Fabio Troisi: costruire ponti tra culture

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Fabio Troisi, fot. Sebastiano Giorgi

La funzione degli Istituti Italiani di Cultura è quella di dialogare col territorio in cui insistono stimolando potenziali relazioni artistiche e culturali. Questa la filosofia che guida Fabio Troisi nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia. Appassionato d’arte contemporanea e con importanti esperienze internazionali alle spalle, a New York e a Pretoria, Troisi è arrivato a Varsavia con uno slancio innovatore.

“Credo che oltre al tradizionale ruolo di promozione delle cosiddette eccellenze italiane

Karolina Porcari, Fabio Troisi / fot. Sebastiano Giorgi

gli Istituti di Cultura debbano soprattutto creare ponti di cultura. In questo senso ritengo importante ideare eventi in cui culture e personaggi italiani e polacchi interagiscano, obiettivo su cui voglio lavorare coinvolgendo anche curatori polacchi. La mostra Archetipo / Archetyp, che abbiano inaugurato a dicembre all’Istituto, è stato un primo esempio di un percorso culturale italo- polacco che voglio perseguire. Una esposizione in cui gli artisti DEM (Marco Barbieri) e OTECKI (Wojciech Kołacz) hanno lavorato insieme per allestire gli spazi dell’IIC con opere realizzate appositamente per questo progetto e esposte per la prima volta a Varsavia, ispirate alle forme archetipiche della figurazione occidentale.”

Da un direttore laureato in filosofia e storia dell’arte, nonché esperto d’arte contemporanea ci dobbiamo attendere un programma d’eventi caratterizzato dall’arte figurativa?

Realizzare esposizioni d’arte contemporanea richiede una organizzazione complessa motivo per cui su questo tema stiamo lavorando con prospettive a lungo termine, intanto però posso annunciare alcuni appuntamenti di grande interesse come quello sulla Commedia dell’Arte, con conferenza e spettacolo; quello sul rapporto tra architettura e potere che mostrerà, attraverso una esposizione fotografica e l’intervento di alcuni esperti dell’Università di Siena, la relazione tra ideologia ed estetica in Italia e Polonia negli anni Trenta del Novecento; il progetto EUROPA Suite, realizzato con la Regione Emilia- Romagna, una commissione originale per una composizione di musica contemporanea in cui, partendo dalla guerra in Ucraina, si racconta la natura dell’Europa nel nostro tempo. E poi ancora tra i vari appuntamenti in programma segnalo un evento su arte e scienza e una mostra dei vetri artistici di Murano a Sopot in giugno. Tra le nostre priorità c’è anche quella di rendere l’Istituto più visibile e presente sui social per promuovere le nostre attività e creare anche in quell’ambito delle relazioni.

La storica sede di via Marszalkowska si appresta a diventare un pulsante centro d’interscambio italo-polacco?

Me lo auguro, già oggi la nostra sede è frequentata da centinaia di giovani che studiano l’italiano e l’obiettivo è quello di farli sentire sempre più a loro agio, qui all’Istituto devono trovare una sorta di accoglienza italiana. Abbiamo poi in progetto un parziale restauro per dare ai locali uno standard museale che ci consenta di ospitare mostre di qualità.

In questi primi mesi varsaviani cosa ti ha colpito di quest’ambiente?

Sicuramente l’alto livello degli studi di italianistica, docenti preparatissimi e studenti appassionati. Per quanto riguarda il rapporto con l’Italia penso che la Polonia si distingua rispetto ad altri paesi, qui i famosi ponti culturali sono antichi e solidi e ce ne sono tanti altri da costruire perché il terreno è fertile. Inoltre la profondità dei rapporti italo-polacchi e la qualità dello studio dell’italiano creano un tessuto sociale che invita le aziende italiane ad investire, in pratica avviene l’opposto di quello che succede in altri paesi dove lo studio dell’italiano segue a ruota i rapporti economici, qui è la cultura il traino, una cosa bellissima e rarissima.

La rivincita della cultura è forse il segno di tempi in cui c’è bisogno di visioni e non solo di sviluppo tecnologico?

È un discorso complesso, ma mi sento di dire che in questi anni, segnati dalla pandemia, si è visto come il pensiero esclusivamente tecnicistico abbia mostrato i suoi limiti, c’è bisogno che la tecnica sia invece al servizio di una visione umanistica. Provo a sintetizzare con un esempio: quando ero a New York avevo molti amici che superati i 40 anni sentivano il bisogno di conoscere il mondo, di capire chi erano e che vita stavano conducendo. Persone bravissime e di successo finché agivano all’interno dei confini del loro lavoro ma che

Paolo Lemma, Fabio Troisi, Luigi Iannuzzi, fot. Monika Mraczek

fuori di quest’ambito sentivano la carenza di strumenti per capire molti aspetti della vita. Ecco penso che ci sia bisogno di un riequilibrio tra cultura umanistica e scientifica. L’esperienza di direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Pretoria mi ha ulteriormente convinto su questo approccio, l’Africa mi ha insegnato a relativizzare, a capire che siamo tutti parte di uno stesso pianeta e che per convivere dobbiamo capirci guardandoci intorno e non solo focalizzandoci sul nostro lavoro.