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Gazzetta Italia 105 (giugno-luglio 2024)

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Lo splendido borgo ionico di Le Castella vi accoglie sul numero 105 di Gazzetta Italia proponendo un approfondimento su una terra bellissima, poco nota e piena di contrasti: la Calabria. Tra i viaggi parleremo di Agrigento e delle avventure ciclistiche in Italia di Bartek Ramza. Vi faremo scoprire la bella storia di rinascita attraverso lo sport di Bebe Vio, le esperienze italo-polacche del disegnatore Maurizio Di Bona e ancora la storia di Adrian il parrucchiere varsaviano-romano. Per la rubrica di cinema parleremo del grande Nino Manfredi nella sua interpretazione di Girolimoni, e di quanta Italia c’è nella serie “Doctor Who”. Per chi impara l’italiano segnaliamo l’intervento del professor Tucciarelli su “Falsi amici: le trappole della traduzione”. E poi ancora parleremo della mitica Lancia Aurelia, dell’importanza dello iodio nella nostra alimentazione, e troverete anche ricette e tanto altro! Insomma recuperate online o negli Empik la vostra copia di Gazzetta Italia!

Il Sogno continua!

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L’XI edizione del Torneo di Calcetto Italiani in Polonia ha portato nel fine settimana del 1-2 giugno (2024) oltre cento calciatori – italiani, polacchi e di altre varie nazionalità – a sfidarsi sui campi dell’AZS Łódź. Lo storico Torneo di Calcetto, che è la più importante e partecipata manifestazione sportiva degli Italiani in Polonia, è stato impreziosito dalla presenza dell’Ambasciatore d’Italia Luca Franchetti Pardo che dopo l’intervento di saluto ha presenziato alla tradizionale cerimonia d’apertura con prima il sorteggio dei gironi – con estrazione delle squadre da parte della signora Marta, moglie dell’Ambasciatore – e poi gli inni nazionali italiano e polacco. Graditissima presenza anche quella di Amedeo Piovesan che nel lontano ottobre del 2014 ha ideato e organizzato il primo Torneo giocatosi a Łódź e che è poi diventato itinerante.

Sul campo ad avere la meglio su tutti è stata ancora una volta la squadra Il Sogno di Varsavia che battendo in finale i padroni di casa del KTM Łódź per 3-1 ha bissato la vittoria dell’anno scorso. Nella finale per il terzo posto l’A.C. Wawa si è imposto ai rigori sul Real Poznań, dopo che la partita si era conclusa sul 4-4. Finali combattute che sono seguite a due equilibratissime semifinali: KTM Lódź-Real Poznań 2-1 e Il Sogno di Varsavia- A.C. Wawa 3-2 dopo il tempo supplementare. La squadra di Łódź si è comunque consolata con i premi al miglior portiere Kamil Marcinczak e al miglior cannoniere Maciej Danecki. Invece miglior giocatore è stato Filip Kacperkiewicz de Il Sogno di Varsavia. Coppa fair play all’Atletico per niente Wrocław che non preso neanche una ammonizione.

Sabato prima del via al Torneo si è svolta la partita memorial “Angelo ed Ergest per sempre con noi” per ricordare due ragazzi, che in passato hanno giocato per Łódź, scomparsi prematuramente. Una partita giocata da vecchie glorie del Torneo, ovvero tra “ragazzi” che per l’occasione sono tornati a calcare un campo di gioco dopo anni d’assenza. A seguire, incuranti dell’arrivo della pioggia, le 8 squadre, divise in due gironi da 4, hanno aperto le ostilità regalando al pubblico presente la bellezza di 56 gol in 12 partite il sabato e 58 gol nelle 12 partite del tabellone finale della domenica! Questi i piazzamenti: Il Sogno di Varsavia, KTM Łódź, A.C. Wawa, Real Poznań, Warszawa United, It. a Wrocław, Ital3miasto, Atletico per niente Wrocław.

Tra gol, rovesciate, traverse, dribbling e innumerevoli palloni persi oltre le reti di recinzione anche tante emozioni per mogli, fidanzate e figli e pure tanti ottimi panini sfornati dall’infaticabile squadra del Comites e di Shardana, che la sera hanno pure offerto gelati e un ottimo aperitivo sardo.

Il Torneo patrocinato dall’Ambasciata e organizzato da Comites, Gazzetta Italia insieme a Enrico Monti, Luigi e Melania Noto, è stato reso possibile dal supporto fondamentale degli sponsor: North Cost, BG Tech, Ristorante Mare e Monti, Across Europe, La Bottega d’Enrico, Italtecnica, Italia Lody Caffè, Andrea Cortassa.

A chiusura di questa bella edizione già si pensa dove giocare la prossima, tra le città candiate: Wrocław e Lublino.

 

Sergio Leone – un italiano che inventò l’America

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fot. Gianfranco Tagliapietra

traduzione it: Agata Pachucy

Leone viene spesso definito il “re dello spaghetti western”. Credo però che questa sia un’immagine quantomeno incompleta. “Io sono il vento”, cantava Arturo Testa nel 1959 durante il Festival di Sanremo. A mio avviso, Sergio Leone, nato 30 anni prima, il 3 gennaio 1929, è stato proprio un vento. Una brezza le cui numerose folate hanno modificato in modo permanente il panorama cinematografico.

Testa arrivò secondo nella classifica del festival all’epoca. Ho l’impressione che sia stato un po’ così anche per la carriera del regista romano che, pur essendo uno dei più grandi e influenti registi di tutti i tempi, per quelli dell’Academy non meritava neanche una nomination agli Oscar. Il prossimo 30 aprile sarà il 35° anniversario della morte di Sergio Leone. Solo oggi possiamo apprezzare appieno il contributo che il regista ha dato al cinema mondiale.

La filmografia di Leone è piuttosto breve. Ha iniziato assistendo Vittorio de Sica in “Ladri di biciclette” (1948). Ha poi lavorato, tra gli altri, a Quo Vadis (1951) e BenHur (1959), scrivendo nel frattempo anche le proprie sceneggiature. L’occasione arriva nel 1959, quando sostituisce Mario Bonnard, regista de “Gli ultimi giorni di Pompei”. Due anni dopo realizza “Il colosso di Rodi”, il suo primo lungometraggio indipendente. Ma la vera fama arriva con la realizzazione del successivo “Per un pugno di dollari” (1964), interpretato da Clint Eastwood. “Senza dubbio il punto forte di questo film, che ha avuto successo strepitoso in Italia e altrove in Europa, è il personaggio del fuorilegge interpretato da Clint Eastwood, l’attore americano che in precedenza aveva interpretato il ruolo di un avventuriero nella serie televisiva Rawhide”, scrisse il New York Times qualche anno dopo la prima. Eastwood recitò anche nei film successivi della cosiddetta “Trilogia del dollaro”: “Per qualche dollaro in più” (1965) e “Il buono, il brutto e il cattivo” (1966). Si può dire che fu Leone a scoprire il talento di Eastwood, mostrandone anche il raggio d’azione.

“Ho sentito parlare per la prima volta di Sergio Leone quando ho visto “Per un pugno di dollari”. Ho visto che era un grande film, ma i critici non lo apprezzavano. In Italia non capivano Sergio, non gli piaceva. Hanno iniziato a capirlo molto più tardi, con il suo ultimo film, ma era troppo tardi”, scrisse Dario Argento nel 2009 sulle pagine del britannico The Guardian.

Inizialmente, la critica accolse il film di Leone in modo piuttosto negativo. A ciò contribuì anche lo scandalo delle accuse di plagio de “La guardia del corpo” (1961) di Akira Kurosawa. Il regista giapponese andò in tribunale e vinse la causa. L’italiano ammise di essersi ispirato, ma non ritenne di aver plagiato.

Con il senno di poi, tuttavia, si può dire che è andata bene così. Ciascuna delle due parti ne ha tratto vantaggio. Kurosawa ne ha ricevuto profitto finanziario e i suoi film hanno suscitato maggiore interesse. Leone, invece, ha costruito qualcosa di molto importante, un genere a sé stante, sulla base di un’idea altrui, scoprendo al contempo il talento di Eastwood. È successo lo stesso con Ennio Morricone. Il compositore considerato oggi uno dei più grandi di sempre. Sono stati i film “del dollaro” a mostrare la portata del talento dell’artista romano, permettendogli di lavorare con i migliori registi, ispirando generazioni di cineasti. “Sono cresciuto ascoltando L’Estasi dell’oro”, ha sottolineato Quentin Tarantino.

Bisogna notare che, durante i primi giorni di lavorazione del film, si è scoperto che Leone e Morricone si conoscevano fin dall’infanzia, in quanto entrambi frequentavano la scuola elementare di San Giovanni a Roma.

“Ci siamo conosciuti all’età di sette anni, credo al terzo anno di scuola elementare, ma poi non ci siamo più incontrati. Solo in seguito, quando ero a casa mia a scrivere le musiche per il suo film “Per un pugno di dollari”, che lui mi chiese di fare dopo aver ascoltato le colonne sonore che avevo scritto per due precedenti film western. Gli piaceva la mia musica ed era convinto di questa collaborazione”, ha ricordato anni dopo Ennio Morricone.

Alcuni critici ritengono che sia la musica di Morricone a rendere speciali i film di Leone. È difficile non essere d’accordo, ma questo non significa sminuire il lavoro di Leone. Il compito di un regista è, tra le altre cose, quello di trovare le persone giuste e dare loro lo spazio per mostrare tutto il loro talento. Sergio Leone faceva esattamente così, permetteva agli artisti eccezionali che ha trovato di mostrare la pienezza della loro unicità. Un modo di lavorare che caratterizza solo i più grandi. Morricone compose anche le musiche dei film successivi di Leone: “C’era una volta il West” (1968) con Claudia Cardinale, Henry Fonda e Charles Bronson, “Giù la testa” (1971) con James Coburn e l’opus magnum del regista italiano, “C’era una volta in America” (1984).

All’inizio degli anni Settanta, proposero a Leone di girare “Il Padrino” (1972). Rifiutò perché non voleva glorificare la mafia. Tuttavia, in seguito si pentì della sua decisione. Alla fine, il film tratto dal romanzo di Mario Puzo, fu realizzato da Coppola in modo così brillante che a me personalmente non dispiace che Leone non l’abbia fatto. In più se avesse effettivamente realizzato “Il Padrino”, forse non avrebbe fatto “C’era una volta in America”, un film descritto come un “Padrino ebreo”, che, per inciso, al regista non piaceva molto. Questo non è un film sui gangster. Anzi, è un film surreale sulla memoria, sul passare del tempo, sulla nostalgia. “È anche un omaggio al cinema con note del mio pessimismo”, confessò il regista qualche anno dopo la prima. Leone ci riporta nell’America degli anni Venti, mostrando la storia di cinque ragazzi che crescono in un quartiere ebraico di New York. Il film, interpretato da Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGoven, Jennifer Connelly e Joe Pesci, è oggi riconosciuto come uno dei più grandi capolavori della storia del cinema.

Nel 1989 inizia a preparare un film sull’assedio di Leningrado. Tuttavia, pochi giorni prima di firmare il contratto, fu colpito da un infarto. Muore il 30 aprile a soli 60 anni. Nel 2022 è uscito il documentario sulla sua vita, intitolato “Sergio Leone: l’italiano che inventò l’America”.

Di draghi e dintorni

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Passeggiando sotto le mura del Wavel — l’imponente Castello Reale di Cracovia — è impossibile non imbattersi nel buio ingresso di una grotta. Una macchia arruffata di alberi la cela parzialmente e una statua ne fa da guardiano: annerita, ruvida d’aspetto, raffigura un drago rampante. È Smok Wawelski, il Drago di Wavel. Con le sue sei zampe e il respiro infuocato, la statua è una delle icone della città.

Figure dense di significati, ancora oggi i draghi popolano l’immaginario collettivo di oriente e occidente. Eppure, per quanto antichi, persino loro risentono dei tempi moderni, di una società segnata dai cambiamenti climatici, dai conflitti e dal progresso scientifico.

Ne abbiamo parlato con Michele Bellone, autore di Incanto. Storie di draghi, stregoni e scienziati, comunicatore della scienza e curatore editoriale della sezione saggistica per Codice Edizioni. Ci ha raccontato il ruolo che queste creature leggendarie hanno oggi nel mondo scientifico.

Un drago, tanti draghi 

Una premessa è doverosa. Dobbiamo parlare di draghi, al plurale, per ricordare le molte forme che hanno assunto nell’araldica, nei miti antichi e nella storia dell’arte: forme che hanno reso pressoché impossibile realizzarne una tassonomia univoca.

«Prendete il celebre dipinto San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Lì, il drago raffigurato ha quattro arti – due ali e due zampe – e non sei, come emerge da tante rappresentazioni storiche e artistiche. Ma chi, come me, è amante dei giochi di ruolo, sa bene che sono le viverne ad avere quattro arti, non i draghi. Eppure, quello ritratto da Paolo Uccello era un drago, come pure quelli del Trono di Spade, anch’essi dotati di quattro arti», racconta Bellone.

«Posso fare un altro esempio, sempre riferito all’Italia. El bisson, ossia il Biscione milanese, simbolo storico della casata dei Visconti e poi della città di Milano – ripreso in molti altri stemmi, da quello dell’Alfa Romeo all’Inter – pare sia stato ispirato dalla raffigurazione del drago Tarantasio, che secondo le leggende abitava un antico lago nei pressi di Lodi».

In una delle sue rappresentazioni iconiche, Tarantasio aveva due piccole ali, due zampe e un lungo corpo strisciante, simile appunto a quello di un serpente. «In effetti, i draghi dell’immaginario italiano tendono a essere raffigurati più come creature paludose e serpentesche che non come i draghi centro-nord europei. Loro sì, più simili a quelli diventati famosi grazie al cinema.»

Il filo conduttore che unisce la tradizione europea è semmai il vedere nei draghi dei grandi rettili. Anche in questo caso, però, il panorama globale è più variopinto: «I draghi della tradizione orientale mescolano parti di pesci, mammiferi e rettili: non sono mostri maligni, bensì una rappresentazione composita di molte specie diverse simboleggiante le forze naturali. Mentre nell’America centrale vengono rappresentati come giganteschi serpenti piumati, come il famoso Quetzalcoatl».

Draghi al servizio della scienza

Questo caos di forme anatomiche è fondamentale per iniziare a capire un possibile ruolo dei draghi nel mondo scientifico: essere uno splendido caso studio immaginario. Bellone fa un esempio: «Nel 1976, il biologo dell’Università di York Peter J. Hogarth, pubblicò un articolo sul Bullettin of British Ecological Society nel quale prendeva in considerazioni diversi aspetti dell’ecologia e dell’anatomia dei draghi, proponendo un’analisi critica alla luce degli studi darwiniani sull’evoluzione».Qualche mese dopo gli rispose il collega Robert M. May sulla celebre rivista Nature. Il professore di Oxford fece notare che, nella sua analisi, non aveva considerato un aspetto. Se si guarda all’evoluzione dei vertebrati terresti, uno dei tratti più conservati nel tempo è la morfologia tetrapode, cioè basata su quattro arti. I draghi però, contando le ali, ne hanno sei. «Se esistesse una linea evolutiva esapode, vorrebbe dire che i draghi sono più imparentati con il pegaso che con i rettili, e il pegaso sarebbe più imparentato con loro che non con un unicorno o un normale cavallo». La somiglianza tra draghi e viverne a quel punto diventerebbe un fenomeno noto come evoluzione convergente: rami diversi dell’albero della vita sviluppano tratti simili quando occupano nicchie ecologiche affini.

Si tratta di un gioco, ovviamente. Ma è un gioco prezioso per chi si occupa di evoluzione.

La biodiversità dietro i draghi

I draghi però non rappresentano solamente un caso studio utile a mettere alla prova i nostri criteri di classificazione. Immaginare come potrebbero muoversi, volare o sputare fuoco se esistessero realmente è un’ottima scusa per indagare le soluzioni che la biodiversità ha prodotto per ottenere risultati simili.

In Incanto, Bellone ne cita uno particolarmente sorprendente: i Brachininae. Si tratta di una famiglia di insetti comunemente nota come coleotteri bombardieri. Quando minacciati, questi animali sono in grado di emettere un getto di liquido rovente, ottenuto grazie a una miscela di enzimi, perossido di idrogeno e idrochinone che, combinati, portano la reazione a una temperatura molto elevata. Sono insetti a livello di qualsiasi drago sputafuoco, con il pregio di esistere davvero!

Il rapporto tra draghi e biodiversità non è unilaterale. «Un conto è se devi raffigurare un drago in un’immagine statica, un altro è se devi farlo muovere in maniera realistica, come in un film o in una serie. A quel punto gli animali che già esistono sono un’ottima fonte di ispirazione per chi deve costruire una figura animata al computer». Uccelli e pipistrelli sono i modelli migliori.

Scrive Bellone nel suo libro: «Gli artisti digitali di Pixomondo, coinvolti nella realizzazione dei draghi del Trono di Spade, hanno studiato l’anatomia delle ali dei polli per capirne i limiti meccanici, mentre per simulare il decollo di Drogon hanno preso spunto dai pellicani.» (p.40)

Draghi come metafore

Draghi al servizio delle scienze naturali, dunque, ma anche draghi per la biodiversità e draghi come metafore del mondo contemporaneo. «Nel 2015, sempre Robert May — deve essersi appassionato al tema, evidentemente — insieme a Andrew Hamilton e Edward Waters, per un primo di aprile, pubblicarono un articolo su Nature in cui usavano i draghi per parlare dei cambiamenti climatici.»

L’articolo, ovviamente umoristico, correlava il trend delle temperature globali a quello delle menzioni di draghi nella letteratura, sostenendo che chiaramente i fenomeni dovevano essere legati tra loro. Temperature più calde: più draghi avvistati. Che occorra limitare le emissioni prima che se ne risveglino troppi?

I draghi però non sono metafore potenti solo per la scienza. «Uno dei miei draghi preferiti in assoluto» racconta Bellone «non è un drago in senso classico. Compare nel romanzo di Michael Swanwick, Cuore d’acciaio, dove i draghi sono l’equivalente dei nostri cacciabombardieri: macchine costruite in fabbrica, dotate di missili e bombe, ma caratterizzate da una personalità, spesso arrogante e distruttiva». Una metafora delle idee di dominio e distruzione che imprimiamo nella tecnologia intorno a noi.

Smok Wawelski

Si dice che il Drago di Cracovia fu sconfitto da un calzolaio che, astutamente, gli fece trovare una pecora riempita di zolfo. Il bruciore alla gola e alla pancia che seguirono indussero la bestia a raggiungere la Vistola per dissetarsi, ingollando acqua fino ad esplodere. Una leggenda simile ad altre che, nei secoli, hanno popolato di draghi l’intera l’Europa orientale.

Il mostro è dunque morto. Oggi rimane una statua attorno a cui si accalcano i bambini. Rimane anche l’immagine del drago come simbolo di cultura, tradizione e, come abbiamo visto, anche di scienza. Perciò, in futuro, quando vedrete un drago, ricordatevi di contare quante zampe possiede.

Maria Skłodowska-Curie in Italia alla ricerca di radio

traduzione it: Marta Koral

“Il 30 luglio 1918 alle ore 3:30 del mattino, Maria Skłodowska-Curie scese dal treno alla stazione di Pisa”. Così ebbe inizio lo straordinario viaggio di tre settimane della vincitrice di due premi Nobel durante il quale insieme ad alcuni scienziati italiani percorse più di 3.000 km, studiando le radiazioni naturali delle acque termali, delle fumarole e delle rocce. 

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Nel 2023 si sono celebrati due importanti anniversari legati a Marie Skłodowska-Curie, due volte premio Nobel per la fisica e la chimica: 120 anni dalla consegna del primo Premio Nobel e 125 anni dalla scoperta del polonio (84Po) e del radio (88Ra). Tali ricorrenze sono state segnate da un’eccellente collaborazione tra l’Accademia Polacca delle Scienze di Roma, l’Istituto di Chimica Organica del PAN e l’Università di Pisa. Insieme, abbiamo ritenuto opportuno far conoscere ad un pubblico più vasto i dettagli della visita di Maria Skłodowska-Curie in Italia. Infatti, l’illustre Premio Nobel nel 1918 vi trascorse tre settimane, ma sono poche le fonti che ne parlano. In effetti, la Premio Nobel trascorse in questo Paese tre settimane nel 1918, ma sono poche le fonti che fanno riferimento a questo viaggio. Si è scritto molto sulle sue due spedizioni negli Stati Uniti, in Brasile o in Spagna, si è parlato di visite nei Paesi Bassi e a Bruxelles, mentre il suo viaggio in Italia è rimasto sempre un tema inesplorato. Fu a causa della guerra in corso che la spedizione del Premio Nobel si svolse senza particolare risonanza.

 

Come nasce quindi l’idea della visita di Maria Skłodowska in Italia? Verso la fine della Prima guerra mondiale, la Francia comincia a esaurire il radio e la sua “emanazione” (ovvero il radon, un elemento radioattivo che si forma spontaneamente dal decadimento del radio), che veniva utilizzato, tra l’altro, negli ospedali da campo. Madame Curie decise pertanto di recarsi presso le sorgenti termali italiane, ricche di quel prezioso elemento radioattivo, da dove sarebbe stato relativamente facile e veloce trasportarlo in Francia. Tra l’altro, le sostanze radioattive naturali erano già all’epoca oggetto di ricerca in Italia, la difficoltà, tuttavia, stava nel loro isolamento per l’utilizzo pratico. È il motivo per cui i massimi scienziati italiani, guidati dal professor Vito Volterra, invitano più volte Madame Curie nel Bel Paese, nella speranza di poter ricevere conferma delle scoperte fatte fino ad allora, di potersi confrontare, di trovare nuove fonti di questi elementi e di individuare i modi per estrarli. La visita si svolse nel 1918 quando Skłodowska-Curie arrivò a Pisa su invito di Raffaello Nasini, professore di chimica all’Università di Pisa. Il primo passo fu quello di controllare l’apparecchiatura fornita dall’ateneo per la missione di ricerca. Dopo aver verificato la sua idoneità alle misurazioni previste, la scienziata, accompagnata dal giovane assistente di Nasini, Carlo Porlezza, partì per un lungo viaggio attraverso il Bel Paese.

Da sinistra: dr hab. Marcin Górecki (Instytut Chemii Organicznej PAN w Warszawie), prof. Gaetano Angelici (Università di Pisa), prof. Lorenzo di Bari (Università di Pisa), Agnieszka Stefaniak-Hrycko (dyrektor Stacji Naukowej PAN w Rzymie)

Trascorse i primi giorni in intensa attività di ricerca in Toscana. Visitò prima i Bagni di San Giuliano, a pochi chilometri da Pisa, per testare sul campo le apparecchiature disponibili. I test riuscirono alla perfezione e confermarono la notevole radioattività di quelle acque sorgive. Da qui, insieme a Porlezza, Skłodowska partì per la vera missione scientifica alla ricerca di altre possibili fonti di sostanze radioattive. Il 1° agosto giunse a Bagni di Montecatini, le cui acque erano celebri per le loro proprietà benefiche “sul fegato e sulle budella”. Con Nasini e Porlezza misurò la radioattività delle acque termali del Tettuccio. In Toscana visitò anche Larderello, località nota per il suo particolare paesaggio caratterizzato dalla presenza di colonne di vapori bianchi dei soffioni boraciferi. È interessante notare che questi fenomeni naturali, già conosciuti all’epoca di Dante Alighieri, ispirarono il poeta nel descrivere i paesaggi… infernali!

Quindi la spedizione si diresse verso il sud dello Stivale. Da Napoli gli scienziati raggiunsero Ischia per effettuare le misurazioni della radioattività in diversi punti dell’isola, noti da centinaia di anni per le loro proprietà terapeutiche. A Lacco Ameno, il 7 agosto Skłodowska analizzò le acque delle Terme Regina Isabella. L’isola si rivelò un luogo particolarmente ricco in emanazioni radioattive del radio, non solo delle acque, ma anche del terreno e persino dell’aria. Oggi qui si trova uno dei principali centri di cura e soggiorno a livello internazionale. La seguente meta della missione scientifica fu l’isola di Capri, dove furono prelevati altri campioni. Al ritorno verso il Nord, la Premio Nobel si fermò brevemente a Roma, dove strinse alcuni contatti professionali.

La tappa successiva della visita furono gli impianti militari di raggi X vicino a Padova, dove poche settimane prima si erano svolti dei combattimenti. La scienziata li confrontò con le strutture francesi mostrandosi soddisfatta dell’organizzazione di quelle italiane. In Veneto nell’area dei Colli Euganei invece l’equipe scientifica visitò le magnifiche sorgenti termali di Abano, Battaglia e Montegrotto verificando le misurazioni della radioattività delle loro acque, già effettuate in precedenza. Dopo una breve gita in motoscafo da Fusina a Venezia, Skłodowska si recò a Lurisia, dove non solo esaminò la fortissima “emanazione” di radon, ma raccolse anche campioni di autunite, che poi portò con sé in Francia per valutarne la quantità di radio presente. Una vera sorpresa attendeva gli scienziati nella grotta delle cave di Lurisia. Esaminando le rocce con apparecchiature dell’Università di Pisa, gli strumenti addirittura “bollirono”. Nella grotta, che oggi porta il nome dell’illustre scienziata, Madame Curie pronunciò la famosa frase: “Beaucoup de radium!”

Il viaggio si concluse il 18 agosto a Sanremo con una riunione e una prima sintesi della missione scientifica. Il giorno dopo, gli scienziati italiani accompagnarono la Premio Nobel alla stazione di Ventimiglia, da dove prese il treno per ritornare in Francia. Skłodowska-Curie mandò poi al professor Volterra il suo resoconto ufficiale del viaggio, insieme ai ringraziamenti per l’ospitalità italiana. Un anno dopo, inviò una lettera che oggi si trova al Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa, che accompagnava un campione di cloruro di radio, per la standardizzazione delle misure di radioattività nelle acque sorgive.

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Il filmato è disponibile in tre versioni linguistiche: polacco, italiano e inglese sul canale YT di PAN. Buona visione!

Visita dell’Ambasciatore Franchetti Pardo alla Nave Rizzo a Gdynia

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L’Ambasciatore d’Italia in Polonia, Luca Franchetti Pardo, sabato 11 maggio ha visitato la Fregata “Luigi Rizzo”, comandata dal C.F. Catia Pellegrino, che conclude la sua partecipazione alla missione Nato “Brilliant Shield” dopo avere assicurato per cinque mesi la sicurezza del Mar Baltico, integrandosi nel dispositivo di difesa aerea polacco che vede impegnata anche la nostra Aeronautica Militare. Resi gli onori militari all’Ambasciatore, accompagnato dall’Addetto per la Difesa Col. Cavaliere, a bordo di Nave Rizzo è stata accolta una delegazione militare polacca che ha voluto esprimere il vivo apprezzamento di Varsavia per l’impegno italiano a protezione del fianco est della NATO. L’Ambasciatore Franchetti Pardo ha voluto ringraziare le donne e gli uomini in divisa che quotidianamente difendono la sicurezza degli Italiani, operando anche in aree geografiche lontane e a costo di grandi sacrifici personali. Franchetti Pardo ha evidenziato il significativo contributo di Nave Rizzo per la difesa del Paese e delle strutture sensibili nel Mar Baltico e ha ribadito che da parte italiana rimane fermo e convinto il sostegno all’Ucraina e a protezione del fianco est della NATO.

Una follia chiamata Venezia

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traduzione it: Agata Pachucy

Beata Malinowska-Petelenz, architetto, pittrice e illustratrice, autrice di varie esposizioni tra cui “Non andare a Venezia” (Galleria Trzecie Oko, gennaio 2020), presenterà alla Galeria Dymu di Cracovia una serie di opere dal titolo “Una follia chiamata Venezia”. L’inaugurazione della mostra avrà luogo il 13 maggio alle ore 19.00 presso la Galeria Dymu, in via Św. Tomasza 13.

Secondo Bachtin, il carnevale è un momento di rovesciamento del mondo, un via libera alla follia e al sovvertimento delle norme sociali. Ma a Venezia il carnevale dura tutto l’anno perché le folle di turisti continuano ad arrivare indifferenti al rischio di morte sociale della città. Venezia si gonfia ancora, senza sosta, di turisti che sfrecciano tra l’obbligatorio aperitivo, un selfie sotto la Basilica di San Marco e l’acquisto di una calamita con un leone made in China. Questo mondo di estrema fisicità, che trasporta e annienta la città allo stesso tempo, ha trovato la sua rappresentazione nelle straordinarie opere di Beata Malinowska-Petelenz: “mi sono lasciata trasportare dagli strati di colori, dai costumi, dalle maschere onnipresenti. I confini della realtà e del sogno erano sfumati, così come i confini della città in un indefinito territorio in cui non si sa dove finisca la verità e inizi la visione turistica. La pittura qui si contrappone al ritmo incalzante delle visite turistiche; incoraggia la contemplazione del colore, dell’architettura e della materialità della città, che in un impeto carnevalesco diventa la storia di una città che, anche se muore, lo fa con il sorriso sulle labbra.” L’ispirazione per la nuova serie di dipinti a tecnica mista è nata durante la visita dell’autrice a Venezia nell’ultimo sabato del Carnevale 2024. La mostra, curata da Mariusz Twardowski, è sostenuta dalla Fondazione AP KunstArt con patrocinio mediatico di Gazzetta Italia e niemuzeum.pl.

Vini da scoprire tra Val di Cornia e costa degli Etruschi

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L’estremo lembo meridionale della provincia di Livorno sintetizza l’esperienza intensa di storia, natura e cultura, con il vino a fare da filo conduttore

«Andando in Maremma io vedo un paesaggio bellissimo, ma anche terribile, selvaggio, indomabile, una terra ancora al margine della civiltà». L’introduzione alla terra maremmana dello scrittore Carlo Cassola potrebbe spaventare, anche se ormai datata, eppure quell’anima selvatica e non schiacciata dall’invadenza antropica diventa oggi un punto di forza per questo pezzo di Toscana.

I borghi pittoreschi, la campagna vasta e assolata, le spiagge poco attrezzate, il parco sull’area costiera, le saline di Orbetello e il parco dell’Uccellina, le pinete e le colline, il Calidario della (bella) struttura termale a Venturina Terme, i vigneti e le tombe etrusche nascoste dalla macchia mediterranea rappresentano una proposta accattivante per il visitatore curioso, capace di andare oltre l’approccio scontate.

La Val di Cornia è l’estremo lembo meridionale della provincia di Livorno che guarda all’arcipelago toscano e in qualche modo sintetizza l’esperienza intensa di storia, natura e cultura, con paesaggi che si estendono dalle colline coperte di vigneti ai suggestivi borghi medievali, fino alle calette nascoste lungo la Costa degli Etruschi. E in questa terra dalla bellezza vibrante l’esperienza del vino è importante, dato che molte delle aziende vitivinicole hanno costruito proposte enoturistiche intriganti.

ANTICHE MINIERE E TOMBE ETRUSCHE

Le antiche miniere di ferro testimoniano l’importanza economica di questa regione nel corso dei secoli, dato che ai tempi degli Etruschi l’estrazione del metallo aveva portato a trasformare la spiaggia tra Populonia e Baratti in una enorme fornace con carpenteria annessa, dove fuoco e acqua si scontravano per la produzione di manufatti in ferro.

Decaduta nei secoli successivi (anche per l’intervento distruttivo dei Romani) l’economia costiera – le cui vestigia oggi danno senso a un parco archeologico di grande fascino – nel periodo medievale la Val di Cornia ha visto fiorire borghi come Suvereto e Campiglia Marittima, oggi ancora ben conservati e resi vivaci da osterie, ristoranti, botteghe artigiane che restituiscono la bellezza di un presente autentico. Inoltre, a Campiglia Marittima, il Parco Archeominerario di San Silvestro racconta la storia recente delle miniere della zona e offre tour guidati attraverso i cunicoli sotterranei.

Tra un borgo e l’altro, la Val di Cornia rivela una serie di sentieri escursionistici e percorsi ciclabili che permettono ai visitatori di immergersi completamente nella bellezza naturale di questa regione, rendendola un tesoro nascosto per gli amanti della natura e della storia. E spostandosi verso Castiglione della Pescaia, la zona umida della Riserva Naturale Diaccia Botrona è un paradiso per gli amanti della natura, in particolare per il birdwatching.

TRA CANTINE E VINERIE

La Val di Cornia è anche famosa per la produzione di vini che, a partire dalla fine del XX secolo, hanno avviato un percorso di ricerca della qualità. Attraversando boschi e vigneti, si possono raggiungere le cantine in bicicletta (o a cavallo, per gli amanti del turismo equestre) trovando calici e sapori di questa terra. E se la vicina Bolgheri ha monopolizzato l’attenzione sui cosiddetti supertuscan – i vini con taglio bordolese da vitigni internazionali come Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc – la proposta enoica più interessante della denominazione Suvereto e Val di Cornia sta proprio nella capacità di differenziarsi.

La combinazione del terreno ricco di minerali e il clima mite della costa toscana crea infatti un ambiente ideale per la coltivazione delle uve, conferendo ai vini una nota di mineralità e freschezza. E il risultato è molto interessante quando queste peculiarità non vengono coperte da un affinamento in legno invasivo.

Il Sangiovese è protagonista in molti rossi della zona e in Val di Cornia offre un profilo aromatico complesso tra frutti rossi, note floreali e speziate, una struttura tannica non troppo aggressiva. Se dunque non viene stressato da eccessi di concentrazione e di legno, regala un sorso molto piacevole. Per chi ama i vini corposi e le speziature derivate dagli affinamenti ispirati dagli enologi degli anni Novanta, diverse etichette a base Cabernet Sauvignon e Merlot restituiscono sentori di frutta matura, erbe aromatiche e spezie.

Non sono invece da trascurare i bianchi della costa. Il Viognier porta nel calice vini di grande eleganza, ma è il Vermentino la varietà predominante come in tutta la Maremma vinicola e anche in Val di Cornia si esprime in vini freschi e aromatici, giocati tra toni agrumati e di frutta tropicale. In realtà, le espressioni più interessanti sono quelle che non “semplificano” troppo il vino nel segno della freschezza, ma lasciano emergere la macchia mediterranea, la sapidità derivata dai terreni costieri, sfumature balsamiche e una tensione che si spinge fino alla pietra focaia levigata dal mare.

La proposta turistica spazia dalle degustazioni guidate in cantina ai tour tra i vigneti, dalla vendemmia partecipata alle cene con abbinamento dei vini a piatti tipici della regione, ma in qualche caso anche all’accoglienza con pernotto tra le vigne.

 

‘’Giuditta con la testa di Oloferne’’ dalla collezione di Stanislao Augusto Poniatowski

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“Giuditta con la testa di Oloferne”, copia sul modello di Cristofano Allori, olio su tela, dimensioni 141,3 x 118,5 cm, Palazzo sull’acqua, Parco Łazienki di Varsavia

Traduzione it: Aleksandra Pasoń

Nel XVIII secolo, quando il re Stanislao Augusto Poniatowski desiderava trasformare Varsavia in un centro di cultura e di scienza, le sue collezioni artistiche erano seconde solo a quelle della zarina Caterina. Il problema della sopravvivenza delle collezioni polacche risiedeva nel fatto che facevano parte di proprietà privata dei sovrani eletti e non del patrimonio della Corona. Ciò significava che spesso venivano ereditate da chi abitava al di fuori dei confini nazionali che poi talvolta le vendeva oppure le lasciava in eredità ai propri discendenti.

Ecco perché, ad esempio, le pinacoteche dei sovrani della dinastia sassone dei Wettin (ricordiamo che Augusto II “il Forte” e Augusto III “il Sassone” furono re di Polonia) si trovano oggi a Dresda. Purtroppo, la vasta collezione del re Stanislao Augusto Poniatowski si disperse in tutta Europa. Tanti capolavori acquistati da lui in passato, oggi fanno parte di eccellenti gallerie d’arte disseminate in tutto il mondo. Uno degli esempi è “Il cavaliere polacco” di Rembrandt che potemmo per fortuna ospitare nel nostro paese durante una mostra temporanea nel Palazzo sull’Isola di Łazienki Królewskie, ovvero il luogo dove era un tempo esposto. Attualmente è di proprietà della Frick Collection di New York.

Siamo più fortunati con una copia del dipinto “Giuditta con la testa di Oloferne” di Cristofano Allori, maestro italiano del XVI secolo. In Italia il soggetto godeva di popolarità fin dal XV secolo, mentre Giuditta stessa era la patrona di Firenze. Giuditta, una vedova della città di Betulia assediata dall’esercito del re Nabucodonosor comandato da Oloferne, divenne l’eroina che salvò il popolo grazie alla sua astuzia. Con l’aiuto e in compagnia della serva Abra, si recò nella tenda del comandante nemico. Sedusse Oloferne, lo ubriacò e, quando l’uomo si addormentò, Giuditta gli tagliò la testa con una spada, la nascose in un cesto e lasciò l’accampamento insieme ad Abra. All’alba le truppe di Nabucodonosor videro la testa del loro comandante infilzata sulle mura di Betulia, il che scatenò il panico e fece disperdere l’esercito. Giuditta, una donna bellissima, riuscì a sconfiggere il potente Oloferne e a salvare la città. Perché sono appunto gli artisti italiani ad essere così appassionati di questa tematica? Giuditta fu dipinta e scolpita da Donatello, Verrocchio, Botticelli, Mantegna, Caravaggio, Artemisia Gentileschi e Cristofano Allori. Era un manifesto di fede in Dio che sostiene la lotta per la libertà contro l’oppressore, ma rappresentava anche astuzia, saggezza e coraggio di agire. Firenze, che lottava contro la dominazione politica di Roma, non sottoponendosi alle sue richieste, identificava allegoricamente Oloferne con la Santa Sede, mentre lei stessa si raffigurava come Giuditta: astuta, composta e intelligente.

Nelle diverse epoche, sebbene l’opera trasmettesse simbolicamente un’idea di lotta e vittoria contro l’oppressore stilisticamente poteva variare. Donatello creò una scultura statica, in stile antichizzato, ma la sua Giuditta ha un’espressione determinata e uno sguardo freddo con gli occhi spalancati. Botticelli e Mantegna raffiguravano la vedova di Betulia con abiti e capelli scompigliati, mentre cammina come se ballasse; giovane, bella, quasi seducente. Gli artisti barocchi, come Caravaggio e Artemisia Gentileschi, erano maestri del dramma e dei contrasti netti: il sangue e le lenzuola immacolate, la determinazione sul viso della donna contro gli occhi annebbiati dell’uomo morente. Alcuni temi pittorici erano più popolari di altri. È il caso di varie versioni di Venere che emerge dal mare, Danae su cui cade una pioggia dorata, innumerevoli composizioni della Madonna col Bambino, ma anche della biblica Susanna, del giovane Davide con la fionda o, appunto, di Giuditta con la testa di Oloferne. Per quanto riguardava la bella vedova di Betulia, un ventaglio di possibilità era molto ampio visto che, mentre il Rinascimento vedeva in lei grazia, leggerezza e armonia, il Barocco puntava sul momento dell’omicidio in cui il sangue scorre drammaticamente e le espressioni del viso sono a volte feroci.

Allori dipinse tre o quattro versioni del quadro, che si differenziano poco una dall’altra. La prima, creata tra il 1610 e il 1612, si trova nella Galleria Palatina di Firenze. La seconda, datata dall’artista al 1613, è esposta a Edimburgo e fa parte della Collezione Reale di Buckingham Palace. Dalla documentazione emerge che versioni successive, oggi sconosciute, potrebbero essere state realizzate fino al 1621. La composizione, che già ai tempi dell’artista mieteva tanti successi, sarebbe stata spesso copiata anche nel XVIII e XIX secolo. In che cosa consisteva l’eccezionalità della raffigurazione biblica di Allori da renderla così desiderata dai collezionisti? Innanzitutto, secondo gli studiosi italiani che analizzano il dipinto, il pittore rese una sorta di omaggio all’industria tessile fiorentina del XVI secolo. L’abito di Giuditta è molto elaborato e i tessuti con cui è cucito mostrano la ricchezza delle più pregiate sete e di lane finissime. La versione di Varsavia è una copia dell’originale presente nella Galleria Palatina. Non è una riproduzione fedele in quanto il copista decise di alterare alcuni dettagli dell’abbigliamento della donna. Mentre nell’opera di Cristoforo Allori la fusciacca legata intorno alla vita di Giuditta è liscia, in quella del copista è a strisce, ma dipinta in modo tale da poter notare la struttura della stoffa. Nella versione fiorentina è difficile individuare tale particolarità perché il materiale è spesso e leggermente luccicante. Non è facile notare questi dettagli anche perché il quadro nella Galleria Palatina è appeso in un angolo della sala, piuttosto in alto rispetto all’occhio umano. Inoltre, la vernice riflette la luce impedendo una visione precisa. Nell’originale manca anche il cordino rosso che tiene il mantello sulle spalle della donna. Il copista l’ha dipinto in modo che scorra diagonalmente dalla spalla sinistra a quella destra. Si dice che la versione fiorentina sia incompleta, però se analizziamo la maestria pittorica con cui fu creato l’abito dorato con motivi floreali o il frammento del cuscino verde di velluto, ciò sembra poco probabile. Il pittore non solo manipolò magistralmente i colori e la luce, ma trasmise perfettamente la profondità del dipinto.

La scena è molto teatrale. Si tratta di un omicidio. Una giovane donna dal volto pallido e delicato stringe tra le mani i capelli aggrovigliati del persecutore del suo popolo. Più precisamente, tiene solo la sua testa mozzata. Teatralmente illuminata, Giuditta emerge dallo sfondo nero che sottolinea il candore del suo viso e la delicatezza delle mani curate. Sembra che stia posando per una scena. Sul suo volto non c’è paura né sorpresa. Non ci sono neanche le emozioni tipicamente barocche che vediamo in Caravaggio o Artemisia Gentileschi, dove Giuditta ha un’espressione feroce ed è così determinata che la luce drammatica, i contrasti cromatici, i forti contorni e l’accento sul sangue sembrano far parte di un’immagine fissa, una rappresentazione straordinariamente espressiva. Nella composizione di Cristofano Allori, come nel caso della copia nostrana, il carattere teatrale non risiede nell’espressione, ma nella posa dei modelli e nel loro emergere dall’oscurità. Forse fu quello che influiva sulla popolarità del dipinto già ai tempi della sua creazione.

L’opera è quindi una delle rappresentazioni più teatrali di Giuditta con la testa di Oloferne. Abbiamo a che fare con un’improvvisa uscita dall’oscurità verso tonalità di luce vivide e brillanti che, attraverso il contrasto, rivelano l’atto la cui drammaticità è indiscutibile. Al tempo stesso, la composizione offre una miriade di opportunità per la percezione estetica dell’opera.

Filippo Baldinucci, biografo e disegnatore del XVII secolo, scrisse che per la figura di Giuditta posò Mazzafirra, l’amante del pittore, e per quella di Abra la madre dell’artista mentre fu lui stesso che diede le sue fattezze al volto di Oloferne, il che non era niente di particolare nell’epoca barocca in cui gli artisti solevano intrecciare elementi autobiografici nei loro dipinti. Lo fecero Caravaggio e Gentileschi, pittori la cui creatività ispirò Cristofano Allori. Si suppone che Caravaggio abbia dato a Oloferne i suoi lineamenti. Non c’è dubbio che nelle diverse versioni dell’opera dipinte da Gentileschi, Giuditta abbia sia il volto che il corpo dell’artista italiana. Per di più, esse appartengono ad un insieme di composizioni che costituiscono un resoconto drammatico del difficile passato della pittrice. Allori era quindi un uomo del suo tempo inserito in una viva tradizione in cui le proprie esperienze si intrecciavano con le narrazioni apocrife e bibliche. Uno dei ricercatori, osservando una copia parigina della “Giuditta”, arrivò alla conclusione che il pittore si credeva colpito dalla freccia di Cupido. Forse il suo amore per la bella Mazzafirra era infelice.

Nell’inventario del re Stanislao Augusto, il dipinto fu inizialmente registrato senza il nome dell’autore. Nel 1795 fu erroneamente catalogato come opera di Franciszek Smuglewicz, un pittore che lavorò per il re a Roma e a Varsavia.