Il pasticciaccio linguistico di Gadda

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L’origine dell’uso del termine culinario “pasticcio”, alla francese “pastiche”, in ambito letterario nasce probabilmente, come in quello musicale, già a partire dal XVII secolo, quando, oltre alle realizzazioni tipiche della musica barocca, gli esercizi di imitazione nella scrittura, detti “à la manière de”, offrivano la possibilità di esercitarsi, sfruttando una maniera letteraria già nota, per farsi conoscere, realizzando combinazioni di testi pre-esistenti più o meno citati che portavano a situazioni narrative nuove. D’altronde cos’è un pasticcio, se non una nuova ed appetibile pietanza, ottenuta però riciclando vecchi ingredienti già posseduti?

Anche nel XVIII secolo, nella famosa “Encyclopédie” illuminista, si parlerà così di “pastiche” come di un qualcosa che risulta né originale né copia.

E per oltre un secolo, fino agli inizi del Novecento, di “pastiche”, soprattutto satiricamente connotati, in cui gli autori fanno dell’imitazione riconoscibile degli stili di altri autori un motivo non solo d’esercizio mondano ma anche di gioco parodistico, se ne sono contati molti, sin da quando nel 1787 Jean-François Marmontel codificherà la tecnica del pasticcio letterario: dai “pastiche” di Leopardi, a quelli di Proust, fino agli “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, che faranno del “pastiche” un elemento caratteristico della letteratura postmoderna, in cui fondamentale appare l’apertura del testo attraverso forme differenti di intertestualità ed esplicite relazioni di un testo con altri testi.

Ecco allora che nel 1934, recensendo su “Solaria” il “Castello di Udine” di Carlo Emilio Gadda, all’amico Gianfranco Contini, all’epoca giovane filologo, verrà facile, parlando dello stile particolare dell’autore, riconoscere in lui la vocazione del “pastiche”, evidenziando l’imitazione di parlate diverse e la commistione di linguaggi tecnici, arcaismi e trasposizioni di dialetti, definendo così brillantemente la scrittura di Gadda come una combinazione “di risentimento, di passione e di nevrastenia”. Ed aprendo ad una nuova, aggiuntiva, connotazione il termine “pasticcio”, che da letterario diventa anche linguistico.

E sul pasticcio Gadda evidentemente converrà, visto che nel 1957 la sua realizzazione più tipizzante è infatti il romanzo intitolato “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, vero e proprio trionfo di un “pastiche” ben diverso da quello nato in epoca barocca come echeggiamento di stili e modelli letterari, ora invece da intendersi anche a livello plurilinguistico e/o multilinguistico.

Con Carlo Emilio Gadda la lingua italiana, a livello letterario e sperimentale, subisce un’artificiosa modificazione genetica destinata, ad un livello più basso, a trionfare decenni dopo su altri mezzi di comunicazione di massa, come soprattutto la radio.

All’origine l’obiettivo dello scrittore era però chiaramente quello di evidenziare la profonda ipocrisia sottesa alla realtà dello stile di vita della borghesia a lui contemporanea, giocando su un tono sarcastico impietoso e corrosivo, con un linguaggio sferzante ed innovativo, costruito attraverso una miscellanea di strutture dialettali (in parte lombarde, in parte toscane e in parte laziali) unite a termini della lingua colta e ad espressioni e modi del linguaggio scientifico, filosofico e burocratico; costringendo anche i registri stilistici a continui mutamenti, fondendoli in un particolare ed efficace melting pot linguistico, che – seppur spesso di non agevole lettura – appare sempre in grado di produrre nel lettore effetti sbalorditivi: i repentini ed improvvisi passaggi dal sublime al comico, dal tragico al patetico, dal sarcastico al grottesco, colgono infatti sempre di sorpresa anche il lettore più avvertito.

Ma la sperimentazione linguistica non è fine a se stessa: la sua lingua caleidoscopica, soprattutto nel “Pasticciaccio”, serve a mettere a nudo la meschinità e la bruttezza del mondo, attraverso la scoperta della falsità e dell’ipocrisia che dominano la società e che solo apparentemente costituiscono la realtà quotidiana. Carlo Emilio Gadda vuole scardinare alle radici quella realtà, utilizzando la sua lingua come una sorta di strumento d’indagine sociale, che alla fine, esploratolo, mette in evidenza del quotidiano la vacuità e la mostruosità, che si celano dietro apparenze solo di comodo. Un mondo che Gadda non accetta e non legittima, e che perciò scientemente e polemicamente deforma e mistifica, proprio con la sua lingua. Interpretando in modo molto personale il filone realistico, con un linguaggio frammentato che riproduce il disordine della realtà, riportando spesso brani di conversazione, modi di dire, frasi fatte, ha quindi lo scopo ultimo di mettere in luce l’irrazionalità e la fondamentale stupidità del mondo nel quale vive.

Gadda, d’altronde, della sua epoca, anche per la sua stessa esperienza biografica, non era riuscito ad avere una percezione positiva. Nato a Milano il 14 novembre 1893, da un famiglia di buona borghesia, originaria dalla provincia di Varese, era stato infatti fin da adolescente presto costretto, dalla progressiva crisi economica per investimenti sbagliati da parte del padre Francesco Ippolito (indebitatosi nella coltivazione dei bachi da seta e, soprattutto, per l’edificazione di una villa a Longone al Segrino), a lasciare gli studi liceali, iniziati al prestigioso “Parini”, per iscriversi – spinto ossessivamente dalla madre Adele Lehr – all’Istituto Tecnico Superiore di Milano, quello che poi sarebbe divenuto il futuro Politecnico. Ma, interrotti gli studi per la leva militare nel 1915, fatto prigioniero nella rotta di Caporetto e deportato in Germania, al rientro a casa, drammaticamente informato della morte al fronte del fratello Enrico in un incidente aereo, riprenderà gli studi universitari, accoppiando all’ingegneria anche la filosofia, per poi, una volta laureatosi ingegnere, intraprendere una serie di viaggi professionali che lo portano, nei primi anni Venti, in Sardegna, in Sudamerica, nel Belgio, nella Ruhr e in Lorena: solo al suo rientro in Italia inizierà a dedicarsi seriamente alla letteratura, intessendo fitti rapporti con gli scrittori e gli intellettuali del tempo, in particolar modo con quelli del gruppo della rivista fiorentina “Solaria”, cioè i vari Bonsanti, Montale, Falqui e Bacchelli. Dal 1950 a Roma, lavorerà poi stabilmente ai programmi radiofonici della RAI, continuando a dedicarsi ai suoi progetti letterari, che vedranno nei due romanzi “La cognizione del dolore” e “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” gli esiti più significativi.