‘’Giuditta con la testa di Oloferne’’ dalla collezione di Stanislao Augusto Poniatowski

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“Giuditta con la testa di Oloferne”, copia sul modello di Cristofano Allori, olio su tela, dimensioni 141,3 x 118,5 cm, Palazzo sull’acqua, Parco Łazienki di Varsavia

Traduzione it: Aleksandra Pasoń

Nel XVIII secolo, quando il re Stanislao Augusto Poniatowski desiderava trasformare Varsavia in un centro di cultura e di scienza, le sue collezioni artistiche erano seconde solo a quelle della zarina Caterina. Il problema della sopravvivenza delle collezioni polacche risiedeva nel fatto che facevano parte di proprietà privata dei sovrani eletti e non del patrimonio della Corona. Ciò significava che spesso venivano ereditate da chi abitava al di fuori dei confini nazionali che poi talvolta le vendeva oppure le lasciava in eredità ai propri discendenti.

Ecco perché, ad esempio, le pinacoteche dei sovrani della dinastia sassone dei Wettin (ricordiamo che Augusto II “il Forte” e Augusto III “il Sassone” furono re di Polonia) si trovano oggi a Dresda. Purtroppo, la vasta collezione del re Stanislao Augusto Poniatowski si disperse in tutta Europa. Tanti capolavori acquistati da lui in passato, oggi fanno parte di eccellenti gallerie d’arte disseminate in tutto il mondo. Uno degli esempi è “Il cavaliere polacco” di Rembrandt che potemmo per fortuna ospitare nel nostro paese durante una mostra temporanea nel Palazzo sull’Isola di Łazienki Królewskie, ovvero il luogo dove era un tempo esposto. Attualmente è di proprietà della Frick Collection di New York.

Siamo più fortunati con una copia del dipinto “Giuditta con la testa di Oloferne” di Cristofano Allori, maestro italiano del XVI secolo. In Italia il soggetto godeva di popolarità fin dal XV secolo, mentre Giuditta stessa era la patrona di Firenze. Giuditta, una vedova della città di Betulia assediata dall’esercito del re Nabucodonosor comandato da Oloferne, divenne l’eroina che salvò il popolo grazie alla sua astuzia. Con l’aiuto e in compagnia della serva Abra, si recò nella tenda del comandante nemico. Sedusse Oloferne, lo ubriacò e, quando l’uomo si addormentò, Giuditta gli tagliò la testa con una spada, la nascose in un cesto e lasciò l’accampamento insieme ad Abra. All’alba le truppe di Nabucodonosor videro la testa del loro comandante infilzata sulle mura di Betulia, il che scatenò il panico e fece disperdere l’esercito. Giuditta, una donna bellissima, riuscì a sconfiggere il potente Oloferne e a salvare la città. Perché sono appunto gli artisti italiani ad essere così appassionati di questa tematica? Giuditta fu dipinta e scolpita da Donatello, Verrocchio, Botticelli, Mantegna, Caravaggio, Artemisia Gentileschi e Cristofano Allori. Era un manifesto di fede in Dio che sostiene la lotta per la libertà contro l’oppressore, ma rappresentava anche astuzia, saggezza e coraggio di agire. Firenze, che lottava contro la dominazione politica di Roma, non sottoponendosi alle sue richieste, identificava allegoricamente Oloferne con la Santa Sede, mentre lei stessa si raffigurava come Giuditta: astuta, composta e intelligente.

Nelle diverse epoche, sebbene l’opera trasmettesse simbolicamente un’idea di lotta e vittoria contro l’oppressore stilisticamente poteva variare. Donatello creò una scultura statica, in stile antichizzato, ma la sua Giuditta ha un’espressione determinata e uno sguardo freddo con gli occhi spalancati. Botticelli e Mantegna raffiguravano la vedova di Betulia con abiti e capelli scompigliati, mentre cammina come se ballasse; giovane, bella, quasi seducente. Gli artisti barocchi, come Caravaggio e Artemisia Gentileschi, erano maestri del dramma e dei contrasti netti: il sangue e le lenzuola immacolate, la determinazione sul viso della donna contro gli occhi annebbiati dell’uomo morente. Alcuni temi pittorici erano più popolari di altri. È il caso di varie versioni di Venere che emerge dal mare, Danae su cui cade una pioggia dorata, innumerevoli composizioni della Madonna col Bambino, ma anche della biblica Susanna, del giovane Davide con la fionda o, appunto, di Giuditta con la testa di Oloferne. Per quanto riguardava la bella vedova di Betulia, un ventaglio di possibilità era molto ampio visto che, mentre il Rinascimento vedeva in lei grazia, leggerezza e armonia, il Barocco puntava sul momento dell’omicidio in cui il sangue scorre drammaticamente e le espressioni del viso sono a volte feroci.

Allori dipinse tre o quattro versioni del quadro, che si differenziano poco una dall’altra. La prima, creata tra il 1610 e il 1612, si trova nella Galleria Palatina di Firenze. La seconda, datata dall’artista al 1613, è esposta a Edimburgo e fa parte della Collezione Reale di Buckingham Palace. Dalla documentazione emerge che versioni successive, oggi sconosciute, potrebbero essere state realizzate fino al 1621. La composizione, che già ai tempi dell’artista mieteva tanti successi, sarebbe stata spesso copiata anche nel XVIII e XIX secolo. In che cosa consisteva l’eccezionalità della raffigurazione biblica di Allori da renderla così desiderata dai collezionisti? Innanzitutto, secondo gli studiosi italiani che analizzano il dipinto, il pittore rese una sorta di omaggio all’industria tessile fiorentina del XVI secolo. L’abito di Giuditta è molto elaborato e i tessuti con cui è cucito mostrano la ricchezza delle più pregiate sete e di lane finissime. La versione di Varsavia è una copia dell’originale presente nella Galleria Palatina. Non è una riproduzione fedele in quanto il copista decise di alterare alcuni dettagli dell’abbigliamento della donna. Mentre nell’opera di Cristoforo Allori la fusciacca legata intorno alla vita di Giuditta è liscia, in quella del copista è a strisce, ma dipinta in modo tale da poter notare la struttura della stoffa. Nella versione fiorentina è difficile individuare tale particolarità perché il materiale è spesso e leggermente luccicante. Non è facile notare questi dettagli anche perché il quadro nella Galleria Palatina è appeso in un angolo della sala, piuttosto in alto rispetto all’occhio umano. Inoltre, la vernice riflette la luce impedendo una visione precisa. Nell’originale manca anche il cordino rosso che tiene il mantello sulle spalle della donna. Il copista l’ha dipinto in modo che scorra diagonalmente dalla spalla sinistra a quella destra. Si dice che la versione fiorentina sia incompleta, però se analizziamo la maestria pittorica con cui fu creato l’abito dorato con motivi floreali o il frammento del cuscino verde di velluto, ciò sembra poco probabile. Il pittore non solo manipolò magistralmente i colori e la luce, ma trasmise perfettamente la profondità del dipinto.

La scena è molto teatrale. Si tratta di un omicidio. Una giovane donna dal volto pallido e delicato stringe tra le mani i capelli aggrovigliati del persecutore del suo popolo. Più precisamente, tiene solo la sua testa mozzata. Teatralmente illuminata, Giuditta emerge dallo sfondo nero che sottolinea il candore del suo viso e la delicatezza delle mani curate. Sembra che stia posando per una scena. Sul suo volto non c’è paura né sorpresa. Non ci sono neanche le emozioni tipicamente barocche che vediamo in Caravaggio o Artemisia Gentileschi, dove Giuditta ha un’espressione feroce ed è così determinata che la luce drammatica, i contrasti cromatici, i forti contorni e l’accento sul sangue sembrano far parte di un’immagine fissa, una rappresentazione straordinariamente espressiva. Nella composizione di Cristofano Allori, come nel caso della copia nostrana, il carattere teatrale non risiede nell’espressione, ma nella posa dei modelli e nel loro emergere dall’oscurità. Forse fu quello che influiva sulla popolarità del dipinto già ai tempi della sua creazione.

L’opera è quindi una delle rappresentazioni più teatrali di Giuditta con la testa di Oloferne. Abbiamo a che fare con un’improvvisa uscita dall’oscurità verso tonalità di luce vivide e brillanti che, attraverso il contrasto, rivelano l’atto la cui drammaticità è indiscutibile. Al tempo stesso, la composizione offre una miriade di opportunità per la percezione estetica dell’opera.

Filippo Baldinucci, biografo e disegnatore del XVII secolo, scrisse che per la figura di Giuditta posò Mazzafirra, l’amante del pittore, e per quella di Abra la madre dell’artista mentre fu lui stesso che diede le sue fattezze al volto di Oloferne, il che non era niente di particolare nell’epoca barocca in cui gli artisti solevano intrecciare elementi autobiografici nei loro dipinti. Lo fecero Caravaggio e Gentileschi, pittori la cui creatività ispirò Cristofano Allori. Si suppone che Caravaggio abbia dato a Oloferne i suoi lineamenti. Non c’è dubbio che nelle diverse versioni dell’opera dipinte da Gentileschi, Giuditta abbia sia il volto che il corpo dell’artista italiana. Per di più, esse appartengono ad un insieme di composizioni che costituiscono un resoconto drammatico del difficile passato della pittrice. Allori era quindi un uomo del suo tempo inserito in una viva tradizione in cui le proprie esperienze si intrecciavano con le narrazioni apocrife e bibliche. Uno dei ricercatori, osservando una copia parigina della “Giuditta”, arrivò alla conclusione che il pittore si credeva colpito dalla freccia di Cupido. Forse il suo amore per la bella Mazzafirra era infelice.

Nell’inventario del re Stanislao Augusto, il dipinto fu inizialmente registrato senza il nome dell’autore. Nel 1795 fu erroneamente catalogato come opera di Franciszek Smuglewicz, un pittore che lavorò per il re a Roma e a Varsavia.