Il villaggio nella grotta

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Il minuscolo borgo all’interno del Monte Cofano regala uno scenario da favola. Vi troviamo una culla, dei giocattoli, delle vecchie pentole e delle forme da calzolaio, tanti utensili per
la casa il cui uso è spesso difficile da indovinare. La caverna alta 70 metri ha una superficie di almeno 650 metri quadri ed è la più grande delle nove grotte di Scurati in Sicilia. Già nel Paleolitico vi abitarono i primi cavernicoli, come testimoniano i semplici arnesi, ossa di animali, dipinti rupestri e pezzi di ceramica rinvenuti tempo fa dagli archeologi, oggi esposti nei musei di Trapani e Palermo. Per millenni la grotta fungeva da rifugio, ma solo nel 1819 vi si creò un piccolo villaggio. I membri della famiglia Mangiapane (da cui il luogo prende il nome) costruirono nella pancia della roccia una fattoria, ovvero due file di palazzine con in mezzo una stradina, dove fino alla fine degli anni ‘50 del Novecento condussero un’esistenza
quasi autosufficiente, basata su pesca e agricoltura. Poi il luogo fu abbandonato.

Negli anni ’80, grazie all’iniziativa degli appassionati del luogo e dell’unico discendente della famiglia Mangiapane, tutti gli ambienti sono stati meticolosamente restaurati. Nacque così il Museo Etnoantropologico di Arte Contadina Siciliana all’aperto. Qui non ci sono bacheche né soluzioni sensoriali e multimediali, ma c’è odore di mobili e tessuti antichi, di cuoio e di paglia. Ci sono le galline che schiamazzano e i galli che cantano, capre, asini e cavalli, ulivi secolari e fichi d’india carnosi. Come si sa i loro frutti, tinti di arancione, viola e fucsia, sono molto spinosi e prima del consumo devono essere accuratamente puliti con un’apposita grattugia. Alcune varietà però sono lisce e così, almeno in polacco, vengono chiamate “indifese”. Questo termine mi diverte e intenerisce, così come i ricordi e artefatti della vita quotidiana raccolti negli interni di questo sito roccioso.

È incredibile, qui tutto sembra intatto: i locali di servizio, la cucina, la sala da pranzo, il soggiorno e le botteghe del calzolaio e del cestaio. C’è una macchina da cucire, un telaio, un tornio e un frantoio, ma anche una grossa stufa a legna. Le camere modeste ma dignitose, arredate secondo lo stile dell’epoca. Le pareti bianche e ruvide decorate con tappeti di pezza, stoffe dipinte con scene cavalleresche. Dal soffitto pendono i pupi, le marionette del tradizionale teatro siciliano. Su tavoli e scaffali di legno massiccio ci sono dei secchi e delle tinozze di latta, le ceste di vimini, delle vecchie bottiglie e delle damigiane, per terra barili di ogni tipo. Poi ancora una cappella privata e una stanza da barbiere, o cerusico, che non solo tagliava i capelli, ma toglieva denti, eseguiva piccoli interventi chirurgici e curava disturbi della pelle, spiega la guida.

Oggi, questo piccolo mondo rinchiuso nella grotta come in una capsula del tempo prende vita diverse volte all’anno, proprio come ai vecchi tempi. Da oltre quarant’anni, grazie al lavoro di 160 volontari, durante l’estate si tiene qui un festival degli antichi mestieri. Vi partecipano circa 70 rappresentanti di professioni in via di estinzione, che negli ambienti del museo mostrano la loro arte. Uno di questi è o zabbarinaru, che lavora l’agave, zabbara è l’agave in siciliano. Con degli strumenti semplici batte e stira le sue foglie carnose e poi su una tavola piena di punte metalliche
(a mo’ di grattugia) ne pettina le fibre. Dalla polpa ricava una sorta di sapone, e le fibre essiccate le passa al funaio, che le trasforma in corde. C’è anche uno scalpellino e un maestro d’ascia, che lavora il legno. Un pescatore che cuce le reti e un altro che riempie un barile mettendo sotto sale le sarde fresche (in passato scambiate con aringhe e baccalà che arrivavano da altri paesi). Una delle stanze serve per la produzione del vino, dove una cisterna in
muratura viene riempita con grappoli d’uva pigiati poi a piedi nudi, proprio come i crauti in Polonia. Sopra alla cisterna c’è una corda, a cui aggrapparsi in caso di malessere o vertigini, siccome il profumo del mosto fresco a volte offusca i sensi. Nel cortile, all’ingresso della grotta, due cavalli trebbiano il grano, girando – secondo una tradizione millenaria – sopra le spighe stese per terra. La paglia calpestata viene poi setacciata con uno sbarratozzo. Così, invocando i nomi dei santi locali, si separa il grano dalla pula. Le preghiere, gli incantesimi ed i talismani sono sempre in voga in Sicilia, spesso frutto di antiche influenze musulmane.

Il sito si attiva anche a Natale: nella tradizione italiana una grotta è un presepe ideale. I volontari con costumi d’epoca rievocano scene della Natività, tornano di nuovo gli artigiani: un calzolaio cuce le scarpe a mano, un impagliatore intreccia sedie e le cuoche preparano specialità natalizie. Tra queste, le sfincie cioè le frittelle dolci fatte con patate, il cui nome deriva dalla parola ispong, in arabo: spugna. Tutto questo succede d’inverno, invece d’estate c’è… la calura. Il mare
vicino luccica come un diamante, una volta usciti dall’ombra della grotta, il suo bagliore azzurro dà quasi fastidio agli occhi. Nella quiete, si sentono le instancabili cicale. L’aria calda è densa di aromi e di sale. Per un attimo penso al Commissario Montalbano, un siciliano D.O.C. e il protagonista dei gialli di Andrea Camilleri. Proprio nella Grotta Mangiapane sono state girate le scene de Il ladro di merendine, l’adattamento
televisivo dell’avvincente romanzo noto anche ai lettori polacchi.

I siciliani amano la loro terra. In più, le tradizioni locali ed un forte senso di appartenenza sono elementi importanti della cultura italiana in generale. Il cognome Mangiapane significa “quello che mangia il pane”. Suggestivo nella sua semplicità, sembra appropriato per una famiglia che nei tempi lontani lavorava la terra. All’epoca, l’ecologia e la sostenibilità non erano né politiche né ideologie, ma giusto il pane quotidiano dei contadini, e
proprio per questo motivo è importante coltivare la loro memoria, sapienza e manualità.