Un anno baltico

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Nel bel mezzo di un pomeriggio di agosto 2016, sudata e con i muscoli indolenziti dall’ennesima salita nella mia mansarda torinese al sesto piano carica di bucato ritirato dalla lavanderia, apro il mio laptop e, nascosta fra le solite email che mi propongono menu di pesce a 3 euro o improbabili corsi di ‘massaggi’ miracolosi, c’è lei: la proposta che mi avrebbe cambiato la vita di lì a breve. Dopo mesi passati a inviare cv per cercare di partire con il programma SVE, nel momento più inaspettato – a poche settimane dalla laurea – mi arriva una proposta per la Polonia, a Gdynia, per lavorare in una biblioteca pubblica.

In poco tempo mi laureo, mi preparo e, a malapena salutando famiglia e amici, a ottobre salgo sull’aereo che mi porterà in quella zona di Polonia così verde e piovosa, piena di emozioni contrastanti cui non riesco a dare un nome: lascio per un anno un Paese che amo ma che non sembra ricambiare, occupato com’è a fare aperitivi e a discutere che colori abbinare nell’outfit per il weekend, e non so cosa aspettarmi da una terra conosciuta tramite vaghi racconti altrui di tempi andati. Sull’aereo piango silenziosamente, e queste lacrime zitte le vedrò spesso sui volti di altre donne, in sala d’attesa in aeroporto, quando per le ferie ritornerò in Italia: sento che un filo sottile ci unisce tutte, anche se le nostre storie sono diverse, e diversi i volti che lasciamo e che ci aspettano – sul Baltico o sul Mediterraneo. Fra altre donne e ragazze mi troverò al mio arrivo: in casa, condivisa con altre volontarie (tranne uno) da Paesi europei ed extra-europei (Georgia, Armenia, Turchia), e a lavoro, dove quasi tutte le mie colleghe sono donne. Sarà perché sarà, lascio a chi mi legge ogni considerazione sul perché di questo.

Il primo mese ho la sensazione di iniziare un viaggio esplorativo a ritroso nel tempo: i colori magici dell’autunno invadono ogni spazio senza case, in città, e vago per le strade col naso all’insù come una bambina che vede per la prima volta foglie, vischio e passerotti intirizziti dal freddo – non poi così più freddo che nella mia Pavia, cuore gelido di bassa padana, o di Torino, con i suoi venti di montagna. È la luce a essere diversa, forse più preziosa, perché dura meno in inverno: uno shock è vedere l’inizio di tramonto già alle 15.30…ma ci facciamo forza a vicenda con altri volontari, pensando alle giornate lunghe che ci aspettano in estate. I miei orari di lavoro – da mezzogiorno alle 19 circa – mi permettono di godermi la mattina: mentre a casa i più dormono, esco a farmi camminate nel centro di Gdynia e lungo il mare. Il Baltico mi si presenta la prima volta verde e ruggente, con un vento sferzante e un profumo salmastro che mi ricorda le passeggiate invernali in riviera ligure dopo le mareggiate; mi fa sentire a casa. Regalo fugace, perché per il resto dell’anno lo vedrò quasi sempre calmo, e non ne sentirò più alcun odore. Mentre scrivo penso che questo mare riflette lo spirito degli abitanti di quel nord: calmo in superficie e non trasparente, ma ribollente di ricordi ed emozioni, di reminiscenze di viaggi, battaglie e schiuma di navi, con una vita sommersa e guizzante dietro quei calmi occhi color del cielo, a tratti attraversati da sorrisi impercettibili. La mia vita di ragazza di provincia ha spesso ruotato intorno all’acqua, il fiume per ogni giorno e il mare per i giorni di festa, e so di aver accettato questo progetto anche per la possibilità di vivere vicino all’acqua festiva ogni giorno, per poter vedere come sono gli altri mari al di fuori del Mediterraneo, nel quotidiano, non nella fretta di una vacanza.

Il lavoro in biblioteca, come assistente alle impiegate in una sezione vicino al porto industriale, è pieno di alti e bassi, e coi volontari impegnati in altri progetti spesso ci confrontiamo per gestire le difficoltà in modi ‘creativi’. La barriera linguistica è, naturalmente, una delle più grandi: proprio il cercare da subito di parlare in polacco mi porta a sentire bimbi curiosi che fanno domande nonostante le mie facce imploranti pietà. Lo sforzo per esprimersi in lingua viene premiato da incoraggiamenti e la motivazione per non demordere cresce; la stanchezza dei primi mesi è un macigno, ogni azione sembra un passo al buio, perché l’energia è presa anche dalle piccole novità quotidiane, che risvegliano una mente presto tendente a detestare le incombenze normali delle vite di tutti, in Polonia, in Italia, nel mondo. In casa si stringono legami, si litiga, ci si confronta su abitudini così scontate ma così buffe agli occhi degli altri: chi cucina chili di patate bollite di notte, per portarsi avanti per la settimana; chi bisbiglia e chi parla quasi urlando tutto il tempo, chi beve caffè solubile ma vuole imparare a usare la moka e…l’”italiana atipica” (così sono stata definita da una volontaria) che tradisce l’espresso per il caffè lungo. Le lunghe discussioni sul senso di famiglia e legami affettivi nelle sere invernali, davanti agli immancabili tè alla frutta e a deliziosi biscotti – quanti buoni dolci in Polonia! – danno un senso tangibile a parole udite ogni giorno – ’differenze culturali’ – ossia possibili visioni alternative su problemi personali vissuti come insolubili a casa propria, ma come spunti di crescita da persone con prospettive e gerarchie di valori diversi.

Uno SVE è occasione per viaggiare e grazie a due amici polacchi conseguo uno dei miei obiettivi: vedere i bisonti nell’est del Paese, nella Foresta di Białowieża. Siamo fortunati: li vediamo uscire dalla loro placidità e lottare a cornate e…nel tragitto serale in auto si manifesta pure un lupo, che dal ciglio della strada ci osserva fiero. Sparisce in un baleno, inghiottito dalla luce lattea della luna riflessa sulla neve di febbraio. In un baleno scorre anche questo anno: torno in Italia, bruciacchiata dal sole baltico, consapevole che forse un giorno tornerò in quel Paese pieno di contraddizioni e sorprese, dove poter toccare con mano una dolcezza che non cessa di avvolgermi come una coperta morbida, anche a distanza, mentre scrivo dalla mia città cullata dai placidi ritmi del Ticino.