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Il mondo biodinamico di Palazzo Tronconi nel cuore della Ciociaria

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Nel cuore pulsante della Ciociaria, a pochi passi da Arce, sorge Palazzo Tronconi, un luogo che è riuscito a catturare l’anima del passato e a proiettarla nel futuro attraverso la produzione di vini biodinamici. L’edificio del XVIII secolo, sapientemente restaurato, offre una finestra unica su tradizioni vinicole quasi dimenticate. Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Marco Marrocco, l’ideatore del mondo di Palazzo Tronconi, per scoprire i segreti e la passione che animano questo progetto straordinario.

Storia e Filosofia di Palazzo Tronconi

Palazzo Tronconi è nato dal desiderio di rispettare la natura e riscoprire le tradizioni vinicole della Ciociaria. “La produzione dei nostri vini biodinamici,” spiega il fondatore, “è guidata dai principi di Rudolf Steiner e si basa sull’armonia con i cicli naturali. Usiamo metodi agricoli sostenibili per mantenere un ecosistema equilibrato e coltiviamo varietà autoctone come il Maturano Bianco e il Lecinaro. Ogni nostro vino racconta una storia di autenticità e passione.”

Una cucina tutta da scoprire

L’esperienza del palato non si limita ai vini. L’esperienza è arricchita dalla presenza dell’Osteria, dove la Head Chef Ewelina Kahla, polacca di Białystok, rinnova la cucina locale attraverso piatti dal sapore unico. “Ogni piatto è pensato per celebrare il territorio e si abbina perfettamente ai nostri vini,” racconta il Marrocco. “Ewelina riesce a regalare ai nostri ospiti un’esperienza culinaria indimenticabile.”

Dal vigneto alla tavola: un viaggio esperienziale

Palazzo Tronconi non è solo una cantina, è un’esperienza sensoriale completa. “Offriamo visite guidate ai vigneti e degustazioni per permettere ai visitatori di immergersi nella nostra filosofia biodinamica”, racconta Marrocco. Ogni visita è un viaggio alla scoperta dei vitigni autoctoni e delle pratiche biodinamiche. L’esperienza culmina in degustazioni di vini, accompagnati da piatti preparati da Ewelina. E per chi desidera prolungare il soggiorno, le camere del B&B, arredate con stile locale, offrono un rifugio di pace e tradizione.

Oltre ai vini, quali altri prodotti si possono trovare presso il vostro agriturismo?**

Oltre ai nostri vini biodinamici, offriamo miele di altissima qualità prodotto dalle nostre api, che impollinano i vigneti e le coltivazioni circostanti. Inoltre, produciamo olio extravergine d’oliva ottenuto dalle olive coltivate con metodi sostenibili. Questi prodotti riflettono la nostra attenzione per la sostenibilità e la naturalità.

Raggiungere e vivere Palazzo Tronconi

Per chi desidera vivere appieno questo angolo di paradiso, raggiungere Palazzo Tronconi è semplice. Situato in una posizione strategica, è facilmente accessibile da Roma, Napoli e altre grandi città. Il viaggio può proseguire su strade pittoresche, incorniciate dal paesaggio unico della Ciociaria. “A chi arriva, offriamo un’esperienza che va oltre la semplice visita,” sottolinea il fondatore. I visitatori possono partecipare a workshop di cucina, corsi di degustazione e anche alla vendemmia. Ogni esperienza è progettata per far vivere il territorio, la natura e la tradizione di Palazzo Tronconi.

Il futuro di Palazzo Tronconi

Guardando al futuro, il progetto prevede un’espansione della produzione vinicola, con l’introduzione di nuove varietà autoctone e una continua innovazione nell’ospitalità. “Vogliamo crescere, ma sempre nel rispetto delle nostre radici,” ci confida il fondatore. “Ogni nuovo passo è un modo per valorizzare la Ciociaria e offrire ai nostri ospiti un’esperienza sempre più ricca e autentica.”

Palazzo Tronconi rappresenta un viaggio estatico tra natura, storia e passione. Questo luogo non è solo una tappa per chi ama il vino, ma un’esperienza coinvolgente per chi cerca un legame profondo con il territorio, la tradizione e l’innovazione. Anche grazie alla maestria di Ewelina, il connubio perfetto di sapori e culture è assicurato, rendendo ogni visita a Palazzo Tronconi un’occasione indimenticabile di scoperta e piacere.

I vini dell’azienda Tronconi sono distribuiti in Polonia da Fattorie del Duca.

API Food – Cucina Italiana – 25 anni di attività sul mercato polacco

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traduzione it: Zuzanna Pomykała

 

La Cucina Italiana: un viaggio culinario con API Food

Non dobbiamo probabilmente convincervi che scoprire le sfumature dell’autentica cucina italiana sia un’impresa che richiede anni. Noi, in questa intricata materia, ci troviamo piuttosto bene, grazie alla presenza di Cesare Bracco, fondatore dell’azienda, originario di Torino, e di Anna Wójtowicz, che vive in Italia da oltre trent’anni. La combinazione di una prospettiva italiana e di quella di una straniera porta risultati straordinari. Sappiamo distinguere i prodotti italiani realizzati sia dalle grandi aziende internazionali che troviamo nei supermercati italiani, sia da quelli artigianali, prodotti da piccole aziende familiari con una lunga tradizione.

L’azienda API è stata fondata nel dicembre del 1999 e inizialmente rappresentava i costruttori italiani di macchine per l’industria delle materie plastiche. Tuttavia, in quegli anni, sul mercato polacco i prodotti alimentari italiani erano scarsi, e ciò ci ha spinti ad approfondire questo settore, dando vita ad API Food. La prima specialità italiana che abbiamo introdotto in Polonia è stato un classico: il Parmigiano Reggiano di altissima qualità, proveniente da un caseificio amico, membro del Consorzio Parmigiano Reggiano. Questo formaggio straordinario è ancora oggi uno dei nostri bestseller!

Negozio di alimentari online

La crescente domanda di prodotti italiani ci ha ispirato, nel 2011, ad aprire il negozio di alimentari online: La Cucina Italiana. Ci siamo impegnati ad includere nella nostra offerta i prodotti italiani che rispettano la tradizione culinaria del paese: realizzati con metodi tradizionali, spesso provenienti dalle regioni geografiche tipiche, senza artifici, e prodotti nello stesso modo da generazioni.

Abbiamo conosciuto e visitato ciascun produttore delle specialità che offriamo. Abbiamo osservato i processi produttivi e le coltivazioni, come quelle delle olive, dei carciofi, delle nocciole piemontesi, o l’allevamento delle mucche il cui latte è destinato alla produzione del nostro Parmigiano Reggiano.

Cucina Italiana: crescita aziendale, contatti e amicizie

Ovviamente, la presentazione delle nostre specialità italiane comporta costanti contatti nel settore: fiere, show cooking, incontri con blogger e chef. Negli anni abbiamo partecipato a numerose fiere di settore, in particolare agli eventi specializzati come Giornate delle Allergie e Intolleranze Alimentari o Gluten Free Expo. Abbiamo avuto l’onore di essere partner del progetto Sapori della Vita di Magda Gessler, presentando la cucina italiana insieme a Cristina Catese nell’ambito della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, organizzata, tra gli altri, dall’Ambasciata d’Italia. Da anni collaboriamo con i blogger Jola Słoma e Mirek Trymbulak di Atelier Smaku (Atelier del gusto), che, dopo i nostri viaggi in Italia, raccontano sul loro canale YouTube le esperienze vissute e preparano ricette utilizzando le nostre specialità. Jola e Mirek sono veri amanti di Venezia, avendo appena acquistato un appartamento lì, e creano anche gioielli in ambra con elementi di maschere veneziane. Apprezziamo anche la collaborazione con Magda Ciach-Baklarz, l’autrice di uno dei più apprezzati blog di viaggi, Italia poza Szlakiem (L’Italia fuori dai sentieri battuti), che ha scritto più volte delle nostre specialità, in particolare di quelle legate alle tradizioni natalizie, raccontando ai lettori polacchi le storie e le tradizioni di dolci come panettone, pandoro e colomba.

I nostri sapori italiani

Le specialità tradizionali italiane rappresentano per noi la base e il punto di partenza per scoprire anche le ultime tendenze del mercato alimentare italiano. Sugli scaffali virtuali del nostro negozio si trovano classici come: olio d’oliva di alta qualità, pasta, salse di pomodoro, pesto, formaggi come parmigiano, pecorino, caprino, ma anche prodotti di nicchia, come formaggi a caglio vegetale di carciofo, succo di melograno italiano spremuto a freddo, cioccolato prodotto “dalla fava alla tavoletta” e una vasta gamma di prodotti senza glutine: pasta, biscotti, salse, pane, snack e altre specialità tipiche italiane che seguono le tendenze attuali del mercato “free from”.

Per noi, la cucina italiana acquista un vero sapore solo se accompagnata dalla cultura, dai paesaggi locali e, soprattutto, dalla competenza e dal cuore degli italiani nel creare i migliori prodotti. La nostra attività è una sorta di viaggio culinario, una fonte di gioia, conoscenza e benessere. Siamo felici di esserci guadagnati un posto speciale tra i buongustai polacchi!

Ottava edizione del Premio Gazzetta Italia 26/02/2025

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VIII Premio Gazzetta Italia: tra arte, letteratura, calcio e Belcanto

Si è svolta mercoledì 26 febbraio 2025, al Teatr Kamienica di Varsavia, l’VIII edizione del Premio Gazzetta Italia.

Durante la magnifica serata di gala, cui hanno partecipato oltre 230 ospiti, hanno ricevuto il riconoscimento della rivista bilingue (italiano-polacco) Gazzetta Italia, cinque apprezzati personaggi e due importanti aziende che rappresentano un vero ponte culturale ed economico tra Italia e Polonia, e proprio questo è l’aspetto cruciale del Premio ideato nel 2015 dal giornalista Sebastiano Giorgi, direttore di Gazzetta Italia e del
notiziario Polonia Oggi.

La serata è stata aperta dall’intervento dell’Ambasciatore d’Italia Luca Franchetti Pardo che nel complimentarsi per la scelta dei premiati ha parlato dell’importante ruolo svolto da Gazzetta Italia nel Sistema Italia in Polonia sottolineando “non so quante altre comunità straniere possano vantarsi di avere qui in Polonia una rivista di tale valore”.
A fargli eco il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia, Fabio Troisi – co-organizzatore della serata – che ha elogiato l’impegno di Gazzetta Italia nel dedicare ampio spazio di approfondimento a temi culturali e artistici che raramente trovano tale spazio nelle riviste.

La prima ad esser premiata con statuetta e piatto in vetro artistico Yalos Murano – dalle mani della console italiana a Cracovia Katarzyna Likus – è stata l’interprete e docente dell’Università Jagellonica di Cracovia, autrice di diversi saggi, Magdalena Wrana, membro dell’Associazione Internazionale Professori d’Italiano, dell’Associazione degli Italianisti nonché della Società degli Italianisti Polacchi.

Secondo premiato – dalle mani del poeta e scrittore Jarek Mikolajewski – uno dei maggiori scultori contemporanei polacchi: Krzysztof Bednarski, che vive tra Roma e Varsavia, autore di monumenti funebri di numerose personalità polacche, tra cui quelli dei registi Krzysztof Kieślowski e Krzysztof Krauze e di molti altri attori e politici, autore dei sarcofagi del compositore Krzysztof Penderecki e del poeta Adam Zagajewski collocati nel Pantheon Nazionale di Cracovia. Ha inoltre realizzato monumenti in spazi pubblici dedicati a Federico Fellini e Frederic Chopin.

Per la sezione Sport è stato premiato con una motivazione letta dal giornalista di Polsat Marcin Lepa, il famosissimo calciatore Kamil Glik, terzo per presenze nella nazionale polacca, che ha giocato ben 10 anni in Italia tra Palermo, Bari, Benevento e soprattutto Torino dove nel 2013 è diventato capitano della gloriosa formazione granata.

Il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia Fabio Troisi ha invece premiato Luigi Marinelli titolare della Cattedra di Polonistica all’Università Sapienza di Roma, dove è stato fra l’altro direttore del Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali. Si è occupato di molti temi e autori della letteratura polacca, dal Medioevo ad oggi, con un particolare interesse per i rapporti italo-polacchi, ed ha pubblicato circa 300 fra monografie, curatele, articoli e traduzioni, fra cui la Storia della letteratura polacca edita da Einaudi, pubblicata anche in polacco da Ossolineum, e il Corso di lingua polacca della Hoepli.

Preceduta da un video di una sua magnifica interpretazione di “O mio babbino caro”, è stata premiata, dalle mani del direttore d’orchestra Massimiliano Caldi, la straordinaria soprano Aleksandra Kurzak che da anni calca i più importanti palcoscenici del mondo, tra cui l’Opera National de Paris, la Royal Opera di Londra e la Metropolitan Opera a New York. Interprete sia del Belcanto italiano che delle opere veriste, si è esibita in tutti i maggiori teatri italiani da La Scala di Milano, al Teatro La Fenice di Venezia, al Teatro Massimo di Palermo, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma, al Teatro Regio di Torino, al San Carlo di Napoli, al Teatro dell’Opera di Roma arrivando fino all’Arena di Verona, dove a luglio (2025) si esibirà in Carmen e Aida, e poi debutterà anche come Tosca al Festival Puccini.

Importanti le due Menzioni Speciali date dalle mani del direttore dell’Ufficio Ice di Varsavia Roberto Cafiero a realtà economiche che rappresentano un significativo ponte tra Italia e Polonia: Sirmax, azienda con sede centrale a Cittadella e con due impianti a Kutno in Polonia dove impiega 137 dipendenti. Con oltre 60 anni d’attività alle spalle Sirmax è specializzata nella produzione di granuli termoplastici destinati a diversi settori di applicazione. È un’azienda globale con 13 stabilimenti produttivi tra Europa, Asia e America, circa 850 dipendenti e un fatturato che ha raggiunto nel 2024 i 430 milioni di euro.

La seconda Menzione Speciale l’ha ricevuta GPoland il maggiore importatore di marchi italiani della moda in Polonia e insostituibile punto di riferimento per tutte le aziende che vogliono penetrare questo mercato. Oggi GPoland gestisce sul mercato polacco oltre 90 prestigiosi marchi internazionali di abbigliamento, calzature ed accessori, la maggior parte dei quali italiani – tra cui Elisabetta Franchi, Pinko, Boggi, Emporio Armani, Trussardi, Furla, Pollini, Patrizia Pepe, Max Mara. Nel proprio showroom e sede operativa in via Domaniewska, nel cuore di Varsavia, GPoland impiega oltre cento professionisti – specialisti in vendite, retail, marketing e PR.

Le premiazioni sono state intervallate dalle apprezzate esibizioni delle cantanti Siostry Melosik che nei loro brani hanno eccezionalmente alternato strofe in italiano e in polacco.

È stata nel complesso una bella e piacevole serata d’amicizia italo-polacca, cui hanno partecipato i vertici delle Istituzioni Italiane in Polonia, il Nunzio Apostolico Antonio Filipazzi, i rappresentanti delle associazioni di categoria (AICE, Camera di Commercio, Confindustria Polonia) e un ampio spaccato economico e culturale italo-polacco, tra cui moltissimi imprenditori, manager, docenti universitari e rappresentanti di istituzioni culturali polacche come il Castello Reale e il Parco Lazienki di Varsavia.

Il gala organizzato da Gazzetta Italia e dall’Istituto di Cultura di Varsavia – patrocinato da Ambasciata d’Italia e ICE-ITA Varsavia – è stato sostenuto da: Generali, Yalos Murano, BNP Paribas, Horizon, Sirmax, GPoland, Core, GiGroup, Dolce Casa Italia, Faraone, Confindustria Polonia, Adalbert’s Tea, Connecting Europe, Fattorie del Duca, Ferrero, Venice Berr, Le Barbatelle, Hotel Warszawa, Cagiel Beauty.

 

Galleria

Konrad Grymin:

 

Mariano Caldarella:

Viaggiare con tutti i sensi

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Agnieszka Tiutiunik si occupa di comunicazione, branding e strategie di PR nel settore della cultura, mentre Przemek Pozowski è giornalista sportivo presso Radio TOK FM. Insieme hanno creato il blog e il profilo instagram tavolo_per_due e, guidati dall’amore per l’Italia, hanno scritto il libro “Stolik dla dwojga. Włoskie miasta i miasteczka” (Wydawnictwo Bezdroża, 2024). Gli stessi autori affermano che non è una guida o un compendio di conoscenze storiche, ma piuttosto un’ispirazione e una proposta della loro personale percezione di una determinata città con tutti i sensi. 

Il libro contiene la descrizione di 75 luoghi più o meno famosi, con curiosità culinarie e turistiche, il tutto illustrato con le bellissime foto. Durante la nostra conversazione, che ha spaziato liberamente dai viaggi al calcio, dalla cucina ai nuovi progetti, ho scoperto che in preparazione c’è la seconda parte del libro. Una parte del lavoro è già stata fatta, poiché 31 storie non sono entrate nel primo volume. Non resta quindi che verificare che tutti i luoghi consigliati siano ancora aperti e selezionare gli altri per completare l’opera. 

Quando gli ho chiesto di indicare i tre migliori momenti dei loro viaggi, hanno parlato di Bergamo, Napoli e Rocca Calascio in Abruzzo.

Per la prima volta in Italia insieme siamo andati a Bergamo, nella primavera del 2012. Ci siamo innamorati dell’Italia e poi ci siamo innamorati l’uno dell’altra, ma questo è avvenuto probabilmente durante la nostra seconda visita in Italia. Il nostro primo pensiero era di andare a Milano, ma alla fine è stata Bergamo ad affascinarci di più, racconta Przemek. 

“La vista dalla Città Bassa è magica. Se si alza lo sguardo da Porta Nuova, si vede la Città Alta, spesso immersa nelle nuvole. (…) Non sappiamo esattamente di cosa si tratti: probabilmente è un’emozione indescrivibile o semplicemente un sentimento. Siamo stati a Bergamo più di una volta; quando camminiamo per queste vie con sanpietrini, ci sentiamo a casa.” („Stolik dla dwojga. Włoskie miasta i miasteczka”, ss. 39, 41)

Le prime impressioni sono probabilmente le più memorabili, quindi il secondo momento più bello è stato il nostro primo viaggio a Napoli, dice Agnieszka. Dopo ci siamo tornati altre volte e amiamo la città per il suo caos, la sua sfrenatezza e la sua pluridimensionalità. Abbiamo dormito in un hotel in Piazza Garibaldi, un albergo poco appariscente e poco stellato che doveva avere il suo massimo splendore negli anni Settanta. Siamo arrivati abbastanza tardi, abbiamo lasciato i bagagli e siamo subito andati a fare una passeggiata notturna. Completamente ignari, abbiamo esplorato a fondo la zona di Porta Nolana, tra montagne di rifiuti e persone che vendevano piaceri carnali. Il giorno dopo, l’addetto alla reception, mostrandoci su una cartina dove si trovava il mercato locale, ha sottolineato di non girare vicino Porta Nolana di sera, perché era una zona molto pericolosa. Quella sera non ci è successo nulla probabilmente grazie alla fortuna dei principianti, visto che all’epoca stavamo appena iniziando a conoscere la città.

A Napoli, inoltre, abbiamo conosciuto per la prima volta un vero e proprio mercato italiano, dove si sentivano grida in dialetto dalle bancarelle che contenevano di tutto: statue di Maradona accanto alla Vergine Maria, pesci spada e tonno accanto alla croce. Un folclore e un eclettismo che ci hanno incantato. 

Oltre alle città e ai paesi, l’Italia è anche affascinante per i paesaggi, quindi il nostro terzo momento più bello è legato alla natura e all’Abruzzo.

“Il silenzio può essere una delle cose più belle del mondo. Soprattutto se lo si sperimenta sotto il bel sole autunnale nei pressi di Rocca Calascio, una fortezza che domina la vetta più alta dell’Appennino, il Corno Grande. (…) Durante il nostro viaggio in Abruzzo non abbiamo visto altrove uno spazio così vasto, rasserenante e tranquillo. Dalla fortezza si estende  una vista mozzafiato sui quattro lati del mondo. È un’esperienza visiva e acustica indimenticabile”. („Stolik dla dwojga. Włoskie miasta i miasteczka”, s. 57)

Agnieszka e Przemek sono felici quando le persone approfittano delle loro segnalazioni. Gli piace ricevere foto o messaggi dai luoghi descritti nel libro, ma rifiutano sempre quando qualcuno gli offre pubblicità a pagamento. Sono d’accordo sul fatto che tavolo_per_due deve essere un piacere, un diario di viaggio e deve ispirare gli altri, ma non vogliono che diventi un altro lavoro. 

E dove vorrebbero abitare se potessero trasferirsi in Italia?

Questo è un argomento che continua ad emergere nelle nostre conversazioni. C’è una linea di demarcazione nord-sud tra di noi. Agnieszka sceglierebbe sicuramente qualche paesino microscopico, ipotizza Przemek, io sceglierei Bergamo, Bologna o Roma.

Confermo, l’ideale sarebbe un’isola, più piccola è più sono felice, ammette Agnieszka. Ma in realtà ci piace sempre la città o la regione da cui siamo appena tornati, quindi scegliere un solo posto in questo momento sarebbe impossibile. Bisogna continuare a esplorare.

Tra l’Italia e Los Angeles – intervista ad Alessandro Marvelli

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Alessandro Marvelli si è trasferito a Los Angeles dopo aver studiato cinema digitale all’Università La Sapienza di Roma. È membro dell’Art Director Guild Of America e tra le sue passioni c’è la pittura. Ha vinto molti premi prestigiosi e ha lavorato con star come Brad Pitt, Al Pacino, Danny DeVito, Bradley Cooper. Negli ultimi 15 anni si è occupato soprattutto di spot pubblicitari, video musicali e lungometraggi. Ho conosciuto Alessandro a Los Angeles e sono rimasta affascinata dalla sua arte, che ho iniziato a collezionare. Il 21 novembre di quest’anno, in un’asta tenutasi a Cracovia, il suo quadro intitolato “Corona” è stato venduto per un prezzo molto alto.

Da dove nasce la tua arte?

Non lo so e non voglio saperlo. L’arte è un bisogno naturale, come respirare. Non l’ho scelta, è sempre stata con me. Non mi interessa scavare per trovare risposte: preferisco accettare che tutto sia così com’è. Il mistero è parte della sua bellezza.

Ti senti più artista, scenografo o comunicatore?

Non mi considero un artista. Quella parola appartiene ai grandi della storia, a chi studiamo e ammiriamo da lontano. Io sono un comunicatore. Ricevo messaggi, non so bene da dove: forse dal mio inconscio, forse da qualcosa di più grande. Li trasformo in immagini che parlano. La scenografia, invece, è il mio lavoro quotidiano, molto pratico e razionale. È problem solving puro, un continuo bilanciamento di idee, budget e responsabilità. Nei miei quadri, però, lascio spazio alla libertà: è lì che posso davvero esprimere ciò che ho dentro, senza filtri e senza dover rendere conto a nessuno.

I tuoi quadri sono messaggi permanenti. Qual è il loro cuore?

I miei quadri sono per tutti: un bambino, un adulto, chiunque può trovarci qualcosa di diverso. Non controllo ciò che trasmettono. Quello che desidero è che siano un invito alla speranza, un ponte per connettersi con sé stessi. Uso molto i colori per attirare l’attenzione: se una persona li nota anche solo per un attimo e poi li lascia andare, è già abbastanza.

Hai definito il tuo lavoro come una “matrice.” Cosa rappresenta questa parola?

La matrice è l’origine di tutto, il punto da cui tutto parte. È ciò che connette ogni cosa: visibile e invisibile, umano e divino. Nei miei quadri cerco di rendere visibile questa connessione, di creare un ponte tra quello che sento dentro e ciò che gli altri possono percepire. Questo concetto mi accompagna da sempre, fin da bambino, anche quando non avevo le parole per  descriverlo.

Come concili il tuo lavoro di production designer con la pittura?

Non mescolo mai le due cose. La scenografia è razionale e concreta. È fatta di dettagli, calcoli e soluzioni rapide. Ogni progetto è diverso: una squadra nuova, una città diversa, un regista da soddisfare. È un mestiere che richiede energia mentale e fisica, ma mi appassiona. La pittura, invece, è il mio spazio intimo. È la mia terapia, un momento per riconnettermi con me stesso. Ho bisogno di entrambi: non potrei vivere solo con l’una o con l’altra. Anni fa, ho avuto l’occasione di abbandonare il filmmaking per dedicarmi esclusivamente alla pittura. Era un’opportunità enorme, ma non ce l’ho fatta. Ho capito che ho bisogno di questa dualità per essere equilibrato: la concretezza del filmmaking e la libertà della pittura si completano a vicenda.

Un messaggio per chi guarda i tuoi quadri?

Non cerco che i miei quadri siano capiti o interpretati in un certo modo. Non devono essere fermati, osservati o decifrati. Sono lì per esistere, per vivere una loro vita. Io li realizzo e poi li lascio andare. Che poi trovino significato in una casa, in un ufficio, o semplicemente nel cuore di chi li guarda, non è più una mia scelta. E questo mi dà una libertà incredibile.

Gazzetta Italia 109 (febbraio – marzo 2025)

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“Casanova, 300 anni di mito”, è uno degli articoli di punta di Gazzetta Italia 109. Un numero molto divertente e musicale in cui spiccano l’intervista alle cantanti Siostry Melosik, che hanno vinto il premio del pubblico al Festival di Opole, la riflessione sui film che hanno reso celebre la Commedia Italiana, l’approfondimento sul Festival di Sanremo. Importante ed interessante l’intervista al direttore dell’ICE-Ita Roberto Cafiero sui rapporti economici tra Italia e Polonia e poi come sempre ci sono le nostre varie rubriche di moda, cucina, salute e letteratura di cui segnaliamo l’articolo sulle forme della poesia attraverso l’analisi di un componimento di Szymborska, articolo del professor Tucciarelli che grazie al QRCode si può anche ascoltare dalla sua viva voce.
Correte agli Empik! Gazzetta Italia si esaurisce rapidamente! E se non la trovate potrete acquistarla online, cartacea o digitale, sul sito www.gazzettaitalia.pl

Marysieńka a Roma

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Utilizzando questo qrcode è possibile ascoltare la lettura in italiano di questo articolo da parte dell’autrice Francesca Ceci.

 

Nel 2025 si celebra a Roma il venticinquesimo Giubileo universale ordinario della Chiesa cattolica, che vedrà affluire nell’Urbe milioni di pellegrini e visitatori. Il Giubileo è da sempre sentito come un’imprescindibile occasione religiosa per recarsi nella Città Santa. Anche gli aristocratici, compresi principi e teste coronate, sentivano l’obbligo e il desiderio di compiere questo pellegrinaggio.

Tra le nobili signore spinte da questo pio desiderio ricordiamo due ex regine di grande fama e rilevanza europea: Cristina di Svezia, convertitasi al cattolicesimo e trasferitasi a Roma dopo aver abdicato al trono di Svezia, che partecipò al Giubileo del 1675, e Maria Casimira Sobieska, giunta nella città per il Giubileo del 1700. Entrambe vissero da protagoniste illustri e famose le celebrazioni giubilari romane.

Sempre nel 2025 è prevista a Roma, nei Musei Capitolini, una mostra intitolata Una Regina in Campidoglio: Maria Casimira e le memorie romane della famiglia reale polacca dei Sobieski, dedicata appunto alla regina Maria Casimira de la Grange d’Arquien, regina vedova del gran re Jan III Sobieski, l’eroe della battaglia di Vienna del 12 settembre 1683 che fermò l’avanzata ottomana in Europa, e ai membri della sua famiglia che vissero a Roma. Tra questi vi fu anche la nipote Maria Clementina Sobieska, sposa nel 1719 del pretendente al trono di Inghilterra Giacomo III Stuart, la quale visse come ‘regina senza regno’ la sua breve vita a Roma e fu sepolta in Vaticano, nella Basilica di San Pietro, mentre il suo cuore è conservato, in un’urna monumentale, nella Basilica dei Santi XII Apostoli. 

Il trono perduto

Maria Casimira, che veniva chiamata affettuosamente dal marito Marysieńka, partì dalla Polonia nel 1699 per recarsi a Roma, ufficialmente per prende parte al Giubileo, mentre in realtà si trattava di un vero e proprio esilio, causato dalle vicende politiche verificatesi all’indomani della morte di Jan III. L’elezione al trono di Polonia, infatti, non era ereditaria e quindi basata sulla discendenza della famiglia del re in carica, ma si trattava di una monarchia elettiva, dove il titolo reale era concesso dall’assemblea dei nobili polacchi a pretendenti anche di origine straniera. Sfumarono così le ambizioni di Maria Casimira di vedere il regno assegnato a uno dei suoi figli, e anzi fu “caldamente” invitata a lasciare il paese, che non rivide mai più da viva. Oggi la regina riposa nelle tombe reali del castello di Wawel a Cracovia, accanto all’amatissimo marito.

Il viaggio verso Roma

La regina vedova giunse a Roma dopo un lungo viaggio trionfale che dalla Polonia la condusse sino alla città papale, con al seguito una corte di più di 200 persone tra parenti, cortigiani, personale di vario tipo e un abbondante corredo di cavalli, carrozze e ricchissimi bagagli. Ogni città toccata dall’itinerario reale accolse la Regina con feste e onori di cui conosciamo anche i particolari. Infatti il tutto è accuratamente narrato nel diario di viaggio redatto dal padovano Antonio Bassani, canonico di Varmia al seguito della regina, e intitolato Viaggio a Roma della Sacra Reale Maestà di Maria Casimira Regina di Polonia vedova dell’invitissimo Giovanni III per il voto di visitare i luoghi santi et il supremo pastor della Chiesa, Innocenzo XII, dedicato al cardinale Carlo Barberini, protettore del regno di Polonia che lo fece stampare a sue spese nella stamperia di famiglia. 

Il volume rappresenta un prezioso resoconto del viaggio a Roma di Maria Casimira e interessantissime sono le descrizioni delle accoglienze, dei banchetti, delle feste nelle città dove il corteo reale fece sosta (come Venezia e Bologna), della tappa alla Santa Casa della Madonna di Loreto, e in generale delle cerimonie e degli omaggi organizzati anche nei centri più piccoli per accogliere degnamente la regina celebre per essere la vedova di Jan III, difensore della cristianità e del Papato. 

I Sobieski e Roma

La presenza della famiglia reale Sobieski, ricevuta con tutti gli onori dal Papa e dalla nobiltà romana, sollevò un grande interesse – misto a curiosità – in ogni strato sociale della Roma dei Papi, che guardò sempre con attenzione a questi illustri personaggi stranieri, soffermandosi volentieri su particolari che incuriosivano il popolo così come l’aristocrazia. Si pensi alle stravaganze del vecchio padre, il marchese divenuto cardinale Henry de la Grange d’Arquien (il cui monumento funebre si trova nella chiesa di San Luigi dei Francesi) e alle avventure galanti, in alcuni casi alquanto incresciose, dei figli Costantino (con una celebre cortigiana romana) e Alessandro (che ebbe un figlio da una dama veneziana). 

Di questi eventi, come di altri ancora, si ha riscontro anche in brevi scritti satirici e politici anonimi noti con il nome di “Pasquinate”, attaccati segretamente su una statua romana detta Pasquino, la più celebre delle “statue parlanti” di Roma e ancor oggi situata nella piazza omonima. Ai piedi e al collo della statua erano appesi cartelli con versi sarcastici che deridevano personaggi pubblici, in alcuni casi anche il Papa, esprimevano i malumori del popolo romano verso il potere e sbeffeggiavano personalità famose.

Quadro raffigurante la Regina Maria Casimira Sobieska dipinto da Halina Skroban nel 2022 con la tecnica di olio su tela, 80X100 cm

Il Diario di Roma

La fonte principale sulla vita di Maria Casimira è il Diario di Roma dell’ecclesiastico, erudito, scrittore e antiquario romano Francesco Valesio (1670-1724), il quale trascrisse nel suo Diario di Roma ogni fatto da lui considerato degno di nota accaduto a Roma, conservatosi a partire dall’agosto del 1700 fino al marzo 1742 ma con una lunga lacuna dal 1711 al 1724. 

Questa testimonianza rappresenta una fonte eccezionale per la storia di Roma nella prima metà del XVIII secolo per la ricchezza e accuratezza delle annotazioni sulla cronaca politica, religiosa e sociale della città. Valesio riporta anche ogni vicenda che vide protagonista la famiglia Sobieski e la loro corte, così come pure, più tardi, i fatti riguardanti Maria Clementina Sobieska Stuart e il suo sfortunato matrimonio con Giacomo III Stuart. 

L’Accademia dell’Arcadia

Maria Casimira, una volta giunta a Roma (nella notte tra il 23 e il 24 marzo del 1699) e aver soggiornato a Palazzo Odescalchi in piazza Santi Apostoli, affittò Palazzetto Zuccari, oggi sede della Biblioteca Hertziana in via Gregoriana. Qui allestì la propria piccola corte, con tanto di convento per alcune suore francesi, le Benedettine della Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento, che vi risiedettero per un breve periodo. La regina vedova polacca allestì anche un piccolo “teatrino domestico”, che divenne un importante centro culturale dedicato alla musica e alla lirica, molto rinomato e frequentato dall’aristocrazia romana. 

Va infatti ricordato il ruolo svolto da questa corte polacca nella vita culturale della città, tanto che Maria Casimira fu la prima donna a divenire membro dell’Accademia dell’Arcadia, insignita di questo onore il 26 settembre 1699, pochi mesi dopo il suo arrivo nell’Urbe, prendendo il nome poetico di Amirisca Telea. 

Anche il figlio, il principe Alessandro Benedetto, appartenne all’Accademia col nome arcadico di Armonte Calidio, e si occupò con passione dell’attività artistica svolta nel “teatrino” di casa Sobieski, dove furono rappresentate opere liriche, cantate e musiche composte dai maggiori talenti musicali attivi a Roma.

Maria Casimira di Polonia e Cristina di Svezia

L’attività di mecenatismo di Maria Casimira fu ispirata da quella di un’altra regina straniera che visse a Roma, Cristina di Svezia, personaggio eccezionale nell’Europa della sua epoca, la quale ebbe una corrispondenza con il re Jan III in occasione della vittoria di Vienna del 1683 e che ambì anche – ma senza successo – al trono di Polonia. 

Le due ex sovrane che elessero Roma quale dimora del dorato esilio furono ricevute in forma ufficiale in Campidoglio dai Magistrati Capitolini, i quali vollero commemorare la loro visita con due splendide epigrafi monumentali sovrastate dal loro ritratto ed esposte nei Musei Capitolini, ancor oggi visibili, una a fianco all’altra.

Oppressa da ristrettezze economiche e da problemi di salute, il 29 maggio 1714 Maria Casimira si trasferì nella natia Francia, nel castello Blois, dove due anni dopo morì all’età di 75 anni. 

Numerose sono le testimonianze romane della famiglia reale Sobieski, sia monumentali che documentarie. 

Oltre ai monumenti già ricordati, si aggiungono le due placchette metalliche dedicate alla battaglia di Vienna visibili nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e inserite nella “Meridiana Clementina”, alcuni dipinti conservati nella Chiesa di san Stanislao dei Polacchi, ai Musei Vaticani il grande dipinto di Jan Mateiko dedicato alla battaglia di Vienna con Jan Sobieski vincitore, il monumento funerario di Alessandro Sobieski nella Chiesa dei Cappuccini in Via Veneto, i grandi medaglioni dipinti su tela realizzati per celebrare la messa funebre nella Chiesa di San Stanislao dei Polacchi (oggi nei depositi di Palazzo Barberini a Roma ma oggetto di un accordo di restauro tra Polonia e Italia) e numerose lettere, stampe e documenti conservati nei maggiori archivi della città e del Vaticano.

Paltrinieri: compito della filosofia è tradurre

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Del mondo babelico, in grande trasformazione e dai futuri imprevedibili in cui viviamo abbiamo scelto di parlarne con Gian Luigi Paltrinieri che insegna Filosofia teoretica ed Ermeneutica filosofica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Paltrinieri si è a lungo occupato del pensiero di Immanuel Kant e insieme investiga il pensiero di Friedrich Nietzsche e di Martin Heidegger (link).

Cominciamo subito da una domanda difficile: visto che Lei è specialista di un ramo della filosofia, l’Ermeneutica filosofica, assai attento alla questione del linguaggio, quali sfide pone lo sviluppo dell’intelligenza artificiale alla filosofia del linguaggio e alla filosofia in generale?

“Intanto mi fa piacere avere l’occasione di far conoscere alle lettrici e ai lettori di Gazzetta Italia alcune caratteristiche della cultura filosofica italiana. Alla domanda rispondo che le sfide non riguardano semplicemente la filosofia del linguaggio, ma anche altri ambiti della filosofia. Soprattutto sottolineerei che non sono sfide solo per la filosofia. L’importanza pervasiva dell’intelligenza artificiale è per noi quotidiana e dal punto di vista di un filosofare che guardi con attenzione a come gli umani abitano il mondo sono molte le domande, poiché sono altrettante le conseguenze concrete in gioco. La prima riguarda il nostro rapporto con gli strumenti. Una delle cose che la filosofia ha compreso è che non si tratta semplicemente di rapportarsi all’intelligenza artificiale come a uno strumento. Essa è molto di più. Se noi concepiamo l’intelligenza artificiale solo come uno strumento, ci limitiamo a ripetere il solito schema: se ne temiamo gli effetti, diciamo che prima gli strumenti erano a nostra disposizione, ma ora non lo sono più, e anzi siamo noi che siamo diventati strumenti degli strumenti, mentre dovremmo recuperare il controllo di essi. Oppure – l’altro lato della stessa medaglia – se guardiamo solo con fiducia all’intelligenza artificiale, diciamo che prima gli strumenti a nostra disposizione erano pieni di limiti, laddove oggi il potenziamento delle loro capacità estende all’infinito i nostri poteri. Ebbene, questa impostazione va ripensata radicalmente. È infatti per noi esperienza quotidiana che dispositivi digitali e intelligenza artificiale non sono altro da noi o dal mondo in cui viviamo, e quindi essi stanno prima dell’alternativa “strumento a disposizione – strumento non a disposizione”. Ce ne accorgiamo, per esempio, quando gli strumenti si guastano e smettono di funzionare: si interrompe la tessitura del nostro mondo e non semplicemente la disponibilità di un mezzo. Peraltro, rispetto alla filosofia italiana, c’è sì una riflessione crescente su questo tema – ricordo il lavoro di Luciano Floridi, che lavora nel Regno Unito, e Maurizio Ferraris –, però non si può dire che l’attuale filosofia italiana abbia una particolare attenzione per la questione dell’intelligenza artificiale o che essa abbia generato prospettive originali. La riflessione filosofica è attenta, tuttavia, ai cambiamenti radicali che tecnologia digitale e intelligenza artificiale comportano nella comunicazione e nella conoscenza. È come se oggi giungessero al massimo di compiutezza elementi con cui comincia l’età moderna. Già nel 1690 il filosofo inglese John Locke sosteneva che parlare significa comunicare e comunicare equivale a informare gli altri di ciò che pensiamo e sentiamo nella nostra mente. Ebbene, oggi questa riduzione del linguaggio e della comunicazione a trasmissione di informazioni è giunta al suo massimo grado proprio grazie alle tecnologie digitali. Ma la riflessione filosofica si propone come antidoto al semplicismo, ossia all’eccesso di semplificazione che oggi colpisce anche l’uso del linguaggio in cui si articolano le relazioni umane. Ecco, allora, uno dei problemi, legato anche a questioni etiche e politiche: quando la comunicazione tra noi umani si riduce alla sola trasmissione di informazioni, va perduta la ricchezza di significati e viene anche impoverita la relazionalità che si realizza nel nostro parlare e comunicare. Se poi teniamo conto del fatto che l’intelligenza artificiale intende la differenza tra vero e falso secondo la logica binaria acceso-spento, allora a semplificazione si aggiunge ulteriore semplificazione, e questo suscita l’attenzione di molti filosofi italiani che, senza dimenticare le tante possibilità preziose offerteci dalle nuove tecnologie, cercano di richiamare la rilevanza primaria e la ricchezza della relazionalità che ci lega gli uni agli altri, sia come esseri umani che come cittadini. Lo stesso discorso può essere ripetuto per la conoscenza. Conoscere qualcosa significa essere in rapporto con essa ed essere trasformati da tale rapporto. Invece raccogliere dati, informazioni, nozioni, è sì necessario, ma non è autentica conoscenza.

Qual è il ruolo della filosofia contemporanea nel contesto del crescente impatto della globalizzazione e del multilinguismo? 

Lei fa bene ad insista sulla questione del linguaggio. La filosofia italiana ha da sempre una autentica passione per Aristotele, secondo il quale noi umani siamo i viventi che hanno il logos, che hanno il linguaggio, che articolano discorsi entro lo spazio etico-politico della città (polis). Come detto prima, parte integrante della sensibilità culturale italiana è il riconoscimento di quanto sia fondamentale la relazionalità sociale, fatta sì anche di eccessi verbali e discorsi ingannevoli, ma comunque realtà ricca di tutte le molteplici sfumature dei rapporti umani. Chi fa filosofia non teme falsità e inganni, ma li sa riconoscere proprio perché ha familiarità con discorsi e comunicazioni di cui non ha una ricezione semplificata. Per quanto riguarda globalizzazione e multilinguismo si può dire che una sfida viene dal fatto che, da molti decenni, la lingua inglese è diventata la lingua del pianeta. C’è dunque un apparente monolinguismo anglofono, che però contraddice la vastità del nostro pianeta e la molteplicità di popoli e di culture che lo abitano. È interessante notare che quando la filosofia si occupa dei rischi del monolinguismo porta l’accento sulla necessità della traduzione delle molte lingue che si parlano in Europa e nel nostro pianeta. Compito della filosofia è oggi ‘tradurre’. In quanto tradurre non vuol dire semplicemente sostituire le espressioni di una lingua straniera con quelle di un’altra, conservando però gli stessi significati. Tradurre, invece, equivale a porre in rapporto ciò che è sia distante che differente, generando nuove significazioni proprio a partire dall’unità che si realizza nel tradurre. Ripeto, tradurre non vuol dire che c’è qualcosa di uguale per tutti, ma io lo esprimo in italiano, mentre un parlante polacco lo dice con il proprio strumento linguistico nazionale. Tradurre non consiste nel sostituire alcuni segni con altri, ma viceversa far venir meno le omogeneizzazioni e le omologazioni che si producono nel monolinguismo globalizzato.

Quali sono le sue previsioni riguardo la direzione della filosofia nei prossimi anni nel contesto geopolitico e su quali questioni, secondo Lei, dovrebbe impegnarsi la filosofia italiana? 

Devo fare una precisazione. Non esiste una filosofia italiana. La filosofia italiana ha infatti molte voci, impostazioni differenti e quasi ogni sede universitaria fa riferimento a una scuola filosofica, che peraltro mostra la sua vitalità proprio nel raccogliere al suo interno voci eterogenee tra loro. A Venezia, per esempio, è stato importante il magistero di Emanuele Severino, ma da esso non sono usciti soltanto allievi fedeli al pensiero del loro maestro. A livello universitario la ricerca filosofica specialistica è estremamente ricca e diversificata, anche se, purtroppo, stenta a svolgere un ruolo civico e politico importante. Ciò si lega a un aspetto che vorrei brevemente richiamare: la ricchezza di studi e ricerche della filosofia italiana fa uno con un suo limite. Oggi l’Europa ha bisogno di kantismo, ma da sempre i filosofi italiani “preferiscono” Hegel a Kant. Oggi l’Europa, e direi il mondo intero, ha bisogno di Husserl, ma noi italiani, compreso il sottoscritto, “preferiamo” Heidegger. L’Europa ha bisogno di illuminismo e dell’insegnamento kantiano per eccellenza: saper giudicare, scegliere e agire in modo che sia valido per tutti, e non solo per noi stessi. Ebbene, sono persuaso che una delle peculiarità delle filosofie italiane – al plurale! – è di articolare riflessioni assai ricche e importanti, davvero degne di attenzione, troppo mirate però a enfatizzare le mancanze del moderno, anziché i pregi di questo, decisamente irriducibile a portatore del relativismo e dell’economicismo. D’altronde, la modernità individualista, capitalista e finanziaria nasce in Inghilterra e in Olanda (nel Seicento), così come l’illuminismo scientifico e libertario nasce in Francia (nel Settecento). La cultura filosofica italiana è da sempre più impegnata a elaborare un antidoto nei confronti di questa modernità “venuta da fuori”, percepita come distruttiva sia nei confronti della relazionalità umana che di quanto è storicamente tramandato. Insisto: fermo restando il rischio di sordità verso “i meriti del moderno”, tutto questo nel contempo alimenta e spiega la ricchezza e la raffinatezza del pensiero filosofico italiano. I due più importanti pensatori italiani tardo-moderni, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, filosofi raffinatissimi, quanto influenti, ben confermano tutto questo.

Quindi possiamo definire i filosofi italiani come una minoranza piena di meriti, estranea però al contesto moderno filosofico mondiale e quindi incapace di lasciarvi un segno? E ciò vale anche, per esempio, per Umberto Eco, Gianni Vattimo, Giorgio Agamben e Ludovico Geymonat? 

Certo, se ci domandiamo dell’influenza della tradizione filosofica italiana a livello europeo e mondiale, dobbiamo subito riconoscere che essa è limitata dall’impiego della lingua italiana, nota a chi si occupa di musica e di arte, ma poco conosciuta e poco tradotta dai filosofi stranieri. Credo però che alla filosofia italiana abbia nociuto sia il trovarsi prevalentemente in posizione critica verso alcuni tratti del pensiero moderno, sia la disabitudine del nostro ceto politico a consultare i filosofi. Dei quattro nomi che Lei mi propone, Eco, Agamben, Vattimo e Geymonat, almeno i primi tre sono stati tradotti all’estero. Geymonat è un caso a parte. È stato un studioso notevole, anche lui fondatore di una scuola importante, tuttavia in quanto difensore di uno spirito razionale, ateo, scientifico e marxista, è per molti versi poco rappresentativo della filosofia italiana e poco tradotto all’estero. Eco, invece, pur brillante studioso di semiotica, a mio avviso non può essere considerato un filosofo. Di questi quattro, Gianni Vattimo e Giorgio Agamben sono gli unici la cui prospettiva originale sia entrata anche nel dibattito internazionale. Agamben soprattutto nel contesto francese contemporaneo, a partire dal suo Homo sacer, Vattimo anche nel contesto statunitense, grazie al dialogo con Richard Rorty e con John Caputo. Appartenente alla scuola di Luigi Pareyson, Vattimo è riuscito a far fruttare le conseguenze etico-politiche di un motivo teologico cristiano (Paolo di Tarso): incarnandosi in un corpo umano il Dio cristiano si è svuotato della propria lontananza assoluta per entrare nella storia umana e liberare con la propria debolezza gli esseri umani da ogni verità autoritaria.

Provando ad avvicinare un po’ di più la filosofia ai nostri lettori, faccio riferimento alle critiche di modalità del moderno che ha menzionato. Lei viene da un mondo vintage dove viaggiare voleva dire sperimentare, partire, fare delle conoscenze, scoprire dei posti nuovi mettendosi in goco. Invece oggi viaggiare significa ripercorrere sentieri già battuti da un qualche blogger. Cosa ne pensa?

La differenza tra viaggiatore e turista ha ormai più di 150 anni. Il britannico Thomas Cook ha inventato il turismo a metà dell’Ottocento. Il viaggiatore si espone a ciò che troverà cammin facendo, il turista, invece, incontra solo quello che ha programmato di incontrare. Oggi, in effetti, siamo tutti turisti, anche quando cerchiamo di esserlo in maniera non superficiale. Il bisogno quasi ossessivo di pianificare, di prevedere e programmare si è esteso anche al nostro tempo libero e ai momenti di piacere. Ma chi fa filosofia non deve approdare frettolosamente a troppo facili giudizi sullo scadimento dell’esperienza umana del viaggio. È vero che le giovani generazioni si lasciano guidare dai suggerimenti degli influencer e dai “viaggi già fatti” da questi ultimi, ma il gioco con la sorpresa e con quanto è diverso dalle attese rimane. Resta per almeno due motivi: perché la realtà è sempre più ricca e imprevedibile di quanto mai noi possiamo attenderci e programmare, e perché è proprio di chi è giovane divertirsi, anche viaggiando, con il gioco delle discordanze, cercando il diverso da quanto è stato suggerito, consigliato. Forse capita più spesso a chi è avanti negli anni di chiedere che il viaggio corrisponda a quanto programmato!

Chiudiamo con un consiglio di lettura: a chi volesse avvicinarsi alla filosofia italiana attuale può suggerire tre nomi di autrici/autori?

Facendo torto a molti importanti studiosi italiani che qui non citerò, provo a menzionarne tre tra quelli capaci di scrivere non solo per lettori specialisti. Il primo è Salvatore Natoli, di cui posso ricordare “L’esperienza del dolore” e “La felicità. Saggio di teoria degli affetti”. Il secondo studioso di rilievo che suggerisco è Roberto Esposito, il quale, per esempio in “Communitas. Origine e destino della comunità” e “Immunitas. Protezione e negazione della vita”, riflette sulle strategie attraverso le quali una società immunizza se stessa, da un lato proteggendosi da ciò che considera pericoloso-minaccioso, ma dall’altro anche così chiudendosi in modo autoreferenziale, escludendo l’estraneo. Infine, mi fa piacere ricordare Donatella di Cesare, la quale da diversi anni coltiva – per citare uno dei titoli dei suoi scritti – “la vocazione politica della filosofia”, cui aggiungerei, per esempio, “Stranieri residenti” e “Democrazia e anarchia. Il potere nella polis”, scritti nei quali affronta due urgenti fenomeni odierni, il fenomeno della migrazione e quello dei limiti e delle contraddizioni del potere democratico.

“La straniera” – romanzo costellazione

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Claudia Durastanti è scrittrice e traduttrice nata a Brooklyn nel 1984. A sei anni si è trasferita con la madre e il fratello a Gallicchio in Basilicata. È membro del consiglio organizzativo della Fiera Internazionale di Torino, ed è una delle fondatrici del Festival della Letteratura Italiana di Londra. Ha debuttato nel 2010 con il romanzo “Un giorno verrò a lanciare i sassi alla tua finestra”, che ha vinto il Premio Mondello Giovani. Il suo romanzo più acclamato “La straniera” (2010) è arrivato alla finale del Premio Strega; è stato premiato con il Premio Strega Off e con il Premio Luigi Russo, inoltre è arrivato tra i finalisti dei premi Alassio Centolibri, Viareggio e Stresa. Il libro è stato tradotto in oltre venti lingue ed è previsto un adattamento in serie TV. In Polonia è uscito per la casa editrice Czarne con la traduzione di Tomasz Kwiecień.

Leggendo “La straniera” si sente che è una storia che avevi bisogno di raccontare, come se volessi liberarti dei ricordi. Però nel libro dici che l’autobiografia è un genere bastardo che è nelle mani di persone che hanno bisogno di salvezza, come donne, migranti, disabili. Tu volevi essere salvata o volevi salvarti?

Quando ho scritto questo libro mi sono resa conto che ci ho pensato tutta la vita. Ho sentito che c’era dentro di me un desiderio di lasciare andare alcune cose ma per scriverle dovevo prima riavvicinarle. Natalia Ginsburg diceva che si è avvicinata alla scrittura autobiografica a passi da lupo, è un’immagine molto interessante perché sembra una cosa che si fa in maniera un po’ guardinga. Io credo d’essere stata molto influenzata dall’idea che la letteratura salva la vita e che io mi volevo salvare e volevo salvare anche i miei genitori. Un’operazione che mi auguro sia successa non solo perché racconto fatti traumatici familiari, ma lo sia per la forma del libro e anche la lingua con cui l’ho scritto, lo stile, la poesia, la visione elementi che vanno oltre l’esperienza biografica, altrimenti non so che senso avrebbe pubblicare queste storie. 

Nel libro torna a vari livelli il concetto dell’essere straniero. All’inizio abbiamo l’estraneità territoriale. Sentivi la nostalgia dei posti da cui andavi via o il fatto di abitare in luoghi diversi ti ha permesso di sentirti più radicata in varie culture?

È interessante questa domanda perché secondo me il viaggio interno nel libro è quasi un rovesciamento. Per mia madre la condizione di essere straniera era una condizione di libertà, una forma di diversità positiva dagli altri. Invece per me che ero bambina era l’esatto opposto, era una differenza a polo negativo, un segno di esclusione e di marginalizzazione. Credo d’aver scritto questo libro proprio per invertire la corrente da negativa a positiva e anche un po’ per sfidare quel concetto di mancanza. Quando sei straniero tendono un po’ a rinforzare il messaggio che casa non è da nessuna parte, che questa libertà nello spazio è una forma di malinconia. Io invece sin da bambina sono stata estremamente nostalgica, quindi in qualche modo ho fatto di tutto per difendere gli Stati Uniti, Brooklyn nello specifico, che poi abbiamo lasciato per trasferirci in Basilicata. Secondo me questa cosa tra città e campagna è importante. Se mia mamma si fosse trasferita a Roma credo che avrei sentito di meno l’essere proprio strattonata tra due mondi molto diversi. 

Poi mentre scrivevo mi sono resa conto che io avevo tante radici. Quindi per me l’identità era quasi un problema selettivo. E sono arrivata alla conclusione che siamo fatti di tante appartenenze e che ci sono dei momenti in cui ne raccontiamo una o due, però le altre non necessariamente non esistono più, rimangono lì in attesa di essere riesplorate in un’altra occasione. Quando mi sono trasferita in Inghilterra anch’io sono diventata una migrante, come mia madre e mia nonna. E credo che sia proprio questa concezione proliferante, quasi infestante, di essere straniera contemporaneamente in più posti che ha fatto sì che io riuscissi a uscire da questa rappresentazione di straniera come mancanza e trasformarla in presenza.

Poi abbiamo l’estraneità a livello familiare ovvero la sordità dei tuoi genitori vista dagli altri e da te che ci sei cresciuta.

Dopo l’uscita del libro, mi sono chiesta: come sarebbe stata la scoperta della sordità dei miei genitori in una società che non emarginava la disabilità? La mia sofferenza nell’infanzia veniva dal limite fisico di mia madre che non mi poteva sentire o invece da un mondo esterno, scuola, parenti, istituzioni, società in senso generale, politica, che mi facevano vivere quella sordità come un peso? Ho quindi cercato di pensare al momento in cui ho realizzato che i miei genitori sono sordi e sono sicura che me l’ha detto qualcuno, perché nella fase di apprendimento della lingua noi chiaramente non ce ne rendiamo conto. E quindi credo d’averlo capito nel momento in cui qualcuno è entrato e mi ha detto guarda che tua mamma è diversa da te. E allora abbiamo iniziato ad abitare veramente in due mondi diversi che forse non era necessario. Poi la mia sofferenza è stata determinata da alcune stranezze di mia madre, dal suo carattere eclettico, quello di un’artista con problemi di salute mentale. Solo scrivendo il libro ho avuto la possibilità di dare a queste differenze un significato mio che fosse un po’ svincolato da tutto il condizionamento che arriva quando tu esci di casa e ti confronti con la società. Secondo me non è un caso che ho iniziato a scrivere “La straniera” quando avevo 34 anni, che era l’età di mia mamma quando dagli Stati Uniti si è trasferita in Italia. Quando siamo vicini a persone che hanno una disabilità, quasi sempre ci chiediamo cosa ha fatto a noi quella disabilità. Io invece mi domandavo che cosa la disabilità aveva determinato nei miei genitori, capire se volevano ribellarsi, se il loro desiderio di libertà e di autonomia venisse represso costantemente. Durante una delle prime interviste che ho fatto quando è uscito il libro, a Farenheit di Radio 3, Loredana Lipperini mi ha detto che nonostante la sordità dei miei genitori per lei loro sono anche persone che erano ventenni negli anni Settanta. E io ero quasi commossa perché era bello il fatto che una persona riuscisse a iscrivere i miei genitori in una storia generazionale collettiva, perché era un po’ come se fossero stati sempre esclusi. Ho scritto il libro perché mi mancavano nelle storie che leggevo. 

Anche il linguaggio che usavate dentro il vostro nucleo familiare lo possiamo definire come estraneo per gli altri?

Qui è interessante la questione della migrazione. Quando stavo traducendo il libro “Chinatown interiore” di Charles Yu, che è ambientato in una Chinatown americana immaginaria e parla della migrazione cinese, ad un certo punto ci sono due personaggi e uno parla lentamente usando una vecchia forma di cinese. E l’altro gli dice: “Sono straniero, non sono sordo”. E io mi sono resa conto che spesso si crea un equivoco e le persone sorde vengono trattate come se fossero straniere, invece le persone straniere, migranti, vengono trattate come se fossero sorde. E nella mia famiglia questo equivoco raggiungeva dei livelli stratosferici perché ogni volta che mia madre rivedeva i suoi fratelli che erano andati in America, loro le parlavano come se non fosse sorda. E io un po’ mi arrabbiavo, loro invece mi dicevano che ormai viviamo in paesi diversi e parliamo una lingua immaginaria.

E quella cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che ognuno di noi ha un “lessico familiare”, nel mio caso è particolarmente stratificato perché appunto c’è anche una sordità di mezzo. Però io sono straniera pure nel mondo dei sordi perché non parlo la lingua dei segni. Parlavo l’italiano dialettale dei miei nonni, l’inglese provvisorio dei miei familiari che non avevano studiato quindi era una dimensione linguistica molto particolare, una polifonia legata all’assenza di regole e alla tendenza a inventare. 

Nel libro scrivi che “il linguaggio è una tecnologia e le parole sono come fiamme che ci avvicinano al non detto. E quando non ci sono parole, quello che permette la comunicazione sono i gesti.” Secondo te sono più importanti le parole o i gesti, o forse entrambi? 

Questa è una domanda molto bella. Sono stata una bambina molto verbosa e sono una scrittrice molto verbosa. Anche nelle mie relazioni affettuose, sentimentali, sono stata orientata al logos e al definire, ovvero l’amore, il sentimento, l’amicizia esistono nella misura in cui io lo comunico a parole. Ma dopo aver scritto “La Straniera”, è come se mi fossi riavvicinata un po’ di più a questa componente nascosta o più tattile e non verbale. Quindi anche se non conosco la lingua dei segni è come se avessi recuperato anche un uso diverso del silenzio, ma non un silenzio come assenza, ma un silenzio come presenza. Quindi oggi ti direi che sono una persona che articola le forme di espressione e chissà se diventerà un’influenza anche nella scrittura, perché mi piacerebbe mostrare il silenzio anche visivamente sulla pagina. 

Stranieri siamo anche nelle nostre relazioni amorose? 

Io sin da bambina avevo questa idea romantica, presa dalle serie televisive americane, che probabilmente la relazione sarebbe stata una sorta di viaggio temporale con qualcuno che non era destinato a finire. Invece scrivo il libro e mi rendo conto che paradossalmente la prima cosa che tu dici alla persona che ami è anche l’ultima cosa che le dici quando non ci stai più insieme. Cioè che è straniera all’inizio perché ancora non la conosci, poi si crea una fase di lunga somiglianza e poi c’è la nostalgia della perdita della simbiosis, che è quella che racconto nel libro, in cui ritorna una forma di estraneità e di incomprensione. E, a proposito del linguaggio, per me l’amore con qualcuno è soprattutto un modo di parlare, un lessico amoroso che capiscono solo le due persone che lo usano. E quando tornano a parlare come due persone estranee, anche se sono nella stessa casa, sono in continenti diversi. Per me è stato interessante vedere l’ambivalenza del concetto di estraneità proprio nell’amore.

Fai tanti riferimenti alla letteratura polacca ed il colore rosso della copertina dell’edizione italiana è legato al film di Kieślowski.

È vero, cito l’amicizia di Malinowski e Witkiewicz che sono un po’ un fantasma della voce narrante rispetto alla madre. Parlo del romanzo omonimo di Maria Kuncewiczowa. Il mio viaggio a Danzica. La storia della copertina invece è interessante perché io avevo sempre percepito che il colore doveva essere blu – e non rosso come mi ha consigliato mia madre – ritenevo di aver scritto un romanzo-costellazione ovvero quello che dice la Tokarczuk nel libro “I vagabondi”, lettura per me molto importante. Ero andata a sentirla alla British Library e lei aveva usato questa espressione. Mi sono detta gliela rubo perché veramente sento che questo è un po’ il metodo che ho usato. La cito quando dico “una storia familiare è più simile a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. Per queste ragioni la copertina rossa mi sembrava una imposizione ed invece aveva senso.