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La Moda? La Tradizione? L’importante è Partyre

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Źródło zdjęcia: ravazzi.it

Il termine Moda deriva dal latino modus, che significa maniera, norma, regola, ma più precisamente è definito come l’aspetto e il comportamento di una comunità sociale secondo il gusto particolare del momento.
La parola Tradizione (dal latino traditiònem derivato da tràdere, cioè consegnare, trasmettere) è definita come il complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione all’altraAppare forse evidente l’antitesi tra questi termini (l’imporsi della Moda nel “momento” e il perdurare della Tradizione nel “tempo”) e la poca capacità di conciliazione…

Qualcuno potrebbe dire: “e che bisogno c’è di conciliarli? Sono aspetti entrambi ricchi di implicazioni, da cui ricavare anche separatamente spunti di crescita individuale e comune”. Giustissimo! Ma se ci fossero dei modi per avvicinare queste due ricchezze? Non sarebbe ancor più significativo e piacevole? Non coinvolgerebbe maggiormente le persone e le generazioni, attenuando le distanze e aumentando lo scambio? Stop con le domande e proviamo a dare delle risposte, una in particolare: Vino Party.

A quanto pare si sta diffondendo questo nuovo momento di aggregazione che sta facendo invecchiare rapidamente l’Happy Hour. Dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Asia all’Australia, le capitali del Trend scoprono e lanciano la bellezza della tradizione e la bontà delle cose genuine, che danno sapore e piacere all’oggi. Si tratta di incontrarsi per conoscere vini e cibi di qualità, italiani perlopiù, reperiti, proposti e gestiti da chef di rango in un’atmosfera informale e rilassata, in una sorta di aperitivo terroir-chic.

Ecco allora che i prodotti D.O.P o I.G.T. (ma anche S.T.G. o I.G.) di cui potete trovare ampia descrizione online, vengono abbinati ai vini D.O.C., D.O.C.G. e I.G.T. più adatti, in molteplici e gustosissimi connubi.

Qualche esempio?  Salumi come il Culatello di Zibello, i Prosciutti crudi di Parma o San Daniele richiedono vini altrettanto profumati ed eleganti, come il Colli Orientali del Friuli Sauvignon, o uno Chardonnay dell’Alto Adige. Salumi appena affumicati come il Prosciutto di Sauris andranno benissimo con un Ribolla Gialla dei Colli Orientali del Friuli. Le decise affumicature di prodotti quali lo Speck o la pancetta affumicata ci possono portare ad un vino rosso morbido e con tannini discreti quali Alto Adige Pinot Nero o Lagrein. Apriamo un’altro capitolo eccezionale: i formaggi. Le loro caratteristiche ci portano numerosa possibilità di abbinamento. Formaggi a pasta molle e con delicati aromi di latte possono abbinarsi a vini bianchi quali Pinot Bianco, Roero Arneis o Ischia Bianco. Formaggi a crosta lavata come Taleggio, Tome e alcune Robiole, richiedono la sapidità e freschezza di un Colli Orientali del Friuli Picolit ma anche rossi quali Dolcetto di Dogliani o un Rosso Piceno Superiore.

Formaggi a media maturazione o a pasta semidura staranno benissimo con un Collio Sauvignon, o vini rossi di discreta evoluzione per formaggi a media stagionatura, ed ecco quindi un Merlot di Lison-Pramaggiore o un Oltrepò Pavese Pinot Nero. I formaggi stagionati richiedono in genere vini rossi di corpo, con alcuni anni di maturazione il botte e poi in bottiglia. Il Parmigiano Reggiano, re dei formaggi, sarà esaltato dall’eleganza di un Franciacorta Brut o di un Metodo Classico.
I formaggi erborinati come il Gongorzola o altri internazionali vanno accostati o a rossi di struttura oppure, se la tendenza amarognola è importante, occorre la morbidezza di vini passiti o liquorosi dolci come un Cinque Terre Sciacchetrà, alcuni Vin Santi Toscani o un Passito di Pantelleria.

Ho fatto solo alcuni esempi di panoramica, per incuriosire, per stimolare la ricerca e il divertimento, e per “provocare” forse una reazione rispetto alle abitudini di cui spesso si è prigionieri e la cui via d’uscita è data proprio dalla possibilità di conciliare Moda e Tradizione.

Questi modi di dire vi sono familiari?

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Oggi vorrei portare avanti tre argomenti insieme, vorrei fare degli esempi su:

  1. Gli atroci dubbi quando un italiano scrive un testo. Parliamo di quelle parole che ci creano dei dubbi riguardo alla scrittura o al proprio significato.
  2. Le espressioni idiomatiche che formano dei concetti particolari usando i colori.
  3. Le espressioni idiomatiche o i proverbi che usano il nome degli animali.

Cominciamo dunque con il primo argomento.

Si scrive “familiare” o “famigliare”? In effetti esistono tutte e due le espressioni. La prima ha il significato di familiare inteso come una cosa o una persona che sembra conosciuta: Quel ragazzo, mi sembra di conoscerlo e di averlo già visto. Ha un viso familiare. La seconda viene usata nel contesto proprio della famiglia: Oggi non posso proprio venire. Ho un problema famigliare.

Si scrive d’avanti” o “davanti”? Questo è un dubbio molto usuale quando scriviamo, deriva dal fatto che la parola avanti esiste e ha un significato proprio:  Andiamo avanti.

Non ci sono dubbi, però, quando dobbiamo usarla come avverbio di luogo, preposizione (seguito dalla preposizione A) o aggettivo, in questi casi si scrive solo nel secondo modo: Guarda davanti, per favore. La banca è davanti al palazzo di colore verde. La cerniera davanti della camicia.

Passiamo ora al secondo argomento e facciamo un paio di esempi usando il colore “verde”:

Espressione idiomatica: Sono al verde. Sono senza soldi. E ancora: Il ragazzo si deve fare, è ancora verde. Significa che quel ragazzo è ancora immaturo, con poca esperienza. Oppure: essere nel verde dell’età, degli anni. Significa nel pieno vigore delle forze, nell’età della giovinezza.

Proverbio: L’erba del vicino è sempre più verde. Significa che le cose che hanno gli altri sembrano sempre migliori di quelle che abbiamo noi.

Finiamo con il terzo argomento: gli animali. Oggi analizziamo le espressioni con: il cane.

  1. Alla festa non c’era un cane – C’era poca gente.
  2. Essere solo come un cane – Essere abbandonato da tutti.
  3. Trattare qualcuno da cane – Trattare male qualcuno.
  4. Fare qualcosa da cani, per esempio guidare da cani – Fare qualcosa  malissimo, per esempio guidare malissimo.
  5. Stare da cani – Stare molto male.
  6. Avere una vita da cani – Avere una vita non felice e soddisfacente.
  7. Essere fedele come un cane, finalmente un’espressione con significato positivo – Essere molto fedeli.

Finiamo con una curiosità. Sicuramente tutti conoscerete l’espressione in bocca al lupo. La usiamo quando vogliamo augurare a qualcuno, che deve sostenere una prova difficile come, ad esempio un esame, buona fortuna. Saprete anche che si risponde crepi (il lupo). Qual è l’origine di questa espressione? Nella tradizione popolare il lupo veniva visto come il male, il pericolo per eccellenza. Andare nella bocca del lupo significava affrontare queste difficoltà da eroe. L’espressione quindi veniva usata come messaggio di augurio per chi doveva affrontare un grosso pericolo.

“Aspromonte” nei cinema polacchi

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Il 22 novembre uscirà in Polonia il nuovo film di Mimmo Calopresti con Valeria Bruni Tedeschi (“La pazza gioia”) e Marcello Fonte (“Dogman”) come protagonisti. Il film sarà distribuito da Aurora Films.

Fonte: http://www.aurorafilms.pl/zapowiedzi/aspromonte/

Africo, situato nel pittoresco Aspromonte in Calabria, è il piccolo paesino dove il tempo si è fermato. Senza elettricità e senza una strada che lo colleghi con le città più grandi è condannato all’isolamento. L’ordine di vita è segnato dalla natura e dalle regole chiare che segue ogni giorno la comunità locale. L’azione del film, basato sul libro di Pietro Criaco, si svolge negli anni Cinquanta. Il posto non è casuale perché anche il regista è cresciuto in una piccola località calabrese. In una delle interviste dichiarava che il sud d’Italia è da sempre segnato da una specie di spiritualità: “Paradiso e inferno, favola e tragedia.” Il nuovo film di Calopresti contiene tutti questi elementi, è una storia toccante e piena di nostalgia che racconta l’Italia del sud, la piccola città e le grandi emozioni.

La mia Ciociaria

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“Non patisce mancanza chi non sente desiderio”, così scriveva Marco Tullio Cicerone, giurista, filosofo e scrittore dell’antica Roma, il più illustre figlio della terra Ciociara, nato ad Arpino nel 107 a. C.

Per chi come me vive all’estero è quasi inevitabile sentire il desiderio e partire la mancanza della propria terra per l’appunto “la mia Ciociaria”.

Per Ciociaria oggi si intende comunemente il territorio della provincia di Frosinone anche se storicamente la Ciociaria era formata da una regione più vasta che comprendeva oltre all’attuale provincia di Frosinone la parte sud della provincia di Roma e parte delle provincia di Latina.

Poco conosciuta forse anche a molti italiani, la Ciociaria è una terra ricca di storia, di arte, di natura, di paesaggi bellissimi e, per lo meno agli occhi di un ciociaro, una terra meravigliosa, la terra nella quale ogni ciociaro si sente a casa, anche quelli, tanti, che purtroppo o per fortuna vivono lontano.

E la lontananza fa riaffiorare i ricordi, soprattutto quelli di bambino, per loro natura indimenticabili. Le passeggiate in montagna a raccogliere funghi con mio padre, la pasta all’uovo fatta dalla nonna la domenica, i capelli di mia madre asciugati al sole e al profumo di primavera, le mani del nonno durante la vendemmia, la voce di mia sorella mentre si giocava in giardino, le partite a calcetto con gli amici in campetti improvvisati, le corse nei vicoli del paese, il profumo dei ciclamini bianchi, dell’olio appena spremuto, del pane appena sfornato, del vino appena torchiato. 

Probabilmente per la maggior parte dei polacchi il nome Ciociaria è poco conosciuto, ma in realtà ogni polacco conosce benissimo almeno una delle località della Ciociaria: Montecassino. La storia italiana e quella polacca si incontrano e si fondono nelle tristemente note vicende della quarta battaglia di Montecassino del maggio del 1944 dove il valoroso II Corpo d’Armata polacco del Generale Anders riuscì nella difficile conquista della vetta di Montecassino (cruciale per la liberazione di Roma) vicenda che ispirò la composizione della nota canzone popolare polacca “Czerwone Maki na Montecassino” i papaveri Rossi di Montecassino, colorati di rosso dal sangue versato dai valorosi soldati polacchi, così recita il testo della canzone.

Oltre a Montecassino, la Ciociaria offre molte località di sicuro valore turistico artistico e storico culturale. Castelli e borghi medievali, la cui nascita risale al IX secolo d.c. come mezzo di difesa contro le invasioni soprattutto saracene, tra cui ricordo: Fumone, raro caso di conservazione delle strutture medievali, Vico nel Lazio, Isola del Liri, Roccasecca (terra natale di San Tommaso d’Aquino) ed Esperia il cui castello ancora oggi ben visibile rappresentava un importante punto strategico militare e commerciale in quanto collegava la città di Gaeta (seconda capitale del regno borbonico) con la Valle del Liri e Montecassino.

Molto belle e suggestive le Acropoli di Arpino e di Alatri con le sue celebri e misteriose Mura Ciclopiche, nonché i borghi di Boville Ernica, M.S.G. Campano e San Donato Val di Comino che fanno parte dell’elenco dei borghi più belli d’Italia.

Di notevole importanza artistica l’Abbazia di Casamari nel comune di Veroli, costruita nell’anno 1203 che rappresenta uno dei più importanti monasteri italiani di architettura gotica cistercense.

Per gli amanti della montagna e gli sport outdoor la Ciociaria offre grandissime possibilità: numerosi itinerari di trekking soprattutto nel versante laziale del parco nazionale d’Abruzzo e sui bellissimi Monti Aurunci, sul versante tirrenico, che offrono delle rarità floristiche e vista mozzafiato sul golfo di Gaeta.

Oltre al trekking la Ciociaria offre molto per gli appassionati di bike e di free climbing. Numerose le possibilità ed i tracciati per mountain bike e migliaia di itinerari di arrampicata tracciati dai fortissimi e numerosi climbers ciociari. A proposito di sport, come non citare anche la storica impresa del Frosinone Calcio, prima squadra ciociara a conquistare la massima serie calcistica, attualmente impegnata nel campionato di Serie A 2015/2016.

Come ogni regione italiana che si rispetti anche la Ciociaria ha dato i natali a molti personaggi celebri oltre ai già citati personaggi storici Cicierone e San Tommaso d’Aquino, tra i personaggi contemporanei più conosciuti bisogna sicuramente citare, Vittorio De Sica (Sora) uno dei più grandi registi italiani, Nino Manfredi (Castro dei Volsci, anche detto il Ciociaro d’Italia) e Marcello Mastroianni (Fontana Liri) due tra i più grandi attori italiani e Severino Gazzelloni (Roccasecca, detto il Flauto d’Oro) flautista di fama internazionale. 

Infine, dulcis in fundo, le prelibatezze enogastronomiche. La Ciociaria è sicuramente sinonimo di buon vivere per cui non possono mancare prodotti tipici di lunga tradizione. Vini di ottima qualità tra cui il celebre Cesanese di Piglio e l’ottimo Cabernet di Atina, formaggi di lunga tradizione come l’inimitabile Marzolina di Esperia, le famosissime olive di Gaeta, salumi, tartufi e i tanti oli extravergine di oliva.

Questa è la mia Ciociaria, unica, vera, semplice, felice, indimenticabile e anche se lontana, sempre nel cuore.

Della zucca non si butta via niente!

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Finalmente è arrivato l’autunno, il momento giusto per parlarvi di uno dei miei cibi preferiti: la zucca! Ammetto di averla scoperta tardi. Per tanti anni mi sono fatta scoraggiare da chi mi diceva che la zucca fosse un ingrediente difficile: faticosa da sbucciare, lunga da cucinare. Per poterla mangiare, dicevano, bisognava prima superare prove di forza e tenacia, roba da casalinghe d’altri tempi.

Ho guardato a questa meraviglia con soggezione fino a quando ho traslocato, e la mia nuova vicina di casa si è rivelata essere una gentile signora il cui orto trabocca di zucche. Che lo volessi o no, lei me le faceva trovare in regalo direttamente sul davanzale della cucina. Così mi sono decisa ad affrontare il temibile ortaggio, e grazie a qualche consiglio pratico della vicina stessa, ho scoperto che non c’è niente di più facile, e di più buono, che cucinare una zucca fresca!

In breve tempo sono diventata un’esperta di ricette a base di zucca, ingrediente che si presta a tantissime varianti, perfette anche per le cuoche un po’ pigre come me. 

La zucca è probabilmente l’ortaggio più grande presente in natura. Appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee ed è originaria dell’America Centrale. In Messico sono stati ritrovati dei semi di zucca risalenti a circa il 6.000 a.C. Oggigiorno è consumata in tutte le parti d’Italia, prevalentemente in alcune regioni dove rappresenta l’ingrediente di base di svariate ricette, e per tutto il mese di ottobre le “feste della zucca” animano i paesi di provincia attirando i golosi.

È un cibo buono in tutti i sensi. Piace a chi è attento alla linea, perché nonostante il sapore dolce e la consistenza cremosa, ha pochissime calorie: solo 25 su 100 gr di alimento. Il basso indice glicemico la rende un ottimo alleato sia per chi stia cercando di dimagrire, che per le persone affette da diabete. Oltre ad essere un ingrediente perfetto per la preparazione di torte, creme e dolcetti. 

Piace anche a chi è attento alla salute: è molto ricca di minerali, in particolare potassio, fosforo e magnesio, e di vitamine. Altissimo il contenuto di vitamina A, la quale può aiutare l’organismo a contrastare le infezioni. Aiutano a rinforzare il sistema immunitario anche la vitamina C, la vitamina E, il ferro e i folati. 

Piace, infine, a chi ama gli ingredienti versatili, semplici, con cui liberare la fantasia in cucina.
Il segreto per rendere più facile la sua preparazione sta tutto nella buccia: non sempre serve toglierla! La zucca può essere tagliata semplicemente a spicchi, e dopo averla privata solo dei semi, infornata direttamente con la sua buccia: venti minuti sono sufficienti a rendere la polpa abbastanza morbida. A questo punto potrà essere sbucciata con facilità, e poi utilizzata per tutte le vostre ricette preferite.

Esistono anche varietà di zucche (ad esempio le Delica o le Mantovane, con la buccia verde scuro intenso, ma anche le Butternut e le Violine) la cui buccia può essere consumata per intero: in cottura diventa morbida e gradevole, e smorza lievemente il gusto dolce della polpa. Ottima la cottura al forno, tagliata a cubi e condita con olio, sale alle erbe, e tanto rosmarino fresco. Oppure lessata e frullata per una zuppa vellutata. Ovviamente, buccia compresa!

Della zucca poi non si butta via nulla, nemmeno i semi. Vanno tolti prima della cottura, dopo aver tagliato l’ortaggio in spicchi, per poi essere essiccati naturalmente al sole, oppure tostati al forno con olio e sale, 180° per 15-20 minuti.

Le mie ricette preferite? La torta salata con zucca cotta al forno, porri saltati in padella e tofu affumicato. Sapori che si abbinano perfettamente, per un piatto unico saziante, goloso, buono anche se consumato freddo, quindi perfetto anche per un pranzo da asporto.

E da buona veneta, una versione alternativa del “saor” abbinato alla zucca, dal risultato agrodolce inaspettato. Il “saor” è un condimento tipico veneziano, tradizionalmente utilizzato per le sarde ma ottimo anche in altre ricette. Va preparato in anticipo, facendo saltare in padella abbondante cipolla, uvetta passita, pinoli, aceto balsamico. Si ricopre poi la zucca, cruda, privata della buccia e tagliata a fette sottili, e si lascia a marinare per una giornata.

Una curiosità: la zucca è considerata anche il simbolo di Halloween (da All Hallows’ Eve, vigilia di Ognissanti), festa che trova le sue origini nella celebrazione di Samhain, la fine dell’estate. Secondo il calendario celtico, datato prima del cristianesimo, il 31 ottobre decretava la fine dei raccolti e l’inizio di un nuovo anno. La notte di Samhain si credeva che gli spiriti dei defunti potessero congiungersi con il  mondo dei vivi e vagare indisturbati sulla terra. Da qui la tradizione di intagliare gli ortaggi, all’interno dei quali mettere delle luci per spaventare le anime diaboliche. 

Ad essere utilizzate a questo scopo, però, in origine erano soprattutto le rape. Fu solo in seguito all’esportazione della festa in America, come conseguenza della grande emigrazione di fine ‘800, che si iniziò a diffondere l’uso della zucca, ortaggio evidentemente molto più diffuso nel territorio. 

Collodi, ovvero Pinocchio!

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Nel paesino toscano di Collodi si trova uno dei più straordinari ed insoliti parchi d’Italia. Il Parco di Pinocchio. Personaggio conosciuto da tutti, grandi e piccini di tutto il mondo. Oltre a questo parco nelle vicinanze ci sono i Giardini di Garzoni con la loro meravigliosa Villa  e la stupenda Casa delle Farfalle. In questa splendida cornice si può spendere gran parte della giornata soprattutto se c’è il sole. L’essere circondati dai fiori, dagli alberi, dalle cascate e le statue riempie di incredibile tranquillità. I giardini italiani hanno un fascino inimitabile. 

Tuttavia, nonostante gli elogi alla natura, vorrei tornare al nostro burattino. La sua immagine con il cappellino bianco ci si presenta fin dal parco nelle nostre vicinanze. Sono presenti qui molte attrazioni per i bambini come la nave dei pirati, il labirinto, il palco a forma di conchiglia adibito ai concerti ecc.

Anche gli adulti avranno modo di poter osservare con interesse la falegnameria dove è stato scolpito il burattino. È presente anche un museo nel quale potremo trovare i libri in svariate lingue. Tutti possono trovare in questo posto qualcosa che gli interessi. È importante anche prendersi a cuore il famoso detto: non dire bugie, perchè ti crescerà il naso… Sempre attuale, vero? Un ricordo carino da portarsi dietro può essere ad esempio la miniatura del famoso burattino appeso alle cordicelle. Vale sempre la pena avere in casa questo burattino ed ogni tanto guardarlo per non dimenticare il suo famoso detto, creato da Carlo Lorenzini. 

Torniamo più spesso al mondo delle fiabe attraverso i libri od anche i film, per non perdere mai il bimbo che c’è in noi! Non perdiamo mai questa infanzia, perchè l’orologio biologico non si ferma e scorre sempre più velocemente nonostante i nostri 20, 30, 40, 50 anni. Riscopriamo sempre questa gioia per poterla in qualsiasi occasione trasmettere. Spero che in questo vi sarà d’aiuto la visita al meraviglioso parco di Pinocchio che vi consiglio caldamente, sperando che anche le mie foto vi invoglieranno a visitare il paesino di Collodi.

Mi piace!

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Tutti conosciamo il verbo piacere, è uno dei primi che si apprende all’inizio dello studio della lingua italiana, visto che ci permette di esprimere i gusti e le preferenze in un modo apparentemente facile. Nonostatne ciò pare che sia spesso usato in modo sbagliato. Perché? Forse perché molti associano questo verbo solo alla sua forma impersonale e lo considerano l’equivalente del polacco lubić (1), senza ricordarsi che in certi contesti corrisponde anche a podobać się (2) e in più è coniugabile come tutti gli altri verbi della lingua italiana (io piaccio, tu piaci, lui/lei/Lei piace, noi piacciamo, voi piacete, loro piacciono). Anche in quest’ultimo caso piacere viene tradotto al polacco con il verbo riflessivo podobać się. Per evitare quindi i dubbi vale la pena subito dall’inizio dell’apprendimento della lingua italiana associare piacere al polacco podobać anche perché entrambi i verbi funzionano allo stesso modo.

  1. Mi piace il caffè. – Lubię kawę. 
  2. Mi piacciono le ragazze alte. – Podobają mi się wysokie dziewczyny. 
  3. Io ti piaccio. – Podobam Ci się. 

Gli errori più frequenti però sono provvocati dal fatto che molte persone concordano questo verbo con il complemento indiretto e non con il soggetto. Piacere ha una costruzione particolare, infatti ciò che piace (o non piace) indica il soggetto del verbo, mentre la persona a cui piace (o non piace) qualcuno o qualcosa è espressa con un pronome personale indiretto. Ad esempio nella frase (1) il soggetto grammaticale, con il quale è concordato il verbo è il caffè mentre mi costituisce il pronome personale indiretto che spiega a chi piace il caffè. Quando il complemento indiretto è costituito da un pronome, è possibile usare sia la sua forma tonica sia quella atona. I pronomi personali indiretti sono seguenti: ti / a te, le / a lei, gli / a lui, ci / a noi, vi / a voi e a loro/ gli. Nel caso in cui l’elemento che piace sia plurale, viene usata la forma plurale del verbo piacere cioè piacciono (4).

  1. Mi piacciono i vestiti lunghi. – Podobają mi się długie sukienki. 

Quando il soggetto non è costituito da un nome, ma da un’azione espressa da un verbo all’infinito (5) o da un’intera proposizione, il verbo piacere è alla terza persona singolare (6).

  1. Mi piace viaggiare. – Lubię podróżować.  
  2. A lei piace che tu venga a visitarla. – Podoba jej się to, że ją odwiedzisz. 

Piace e piacciono indicano un tempo presente, nonostante ciò possono essere ovviamente coniugati in tutti altri modi e in tutti i tempi. Nei tempi composti il verbo piacere è sempre coniugato con l’ausiliare essere. Al passato, se si vuole dare un’opinione definita su qualcuno o su qualcosa si usa il passato prossimo (7), mentre si ricorre all’imperfetto per esprimere piacere per qualcosa che facevamo abitualmente (8) o per introdurre un cambiamento di abitudine o di opinione (9). Per quanto riguarda il tempo passato il pronome indiretto non varia la forma verbale quindi si comporta allo stesso modo che al presente indicativo.

  1. Il film che ho visto ieri sera mi è piaciuto molto!
  2. Quando abitavo a Napoli, tutte le mattine mi piaceva prendere il caffè al bar. 
  3. Prima mi piaceva molto partecipare ai grandi concerti, ma adesso non mi piace più perché non mi sento sicura. 

Per concludere, ricordiamo che la negazione del verbo piacere si forma premettendo il verbo con l’avverbio di negazione non che viene posto prima del pronome in forma atona (10) e dopo se questo è in forma tonica (11).

  1. Non mi piace. 
  2. A me non piace. 

Tra gli altri verbi che presentano la stessa costruzione come piacere, si distinguono occorrere, bastare, mancare, servire, interessare e sembrare.

 

Janusz Roguski: La mia Italia

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Architetto di professione, acquerellista e viaggiatore di passione, Janusz Roguski è l’autore di oltre 300 acquerelli che raccontano l’architettura italiana. Uno di questi lo possiamo apprezzare sulla copertina di questo numero di Gazzetta Italia.

“Nella vita privata era soprattutto molto simpatico, originale e sensibile. Era appassionato della vita, molto esigente con sé stesso e con la sua famiglia. Alle persone che aveva intorno trasmetteva la sua passione e dedizione verso l’arte”, così lo ricorda la figlia, Joanna, italianista e proprietaria della piccola casa editrice Pointa. Una casa editrice che è come un filo conduttore che unisce il passato con il presente perché fu il sogno nel cassetto mai realizzato del nonno Henryk Roguski, un libraio nella Varsavia prima della guerra. La concretizzazione di un sogno ha permesso di realizzarne un altro, quello di pubblicare il volume “La mia Italia” con gli acquerelli di suo padre Janusz Roguski, libro che ha regalato al padre in occasione del suo ottantesimo compleanno. Grazie a questa pubblicazione si possono apprezzare tanti dettagli dell’architettura italiana, dipinti con delicatezza e precisione meticolosa. Forse per qualcuno possono essere l’ispirazione per scoprire questi paesaggi colti dalla mano dell’architetto.

Roguski adorava viaggiare, con la moglie Nina hanno visitato mezzo mondo ma era l’Italia il luogo dove più amava tornare. Durante gli studi alla facoltà di architettura del Politecnico di Varsavia, non era possibile visitare i luoghi amati, li guardavano solo sulle pagine dei manuali. Ma appena aprirono i confini i Roguscy iniziarono subito le loro esplorazioni. Con la tenda e in condizioni modeste viaggiavano per ammirare la bellezza dell’architettura e della storia dell’arte. Tutti e due hanno sempre sottolineato che vedere dal vivo le opere che prima avevano ammirato solo attraverso le foto dei libri è stata un’emozione molto forte. Quando erano nei loro sessant’anni decisero di studiare l’italiano. Fecero le valigie e partirono per Roma dove per tre mesi studiarono la lingua all’Università per stranieri. Tutti i giorni percorrevano a piedi i cinque chilometri che dividevano la casa dall’Università per apprezzare appieno la bellezza della Città Eterna.

La passione per l’arte e l’architettura italiana pian piano stimolarono il desiderio di rappresentarle su un foglio di carta. Le prime lezioni di disegno Janusz Roguski le fece al Politecnico ma a dipingere gli acquerelli cominciò solo nel 2004, facendosi immediatamente assorbire da questo nuovo hobby. “Dipingeva di solito seduto su un muretto o su uno scalino oppure, dopo i primi schizzi, nel suo studio di casa. Durante il lavoro spariva in un’altra dimensione, probabilmente lì dove sentiva il profumo delle pietre calde e dei secoli della storia passata”, ricorda Joanna. Dipingendo prestava attenzione ai minimi dettagli, la possibilità di poter mostrare le perle dell’architettura italiana dal suo punto di vista lo rendeva semplicemente felice. Come dice l’autore stesso nella prefazione dell’album “La mia Italia”: “Le piccole città italiane incantano con la loro bellezza ed armonia ed io cerco di trasmettere queste emozioni nei miei acquerelli.”


Ha dipinto solo in Italia, nessun altro paese ha destato in lui il desiderio di una simile espressione artistica. In tutto ha creato oltre 300 opere, alcune a marzo del 2009 sono state presentate in mostra all’Istituto Italiano di Cultura a Varsavia. Per Roguski l’approvazione da parte degli ospiti è stata una forte emozione anche perché non aveva mai pensato di presentare al pubblico i suoi lavori.

La tragica ironia della sorte fece sì che la sua così amata Italia, che era diventata parte della sua vita, fu anche il motivo di una grande sofferenza. Nel 2013 durante il viaggio annuale a sciare nelle Dolomiti, Roguski ebbe un grave incidente che lo paralizzò completamente dal collo in giù. L’incidente gli impedì di dipingere e cambiò completamente la sua vita, che fino ad allora era piena di energie e passioni. Nonostante tutto, il suo amore per la cultura, l’arte e l’architettura dell’Italia non era mai cambiato e sempre con una grande gioia ritornava con lo sguardo alle miniature italiane immortalate con il suo pennello. Si è spento nel novembre del 2016.

Negli ultimi anni una volta, durante le lunghe chiacchierate tra padre e figlia, Roguski le disse di voler lasciare una traccia di sè ed essere ricordato. Grazie alla dedizione assoluta di Joanna, il suo sogno si sta avverando. 

MICHELANGELO PALLONI

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MICHELANGELO PALLONI (Campi 29.9.1637 – Węgrów 17.12.1713). Pittore. Figlio di Cosimo Di Fiorindo Palloni e Maria Maddalena Palloni, nonché cugino del predicatore di Campi, il Reverendo Andrea Di Fiorindo Palloni. Dall’anno 1652 al 1655 studia sotto la direzione di Baldassarre Franceschini detto “Il Volterrano”. 

Il primo lavoro indipendente di Palloni è l’affresco per l’altare presso la Chiesa di San Lorenzo a Campi, oggi Campi Bisenzio, ovvero la “Madonna con San Giovanni e San Geronimo sotto la Croce”, iniziato, a soli tredici anni, nel 1650 e terminato nel 1660. 

In Italia, a Firenze, dal 1655 al 1661, lavora con Franceschini, all’affresco nella Cappella Niccolini dentro la Chiesa di Santa Croce e nel 1669, alle decorazioni nella Chiesa di Santa Maria Maddalena De’ Pazzi. A Bologna realizza una serie di lavori e a Torino affresca il vestibolo della Chiesa di San Lorenzo con un intero ciclo della Passione di Cristo. Il Volterrano, suo maestro, gli indica come riferimenti sia Antonio Allegri detto il Correggio che Pietro Da Cortona, a quel tempo impegnato in Toscana, ma già autorevole rappresentante della cosiddetta Scuola Fiorentina a Roma.

Dopo molti anni di formazione sotto Franceschini, nel 1671 Michelangelo inizia a ricevere commissioni da Cosimo III De’ Medici Granduca di Toscana. Nel 1673, a Firenze, si iscrive e poi diviene Membro dell’Accademia del Disegno. Qui si specializza nell’inquadratura delle figure dal basso verso l’alto. Dal 1673 al 1676 riceve ancora una formazione a Roma nella Scuola Fiorentina, guidata dal pittore Ciro Ferri, dove apprende quella pittura barocca particolare, ossia con gli effetti illusionistici. A Firenze intanto, dal 1674 al 1676 accetta anche ordinazioni dall’Arazzeria Medicea, per cui prepara modelli – detti cartoni animati – da utilizzare nelle composizioni dei tessuti, ispirandosi a lavori di artisti fiorentini cinquecenteschi come Francesco Salviati o Andrea del Sarto, arazzi poi conservati nelle Collezioni dei Medici. Come copista, riproduce alcune opere di Pietro da Cortona e un ritratto di Cosimo III, per rimpiazzare gli originali mancanti nelle Collezioni Granducali. 

Nella seconda metà dell’anno 1676, dietro invito del Grande Hetman di Lituania Michele Casimiro Pac e di suo fratello, il Cancelliere Cristoforo Sigismondo Pac, arriva in Polonia. Qui si porta dietro tutte le esperienze acquisite in Italia con la scuola fiorentina, quella veneziana, quella bolognese e quella romana; la prospettiva, la monumentalità, i paesaggi, il cavalletto, l’inquadratura, il disegno, il chiaroscuro, la plastica dei corpi, le tinte delle carnagioni, le espressioni del viso, le mani e i dettagli della gioielleria e dei tessuti, la tavolozza dei colori. E, a proposito di colori: comincerà a prediligere quelle tonalità, tutte particolari, che vanno dal rosa al viola. 

In Polonia incontra una grande colonia di artisti italiani, che opera principalmente a Varsavia; come gli architetti Agostino Vincenzo Locci (figlio dell’architetto Agostino Locci il Vecchio, di Narni), progettista del Palazzo di Wilanów, Carlo Ceroni, lombardo, Giuseppe Simone Bellotti, Tommaso Bellotti, Giuseppe Piola, nativo della Valsolda (parente dell’architetto Carlo Ceroni, progettista della Chiesa Parrocchiale di Węgrów), gli scultori, Francesco Maino, Ambrogio Gutti, Carlo Giuseppe Giorgioli, comasco, i pittori Martino Altomonte napoletano e Francesco Antonio Giorgioli affrescante comasco e lo scultore a stucco Giovanni Pietro Perti.

Nell’anno 1685 si reca, per un breve periodo, in Italia e passa per Roma e quando torna in Polonia si porta dietro la sua famiglia, vende tutte le sue proprietà e decide di stabilirsi a Varsavia. Insieme con sua moglie Anna Maria Lanzani, nel 1688, va ad abitare in una residenza acquistata a Leszno, un quartiere di Varsavia. Ha due figli, Melchiorre e Rosa. Ecco, però che, non molto tempo dopo, sempre con la famiglia, deve trasferirsi a Vilnius per eseguire importanti lavori.  In quella città, oltre a svolgere l’attività di architetto, si ritrova ad allestire anche interessanti scenografie per alcuni teatri lituani.

Accolto, nello stesso anno, come Pictor Regius alla Corte di Re Giovanni III Sobieski, a Varsavia, viene incaricato dal Sovrano d’affrescare la Reggia di Wilanów, così incomincia a frequentare personaggi come il pittore Pietro Dandi, il Wojewoda di Płock Giovanni Bonaventura Krasiński, il Castellano Teofilo Fredro. 

Nel 1696 vende la sua residenza di Leszno, ma rimane a vivere a Varsavia. Quindi nel 1705 si presta come testimone al matrimonio di Vincenzo Ornani presso la Chiesa di San Giovanni a Varsavia.

Dal 1706, però, fino al 1713, anno della sua morte, insieme alla moglie, si stabilisce a Węgrów. Tutti i suoi figli, come Maria Alessandra futura moglie del commerciante Paolo Castelli, Maria (Caterina) Maddalena futura moglie dello scultore a stucco Giovanni Pietro Perti, nonché Rosa, sposeranno un italiano. Nell’anno 1712, con il nome di Michael Archangelus Palloni, appare nell’elenco dei Membri della Confraternita di Sant’Anna a Węgrów. 

Tra i suoi lavori più rappresentativi nella Confederazione polacco-lituana, figurano, oltre ai lavori eseguiti nel Palazzo di Wilanów a Varsavia, gli affreschi nella Chiesa di Pożajście presso Kowno e nella Chiesa di San Pietro e Paolo a Antokol di Vilnius nel 1684; il dipinto ad olio de “La Crocifissione” nella Chiesa di Pożajście del 1675; le decorazioni del Palazzo Krasinski a Varsavia nel 1684 e del Palazzo di Leszczyński a Rydzyna nel 1688; gli affreschi per la Collegiata e per il Convento dei Missionari di Łowicz del 1690 dietro commissione del Primate Michele Radziejowski e per i Carmelitani Scalzi a Varsavia; affreschi nella Chiesa Parrocchiale e in quella de Riformati a Wegrów, per conto di Jan Dobrogost Krasiński, iniziati nel 1707 e terminati nel 1708. 

Quegli affreschi dentro la Chiesa di Sant’Antonio da Padova a Czerniaków in Varsavia, invece, che qualcuno, in passato, a prima vista, aveva attribuito a Michelangelo Palloni, oggi restano ancora di autore sconosciuto, anche se si tende ad attribuirli a qualche pittore d’una scuola del nord Italia o del nord Europa.

Nelle opere di Palloni, che egli spesso firma con il solo aggettivo “Florentinus”, molto diversificate tra di loro, a volte si riscontrano: la tecnica dell’impasto dei colori del pittore fiammingo Justus Sustermans, un certo aspetto mistico caratteristico delle tele di Carlo Dolci, anche se velatamente, le luci e le ombre di Caravaggio, l’atmosfera grottesca dell’incisore Jacques Callot e anche l’oscurità dei suoi amici pittori Pietro Dandini e Anton Domenico Gabbiani. E poi, lavorando, in alcune occasioni, come per esempio a Wilanów, fianco a fianco con colleghi più giovani di lui, come Szymonowicz e Reisner – che però si sono formati all’Accademia Romana di San Luca – finisce col prediligere sempre più, quel metodo di dipingere, caratteristico della scuola romana, che comunque anch’egli conosce bene.

Alla sua morte, viene sepolto nel seminterrato della Chiesa Parrocchiale di quella città. 

In tutti i territori della Confederazione polacco-lituana, Palloni viene ricordato come ‘il più grande affreschista di tutti i tempi’. Molto, intorno a quest’artista, è stato già scritto da Magdalena Górska, da U. Bieszczad Bauman, S. Fiedorczuk, G. M. Guidetti, M. Heydel, M. Karpowicz, M. Paknys e da T. Sawicki.

Corigliano Calabro: il piacere di viaggiare fuori percorso

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Per la prima volta sono arrivata in Calabria da Bologna in pullman, avendo così l’opportunità di ammirare in viaggio sia il tramonto sia l’alba. Siamo passati da Rimini lungo il tacco dello stivale italiano per arrivare direttamente fra le braccia della remota Magna Grecia. Tra i passeggeri assonnati ero l’unica straniera, però a dire il vero questa circostanza non aveva affatto importanza. La più bella, magari perché vista all’alba, si è rivelata la terra pugliese, che abbiamo attraversato come se avessimo tagliato una morbida fetta di formaggio. E poi, situati lungo la strada, come fossero stati sparsi casualmente, i trulli – case di costruzione conica di pietra, alcune di esse contano più di 2000 anni – stimolavano la fantasia e richiamavano delle immagini, un po’ inventate, dei tempi del loro splendore. Giravo involontariamente la testa, seguendoli con lo sguardo, fino a quando erano completamente scomparsi dalla vista.

Quando il pullman passava lungo la costa, i raggi del sole del nuovo giorno che nasceva si riflettevano nello specchio del mare, irritando gli occhi. Anche se era ancora molto presto, ogni volta che la porta del pullman si apriva per far scendere i passeggeri, all’interno climatizzato entrava un soffio caldo del vento avvolgente che oltre al calore portava con sé il profumo d’estate. Quando siamo finalmente arrivati, a Corigliano Calabro, un piccolo paese nella provincia di Cosenza, è iniziato un nuovo giorno come molti altri. Un brusio allegro di voci animate si intrecciava con il suono dei cucchiaini che sbattevano sulle tazze, agitando in modo ritmico un aromatico caffè. Cornetti, ciambelle, bomboloni e altri dolci su una grande teglia venivano tirati fuori dal forno e posati sul bancone del bar. In Italia una colazione dolce è un piacere che meritiamo, visto che per godere buona fortuna durante la giornata, bisogna iniziarla con un buon pensiero (un caffè e un po’ di dolcezza!) in particolare al sud d’Italia, dove tutto, dai paesaggi alla cucina, sembra aumentare il suo impatto sui sensi.

Esplorare la quotidianità

I paesini come Corigliano non vengono visitati come le grandi città turistiche. Perché qui si esplora la quotidianità ed invece di seguire le guide turistiche, si ascoltano le storie raccontate dai residenti che con entusiasmo suggeriscono dei percorsi nascosti, non evidenti a prima vista, che conducono tra le mura secolari dei palazzi e portano spesso ad una piazza, terrazza panoramica o in un grazioso e tranquillo cortile. Nelle piccole città del sud è difficile imbattersi in turisti non italiani, e nel periodo estivo, soprattutto durante i fine settimana quando gli abitanti locali riposano al mare, i paesi sembrano completamente vuoti.

In realtà, Corigliano Calabro è una paese storico, da dove molti abitanti, soprattutto i giovani, si sono trasferiti nella zona più moderna, Corigliano Scalo, situata più vicino alla costa. Gli antichi paesini della Calabria costruiti sulle cime delle colline assomigliano alle fortezze piene di segreti, da esplorare in silenzio, ascoltando i suoni della città che vive nel suo ritmo, come le storie di un vecchietto per cui proviamo un grande rispetto. A Corigliano Calabro, sulle case costruite una accanto all’altra come un solido domino di pietra, svetta il castello ducale. La gente del posto ne parla con orgoglio e entusiasmo del tutto comprensibili. L’edificio fu costruito nel XI secolo per incarico di Roberto il Guiscardo come una fortezza di guardia da cui era possibile controllare tutte le zone circostanti. In seguito, nel corso dei secoli il castello passò di mano in mano tra le famiglie nobili (Sanseverino, Saluzzo, Campagna). I loro stemmi si possono ammirare appesi sopra il portone principale del castello circondato dal fossato. Le potenti mura restaurate della fortezza nascondono un incantevole cortile, una piccola cappella, bei corridoi e le stanze accuratamente attrezzate, come se i proprietari ci vivessero fino ad oggi. La sala da ballo, viene chiamata anche la sala degli specchi, ed il suo soffitto, oltre ai meravigliosi lampadari, è decorato con l’affresco “Palcoscenico della vita” di Ignazio Perricci. Quest’opera, dipinta con una tecnica “trompe-l’oeil”, per dare l’illusione di tridimensionalità e con una prospettiva aperta, mostra il cielo stellato e dei personaggi che si affacciano dal balcone verso i visitatori che sollevano la testa verso l’affresco. Invece una stretta scala a chiocciola porta ad una delle torri, da cui è possibile ammirare i tetti di color rame delle case, la cupola della chiesa di Sant’Antonio che brilla, riflettendo i raggi del sole, la stradina che porta al paese la quale vista dall’alto sembra un filo sottile sparso casualmente, ed una vasta costa, distante solo di pochi chilometri. Guardando giù dalla torre, sembra che si possa chiudere tutta la zona in una mano, e le stradine nella parte vecchia della città assomigliano alle fessure strette fra i libri di una grande biblioteca. Poi, passeggiando sotto la collina, si scoprono dei vicoli tranquilli, come se camminando togliessimo piano piano degli strati invisibili della città; si apprezza il silenzio di un caldo pomeriggio, mentre la maggior parte dei residenti riposa al mare a Marina di Schiavonea, dove d’estate si trasferisce la vita sociale degli abitanti locali. 

 

Passiamo accanto alla piccola chiesa di Santa Chiara, nascosta tra i palazzi, per poi arrivare attraverso un passaggio stretto in via XXVI Maggio. Lì, entriamo sul Ponte Canale, costruito nel XV secolo sopra via Roma che sale verso il cuore del paese. Originariamente il ponte svolgeva il ruolo di acquedotto, che portava l’acqua alle principali piazze della città. Attualmente, fermandoci a metà del ponte, possiamo ammirare in lontananza una sottile linea dell’orizzonte dove il mare incontra il cielo dello stesso colore. Prima però, davanti a noi si estende un campo ondulato di tetti di color rame con degli sporgenti camini storti di pietra. Perdersi è impossibile, e quando finalmente raggiungiamo via Villa Margherita nelle gambe sentiamo un dolore piacevole dovuto alla bella camminata appena fatta. Da lì solo pochi minuti in macchina ci dividono da Corigliano Scalo, dal porto vivace e dalla costa. Decidiamo di restare un po’, riflettendo. In tempi di consumismo quasi onnipresente, spesso quello che ci affascina di più è la semplicità. Ed i paesi ancora poco conosciuti del sud d’Italia sono come un’oasi tranquilla da esplorare lentamente, camminando; sono dei sereni musei all’aperto, dove i biglietti d’ingresso non mancano mai, ed i viaggiatori che riescono con un dovuto rispetto ad immergersi nella quotidianità del posto, sono sempre accolti a braccia aperte intorno a una tavola apparecchiata.