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Natalia Palmowska-Messina: i tesori nascosti nel vino

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fot. Żaneta Nawrot

traduzione it: Maria Chiara Piras

 

Natalia Messina, prima donna polacca a conseguire un master in enologia. Laureata presso la Facoltà di Farmacia dell’Università Jagellonica di Cracovia e in Enologia presso le Università di Firenze e Torino, è ricercatrice scientifica presso l’Università di Milano. Fondatrice del proprio marchio cosmetico “Vitigna SkinLove”, basato su ingredienti ottenuti dalle viti. Dal 2015 vive a Como, in Italia.

Che vini beve una persona con un master in enologia?

In estate adoro i vini a base di un vitigno poco conosciuto il Timorasso. Era quasi estinto, ma fortunatamente è stato riportato in vita da un enologo del Piemonte e sta diventando sempre più popolare. È un vino minerale, leggermente salino, fresco e con un’elevata acidità. In inverno preferisco vini rossi più strutturati, con tannini ben presenti e di corpo, come dicono gli specialisti. Amo la Toscana, quindi adoro il Brunello, il Chianti, il Montepulciano, e fuori dalla Toscana l’Amarone della Valpolicella, un vino corposo e complesso, ottenuto da uve appassite che lo rendono più alcolico e leggermente amabile. Perfetto per le serate invernali, da degustare accanto al camino.

I nomi dei tuoi cosmetici derivano dai vitigni.

I nomi dei prodotti provengono dai vitigni da cui si ottengono i vini, e il loro carattere riflette la natura di ciascun cosmetico. Trebbiano è un vitigno bianco con un’elevata acidità, da cui nasce il mio tonico agli acidi. Sangiovese è il vitigno imprescindibile dei grandi vini rossi toscani come Brunello, Chianti e Nobile di Montepulciano. Lo stesso nome porta la mia crema idratante, la base assoluta di ogni cura della pelle. Malvasia è un vitigno bianco versatile, da cui si ottengono vini secchi, dolci e spumanti, e a volte viene persino aggiunto ai vini rossi. Da questo vitigno nasce il mio siero universale, da giorno e da notte, adatto a ogni tipo di pelle e a tutte le età. Attualmente sto lavorando alla crema contorno occhi che porterà il nome Moscato. Il Moscato d’Asti è un vino leggermente frizzante, brillante, che brilla nel calice riflettendo la luce. Proprio come farà questa crema, illuminando delicatamente la zona del contorno occhi.

Sulla base di quali proprietà dei vini hai basato la formula dei tuoi cosmetici?

Nel vino si nasconde una grande ricchezza. Consulto i database delle pubblicazioni scientifiche e combino la mia conoscenza scientifica con quella strettamente tecnica. Ad esempio, la δ-viniferina inibisce la formazione delle discromie cutanee e illumina la pelle. Il viniderm, ottenuto dal succo di uva rossa, stimola la sintesi del collagene e ha proprietà antirughe. L’olio di semi d’uva idrata perfettamente, trattiene l’acqua, leviga e ammorbidisce la pelle. Le bucce d’uva idrolizzate, ricche di polifenoli (composti chimici), sono potenti antiossidanti. Il più potente antiossidante contro l’invecchiamento cutaneo è il resveratrolo, che attiva le sirtuine, proteine della longevità, e stimola i processi di rigenerazione della pelle, prolunga la vitalità cellulare, regola la resistenza allo stress, inibisce la perdita di collagene ed elastina che causa la formazione delle rughe. Favorisce l’eliminazione delle cellule zombie, cioè quelle che non si dividono più ma causano infiammazione.

fot. Katarzyna Słomka

Da dove viene la tua conoscenza enologica?

Dopo aver completato gli studi farmaceutici, ho partecipato quasi per caso a Cracovia a una degustazione organizzata dall’associazione “Donne e Vino”. Questo mondo mi ha subito incantato: ho iniziato a frequentare gli incontri e a fornire lezioni sul vino. Ho lavorato per la presidente dell’associazione, Monika Bielka-Vescovi, la mia prima mentore, una donna straordinaria, fonte d’ispirazione, che mi ha fatto innamorare del mondo del vino. Sotto la sua guida ho completato con lode i tre livelli del corso Wine & Spirit Education Trust, organizzato sotto l’egida di una prestigiosa istituzione britannica, riconosciuta a livello internazionale come riferimento nella formazione enologica. Non si tratta di un corso da sommelier, ma di un percorso avanzato che mette l’accento sulla degustazione tecnica e sulla geografia enologica. A quel punto ho deciso di studiare enologia in Italia. Conoscevo già l’italiano, grazie a un insegnante molto esigente del mio liceo a Cracovia, che mi ha trasmesso una grande passione per la lingua e la cultura italiana. Ho continuato a studiarlo presso l’Istituto Italiano di Cultura e poi con lezioni private con un madrelingua. Nel luglio del 2015 mi sono trasferita in Italia. Ho affittato un appartamento a Firenze e ho trovato rapidamente un lavoro compatibile con gli studi presso il ristorante dei Frescobaldi, appartenente alla nota famiglia di marchesi. Ho intrapreso un percorso triennale di studi in enologia. Contemporaneamente mi sono iscritta a un corso da sommelier. Lì ho approfondito l’enografia, le regioni vinicole del mondo, con particolare attenzione naturalmente all’Italia e all’arte dell’abbinamento vino-cibo. Curiosamente, in Polonia durante le degustazioni si sputa il vino, mentre in Italia si beve.

Sapevi di voler vivere in Italia? 

La decisione di trasferirmi in Italia è nata già durante i miei studi universitari. Sono andata in Erasmus a Ferrara e lì mi sono sentita meravigliosamente. Sono stata accolta con calore, e già dopo due giorni, nella mia strada, tutti mi salutavano e mi riconoscevano. Tutti sorridevano. Questo era qualcosa di nuovo e bellissimo. È stato allora che ho deciso. Mi sono laureata in Polonia, uscendo dagli studi piena di ambizione, passione e conoscenza. Lavoravo in farmacia e mettevo da parte i soldi per il mio trasferimento e per studiare enologia.

Hai lavorato all’università?

La mia tesi di laurea triennale in enologia riguardava la microbiologia, in particolare l’impatto dei composti fenolici sullo sviluppo dei lieviti e dei batteri del vino. Durante il master interdisciplinare in enologia ad Asti, in Piemonte, nel primo anno ho seguito il corso di chimica della vinificazione, insegnato a un livello altissimo dal professor Tirelli venuto da Milano. Ne sono rimasta affascinata. Quando è arrivato il momento di scegliere la sede per il secondo anno, tra Piemonte, Milano, Sicilia, Sardegna, Foggia e Puglia, ovviamente ho scelto la sua cattedra. Ho ottenuto una borsa di studio per i buoni risultati e sono entrata nel laboratorio di enologia. Ho scritto con lui la tesi magistrale sul difetto di luce nei vini bianchi, cioè su come la luce può far sviluppare aromi sgradevoli come uova marce, cavolo cotto o aglio. Dopo la laurea sono rimasta alla cattedra del professor Tirelli come ricercatrice, continuando gli studi sul difetto di luce. Era il mio lavoro dei sogni, ma ogni giorno facevo il tragitto da Como a Milano nel traffico. Era estenuante. Uscivo di casa alle sei del mattino e tornavo alle sette di sera.  Alla fine ho dovuto lasciare quel lavoro per il mio benessere fisico e mentale. Ho dedicato il tempo libero alla preparazione del mio piccolo matrimonio italo-polacco. Ho poi fatto riconoscere il mio diploma e ho iniziato a lavorare part-time in una farmacia a Como.

Lavori in farmacia mentre sviluppi il tuo marchio cosmetico.

Nel traffico tra Milano e Como sono tornati i miei sogni di creare una mia linea cosmetica. Considerando quanto tempo e impegno ho dedicato sia alla farmacia che all’enologia, ho deciso di unire queste due passioni e creare cosmetici a base di ingredienti derivati dalla vite. I miei genitori avevano un negozio di cosmetici, quindi fin da piccola sono stata affascinata da quel mondo colorato e magico di flaconi, vasetti, creme e profumi Recentemente mia mamma mi ha ricordato che, quando ho scelto la facoltà di farmacia, ho detto che volevo avere una mia marca di cosmetici e diventare come la dottoressa Irena Eris. I miei genitori se la ricordano ancora quando veniva nel loro negozio con un carrellino pieno di prodotti preparati nel garage di casa, promuovendo le sue creme. Ha costruito un impero cosmetico. E io oggi inizio allo stesso modo. Propongo flaconi eleganti, pesanti, di vetro, pensati per decorare il bagno. Un profumo d’uva che ci trasporta con la mente in una soleggiata vigna. Texture delicate e vellutate. La composizione dei miei cosmetici si basa sulla filosofia dello skinimalismo, un approccio consapevole alla cura della pelle: meno prodotti, più risultati. Per creare le confezioni colorate ho invitato a collaborare l’artista Agata Sołyga, che dipinge bellissimi fiori ad acquerello. Ha dipinto per me i grappoli d’uva che decorano le scatoline dei vasetti.

Ammiro la tua determinazione nel seguire il tuo percorso.

Grazie. Spesso sento: “Così semplicemente hai deciso di trasferirti all’estero?” oppure “Così facilmente hai aperto un’azienda?” o ancora: “Studi, corsi, università, farmacia… sembra quasi che tu non riesca a trovare il tuo posto nel mondo”. Forse da fuori può sembrare così. Ma io so bene che tutto nasceva da una passione, e tutto era necessario per arrivare a creare i miei cosmetici con una propria identità sul mercato. Non ho mai avuto paura di agire. Sia io che mio marito lavoriamo molto, e ci piace farlo. Ho bisogno di realizzarmi, di avere una vita interessante, piena di momenti da ricordare. Un po’ mi motiva anche la paura della frustrazione. Di ritrovarmi fra trent’anni allo stesso sportello in farmacia a Cracovia, con il rimpianto di non averci provato. Di non essere mai partita per l’Italia, di non aver studiato enologia, di non aver creato la mia linea di cosmetici. I sogni non si realizzano da soli. Bisogna agire.

EICMA, l’esposizione internazionale delle due ruote, accende Milano

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Moto Guzzi a EICMA 2025

Testo e foto: Alberto Mangili

 

Torna come ogni anno, in quel di Rho Fiera Milano, uno degli appuntamenti più importanti su scala globale dell’industria della mobilità su due ruote: l’EICMA. Giunta all’edizione numero 82, in programma tra il 4 e il 9 novembre 2025, la kermesse di punta nel campo vanta un impressionante parco di oltre 730 espositori, 2000 brand con 50 Paesi del mondo rappresentati, e un ricco palinsesto di appuntamenti tra spettacolo e incontri con leggende del motorsport. Le prime due giornate, quella di apertura cui ho partecipato ieri e quella odierna, sono riservate a stampa e operatori del settore, mentre da domani, giovedì 6, sino al gran finale di domenica 9, centinaia di migliaia di appassionati si riverseranno, tra i giganteschi padiglioni e le vaste aree esterne, per assistere a qualcosa di davvero imperdibile. 

Come detto, i numeri sono realmente impressionanti, e rendono bene l’idea della quantità e qualità che si può riscontrare all’interno di un progetto che, ogni anno, cresce ed  offre qualcosa di più. Cioè che rende ancor meglio l’idea, però, è perdersi metaforicamente (o anche proprio fisicamente, con ironia) tra un’infinità di componenti tecniche, accessori, abbigliamento, esemplari, marchi prestigiosi, innovativi, in ascesa, dalle motociclette che ammiriamo in televisione, ma anche alle più classiche, da collezione, passando anche per le biciclette, scooter, minicar e tanti altri mezzi.  In particolare, non ho potuto fare a meno di scrutare a fondo anche, sedendomi spesse volte in sella,  quad e soprattutto motoslitte, due tipi di mezzi che ho guidato (in particolare le seconde) decine e decine e decine di volte. Ciò che ha catturato di più il mio occhio però è stata una motocicletta con una lama da sega circolare in luogo della ruota posteriore, utilizzata proprio per tagliare un grosso tronco. 

Normale comunque che i pezzi forti siano rappresentati, nel concreto e nell’immaginario, dalle più “consuete” motociclette. Presenti ovviamente tutti i principali marchi del settore, dalle eccellenze italiane di Moto Guzzi e Ducati, passando in terra straniera con Kawasaki e Yamaha, giusto per citarne un paio per parte tra i più noti, diciamo così. Nel primo caso ammetto un lieve pizzico di campanilismo, poiché la fabbrica storica della Moto Guzzi è situata a Mandello del Lario, a due passi dalla mia città natale, Lecco. Pur da appassionato e buon intenditore, però, la mia conoscenza del settore non è tanto altrettanto vasta come magari in altri campi, e pertanto è stato molto sorprendente osservare anche come marchi “meno noti” abbiano in realtà delle frecce veramente potenti nei propri archi, e spesse volte, molto variegate e diversificate. Qual posto migliore di questo, dunque, per osservare, ascoltare, e toccare con mano tante novità. 

Per finire, sia l’articolo sia la mia ricchissima giornata (siamo infatti ormai alle 18.30 nel mio racconto, poco dopo aver potuto ascoltare e salutare il forte pilota di Moto GP Johann Zarco) una chiusura su quella che, scusate il gioco di parole, è stata una storica apertura, ossia l’inaugurazione della mostra “Desert Queens”, dedicata al mito della celeberrima Dakar, a detta di molti la gara più dura al mondo. In una tendostruttura trasparente, volta a rievocare appositamente un tipico bivacco dakariano, ben 31 motociclette originali, che hanno segnato diverse ere della competizione, sono il pezzo forte, fortissimo, di una mostra mai vista prima in Italia. Eccezionale anche la sabbia di contorno e l’imponente schermo centrale, per proiettare immagini e video di una gara plasmata nel deserto e scolpita nella leggenda. Una testimonianza unica per poter ammirare da vicino un pezzo di storia dello sport in senso lato, che spinge EICMA anche oltre l’aspetto puramente espositivo, centrando in pieno l’ingresso in un piano anche più immersivo ed esperienziale.

Paolino Spada – l’anima di Lipari tra passione e argilla

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foto: Miriam Ziina

 

Lipari, la perla dell’arcipelago eoliano, è un’isola dove il tempo scorre lento e la vita, libera dal trambusto delle metropoli, celebra la semplicità e l’autenticità. Tra i suoi incanti, tra le stradine strette e l’azzurro del Mar Tirreno, incontriamo Paolino Spada, uno scultore la cui storia è l’essenza del dolce far niente siciliano. Non si tratta di pigrizia, ma dell’abilità di trarre gioia da ogni giorno e di lasciare un’impronta duratura di passione.

L’eredità della famiglia Spada e il contesto storico di Lipari

La storia di Paolino inizia con suo padre, Giuseppe Spada, un eminente scultore di San Pietro Patti. Il suo viaggio a Lipari non fu casuale. Dopo la Prima Guerra Mondiale, dalla quale tornò con una ferita all’occhio e sofferente per il freddo, il medico gli consigliò di trasferirsi in un luogo più caldo. L’isola di Lipari, con una storia che affonda le radici nella preistoria, si rivelò il luogo ideale per l’artista. Dagli antichi insediamenti di ossidiana alle tracce dell’antico commercio di pomice, pulsava di vita e cultura, costituendo un crogiolo di influenze greche, romane e bizantine.

Giuseppe Spada era un artista così apprezzato che gli americani lo invitarono a collaborare alle decorazioni scenografiche per alcuni film. Ebbe anche l’onore di creare frammenti del monumentale Altare della Patria a Roma, conosciuto anche come Vittoriano. Nonostante incarichi così prestigiosi, Giuseppe rimase un umile artigiano, creando anche monumenti in onore dei soldati caduti ad Acquacalda. Nel cimitero di Lipari si trova ancora oggi un toccante monumento funebre dedicato a sua madre – “un angelo che la consola in agonia per portarla in cielo” – realizzato in cemento per la mancanza di marmo. Nel laboratorio di casa modellava Madonne e statue. Per la chiesa di Marina Corta (San Giuseppe) e di Canneto creò la grotta della Madonna di Fatima. Aiutò nella modifica dell’altare della Basilica di San Pietro e realizzò una scultura della Madonna con bambino, che donò alla chiesa senza compenso. Tra le sue opere figura anche la scultura di due metri di San Giovanni per la cappella di Salina. Giuseppe realizzava anche ritratti di personalità importanti e dipingeva maschere di Carnevale. La madre di Paolino, una rinomata sarta di abiti da sposa, altrettanto talentuosa, completava il panorama artistico della famiglia Spada.

Paolino e suo fratello Giovanni, musicisti e scultori, crebbero in una casa intrisa d’arte. La loro infanzia si svolse nella “bottega di Giuseppe Spada“, l’officina del padre, dove fin dalla più tenera età, sotto l’occhio attento di Giuseppe, impararono l’arte della scultura e della modellazione. Fu lì, tra l’argilla e il marmo, che si formarono le loro mani abili e le loro anime sensibili. I loro primi lavori, come “pesciolini, animaletti, e poi angioletti”, furono le fondamenta del loro percorso artistico. La passione per la creazione, tramandata di generazione in generazione, divenne per loro un modo di vivere naturale.

Maschere antiche e creazione contemporanea

Il Museo Archeologico Regionale Luigi Bernabò Brea di Lipari è un tesoro di storia, con manufatti in ossidiana e tracce dell’antico commercio di pomice, che raccontano il ricco passato dell’isola. I fratelli Spada furono particolarmente affascinati dalla collezione di antiche maschere teatrali del periodo ellenistico (III-I secolo a.C.).

Le maschere teatrali nell’antica Grecia e a Roma erano un elemento inseparabile degli spettacoli. Servivano non solo a cambiare identità, ma anche ad amplificare la voce dell’attore, rendendola udibile a migliaia di spettatori. Esprimevano emozioni, età e status del personaggio, il che era cruciale nei grandi anfiteatri. Scoperte sull’isola, testimoniano la ricca cultura teatrale di Lipari.

Paolino e Giovanni decisero di infondere nuova vita a queste forme antiche. Ogni domenica, con il padre, si recavano al museo per studiare e schizzare gli originali. Con precisione ricreavano fedeli repliche tridimensionali a grandezza naturale delle antiche maschere e bassorilievi, riproducendo esattamente gli originali in terracotta. Il loro laboratorio divenne un luogo dove la storia incontrava l’artigianato contemporaneo, e ogni maschera raccontava una nuova, affascinante storia. Realizzarono anche maschere su commissione teatrale per una compagnia di Roma che metteva in scena a Lipari l’opera “La Donna di Samo“.

La versatilità dei fratelli Spada si manifestava anche nella musica. Paolino ricorda con nostalgia come il padre, un talentuoso liutaio, costruiva loro le chitarre. Entrambi i fratelli suonavano la chitarra, e Paolino anche il basso. Suonavano in un gruppo per feste e in locali notturni a Lipari e Vulcano. Giovanni era considerato uno dei migliori chitarristi della Sicilia. I fratelli realizzarono insieme una grande scultura di Prometeo (circa 1,20 m) e aiutarono nella realizzazione della scultura di San Giovanni, alta due metri, per la cappella di Salina. E Paolino e Giovanni dipingevano anche. Giovanni realizzò ritratti di sua madre e suo padre, e Paolino un grande quadro sacro.

Filosofia di vita a Lipari: semplicità e passione

La vita di Paolino Spada è l’essenza della semplicità siciliana. A Lipari non troveremo auto di lusso o il trambusto delle grandi città. Le mattine iniziano con una classica colazione: fresca granita alla pesca con un tocco di Malvasia, un vino locale che esprime perfettamente il sole e il calore dell’isola. È in questi semplici rituali, nel lavoro quotidiano e nella vicinanza alla natura, che Paolino trova la vera bellezza. La sua filosofia di vita si iscrive nell’idea che “la perfezione risiede nell’imperfezione”. Questo approccio gli permette di apprezzare l’autenticità, rispettare il corso naturale delle cose e creare opere che – pur riproducendo forme antiche – possiedono una propria anima e un carattere unico. Dopo la morte del fratello Giovanni, Paolino continua da solo la tradizione, prendendosi cura del laboratorio e creando nuove opere.

Paolino Spada non è solo un artista, è un simbolo vivente di Lipari, un uomo profondamente rispettato sull’isola. La sua storia mostra che la vera ricchezza non si nasconde nei beni materiali, ma nella passione, nel talento versatile e nella volontà di lasciare dietro di sé una bellezza che sopravviverà alle generazioni. Paolino non ha dimenticato la sua passione musicale. Attualmente sta lavorando a un brano che spera di presentare al famoso festival di Sanremo, e nel suo laboratorio, intriso del profumo di argilla e di storia, si può sentire il battito del polso dell’isola, dove l’arte e la vita si intrecciano in un ritmo armonioso.

Riproduzione delle maschere del Museo di Lipari

Sandrone Dazieri – Alla ricerca dell’origine del male

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Fot. Mario Tirelli

Con Sandrone Dazieri ci incontriamo lo scorso maggio in una stanzetta dell’ufficio stampa della Fiera Internazionale del Libro di Varsavia. Le pareti di carta ci separano dalla folla di appassionati lettori affamati di incontri con gli autori preferiti e alla ricerca di nuovi e interessanti libri. Fuori si sente un ronzio continuo ma riusciamo a parlare di varie sfumature della scrittura, dei segreti per costruire un buon personaggio e dell’origine del male. Il suo libro “Il male che gli uomini fanno” (il quarto in traduzione polacca dopo “Il re di denari”, “L’Angelo” e “Uccidi il padre”) è stato pubblicato quest’anno da Sonia Draga.

Per anni hai fatto il giornalista, lo sceneggiatore, il pubblicista e ti sei occupato di politica. Perché sei passato alla scrittura?

Quando ero ragazzo uno dei miei desideri era fare il giornalista ma mi sono reso conto che gli argomenti che interessavano a me, molto spesso non interessavano ai giornali con cui collaboravo. Mentre a me interessava andare a scavare quello che era l’underground di Milano di quel periodo perché venivo da quel mondo e volevo farne un po’ da portavoce. Ovviamente questo non è stato possibile e allora mi sono detto che per raccontare delle storie dal mio punto di vista le devo inventare. Quindi usare la fiction come modo per creare una storia universale che raccontasse quello che mi interessava. Ho cominciato con un personaggio che era un po’ il mio alter ego in quel mondo e gli ho dato voce in cinque romanzi. 

“Il male che gli uomini fanno” è molto cinematografico, ha un bel ritmo, come lo ottieni? 

Il lavoro che ho sempre fatto va un po’ contro lo stile del giallo contemporaneo italiano, perché tolgo tutto quello che non serve a creare tensione o a creare una storia vera e propria. Una storia laterale può esserci ma in connessione alla storia gialla. Devo dire che la sceneggiatura un po’ mi aiuta, perché con la sceneggiatura tu in 90 pagine devi raccontare ad esempio la vita di una persona che ha vissuto 100 anni. Il bello del cinema è che attraverso le immagini hai la capacità di stringere e in un’ora, diciamo in 100 minuti, raccontare tutto quello che vuoi. Questo cerco di farlo anche attraverso i libri. Dove è possibile togliere, tolgo. Il mio tentativo è sempre quello di far entrare le persone nella storia. Poi “Nel male che gli uomini fanno” era ancora più particolare, perché da un lato c’era ancora la mia ricerca dell’origine del male. E per farlo vedere ho pensato che dovevo costruire due storie parallele una nel passato, una nel presente, che raccontassero in modo differente la stessa caccia all’assassino nell’arco di trent’anni, senza sovrapporsi. Devo dire che è stato un lavoro complesso.

Questa storia ha anche una tripartizione di generi, perché c’è il noir del passato, il thriller del presente e anche un po’ di horror.

C’è l’horror con Amala, che è l’unica vera eroina del libro. Una ragazzina che viene rapita e torturata. Ed è l’unica veramente innocente, che ha il coraggio di lottare non solo per la propria vita, ma anche contro questo male. Non si lascia andare, cerca un modo per scappare, reagire e comunicare con qualcuno che pensa sia un altro prigioniero. Mentre tutti gli altri non sono degli eroi, quasi tutti sono delle persone che sbagliano. Nel passato abbiamo la poliziotta Itala che pensa alla fine di aver risolto il problema, ma in realtà l’ha solo spostato in avanti. Così come Gerry che pensa di risolvere le cose ammazzando la gente, ma anche questo non funziona. E comunque sì, l’idea era proprio questa, che fosse un noir con dentro un thriller, oppure un thriller con dentro un noir con dentro un horror, perché sono tutti i generi che mi piacciono.

I personaggi che costruisci per le tue storie sono sempre molto forti e carismatici. Come sono nati i personaggi di questo libro?

Io ho un processo simile per tutti i personaggi importanti, ovvero uso il metodo Stanislavskij secondo cui l’attore per provare le emozioni autentiche deve pensare a una cosa che lo riporta a sentire davvero la rabbia, tristezza ecc. Io faccio lo stesso: quei personaggi devono essere me se io fossi loro, o meglio, se io fossi nato donna, se avessi vissuto quello che ha vissuto Itala, come sarei? Come reagirei al mondo? Se io fossi un assassino malato, che ha subito queste cose, come mi agirei nel mondo? Cosa penserei? In qualche modo i personaggi principali sono sempre le mie proiezioni come se fossero delle parti di me a cui do un’identità. E ogni volta mi faccio questa domanda: cosa sarebbe successo se io fossi nato in quel modo? 

Incontro con l’autore alla Fiera Internazionale del Libro di Varsavia, (da sinistra) moderatore Adam Szaja smakksiazki.pl, interprete Natalia Mętrak-Ruda, Sandrone Dazieri / fot. Simone Mutti

Mi chiedo però se nel mondo dove il male è onnipresente e non ci fa più impressione quasi fossimo anestetizzati al male, esiste ancora la necessità di raccontare storie del genere? 

Allora, io cerco di raccontare le cose per far vedere quello che c’è dietro la superficie. Se io ti racconto l’omicidio, ti racconto una storia di questo omicidio, ti racconto una storia dell’assassino, della vittima, le ragioni, quello che è accaduto, l’ambiente, cos’è che porta a questo. E questo è un livello di approfondimento che si va a perdere. Adesso tutto passa ai talk show e diventa molto superficiale. Non si va a fondo nelle cose. Si dovrebbe veramente indagare su quello che accade, anche perché si scoprirebbe che il 90% di quello che succede dipende dalle condizioni di vita delle persone: la povertà, anche quella intellettuale e culturale. La gente vive male, soffre, non ha soldi, ha paura per il futuro, i giovani non hanno lavoro. E quindi tu devi raccontare che ci sono sempre delle cause sociali e politiche alle cose che accadono. E questa è una cosa che spesso non si vuole sentire. Si preferisce dire: quello che ha ucciso è un mostro. E quindi io cerco di interrogarmi, non credo nei mostri, credo nelle persone che stanno male. Poi sono dell’idea che la maggior parte delle persone sia brava solo che vivono in un mondo dove essere delle brave persone è considerato una diffusa sciocchezza. Credo anche che la maggior parte delle persone messe di fronte a una verità, a una spiegazione o a un racconto, la possono capire, commuoversi e arrabbiarsi. È importante permettergli di ricevere questo tipo di informazioni e di racconto che non c’è nella TV o sui giornali. E quindi, io scrivo dei libri e spero sempre che qualcosa rimanga. Diciamo che voglio che tu ti diverta ma quando chiudi il libro ti rimanga anche qualche cosa. Questo è il mio tentativo.

Domenico Merlini e la Varsavia italiana

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Testo e foto: Dominika Rafalska
Traduzione it: Anna Lisicka

 

Domenico Merlini era uno di quei dotati artisti italiani che vennero nella Repubblica Polacca nel Settecento per lasciare il proprio nome nella storia per sempre. Non aveva una formazione accademica, eppure è considerato uno dei più eccellenti architetti dell’epoca, uno dei creatori più importanti e il principale promotore dello stile chiamato “stanislaoviano” (dal nome di Stanislao Augusto Poniatowski). Della vita, della produzione artistica e delle tracce italiane di Domenico Merlini a Varsavia ne parla Jerzy S. Majewski, varsavianista, storico dell’arte e pubblicista. 

Domenico Merlini ha legato tutta la sua vita a Varsavia. Arrivò in Polonia verso il 1750, a soli vent’anni. Come arrivò qui? 

È importante notare che non arrivò nel nulla. Da decenni affluiva qui una schiera di celebri architetti italiani. La Varsavia dell’età moderna era una città molto italiana. Nel XVII secolo, con l’arrivo del re a Varsavia, i magnati cominciarono a costruire le loro residenze, mentre intorno alla città sorse una corona di cittadine private, le cosiddette “giurisdizioni” (jurydyki). Furono proprio i grandi magnati a richiamare architetti in Polonia, per lo più dall’Italia. Almeno dal terzo quarto del XVII secolo arrivavano qui italiani provenienti dal lago di Lugano. Fu proprio lì, nel piccolo paese di Castello di Valsolda, dove nacque Domenico Merlini. Prima di lui, dalla stessa regione arrivarono in Polonia, tra gli altri: Isidoro Affaitati, almeno tre membri della famiglia Ceroni, Giuseppe Simone Bellotti, ecc.. Tutti nomi celebri, legati all’architettura di Varsavia. Quest’ultimo costruì, tra l’altro, i muri della chiesa di Santa Croce in Krakowskie Przedmieście (1679–1696). Anche i Fontana erano cugini di Domenico Merlini…

Artisti che raggiungevano la Polonia per lavorare?

Sì. Durante la grande guerra del Nord (1700-1721), Varsavia fu devastata. Sotto Augusto II, tuttavia, l’ambiente degli architetti cominciò a ricostruirsi, concentrandosi intorno all’Ufficio delle Costruzioni  Sassone (Bauamt), organizzato sul modello di un’unità militare! Erano architetti illustri. La Repubblica Polacca offriva loro grandi opportunità: era un paese di dimensioni enormi, si stava risollevando, e dal punto di vista economico, era molto forte. 

Quando Domenico Merlini arrivò in Polonia eravamo nel periodo del regno di Augusto III. L’epoca sassone è passata alla storia come un periodo molto cupo, ma in realtà fu per Varsavia un’epoca di prosperità economica e di boom edilizio! Durante la guerra dei sette anni (1756-1763), la corte reale si trasferì nella capitale e quella che allora era una città provinciale (con appena 30.000 abitanti) iniziò a svilupparsi rapidamente. L’attività edilizia fu intensa.

Merlini non aveva una formazione accademica. Apprese il mestiere proprio sotto la guida di suo zio Jakub Fontana…

Jakub era architetto reale. Era nato a Varsavia, ma suo padre – Giuseppe – arrivò in Polonia dalla Valsolda, verso la fine del XVII secolo. Jakub era molto più anziano di Domenico, ma aveva anche un fratello – Jan Kanty – che era coetaneo di Merlini. Jan Kanty era il burgravio del Castello Reale e progettava molto per la corte reale e per i magnati. Accolse sotto la sua protezione il giovane Domenico. 

Quale fu la prima realizzazione di Merlini a Varsavia? 

Fu la navata e la facciata della chiesa dei Camaldolesi nel quartiere di Bielany, un’architettura straordinaria. Ha una struttura architettonica completamente diversa, con una navata su pianta quasi ellittica. Vale la pena menzionare anche il Palazzo Jabłonowski (1760). Sono ancora visibili le influenze del tardo barocco e rococò. Lo stile di Merlini evolse in seguito dal barocco allo stile di Stanislao Augusto, quando l’artista iniziò a introdurre nella sua opera elementi neoclassici. Questi edifici sono caratterizzati da eleganza, semplicità e una certa sobrietà. Seppur Merlini introdusse il classicismo nell’architettura di Varsavia, certamente non fu il “fondatore del classicismo”. Un edificio neoclassico fortemente legato al minimalismo, progettato da lui, furono le scuderie reali, quasi prive di decorazioni. Vale la pena menzionare anche i Łazienki…

Si può considerare questo progetto “rivoluzionario” nella sua opera? 

No, anche se introdusse forme che erano il risultato degli interessi artistici del re e dell’ambiente che lo circondava. Quando si osserva la facciata meridionale del Palazzo sull’Isola, si nota un’eleganza straordinaria. Questa prima ventata di classicismo ha sicuramente in sé una scintilla d’influenza francese, mentre la seconda – le sue realizzazioni successive – si rifà più spesso a forme italiane, come quelle di Andrea Palladio di Vicenza, che fu un maestro per gli architetti dell’epoca, anche se fu lui stesso un esponente del cosiddetto manierismo…

I Łazienki non furono una rivoluzione ma ciò non cambia il fatto che si tratti di un’architettura magnifica, frutto del talento di Merlini, del gusto del re e dell’influenza del suo entourage. Vale la pena menzionare anche il complesso del parco stesso, frutto del lavoro di Johann Christian Schuch…

Si costruivano già allora i parchi simili in Europa?

Assolutamente sì. Nel solo Giardino Sassone esistevano un teatro, un grande padiglione, la Porta di Ferro… Nel caso del Łazienki possiamo parlare di una grande varietà di forme architettoniche presenti nel complesso. L’anfiteatro si ispirava al teatro antico, mentre la Casa Bianca ricordava un Lusthaus… Il Palazzo di Myślewice, progettato da Merlini, invece, è ancora “molto sassone”. Ha una caratteristica “facciata spezzata” e potrebbe tranquillamente trovarsi a Dresda, tra le residenze degli Augusti. 

Quali altri suoi progetti meritano di essere ricordati?

Sicuramente il rifacimento degli interni del Castello Reale. Su scala dell’architettura polacca dell’epoca, si nota in quel progetto un grande slancio, splendide proporzioni, attenzione al dettaglio… Gli interni, nello spirito del classicismo francese, sono belli, raffinati… È qualcosa di completamente diverso rispetto all’arte rococò. Per quei tempi, era qualcosa di molto moderno. Un progetto oggi un po’ dimenticato è anche quello relativo alla ristrutturazione del Castello di Ujazdów. In origine, doveva diventare la residenza di Stanislao Augusto Poniatowski. Di quell’epoca si è conservato un interessante progetto per una sala del trono destinata alla regina! Purtroppo, come è noto, Stanislao Augusto non si sposò mai…

In quell’epoca nacque anche un grande progetto urbanistico, il cosiddetto “aquilone”, un imponente asse urbano sul lato occidentale, in corrispondenza dell’odierna via Nowowiejska.

Dopo la morte di Fontana (1773), Merlini divenne Architetto del Re e della Repubblica Polacca. In cosa consisteva il suo lavoro?

Il suo compito era quello di mantenere, conservare e modernizzare gli edifici di carattere statale… Ad esempio, ricostruì il Palazzo della Repubblica a Varsavia dopo un incendio. In questo progetto rispettò la disposizione originale dell’epoca di Tylman van Gameren, ma creò comunque qualcosa di proprio. Lo stesso accadde con la ristrutturazione del Palazzo Brühl, progettato dagli architetti del Bauamt. Merlini trasformò questa straordinaria residenza in ambasciata russa. Dopo la sua ristrutturazione, gli interni del palazzo persero il loro stile tardo barocco sassone e divennero più sobri, in stile neoclassico. Costruì anche la Porta del Castello a Lublino e ristrutturò il tribunale locale.

Nell’opera di Merlini si nota un’ispirazione italiana? E da dove proviene questa ispirazione, se non sappiamo nemmeno se l’architetto sia mai tornato, anche solo per un attimo, in Italia?

In realtà non lo sappiamo, non ci sono documenti al riguardo. Rimase a Varsavia fino alla fine della sua vita: qui morì e fu sepolto a Powązki… Ma ricordiamo che anche Stanislao Augusto era affascinato dall’Italia, pur non essendoci mai stato. I riferimenti di Merlini all’architettura italiana non derivano tanto dalla nostalgia per l’Italia, quanto da una certa moda del tempo e dal suo radicamento qui, in Polonia. Gli italiani operavano a Varsavia da generazioni. L’architettura italiana, il modo di pensare, le idee, le influenze, l’estetica… tutto questo “circolava” qui e arrivava anche al cuore di Merlini. All’epoca esistevano anche dei repertori di modelli a cui gli architetti facevano riferimento. L’ispirazione italiana è evidente, ad esempio, nella chiesa dei Basiliani in via Miodowa, che all’esterno appare come un palazzo. Completamente italiana è anche la Królikarnia… Si nota chiaramente l’ispirazione a Vicenza, alla Villa Rotonda di Palladio. Il palazzo sorge su una scarpata e al centro presenta una rotonda… Si possono davvero osservare molte somiglianze. Nel parco troviamo anche una cucina da giardino, la cui struttura richiama il sepolcro di Cecilia Metella sulla via Appia, vicino a Roma. Merlini poteva conoscerlo di persona? Non lo sappiamo, ma ricordiamo che i progetti di Palladio erano ampiamente diffusi: lui stesso scrisse un trattato, e i suoi disegni venivano copiati e circolavano in tutta Europa. 

Secondo Lei, Merlini fu un visionario o semplicemente un esecutore abile delle idee di Stanislao Augusto Poniatowski?

Penso che, paradossalmente, l’eccezionalità di Merlini risieda proprio nella sua perfetta sintonia con il re, nella capacità di creare un linguaggio architettonico unico negli interni del castello e nelle costruzioni dei Łazienki… Non sono sicuro che tutte le sue opere non direttamente legate a Stanislao Augusto siano altrettanto eleganti… Il suo stile palladiano più tardo era più cosmopolita. Ciò che Merlini ha creato di più bello è stato il risultato dell’incontro tra due personalità, la sua e quella di Stanislao Augusto Poniatowski. 

Jerzy S. Majewski è storico dell’arte di formazione. Autore e coautore di decine di libri e album su Varsavia.

L’A.C. Wawa torna campione degli Italiani in Polonia

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Foto: Bartosz Banaś

 

Con la XII edizione, disputata nel weekend del 5-6 luglio presso il prestigioso Legia Training Center in località Grodzisk Mazowiecki, il Torneo di Calcetto Italiani in Polonia si conferma ancora una volta come l’evento sportivo più importante e partecipato della comunità italiana in Polonia.

La manifestazione, organizzata dal Comites Polonia e da Gazzetta Italia e patrocinata dall’Ambasciata d’Italia a Varsavia, ha visto la partecipazione di oltre cento atleti divisi in dieci squadre provenienti da tutta la Polonia, che si sono affrontate in due giorni di grande calcio sotto un sole cocente che ne ha messo a dura prova la resistenza fisica.

Professionalità ed eleganza della struttura ospitante hanno fornito la cornice ideale per questa edizione che ha visto in apertura il saluto della presidente del Comites Polonia, Silvia Rosato, e del Primo Segretario dell’Ambasciata d’Italia, Dott. Vincenzo Spinelli, in rappresentanza dell’Ambasciatore Luca Franchetti Pardo, assente per un grave lutto familiare. Un momento di particolare commozione si è vissuto prima della finale quando è stato osservato un minuto di silenzio in memoria del padre dell’Ambasciatore, scomparso pochi giorni prima dell’evento.

Confermata la formula del torneo, con gironi all’italiana nella prima fase e successivi incroci ad eliminazione diretta, che come al solito ha garantito spettacolo e suspense fino all’ultimo. Le dieci squadre partecipanti – Il Sogno di Varsavia, AC Wawa, AS Cracovia Calcio, Real Poznan, Italiani a Wrocław, Warszawa United, FC KTM Łódź, Atletico per niente Wrocław, ITAL3MIASTO e Legia Carbonara Varsavia – si sono date battaglia con un caldo infernale.

La giornata conclusiva del torneo è stata caratterizzata da partite tiratissime. Nella prima semifinale, Il Sogno di Varsavia ha superato gli Italiani a Wrocław guadagnandosi l’accesso
alla finale. Nell’altra sfida l’AC Wawa ha avuto la meglio sul Cracovia solo ai calci di rigore, dopo un avvincente pareggio agguantato nei minuti finali dei tempi regolamentari.

La finale, giocata davanti a un pubblico composto dalle squadre presenti, famiglie, amici, appassionati e ospiti del centro sportivo, è stata caratterizzata dal bel gioco e da un equilibrio, rotto poco prima della pausa dal bomber Gennaro Caputo dell’AC Wawa, il quale finalizza una bella azione e realizza la rete decisiva che regala alla sua squadra il titolo di campione della XII edizione. Nonostante i tentativi di riaprire la partita da parte de Il Sogno di Varsavia – trionfatori nelle precedenti due edizioni, l’AC Wawa resiste e torna meritatamente sul gradino più alto del podio, confermandosi nuovamente come la squadra da battere in questo torneo.

I premi individuali sono andati a: Alessandro Purini del Cracovia, capocannoniere con 8 reti, Gennaro Caputo dell’AC Wawa premio di miglior giocatore, Maksymilian Klejewski del Poznan, premiato come miglior portiere, capace addirittura di realizzare una rete dalla propria metà campo.

Il successo di questo appuntamento è stato possibile grazie all’impegno degli organizzatori e al fondamentale supporto degli sponsor: Italmatch Chemicals, sponsor principale, BGTeC, LeoVince, La Bottega da Enrico, Lo Sfizio e Mare e Monti di Enrico Monti, Shardana, Ferrero, SpaccaNapoli e Fundacja Włosko-Polska InteRe. Gazzetta Italia, storico media partner del torneo, come sempre garantisce all’evento supporto organizzativo e copertura mediatica.
Gli sponsor hanno reso possibile anche momenti conviviali e degustazioni di prodotti italiani che hanno accompagnato le due giornate di sport.

Classifica finale: 1) AC Wawa, 2) Il Sogno di Varsavia, 3) AS Cracovia Calcio, 4) Italiani a Wrocław, 5) Warszawa United, 6) Atletico per niente Wrocław, 7) Real Poznan, 8) KTM Łódź, 9) ITAL3MIASTO, 10) Legia Carbonara Varsavia. Tutte le squadre sono state premiate con coppe e medaglie.

IL FESTIVAL DELLO SPORT ILLUMINA TRENTO

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La presentazione dei Giochi Olimpici di Milano-Cortina 2026 al teatro Sociale

Testo e Foto: Alberto Mangili

 

Apertura delle danze giovedì 9, e gran finale quest’oggi, domenica 12 ottobre 2025, per l’ottava edizione del Festival dello Sport di Trento, uno degli appuntamenti più importanti d’Italia per quanto riguarda il mondo sportivo. La kermesse è organizzata dalla Gazzetta dello Sport (la “rosea”  che presta anche il ben riconoscibile colore al tutto) e Trentino Marketing, con la collaborazione del Comune di Trento e della Provincia autonoma di Trento. Si tratta di una quattro giorni all’insegna totale dello sport, con decine e decine di appuntamenti al giorno con sportivi di spicco e figure di riferimento di varie discipline e contesti, dislocate in numerose location della città. Presenti in alcuni punti anche delle zone “gioco” per provare alcuni sport, come il curling o un simulatore per gli sci. Tornando ai nomi, come usuale, nella rassegna ve ne sono tanti grossi, veramente tanti, al punto da rendere pressoché impossibile non solo una selezione per citarne un po’ qui, ma anche la visione stessa degli eventi; banalmente per la contemporaneità spesse volte tra gli incontri, dovuta, ripeto, alla enorme, massiccia presenza di firme prestigiose in questo straordinario Festival. Allego la foto dunque della copertina della speciale edizione della Gazzetta dello Sport per l’occasione, e procedo a raccontare brevemente la giornata che io ho vissuto in loco, venerdì 10 ottobre, e gli eventi a cui ho assistito. 

Una giornata iniziata prestissimo, con la sveglia alle 4.30, per essere nella città trentina in mattinata, con un sole irradiante, e iniziare da subito con un incontro legato forse al mio evento sportivo preferito, ossia il Giro d’Italia di ciclismo. Oltre al poter ammirare da vicino quella che è per me, qui senza dubbio alcuno, la concreta coppa sportiva più bella in quanto ad estetica, il “trofeo senza fine”, la presentazione al Palazzo della Regione è stata una vera e propria miniera di dati, per farla semplice, per mettere in luce la straordinarietà della 3 settimane di pedalate nel Bel paese e le decine, centinaia, migliaia di benefici ad esso legati, sul piano dell’export, dell’identità e di infiniti altri aspetti. In seguito mi sono spostato al magnifico Teatro Sociale di Trento, per una presentazione, a soli 118 giorni di distanza dal grande via, dei XXV giochi Olimpici Invernali di Milano – Cortina, in programma dal 6 al 22 febbraio 2026; senza dimenticare logicamente anche i Giochi paralimpici, schedulati per il periodo tra il 6 e il 15 marzo 2026 (seguirò questi importanti e storici eventi, e ve ne racconterò). Presenti tra gli altri l’ex Presidente del Coni Giovanni Malagò, e la pluri-iridata leggenda italiana del pattinaggio artistico Carolina Kostner. Anche qui ho avuto modo di osservare da vicinissimo ciò su cui tutti gli atleti sognano di mettere le mani, ossia le luccicanti e gloriose medaglie.

Pomeriggio poi dedicato al calcio, con due incontri con altrettante leggende di questo sport, ambedue iconici, ambedue campioni del mondo, in momenti e con compagini differenti, e strettamente legati all’Italia. Dapprima è stata la volta di Bebeto, brasiliano salito sul tetto del mondo nel 1994 con il suo Brasile, una squadra costellata di fenomeni e che ha conquistato la rassegna negli USA a spese proprio dell’Italia. Non ero ancora nato allora, ma ovviamente ho visto molte cose a riguardo. Alla Filarmonica Bebeto ha parlato in portoghese, e pur non padroneggiando io la lingua come lo spagnolo, non ho minimamente voluto considerare il fatto di ascoltare una “fredda” traduzione, ma ho voluto cogliere ogni emozione nelle sue parole, sincerità, sentimento, di un uomo straordinario, con un sorriso e un’umiltà da campione, del mondo, della vita. Ha raccontato proprio di quel rigore di Baggio, del rapporto con Romario (mai una sconfitta dei verdeoro in campo assieme) e Zico, fino ai giorni nostri, con anche parole per il neo tecnico del Brasile Ancelotti, tra i migliori (il migliore?) mister italiani di sempre. L’ultimo incontro invece con chi ci ha fatto sia piangere, ad Euro 2000, ma anche gioire, ai Mondiali 2006, ma nel complesso godere, per il suo oggettivo talento e gloria nel pallone: David Trezeguet. Ho sempre ammirato i grandi campioni, ritenendoli una fortuna e un favore complessivo al calcio in sé, indipendentemente dalla maglia indossata: Trezeguet rientra appieno in questa cerchia. Mio nonno era juventino e mia mamma anche tifa Juventus, squadra con cui Re David ha costruito dieci anni di (parte di) meravigliosa carriera, e ho ancora una sua maglietta bianconera che mi fu data da piccolo. Incredibile la risposta del pubblico presente a un gremito Auditorium Santa Chiara: dopo aver ascoltato per un’oretta la sua storia calcistica, molti si sono lanciati sotto al palco per strappare un autografo a un giocatore che, diciamocelo (non sono juventino, ripeto, sono sportivo), oggi forse manca e servirebbe come il pane, a chiunque. 

Acquistati degli ottimi canederli da portare a casa al termine di una giornata all’insegna dello sport, ma non dimentichiamoci mai appunto la cucina e la sua ricchezza e peculiarità in ogni parte d’Italia, si torna alla base. Una piccola chiosa finale per l’indomani, sempre a proposito di sport, per un evento assolutamente imperdibile e che mi ha fatto propendere appunto per essere il venerdì a Trento, ossia Il Lombardia. Sabato 11 ottobre è infatti andata in scena la gara che chiude la grande stagione del ciclismo, la “Classica delle foglie morte”, per l’intuitiva collocazione temporale, e al passo di Ganda, dove mi sono goduto la gara, lo scenario autunnale era un tripudio di colori. A contribuire al quinto successo consecutivo di Tadej Pogačar è stato, come sempre quando partecipe, la leggenda polacca Rafał Majka, che quest’estate ho avuto modo di ammirare da vicino per una settimana nel Tour de Pologne. Per il campione biancorosso questa era l’ultima gara della carriera, prima di appendere la “bici al chiodo”, e dedicarsi in primis alla famiglia e, chissà, ad un probabile ruolo dirigenziale nel mondo ciclistico. 

Gazzetta Italia 113 (ottobre – novembre 2025)

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Stanislao Poniatowski, Maria Konopnicka e Jarek Mikolajewski, celebrati dalla splendida copertina disegnata da Arkadiusz Hapka, sono i simboli dell’Italofonia in Polonia. Un numero 113 che vi farà volare dalla settimana della lingua italiana, con intervento dell’Ambasciatore Franchetti Pardo, alla moda con l’omaggio a Giorgio Armani, ai viaggi tra Matera e le avventure di Elzbieta Dzikowska, alla cultura con il prete napoletano che profetizzò la liberazione della Polonia, al cinema con gli echi dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, e poi la storia della Maluch (Fiat 126) tra Torino e Bielsko-Biala, la riflessione sull’anniversario di Andrea Camilleri firmato da Maciej Brzozowski, la storia di successo di Dorota Koziara in Italia e tanto altro ancora oltre alle nostre rubriche dalla lingua al cibo, dai fumetti alla musica. Un numero imperdibile! 

Italian Pizza Championship in Poland: la pizzeria Enigma (Wrocław) vince la prima edizione

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Foto: Bartek Banaś

Il Com.It.Es. Polonia ha organizzato la prima edizione dell’Italian Pizza Championship in Poland, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Varsavia e dell’ITA – Italian Trade Agency, Ufficio di Varsavia. Un progetto nato in collaborazione con il Maestro Pizzaiolo Gabriele Costabile — per valorizzare il saper fare italiano e promuovere il Made in Italy attraverso uno dei suoi simboli più amati: la pizza.

Dopo le selezioni locali che hanno coinvolto circa 45 pizzerie tra Cracovia, Wrocław e Varsavia, la finalissima, ospitata presso il ristorante Abruzzo a Varsavia, ha visto sfidarsi i tre vincitori: Sette (Cracovia), Enigma (Wrocław) e Dziurka od Klucza (Varsavia). Sotto il giudizio della Giuria Tecnica – Chef Mutti Carlo Casoni, Walter Busalacchi (proprietario Non solo Pizza), Chef Influencer Mattia Centini – e con la conduzione di Witold Casetti, la finale ha incoronato Enigma (Wrocław) come “The Best Italian Pizza in Poland”, seguita da Dziurka od Klucza e Sette, tutti e tre premiati dall’Ambasciatore d’Italia in Polonia Luca Franchetti Pardo. La Giuria dei Media ha poi assegnato il premio “Pizza più mediatica” a Dziurka od Klucza.

L’iniziativa, alla sua prima edizione in Polonia, ha registrato un’ottima partecipazione e grande interesse da parte di pubblico e operatori del settore, confermando la qualità delle pizzerie nelle tre città coinvolte e aprendo la strada a un possibile ampliamento ad altre località della Polonia nelle prossime edizioni. L’organizzazione ringrazia gli sponsor: Mutti, Molini Pizzuti, Gusto Food Service, Frantoio Verna, Cuore Nero, Di Sipio e i media partner: Gazzetta Italia, Throwback Pasta e il co-organizzatore: Fundacja Wlosko-Polska InteRe. Per il Com.It.Es. Polonia, il campionato rappresenta una tappa significativa nella missione di promuovere l’eccellenza gastronomica italiana e rafforzare il dialogo culturale italo-polacco.

Le pizzerie interessate a partecipare all’edizione 2026 possono scrivere a segreteria@comitespolonia.pl

Foto: Bartek Banaś