in qualche modo lega le nostre storie. Ma è da tanto tempo che comunque speravo di incontrare un pubblico polacco per una forma di curiosità che ho sempre avuto anch’io verso l’Est. Sottoscrivo quello che ha detto Paolo Nori: io posso fare a meno dell’America, l’America può fare a meno di me. Non mi ha mai interessato, ci sono stata una sola volta, malvolentieri. E invece sono molto felice tutte le volte che vengo a Est. Mi dispiaceva non esser mai stata a Varsavia. Qui sto bene qui, forse una parte di me viene da qui, non lo so, da questa parte di Europa, non so esattamente da dove, però sto bene, mi sento a casa, mi piace la luce, mi piace la compostezza, in effetti, molto diversa dalla mia, che non sono affatto una persona composta”.
Viviamo in un tempo complesso, pieno di crisi e trasformazioni. In che modo la scrittura – e il romanzo in particolare – può ancora incidere sul nostro modo di leggere il mondo?
Andrea Bajani: “Siamo in un momento storico in cui trionfano i messaggi semplificati, la propaganda che individua un nemico, le barriere doganali, i confini, i muri alzati, ecco la letteratura è esattamente il contrario. Scrivere una storia è opporsi alla semplificazione. Di cosa parlano i nostri libri? Non vorremmo neanche rispondere perchè se scrivo 190 pagine ognuna di questa ha una sua necessità e non è comprimibile in una sintesi semplificata. La letteratura è l’anti-riassunto, è un’isola che non ha confini al suo interno.
Paolo Nori: “Viviamo in un tempo complesso ed è vero, però mi chiedo in fondo tutti i tempi sono complessi. Il Novecento è stato un orrore, e l’Ottocento? Io appunto ho letto molti romanzi, tanti russi e uno in particolare che ho anche avuto il privilegio di tradurre “Memoria dal sottosuolo” di Dostoevskij, che è stato pubblicato nel 1864. In Russia c’era lo zar, che era un tiranno. E c’era la servitù della gleba, cioè c’era la schiavitù e c’era un’intellighenzia, le menti tra le più evolute d’Europa, che convivevano. Tolstoj, che era contemporaneo di Dostoevskij, era un nobile padrone di schiavi e si vergognava. Quindi non diamoci le arie di essere più nei guai di quanto sono stati i nostri predecessori. In “Memorie del sottosuolo” a un certo punto l’uomo del sottosuolo dice: “Io sono solo e loro sono tutti”. Io avevo vent’anni e ho pensato: sono io quello lì. E quando l’ho riletto per scrivere il mio romanzo, alla sera, a cena con mia figlia che aveva 15 anni, le ho chiesto: Senti, tu hai pensato che tu sei da sola e gli altri sono tutti? E lei è passato un attimo e poi mi ha detto: Altro che, se ci ho pensato. E la redattrice della casa editrice Mondadori, che ha corretto le bozze di quel romanzo lì, quando ha letto ‘sta cosa, l’ha chiesto ai suoi due figli e tutti e due le hanno detto: Altro che, se ci abbiamo pensato. Allora quella roba lì, scritta in un tempo complesso a 3000 km di distanza dall’Italia, ecco, quel signore lì, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, ha scoperto e ha portato al mondo un segreto che tre ragazzi nati nel XXI secolo non avevano mai confessato ai loro genitori. Questa è la letteratura, il romanzo in particolare, secondo me, fa quella roba lì, cioè vince il tempo sia quelli complessi, che quelli non complessi, ammesso che ce ne siano, e anche lo spazio. Ed è quello che noi presuntuosi cerchiamo di fare, cioè trovare dei bambini polacchi che nel XXII secolo leggano i nostri libri e dicano: Sono io quello lì”.
Elisabetta Rasy: “Io credo che il romanzo sia veramente molto importante nei momenti di crisi e complessità perché – a fronte della terribile violenza che ci circonda che spinge verso una sorta di pensiero unico, ad un modo di pensare che scade verso un qualcosa di primitivo e semplificato – ci spinge a mantenere una riflessione complessa impedendoci di scadere in un sistema di giudizio bianco-nero. Il compito della letteratura è evitare le banalizzazioni del vivere, e lo fa da sempre: l’Iliade presenta le ragioni dei troiani e dei greci”.
Michele Ruol: “la scrittura e i romanzi, non servono per capire il mondo come sarà o per capire il mondo come è, i romanzi pongono domande, più che dare risposte, e quando funzionano sono anche capaci di metterci in crisi, perdere le certezze che abbiamo e farcele vedere da un altro punto di vista. Credo che la letteratura e i romanzi, possano aiutarci a capire la complessità della realtà che ci circonda. Siamo in una società in cui il dibattito è spesso polarizzato: c’è il bene, c’è il male, c’è il giusto e lo sbagliato. La realtà invece è molto più complessa, anche i media tendono a semplificare, a schematizzare. Penso che lo scrivere romanzi possa essere utile, anche se non vengono scritti per utilità”.
Nadia Terranova: “Io ho avuto due strade parallele nella mia lontana giovinezza: la filosofia e la letteratura, che sono diversissime e non rispondono alle stesse domande. Però in tutte e due io ho sempre diffidato di chi è troppo schiacciato sul presente. Io tutte le volte che mi sono concentrata sull’attualità ho lasciato un po’ indietro le macro questioni e una visione più ampia per correre dietro a risposte singole. Dopo un po’ mi perdevo, mi annoiavo, mi accorgevo che cambiavo idea con una rapidità tale per cui evidentemente non ne avevo maturata una. E invece tutte le volte che mi sono fermata un attimo a guardare, ad aspettare, a usare altre categorie, altri sguardi che vengono appunto dalla letteratura, invece le analisi erano più durature. Però bisogna togliersi un po’ dal centro. E forse la letteratura, la poesia, il teatro, diciamo che forse fanno un po’ questo, tolgono fintamente dal centro e rimettono in un centro più universale”.
La Polonia ha una forte tradizione letteraria con autori come Tokarczuk, Miłosz e Szymborska molto amati in Italia. C’è un autore o un’opera polacca che vi ha colpito o influenzato in qualche modo?
Andrea Bajani: “Appena ho messo piede a Varsavia mi sono tornati in testa la letteratura e il cinema polacco, a cominciare da Kieslowski e il suo Decologo e poi Konrad, Milosc e Herbert. Tra i contemporanei ovviamente Tokarczuk. Negli autori polacchi trovo un enorme senso di libertà e voglia di far saltare la crosta della formalità”.
Paolo Nori: “Sono un po’ monotematico verso i russi, però devo dire che a me piace, anche se conosco solo un libro suo che è stato tradotto in italiano, Zagajewski. E i poeti polacchi tra cui Miłosz. Io sono stato per anni a un festival di poesia in Sardegna, a Seneghe. E lì il motto del festival era della Szymborska: “preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverle”, che un po’ vale anche per i romanzi, ecco, vale anche per me. Poi c’è un autore polacco vivente, un giornalista e reporter, Mariusz Szczygieł. Ho letto due libri straordinari suoi. “Gottland” è un libro fantastico, è veramente una scoperta Non so se mi ha influenzato, però è un libro che io ho fatto leggere a tutti quelli che conosco”.
Elisabetta Rasy: “Sono rimasta affascinata dallo scrittore polacco Kazimierz Brandys, che conobbi, e che visse in esilio a Parigi. Secondo me ha scritto un libro di culto: Hotel d’Alsace e altri due indirizzi, una serie di racconti dal vero che mi colpirono molto perché allargavano i confini della letteratura abolendo distinzione tra piano biografico, realtà e invenzione. Ho sempre amato gli scrittori meticci. Di Szymborska abbiamo già parlato della sua capacità di rendere memorabile il gesto più ovvio della quotidianità. E poi Konrad che con Proust è uno degli autori della mia formazione. Nel cinema ho avuto un innamoramento per il lavoro di Wajda non solo perché mi ha fatto scoprire un mondo che non conoscevo ma anche per l’originalità del suo punto di vista.
Michele Ruol: “Nel mio libro c’è una citazione di Szymborska. Non ho una conoscenza approfondita della letteratura polacca, però ci sono alcune cose che negli autori suonano fortissime, superano questi confini di tempo e di luogo. E nelle poesie di Szymborska mi ritrovo perché hanno luce e calma, un’attrazione che mi è molto vicina.
Nadia Terranova: “Io rispondo subito: Bruno Schulz! So a memoria dei pezzi delle “Botteghe color cannella”, quando parla delle boiserie color cannella o quando si perde nelle stradine. C’è una scena in cui Bruno che è bambino, torna a casa la notte e si perde in questo quartiere ebraico di Drohobyč, dove poi sono anche stata, che non esiste più. E c’è il momento in cui la città, che è una manciata di case, ed in particolare il ghetto, che era piccolissimo, diventa un luogo infinito e magico e tu dici ma come ha fatto a perdersi a Drohobyč? C’erano quattro strade. E poi quando va a passeggio col padre nella via dei coccodrilli che è la via dei negozi, ci sono proprio delle scene, dei fatti, dei motteggi, della bellezza della lingua, delle scene semplicissime, minime, che per me sono memorabili. Forse il motivo per cui io ho proprio sentito in maniera così forte, irrazionale, sottopelle, Bruno Schulz, è che a me sembra di conoscere quel bambino, quel bambino Bruno a cui poi è dedicato il mio libro. È come se fosse un mio amico e quando lui guarda il padre trasformarsi, quando poi diventa più grande, assiste a questo padre che muore, anche se lo racconta in una maniera tutta fantasmagorica, io ero lì con lui”.