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Edvard Munch – viaggio tra Norvegia, Italia e Polonia

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Oltre che a cercare, vivere e raccontare esperienze condite da un più o meno esteso legame tra Italia e Polonia, alle volte, laddove possibile, tento anche un altro stimolante passaggio: trovare una connessione con un elemento terzo, per un ulteriore e meno canonico incastro culturale. A giocar qui dunque il ruolo di collante, pur ergendosi logicamente poi a indiscutibile protagonista, è la Norvegia, nella figura del suo pittore simbolo Edvard Munch, il cui recentemente rinnovato museo in quel di Oslo costituisce il punto focale di questa storia.

Spesse volte capita, in svariati contesti, che un artista venga ricordato o pressoché totalmente identificato (in maniera ingiusta e superficiale) in un’unica opera, gettando di conseguenza un po’ nell’oblio la restante produzione; di rado però ciò accade con una travolgente potenza, caratteristica peraltro intrinseca dell’arte in questione stessa, quale quella che riguarda “L’urlo”.

Sabato 22 ottobre ho avuto l’onore di essere ospite del MUNCH, l’inconfondibile grattacielo di 13 piani nel centro storico orientale della capitale norvegese che, da circa un annetto, è la nuova casa che accoglie l’immenso lascito del pittore alla sua Oslo.

Dopo la soddisfacente visita durata diverse ore, in un secondo momento ho intervistato con piacere, grazie alla Capo Ufficio Stampa Maren Lindeberg, il Responsabile della Programmazione del MUNCH, Lars Toft-Eriksen. Un’occasione d’oro per fare un po’ il punto tra lo smisurato patrimonio artistico più o meno noto ed i legami, pur non così lampanti, di Edvard Munch con Italia e Polonia, oltre che per saperne di più circa le poliedriche esibizioni proposte nel tempo.

Riguardo il pericolo per l’artista di ritrovarsi inghiottito nella incalcolabile fama globale di un singolo suo prodotto, Toft-Eriksen pone lo sguardo su un lato più costruttivo: «C’è questo rischio certo per quel che riguarda “L’urlo”, ma possiamo vedere anche il plus di questa situazione, perché la gente poi arriva a conoscere di più Munch, ed alla fine è ciò che lo rende così grande, popolare ed apprezzato. Anche durante la sua vita, pur non essendo certo la “superstar” di oggi, è sempre stato un personaggio famoso e riconosciuto, apprezzatissimo in particolare in Francia e Germania. La grande fama è arrivata dopo, con i musei e le mostre. La prima idea di un museo era addirittura dello stesso Munch negli anni ’30; questo nasce poi invece nel 1963 in un’altra location, e trova posto dall’ottobre 2021 nell’attuale sede».

E c’è anche un recentissimo pezzetto importante d’Italia nel tentativo di far splendere nuova luce sull’artista: il docufilm “Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro”, la cui produzione è tricolore, è stato distribuito eccezionalmente nelle sale cinematografiche italiane i giorni 7, 8 e 9 novembre. Un viaggio inedito nella vita e nella Norvegia di Edvard Munch, dalla deliziosa casa di Åsgårdstrand, che ho visitato, alle immagini dell’incantevole nazione scandinava, e ovviamente tra le sale del maestoso MUNCH, osservando opere e riflettendo sui temi che hanno scandito l’esistenza e l’arte di un autentico genio e precursore.

Passando poi ad analizzare il legame con Munch da un punto di vista anche di più concreta produzione artistica, se per quanto concerne la Polonia è importante sottolineare il rapporto con Stanisław Przybyszewski (che sposò nel 1893 la già nota al pittore Dagny Juel, della quale riporto un dipinto di Munch del medesimo anno), circa l’Italia Toft-Eriksen mi sorprende abbastanza: «Con lo scrittore polacco si parla di una lunga amicizia; i due erano infatti molto vicini. Invece nel Bel paese Munch è stato diverse volte, a Roma, e c’è infatti un suo quadro che raffigura la tomba dello zio, il famoso storico Peter Andreas Munch , che è sepolto proprio nella capitale».

Il luogo di riposo in questione è il celebre Cimitero Acattolico nel rione Testaccio.

Tornando al MUNCH a Oslo, le molteplici e multiformi esibizioni che impreziosiscono i 13 livelli del grattacielo passano dal “placet” proprio di Lars Toft-Eriksen che quindi è la persona più indicata a cui dunque chiedere quali caratteristiche debbano possedere gli incredibili elementi di cultura visuale, stimoli sensoriali o pezzi artistici scelti per gli spazi del museo: «Non tutto è necessariamente correlato nello stretto a Munch. C’è molta arte moderna, contemporanea, con aspetti magari integranti, ma la scelta non viene effettuata solo sulla base di un legame vincolante. Ci sono tuttora e ci sono stati in precedenza ad esempio artisti fortemente influenzati da Munch, come nel caso di Tracy Enin. L’ordine dei piani del grattacielo è particolare, e ci sono molte opportunità per le persone di muoversi in questi spazi, culminanti con la terrazza panoramica che domina sulla città».

Questa esperienza è stata molto gratificante e difficile da sintetizzare. Poter scoprire sempre nuove cose, andando oltre la superficialità, è una soddisfazione continua.

P.s. Lo dico alla fine, sottovoce, ma devo: “L’urlo” è meraviglioso, in tutte e tre le versioni proposte dal MUNCH, e calamita chiaramente i visitatori come nient’altro. Ma a lasciare tutti a bocca aperta è davvero l’intero museo stesso, il miglior modo per Oslo di rendere sacrosanto onore al genio del suo Edvard Munch.

Per la nostra e la vostra libertà viaggio a Roma sulla tracce della legione di Mickiewicz

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La primavera dei popoli, conosciuta anche come rivoluzione del 1848 o moti del 1848, fu un’ondata di moti rivoluzionari avvenuti nella metà del XIX secolo in tutta Europa per abbattere i regimi assolutisti della Restaurazione e sostituirli con governi liberali.

A Roma, sotto la spinta di moti popolari che chiedevano libertà e democrazia, crollò il regime pontificio e il Papa Pio IX fuggì a Gaeta. Il 9 febbraio 1849 un’Assemblea eletta con suffragio universale proclamò la Repubblica guidata da un Triumvirato adottando come bandiera il tricolore. Ma per ripristinare il potere del Papa, Francia, Austria, Spagna e Regno delle Due Sicilie, attaccarono il territorio della Repubblica da più parti. A sua difesa affl uirono a Roma giovani da ogni parte d’Italia e d’Europa. Garibaldi vi portò i suoi volontari, circa 2000 uomini male armati, ma forti nella determinazione di difendere ad ogni costo la democrazia, la libertà, la Repubblica. Proprio a lui fu affi data la difesa del settore più esposto: il Gianicolo. Il 30 aprile i Francesi giungevano alle porte di Roma. Fermati dall’intenso fuoco dei difensori, e respinti da un furioso assalto alla baionetta alla fine della giornata furono costretti a ritirarsi, ma dopo un mese di tregua, con gli effettivi francesi passati a 30.000 uomini, ripresero i combattimenti.

Roma venne stretta d’assedio e bombardata. La Repubblica aveva ormai i giorni contati e il 30 giugno l’Assemblea per non sottoporre la città a inutili distruzioni decretò la fine della resistenza. Garibaldi non accettò la resa e con un contingente di armati iniziò la ritirata verso Venezia. Mazzini riprese la via dell’esilio.

Il 3 luglio, mentre le truppe francesi entravano a Roma, dal balcone del Campidoglio veniva proclamata la Costituzione della Repubblica Romana.

In quei mesi Roma era passata dalla condizione di Stato tra i più arretrati d’Europa a banco di prova di nuove idee democratiche, basate in primis sul suffragio universale maschile (il suffragio femminile in realtà non era vietato dalla Costituzione, ma le donne ne restarono escluse per consuetudine) sull’abolizione della pena di morte e sulla libertà di culto.

Abbiamo detto che alla difesa della Repubblica Romana accorsero tanti patrioti da ogni parte d’Italia, ma all’appello rispose anche un pittoresco esercito internazionale di volontari: sulle barricate in quei giorni a difendere Roma troviamo i nomi di stranieri che combatterono, scrissero versi, dipinsero, alcuni sacrifi cando la loro vita. Il gruppo più omogeneo e organizzato fu la Legione Polacca, cittadini di una nazione cancellata, “pellegrini” che struggendosi di nostalgia accorrevano ovunque si combattesse per la patria e la libertà.

“Da Roma a Roma“ di Alessandro Cartocci è il libro che ricorda le gesta nella Città Eterna di questi cavalieri erranti, è un doveroso omaggio e un riconoscimento al loro coraggio e alla loro lealtà.

Alessandro Cartocci

L’autore, dopo lunghe e complicate ricerche archivistiche, è riuscito a far conoscere per la prima volta dopo più di 170 anni il nome dei 201 coraggiosi legionari che a Roma combatterono al fianco dei garibaldini e riportare alla luce molti interessanti episodi in cui si comportarono da valorosi guadagnando l’ammirazione degli stessi nemici. Ora la domanda sorge spontanea: perché una legione Polacca a Roma? Come, quando e a che scopo si era formata e combatteva questa compagine straniera a difesa della Città Eterna? Non è mai stata sufficientemente conosciuta la vicenda della Legione Polacca, istituita nel marzo 1848 per volontà del poeta-vate polacco Adam Mickiewicz, che a Roma trovò la sua consacrazione uffi ciale con il decreto del Triumvirato del 29 maggio 1849. Non restava che colmare questa lacuna.

Cartocci ha fatto tornare idealmente in vita quegli uomini coraggiosi, li ha tratteggiati fino a farceli sentire reali, vicini nei loro pensieri e nelle loro azioni, fratelli di ideali in un mondo duro, ostile che nessuno spazio concedeva all’autodeterminazione dei popoli. Un mondo che imponeva scelte coraggiose e rinunce anche estreme in nome di quella libertà indipendenza e unità nazionale che Italiani e Polacchi sentivano intollerabilmente negate. Aspirazioni peraltro condivise negli Inni delle due Nazioni.

Ma non aggiungiamo altro su questa storia avvincente e piena di nessi imprevedibili, per non rovinare il piacere e l’atmosfera della progressiva scoperta dei fatti che la sapiente prosa di Cartocci ci disvela, mettendo in fila gli eventi e ricorrendo con intelligenza alle fonti, ora rievocando le voci dei tanti testimoni oculari che ci hanno lasciato un ricordo vibrante di questo manipolo di combattenti, ora regalandoci un ricco florilegio di documenti d’archivio a completare la piacevolissima carrellata di immagini e notizie di cui si compone il volume…

Tra i nomi degli Eroi che donarono la vita per gli ideali della Repubblica Romana da oggi compaiono a pieno titolo, grazie a questa nuova consapevolezza, anche quelli dei giovani polacchi che combatterono in Italia riconoscendo l’importanza della fratellanza d’armi per il
riscatto della Patria vessata dallo straniero; ricevendo poi a loro volta sostegno e aiuto significativi nella loro ribellione verso la Russia nel 1863, quando un cospicuo gruppo di volontari bergamaschi guidati da Francesco Nullo rispose all’appello di Garibaldi “Non abbandonate la Polonia”.

Forse da oggi a Roma quei nomi sull’antica colonna nei giardini di via Flaminia o al Mausoleo garibaldino al Gianicolo, dalla grafi a tanto complessa per un Italiano, saranno meno estranei. Da Roma a Roma, il viaggio inizia!

Il libro, ottimamente tradotto in polacco da Marta Koral, è stato realizzato grazie al generoso contributo dell’Istituto Internazionale di Studi Giuseppe Garibaldi, impegnato a promuovere e tramandare in Italia e nel mondo lo studio del pensiero e dell’azione di Giuseppe Garibaldi e dell’epopea garibaldina. Il volume ha ottenuto il patrocinio dell’Istituto Polacco di Roma e dell’Accademia Polacca delle Scienze di Roma e i rispettivi Direttori, Łukasz Paprotny e Agnieszka Stefaniak-Hrycko hanno voluto esprimere nelle pagine iniziali il loro personale apprezzamento. La prefazione è della dott.ssa Minasi, responsabile del Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina.

Alessandro Cartocci, dirigente medico ospedaliero e professore a contratto nei corsi di laurea per professioni sanitarie, per bilanciare la tensione derivante dall’impegno lavorativo, ha coltivato l’hobby della divulgazione storica, trasferendo con successo in quel passatempo l’esperienza e la metodologia della ricerca scientifica. Interessato alla Repubblica Romana del 1849 ha scritto La faccia delle strade, un libro diviso in due parti dedicato alla toponomastica garibaldina del Gianicolo e di Monteverde Vecchio e La vedetta appenninica curiosità, divagazioni e ricordi sulla città eterna. Ha pubblicato per molti anni articoli sulla Strenna dei Romanisti e sulla Rassegna storica dell’Istituto per il Risorgimento e sui Quaderni Storiografici dell’Istituto Internazionale di Studi Giuseppe Garibaldi. 

Il ricavato della vendita di questo libro sarà devoluto alla Caritas di DROHOBYCZ per le necessità dell’Ospedale

Chiunque fosse interessato all’acquisto del libro può riceverlo con il 40% di sconto facendo una donazione di 25 euro sul conto bancario di
STOWARZYSZENIE DIAKONIA RUCHU ŚWIATŁO ŻYCIE
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Ul. Ks. Franciszka Blachnickiego, 2
34 – 450 KROŚCIENKO n. Dunajcem
Motivazione: pomoc Ukrainie – Szpital Drohobycz.
Riferimento: JOLANTA TERLIKOWSKA – TEL. +48 575 004 876

Stefano Lavarini – futuro roseo per la pallavolo femminile polacca

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Stefano Lavarini è l’attuale allenatore della nazionale polacca di pallavolo e del club italiano Igor Gorgonzola Novara. Tra i suoi successi il Campionato brasiliano, una medaglia d’argento ai Campionati del Mondo per club e un bronzo ai Campionati Asiatici. Lavarini ci racconta l’esperienza al recente Campionato Mondiale di pallavolo femminile FIVB 2022 giocato in Polonia e nei Paesi Bassi, e le prospettive della nazionale polacca.

Come giudichi questa tua prima stagione alla guida della nazionale polacca?

È stata molto intensa. Abbiamo cominciato subito con una competizione della VNL dopo pochi giorni dall’inizio del primo raduno. E in questo senso devo dire che è stato impegnativo perché dovevo conoscere e capire le ragazze. Durante la competizione, anche mentre giocavamo partite importanti, abbiamo avuto tanto tempo per poter lavorare in palestra e entrate in sintonia con calma. Poi dopo la VNL abbiamo preparato insieme il mondiale. Abbiamo avuto la possibilità di prepararci bene e di fare un mondiale in crescendo che ci ha portato ai quarti di finale e a toglierci anche qualche soddisfazione. Alla fine è stata una stagione ricca di ottimi momenti, di duro lavoro, in cui ci siamo presi qualche importante soddisfazione. Soprattutto una stagione che sembra dare delle prospettive molto interessanti per il futuro.

Cosa ne pensi di questi ultimi Mondiali?

Credo siano stati dei buoni Campionati, anche se non di livello eccezionale. Per quanto riguarda le squadre top a livello mondiale il ritardo di un anno delle Olimpiadi ha probabilmente posticipato il cambio generazionale che tendenzialmente molte squadre tendono a fare. Quest’anno c’è stato poco tempo anche per alcune delle squadre più importanti per mettere in pratica questo cambio generazionale. Di conseguenza si è visto che qualche elemento, anche delle squadre più importanti, ha mostrato qualche carenza da un punto di vista dell’esperienza a livello internazionale. Noi siamo riusciti a migliorare partita dopo partita dimostrando che con dedizione e sacrificio siamo in grado di crescere e guardando in prospettiva futura abbiamo la possibilità di raggiungere il livello delle migliori squadre e guadagnare qualche posizione nel ranking mondiale per avere qualche chance in più di qualificarci per le prossime olimpiadi. Ma anche per essere più competitivi al livello europeo e magari al livello mondiale.

Com’è stata l’atmosfera durante le partite?

Il clima che si viveva nelle gare giocate in Polonia è stato qualcosa di eccezionale, incredibile. È sicuramente sarà tra i ricordi più belli che conserverò di questa manifestazione. Ho provato una sensazione di grande calore, di forte partecipazione da parte di tutto il popolo polacco non soltanto nel palazzetto ma anche fuori. Per strada incontravo tanta gente sempre pronta a spendere una parola di incoraggiamento mostrando un’attenzione particolare per quello che stavamo facendo. Tutto questo mi ha confermato ancora una volta come la pallavolo in Polonia sia uno sport con uno straordinario seguito e quando la squadra scendeva in campo anche per me è stato un onore rappresentare questo Paese.

In un’intervista ha dichiarato che questo campionato fa parte di un piano a lungo termine, che futuro prevede per la squadra polacca?

Senza dubbio questa prima stagione ha rappresentato una esperienza importante perché abbiamo avuto la possibilità anche di competere in una manifestazione del livello del campionato mondiale. Ma lo ritengo comunque un punto di partenza perché il nostro progetto è quello di costruire una squadra forte e di far crescere parallelamente tutto il movimento della pallavolo femminile in cui la nazionale gioca un ruolo fondamentale di stimolo. Quindi, senza dubbio, servirà del tempo e molto lavoro. Ogni stagione sarà un’occasione per crescere. Puntiamo ad un livello decisamente superiore che ci possa permettere di essere competitivi con le migliori nazionali del mondo. Credo che abbiamo molto potenziale e giocatrici di grande talento. Ora le prossime tappe sono la nuova edizione della VNL, il Campionato Europeo dove cercheremo di essere ancora tra le migliori squadre e poi le qualificazioni alle Olimpiadi che saranno un test molto impegnativo, teniamo moltissimo alla qualificazione!

Come giudica il movimento pallavolistico italiano?

Beh, si tratta dell’élite mondiale. Credo che il campionato italiano sia il campionato di più alto livello al mondo. E la nazionale azzurra è leader mondiale, ma soprattutto credo che l’Italia negli ultimi vent’anni abbia costruito un movimento di qualità anche al livello giovanile in un Paese che comunque non è tra i più popolosi tra le nazioni leader a livello mondiale in questo sport.

Perché gli allenatori italiani, in vari sport, sono così richiesti all’estero?

Credo che il successo degli allenatori italiani, parlo per quello che riguarda la pallavolo femminile e la mia esperienza diretta in particolare, sia dovuto soprattutto a quanto negli ultimi decenni gli allenatori italiani abbiano studiato sul modello delle migliori scuole di pallavolo. Poi è merito del metodo di lavoro basato appunto su quello che abbiamo appreso delle migliori scuole e su quello che abbiamo vissuto grazie a poter vivere, a stretto contatto con i migliori atleti del mondo. Perché nel nostro campionato sono passate gran parte delle migliori atlete del mondo degli ultimi vent’anni. Credo di poter affermare che noi allenatori italiani abbiamo sempre avuto il piacere di condividere le nostre conoscenze e anche il piacere di imparare l’uno dall’altro promuovendo così, attraverso il confronto, la crescita di tutto il movimento. Poi evidentemente abbiamo successo anche grazie al nostro stile che non voglio dire sia migliore o peggiore di altri ma è il nostro, diverso e che evidentemente è apprezzato e dà fiducia.

Cosa ti piace di più della Polonia? Con quali ricordi sei tornato in Italia?

In Polonia mi sono trovato molto bene. Francamente non ho avuto molto tempo da dedicare a visitare il paese. Della cultura polacca e del popolo polacco quello che ho conosciuto è un po’ quello che mi è arrivato nel relazionarmi con il mio staff e con le giocatrici. E devo dire che per quel poco che ho potuto vedere, mi sono piaciute molto le città in cui sono stato: ricche di storia e molto vivibili. Una cosa che mi ha colpito molto è stata la natura splendida ammirata negli spostamenti in macchina tra una città e l’altra. Dal punto di vista del contatto umano la Polonia che conosco è solo quella del mio staff e con loro, magari sarò stato fortunato, ma mi trovo benissimo, ho una grande sintonia e ho trovato grande apertura e capacità di dialogo. Da quanto vissuto in questa prima esperienza ho la sensazione che mi troverò molto bene in Polonia. Dopo l’esperienza ai Campionati Mondiali sono tornato in Italia con dei bellissimi ricordi e soprattutto con grossissima motivazione per il futuro.

ALDESTINE le creazioni di Aleksandra Paula Ziemińska

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foto: Kate Gellerman

“Guardo con nostalgia le donne veramente eleganti, che esprimono il loro senso di autostima in modo semplice e disinvolto attraverso i loro abiti.” Aleksandra Paula Ziemińska, stilista e designer di moda allo stesso tempo, ha avuto il coraggio di uscire dalla sua zona di comfort professionale per seguire la sua passione e vocazione. Il suo marchio ALDESTINE (come Aleksandra, destine – destino) è appena entrato sul mercato. Link al sito: www.aldestine-official.com.

foto: Kate Gellerman

ET: Cosa provi quando vedi le etichette sui tuoi abiti?

foto: Kate Gellerman

AZ: Mi emoziono… Ho sempre voluto creare vestiti. Passione ereditata dalla nonna. Ho lavorato nella finanza per molti anni fino a quando non sono stata abbastanza matura da mettere in gioco tutto. Tante volte rubavo i materiali a mia nonna e cucivo per le bambole, ora voglio cucire per le donne, per tutte le donne.

Quali donne la ispirano?

Tutte! Mi piace sedermi in un bar e osservare la gente, soprattutto se mi trovo in Italia o in Francia. Il mio amore per l’Italia è sconfinato, forse in una vita precedente potrei essere stata italiana… Magari una di quelle donne che ammiro: consapevoli della propria bellezza (ce l’abbiamo tutte). Mi ispiro ai vecchi film in cui la donna apprezza l’eleganza. Oggi le donne hanno spesso paura di aprirsi. Guardo con ammirazione Sofia Loren o Monica Bellucci, che si presentano con grande naturalezza, un’eleganza disinvolta ma mai esagerata. Sono reali.

Il ruolo principale nella tua collezione è svolto dal tailleur: completo giacca e pantaloni.

Non ho paura di mescolare strutture di tessuti diversi, ma i tailleur sono gli abiti che “risuonano” con me al cento per cento. Vorrei dimostrare che non si tratta solo di un abito per riunioni di lavoro. Non deve essere recluso in una specifica occasione. Si può apparire eleganti, femminili e sentirsi belle con questo capo. Qualità, femminilità, ritorno alla vera eleganza in ogni taglia, perché io cucio abiti dalla XS alla XL.

foto: Kate Gellerman

Indossi i tuoi abiti?

Naturalmente, non potrebbe essere diversamente! Mi aiutano ad esprimermi, mi fanno sentire a mio agio. Mi piace che le donne scelgano una semplicità elegante, che indossino abiti per esprimere se stesse e dimostrarsi che sono importanti.

Progetti di lavoro imminenti?

La mia collezione è orientata ai mercati esteri, dove i capi classici di un’eleganza antica si vedono normalmente per strada. Guardo con nostalgia le donne di Parigi, Milano o Roma e vedo come gli stanno i miei abiti. I clienti polacchi sono diversi, spesso non apprezzano la qualità dei materiali o della lavorazione. Con me possono scegliere il loro vestito realizzato individualmente, possono acquistare la giacca separatamente dai pantaloni in modo da enfatizzare al massimo la loro silhouette.

foto: Kate Gellerman
foto: Kate Gellerman

Cosa sogni?

Cose semplici: voglio stare in disparte, osservare il mondo che mi ispira e creare il marchio ALDESTINE, che sarà associato all’eleganza, alla qualità. Riportare la femminilità, la capacità di indossare gli abiti in modo non forzato e di classe: questo è ciò che sogno in un momento in cui la moda è così pesantemente esagerata.

www.aldestine-official.com

Alimentazione italiana, il mindful eating

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L’immagine dell’Italia nella cultura popolare è spesso associata al cibo. Cibo che si gusta nelle calde sere d’estate, in compagnia di amici, del buon vino, passando ore a tavola. Sono stati scritti molti libri e film che mitizzano l’Italia e ciò che un viaggio nel Bel Paese può scatenare in una persona.

Lo schema più frequente è: il protagonista parte per cambiare qualcosa nella sua vita ripristinare/riscoprire se stesso. Si siede davanti a un piatto di pasta e quindi tutto cambia. Il romanzo più popolare che utilizza questo schema è il libro di Elizabeth Gilbert “Mangia, prega, ama”, in cui la cucina italiana ha un’influenza decisiva sulla trasformazione del protagonista. Un bestseller mondiale (più di 10 milioni di copie vendute) che ha avuto anche una trasposizione cinematografica. Tutte queste storie “grandi” e pompose scritte sul cibo italiano possono allontanare alcuni e incoraggiare altri a comprare un biglietto di sola andata per l’Italia soleggiata. Quanto c’è di vero nell’effetto “magico” della cucina italiana? Tornando con i piedi per terra e mettendo da parte le questioni di trasformazione spirituale, possiamo certamente dire che la dieta degli italiani ha molti benefici per la salute. Curiosamente, benefici per la salute molto simili possono essere ottenuti praticando una filosofia alimentare di cui si parla sempre più spesso negli ultimi tempi: il mindful eating.

Il mindful eating fa parte dell’arte della consapevolezza o mindfulness, che riguarda l’essere “qui e ora”, il concentrarsi sugli stimoli esterni e interni. J. Kabat-Zinn, uno dei più noti divulgatori della mindfulness, l’ha descritta come “la consapevolezza che deriva dal dirigere l’attenzione in modo intenzionale e non giudicante verso il momento presente”. Il mindful eating, invece, è concentrare questa filosofia sul mangiare. Quindi l’idea è che mangiando con attenzione, senza fretta, dedicando spazio e tempo nella nostra vita quotidiana all’attività del mangiare, possiamo migliorare la nostra salute fisica e mentale.

Nella sua forma più avanzata, il mindful eating è addirittura una meditazione sul cibo, in cui ci si concentra sulla consistenza, sui diversi sapori e odori di un piatto e si mangia lentamente. Questa pratica ha molti vantaggi. Ad esempio, uno studio condotto da ricercatori della Columbia University ha rilevato che le persone che mangiano in modo consapevole hanno spesso livelli di glucosio e di colesterolo più bassi e una pressione sanguigna migliore rispetto a coloro che mangiano di corsa. L’ostacolo più grande che le persone oggi incontrano nell’iniziare a praticare il mindful eating è proprio il tempo che manca loro costantemente. Così facendo, si dimentica che curando le piccole cose della giornata, ci si prende cura del proprio futuro, della propria salute fisica e mentale.

Secondo i dati dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), in media gli italiani e i francesi sono quelli che passano più tempo al giorno a mangiare e bere (più di 2 ore). Questo sottolinea il fatto che per gli italiani il pasto non è solo una delle faccende da sbrigare durante la giornata. È anche un piacere, una cosa a cui vale la pena dedicare del tempo. Solitamente eseguita in momenti fissi della giornata, spesso in compagnia di familiari o amici, ha assunto un’importanza maggiore rispetto ad altri Paesi. Questo è successo perché l’arte culinaria non è solo una parte importante della vita quotidiana italiana, ma anche della cultura. Ciò è senza dubbio legato al patriottismo locale degli italiani (probabilmente derivante dalla tardiva unificazione del Paese), che si manifesta in un forte attaccamento ai prodotti della regione di provenienza. Le ricette regionali sono considerate molto seriamente e le modifiche non sono gradite. Questo influisce anche sulla passione che gli italiani hanno per il cibo. Mangiando, non solo soddisfano la loro fame e si divertono, ma celebrano anche le loro origini. Anche l’attenzione con cui si mangia è importante. Durante un pasto, parlano spesso di ciò che hanno nel piatto e sono in grado di apprezzare sinceramente un piatto ben cucinato. Così sono “qui e ora” e seguono uno dei principi del mindful eating senza nemmeno saperlo.

Nel mondo moderno non è facile essere “mindful”. Con l’avanzare della tecnologia, la nostra vita si velocizza e diventa sempre più diffi cile dedicare del tempo prezioso alla cura di noi stessi. Quando siamo sopraffatti dalle basi dell’igiene dei pasti, non pensiamo nemmeno a concentrarci sulla consistenza, sul gusto o sull’odore del nostro piatto. La lotta contro la degradazione delle pratiche alimentari è condotta da Slow Food, un’organizzazione fondata nel 1989 da Carlo Petrini. Riunisce milioni di persone di oltre 160 Paesi e si dedica all’educazione e all’azione per prevenire la scomparsa delle tradizioni culinarie. Slow Food lotta contro le fi losofi e dello stile di vita veloce e il diminuito interesse delle persone per le loro scelte alimentari.

Essere consapevoli durante l’atto del mangiare è naturale per gli italiani, che quindi, anche senza usare questa pratica consapevolmente, ottengono molti benefici per la salute. Questo stile alimentare è ideale per chi non ha tempo di seguire tecniche di meditazione avanzate. Non solo per i fatti che dimostrano che è benefico per la nostra salute, ma anche per i miti che ci aiutano a celebrare la cucina italiana. Non abbiamo bisogno di meditare a ogni pasto per essere più sani, perché una forma più semplice e accessibile di pratica della consapevolezza è a portata di mano.

Gianluca Piredda e “Dracula in the West”

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Negli ultimi decenni alcuni fumettisti italiani si sono fatti strada all’estero, e in particolare negli Stati Uniti, non di rado collaborando con le più importanti case editrici d’Oltreoceano. Tra questi autori va menzionato Gianluca Piredda, sceneggiatore di un gran numero di opere tradotte in buona parte del mondo, tra cui “Dracula in the West”, opera recentemente pubblicata anche in Polonia.

Piredda è nato a Sassari nel 1976 e ha esordito nel mondo del fumetto nel 1992. Dopo essere stato uno dei pionieri del fumetto indipendente in Italia, a partire dal 1999 ha iniziato a collaborare con vari editori americani. Dopo la sua prima opera edita negli USA, la graphic novel “Winds of Winter”, nel 2001 esce un numero speciale della serie “Warrior Nun Areala”, creata nel 1994 da Ben Dunn (e in anni recenti divenuta una serie televisiva prodotta da Netfl ix). L’albo, intitolato “No Justice for Innocents” e pubblicato dalla casa editrice Antarctic Press, è scritto da Gianluca Piredda e illustrato da Chris Gugliotti. Negli anni successivi lo sceneggiatore italiano continua a pubblicare negli Stati Uniti con varie case editrici: tra i suoi vari progetti, nel 2005 esce la miniserie thriller “Free Fall”, mentre due anni dopo Piredda è tra gli autori che partecipano alla pubblicazione antologica della Image Comics “Negative Burn”. Del 2012 è invece la miniserie “Airboy: Deadeye”, scritta a quattro mani con Chuck Dixon per i disegni di Ben Dunn e dedicata alle avventure dell’omonimo personaggio, eroico aviatore della seconda guerra mondiale.

In Italia Gianluca Piredda ha continuato a pubblicare libri (tra cui “Wicked Game” e “Sardegna in cucina”) e fumetti, traducendo anche comics americani e collaborando con varie riviste dedicate alla nona arte e al fantastico, tra cui i settimanali “Lanciostory” e “Skorpio” dell’Aurea Editoriale, a cui è legato dal 2015. Nel 2017, su “Lanciostory”, Piredda diventa sceneggiatore di “Dago”, celebre fumetto di ambientazione storica creato nel 1980 in Argentina da Robin Wood e Alberto Salinas. Nel 2018 sulle pagine di “Skorpio” esordisce la sua serie western “Freeman”, disegnata da Vincenzo Arces, che affronta la drammatica storia dello schiavismo e del razzismo negli Stati Uniti. Alla fine del 2019, di nuovo su “Lanciostory”, esce in quattro puntate il primo episodio di “Dracula in the West”, illustrato da Luca Lamberti. La seconda storia, pubblicata nel 2021, ha invece i disegni di Emiliano Albano.

“Dracula in the West” è un’originale variazione sul mito del vampiro: il villain del romanzo di Bram Stoker, a malapena sopravvissuto allo scontro con Abraham Van Helsing, fugge negli Stati Uniti per iniziare una nuova vita lontano dall’Europa. Grazie all’aiuto di una sciamana nativa americana, sua riluttante alleata, il vampiro trova il modo di sopravvivere alla luce del sole e decide di stabilirsi nella località di Penny Town. Il punto di forza della serie è certamente l’idea di inserire un personaggio come Dracula, così fortemente legato al vecchio continente, nelle atmosfere tipiche della frontiera americana, tra saloon, gangster e indiani. Il vampiro di Gianluca Piredda, ritrovatosi in un mondo a lui del tutto estraneo, non è un personaggio totalmente negativo come il conte di Stoker, anzi, con il tempo assume i tratti di un antieroe. Pur essendo orgoglioso, arrogante e violento, mostra spesso riconoscenza e generosità verso i mortali che lo aiutano ed è pronto a difendere gli innocenti di Penny Town dai criminali e da minacce più soprannaturali. Un ruolo importante ha nella storia la cultura dei nativi americani, i cui miti e leggende sono uno degli elementi chiave delle avventure di Dracula nel Far West. Toni oscuri e tipicamente horror pervadono soprattutto il secondo episodio, impreziosito dal tratto dettagliato e realistico di Emiliano Albano.

Nel 2022 i primi due episodi di “Dracula in the West” sono stati pubblicati negli USA dalla Antarctic Press; nello stesso anno la casa editrice Elemental ha portato il Dracula di Piredda in Polonia, raccogliendo le due storie fi nora uscite in un volume cartonato arricchito da illustrazioni aggiuntive e studi preliminari di alcune pagine del fumetto.

Foto: Sławomir Skocki, Tomasz Skocki

Cinema, fotografia, telefono

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Per centinaia d’anni il latino e il greco antico erano considerate la pietra angolare della cultura europea. L’uso di queste lingue cominciò a calare fortemente nel Settecento, ma fino ad oggi entrambe sono usate nelle discipline scientifiche: medicina, chimica, biologia, fisica, meccanica ecc. A volte queste parole, inventate ad esempio per descrivere un nuovo oggetto, rimangono nel nostro vocabolario e molto spesso lo fanno nella forma abbreviata cosicché non siamo capaci di riconoscerle come delle parole di origine greca o latina. Tra gli esempi si trovano anche i termini legati alla cultura e al divertimento.

Cinema
La parola “cinema” sia nel polacco sia nell’italiano è un prestito dal francese, che sembra naturale, dato il fatto che il cinema è nato in Francia. La parola francese cinéma è però un troncamento del nome dell’invenzione chiamata nel francese cinématographe, neologismo costruito dai fratelli Lumière in base delle due parole greche: κίνημα (kínema) che significa “movimento” e γράφω (grápho) che significa “incidere”, “scrivere” o anzi, “descrivere”. Il nome della nuova invenzione di Lumière significa quindi ciò che è capace di salvare, registrare il movimento e poi rappresentarlo grazie alla proiezione su schermo. È interessante anche il fatto che mentre l’italiano preferisce adoperare la parola “cinema”, cambiando solo il suono della kappa iniziale nella parola kinema, il polacco usa la forma ancora più breve, ma che preserva il suono iniziale: kino.

Fotografia
Molto similmente è stata costruita la parola fotografia, che precede la nascita del cinema. Come nel caso del cinematografo, la fotografia è costruita da due parole greche di cui una è il verbo grapho, con il significato di “scrivere”. La prima parte a sua volta viene dalla parola greca φωτός (photós) il genitivo dal φῶς (phôs), che signifi ca “luce”. Siccome la fotografi a è una tecnologia della registrazione permanente di un’immagine su un materiale attraverso la luce, possiamo immaginare che in questo caso il nome significa non “descrivere la luce” ma piuttosto “scrivere con la luce”. Nella lingua italiana, come nel caso del cinema, riguardo al prodotto della fotocamera si usa la versione abbreviata della parola, cioè “foto”. Ripensandoci, possiamo osservare che in italiano si dice semplicemente “movimento” (cinema) e “luce” (foto). Al posto della foto il polacco invece usa una parola nativa, zdjęcie, dal verbo zdejmować (rimuovere, spogliare, prendere). Anche per i polacchi, se ci si pensa un attimo, questo può sembrare strano, perché tale uso (nel contesto fotografico) è preservato solo nella parola zdjęcie. Zdejmować invece non si usa più nel signifi cato di “fare una foto”, ma il senso di zdejmować in questo contesto si può facilmente comparare al verbo “scattare” (come in “scattare una foto”), proveniente dal latino excaptare.

Telefono
Vediamo quindi che i nomi delle nuove invenzioni sono molto descrittivi, è così anche nel caso della parola “telefono”. Di nuovo abbiamo una parola con due elementi greci. Questi sono: τῆλε (têle), col signifi cato di “lontano” e φωνή (phoné), che signifi ca “voce” oppure “suono”. Vediamo quindi che il nome dell’apparecchio, senza cui sarebbe diffi cile funzionare nella società d’oggi, indica la sua funzione basilare: parlare con gli altri a distanza, cioè sentire “la voce lontana”, nascosta nella parola “telefono”.

Torta della nonna, czyli placek babci

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Ingredienti:

Per la frolla:
500 gr di farina di frumento 0
300 gr di burro morbido
200 gr di zucchero a velo fine
3 tuorli (circa 60 gr)
vaniglia
scorza di limone grattugiata
1 cucchiaino di sale fino

Per il ripieno:
500 ml di latte intero
50 gr di farina 00
200 gr di zucchero semolato
4 tuorli (circa 80 gr)
la scorza di 1 limone

Per guarnire:
25 gr di pinoli
Zucchero a velo
Albume

Procedimento:
Per prima cosa preparate la crema pasticcera: in un pentolino versate i tuorli e lo zucchero e mescolate con la spatola e poi unite la farina. Mescolate fino ad ottenere un composto liscio e denso.

In un secondo pentolino versate il latte con la scorza di limone grattugiata e portate al bollore. Aggiungete quindi un po’ di latte bollente sulla crema di uova e mescolate con una frusta. In seguito versate il restante latte, riportate sul fuoco a calore medio e fate addensare la crema sempre mescolando. Trasferitela quindi in una ciotola ampia e copritela con pellicola a contatto. Fate raffreddare bene. Intanto preparate la frolla: in planetaria o a mano lavorate il burro con la farina, il sale, la vaniglia e il limone grattugiato. Aggiungete quindi lo zucchero e fate sabbiare. Per ultimi unite i tuorli e impastate fi no ad ottenere una consistenza liscia e compatta. Coprite con pellicola, appiattite e mettete in frigorifero a riposare per 30/60 minuti.

Stendete quindi la frolla sul piano di lavoro ben infarinato e rivestite una tortiera possibilmente con fondo amovibile di circa 24/26 cm di diametro, dopo averlo ben imburrato e infarinato. Togliete la frolla in eccedenza e bucherellate il fondo con i rebbi di una forchetta. Versate a questo punto la crema ormai fredda, livellandola bene con una spatola. Stendete la frolla rimasta rivestite la torta con un secondo strato coprendo la crema. Ritagliate la frolla in eccedenza facendo aderire bene la frolla ai bordi e punzecchiate di nuovo con la forchetta.

Spennellate con l’albume un po’ sbattuto e cospargete con i pinoli. Cuocete in forno ventilato già caldo per 45 minuti a 160°, poi alzate la temperatura a 180° e cuocete per altri 10 minuti fino a completa doratura. Fate raffreddare bene, sformate la torta e cospargete di zucchero a velo.

La viticoltura dell’Etna allo showroom Quattro P

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Tra le bellezze naturali italiane ce n’è una in Sicilia che negli anni affascina e fa da padrona a tutto il territorio, talvolta facendo sentire qualche boato o regalando eccezionali eruzioni: l’Etna o ‘a muntagna ‘ come affettuosamente amano chiamarla i cittadini etnei.

L’Etna, il più grande vulcano attivo d’Europa è considerato un vulcano buono per via della natura delle sue eruzioni che, sebbene improvvise, hanno un fronte lento e contenuto in modo naturale dalle enormi vallate che raccolgono i materiali emessi.

La conformazione minerale del territorio dovuto anche alla generosa presenza di terra e sabbia vulcanica fa si che, nonostante l’altitudine, ci si possa spesso imbattere in una discreta quantità di vigneti, prima di arrivare in alta quota e prendere la funivia per andare a sciare, per sei mesi circa all’anno, godendo di una vista mozzafiato sul mare.

Proprio sull’Etna la coltivazione della vite ha trovato condizioni climatiche favorevoli, grazie infatti ad un clima soleggiato per gran parte dell’anno e ad una escursione termica tra il giorno e la notte,che favorisce la viticoltura in una complessità di aromi e sapori tutta particolare, portando alla produzione di vini di eccellenza con qualità certificata in ambito internazionale.

La maggior parte dei vigneti presenti sull’Etna rappresenta una vera e propria espressione di identità grazie alle tipologie di uve autoctone utilizzate.

Come vite a bacca rossa primeggia il Nerello Mascalese che presenta un colore abbastanza scarico ed un tannino spesso accentuato , affiancato dal meno noto Nerello Cappuccio che trova la sua esistenza quasi esclusivamente sull’Etna e che insieme al mascalese porta alla produzione della DOC Etna rosso. Tra i vini bianchi la varietà dominante è quella del Carricante, un’uva e un vino ricco di profumi e intensi aromi, con persistenti note floreali. In minori quantità troviamo la Minnella o il Cataratto che vanno a formare l’Etna bianco DOC.

Pregevoli anche gli spumanti bianchi derivati da uve a bacca rossa, come il nerello mascalese, già citato sopra, per una riscoperta enologica che ci porta ad un sapore diverso della Sicilia del classico nero d’ Avola o del Grillo, che invece possiamo tranquillamente trovare nella parte restante dell’isola.

Ricordatevi dunque prima di stappare una bottiglia d’Etna: bianco, rosso o spumante, che lì dentro troverete qualcosa di esplosivo, così come la terra da cui viene prodotto, un vino che non vi lascerà indifferenti e che vi condurrà alla scoperta di un gusto travolgente e affascinante. Sapori che potrete provare allo showroom Quattro P, in via Waflowa 1 a Varsavia.

Risotto con zucca, guanciale e crema di aceto balsamico

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Ingredienti per 2 persone:
150 g riso carnaroli o arborio
250 g polpa di zucca hokkaido
50 g cipolla bianca
1⁄2 l di brodo vegetale (1/2 carota,1/2 cipolla
bianca,1 costa di sedano, 3 grani di pepe nero)
20 g olio evo
30 g burro freddo
20 g parmigiano grattugiato
sale e pepe nero macinato
80 g guanciale oppure pancetta affumicata cruda
15 g crema di aceto balsamico

Procedimento:
Preparare il brodo con 1 lt di acqua fredda e le verdure tagliate a pezzi grossi e far consumare fi no a 3/4. Tagliare il guanciale o la pancetta a striscioline e cuocere in padella a fuoco medio senza grassi fino a quando sarà croccante, quindi far asciugare su della carta da cucina. In una casseruola mettere la cipolla precedentemente tritata con 20 g di olio evo (olio extra vergine), fi no a farla diventare dorata. Aggiungere la zucca gialla lavata pulita e tagliata a cubetti rosolare per 1 min. Aggiungete un pizzico di sale e 1⁄4 di brodo vegetale, cuocere con coperchio fi no a quando sarà quasi disfatta. Nel caso non bastasse il brodo aggiungere acqua per ultimare la cottura. Poi versate la zucca cotta nel bicchiere del mixer e frullate.

Nella stessa pentola di cottura della zucca facciamo tostare il riso a fuoco medio fino a quando sarà caldo, aggiungiamo il brodo poco per volta continuando a mescolare con un cucchiaio di legno dopo 5 min uniamo la crema di zucca e il brodo sempre poco per volta. Ora continuiamo la cottura per altri 8/9 min, per un piatto al dente. Spegnere il fuoco e mantecare con il burro freddo e il parmigiano tritato, finire con pepe nero macinato fresco e regolare di sale. Impiattare il risotto all’onda (morbido), mettere sopra il risotto il guanciale (o la pancetta) croccante e fi nire con alcune gocce di crema di aceto balsamico.

Buon appetito!