Matuszyński: fare cinema è porre domande

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La Biennale di Venezia / Foto ASAC ph G. Zucchiatti

“Non lasciare tracce” di Jan P. Matuszyński ha avuto la sua prima alla 78^ edizione della Mostra del Cinema di Venezia dove è stato accolto con entusiasmo dal pubblico internazionale. In Polonia, al Festival dei Film Polacchi a Gdynia conclusosi il 25 settembre 2021, il film ha ricevuto i Leoni d’argento e il premio per la scenografia.

Il 12 maggio 1983, nel centro storico di Varsavia, una pattuglia della milizia fermò Grzegorz Przemyk, che in quel giorno celebrava con gli amici il passaggio dell’esame di maturità. Secondo gli agenti della milizia il ragazzo era troppo sfacciato e meritava una lezione, così lo portarono al commissariato e poi lo colpirono con una serie di colpi allo stomaco, per non lasciare tracce. Le tracce non c’erano ma le numerose lesioni interne si rivelarono fatali. L’evento scosse l’opinione pubblica in Polonia e all’estero.

Il film è basato su eventi reali ed è ispirato all’omonimo libro reportage di Cezary Łazarewicz, perché hai voluto portare sul grande schermo questa vicenda?

Jan P. Matuszyński: Dopo il mio primo film, “L’ultima famiglia”, stavo cercando una nuova storia da raccontare. Quando ho ricevuto il libro di Łazarewicz dal mio produttore, ho capito subito che mi sarebbe piaciuto girare questa storia.

Quali sono secondo te gli aspetti più importanti del film?

Ad un certo punto ho iniziato a chiedermi cos’è più interessante, cosa significa dire tutta la verità, cosa vuol dire che qualcuno ha visto tutto. Ho pensato che sarebbe stato interessante raccontare la storia dal punto di vista del testimone oculare. Era una persona che aveva visto molto, ma non tutto, e questo lascia un certo mistero. Guardando il film iniziamo a chiederci se la versione del protagonista sia quella reale, o se forse alcuni dettagli siano stati omessi. Chi è il vero colpevole, chi ha sferrato il colpo fatale? Non esiste una chiara risposta a queste domande, però l’amico di Grzegorz, Jurek Popiel, era sicuramente quello più vicino a dare le risposte.

Sei nato un anno dopo gli avvenimenti che descrivi nel tuo film, come sei riuscito a rendere così bene l’atmosfera sociale ed estetica dell’epoca?

Ricordo di aver chiesto spesso ai miei genitori com’era la vita in quel periodo. Mentre lavoravo al film le mie ricerche sono andate oltre la vicenda, ho iniziato a pormi altre domande perché dovevo capire che cosa significa per me questo periodo storico e come volevo rappresentarlo nel film. Penso che per la mia generazione parlarne sia stato naturale. Ricreare il mondo degli anni Ottanta, anche se non sembra un passato lontano, ha richiesto un grande sforzo da parte della troupe. Molte scene sono girate all’interno, ma la chiave per me era mostrare la Varsavia di quel periodo perché Jurek Popiel e la madre di Grzegorz, Barbara Sadowska, vivevano nel centro di Varsavia. Insieme al direttore della fotografia Kacper Fertacz e a tutto il team abbiamo lavorato a lungo per trovare gli scenari caratteristici che ci aiutassero a raccontare questa storia senza fare della città una cartolina. Ho lavorato molto in fase di pre-produzione, abbiamo parlato a lungo con Kacper e Paweł Jarzębski, l’autore della scenografia, di come il film dovrebbe essere visivamente e quali effetti potevamo ottenere. Ogni dettaglio sullo schermo è estremamente importante per questo ho cercato di pensare a tutto prima.

Il film è un complesso mosaico di generi: ci sono gli elementi di un dramma politico, di un thriller e infine di una cronaca giudiziaria. Come hai gestito la scelta rispetto ai codici di genere nel raccontare questa storia così complessa?

Fin dall’inizio mi è sembrato che l’oppressione fosse l’argomento dominante a tutti i livelli e ho iniziato a guardarmi intorno per trovare qualcosa che assomigliasse a questa oppressione nel cinema. L’ispirazione più importante è stata il cinema hollywoodiano degli anni Settanta, ad esempio ”La conversazione” di Coppola, oltre ai film di Polański, e in un certo senso anche ”Blow-Up” di Antonioni. Questi film sono stati un punto di partenza. Per quanto riguarda il genere, ci sono elementi di thriller, film di spionaggio e crime fiction. L’effetto finale è in realtà un mosaico. Penso che molteplicità di temi e di generi siano la forza di questo film. Mi sembra che al giorno d’oggi il cinema sia interessante se è composto da molti elementi e ogni spettatore può trovare qualcosa di suo gusto.

È interessante che tu abbia presentato a Venezia un film su un giovane ragazzo morto durante il comunismo in Polonia quando una simile morte tragicamente inutile, quella di George Floyd, è successa recentemente negli Stati Uniti. È una specie di eco della storia che stai raccontando?

Penso di aver contato sette casi simili durante i quattro anni di produzione del film. In questo periodo ognuno di noi ha sentito parlare di qualche storia simile accaduta vicino o lontano da dove viviamo, l’omicidio di Floyd è solo il caso più famoso. A un certo punto ho pensato che stavo facendo un film rivoluzionario, ora non ne sono così sicuro. È stato un grande onore mostrare il film nel concorso principale alla Mostra del Cinema di Venezia. Non temo che il pubblico italiano non lo capisca. Penso che la chiave di lettura siano i piccoli dettagli che si riferiscono, come abbiamo detto, a molti altri eventi simili accaduti nel mondo. Se nessuno capisse questo film, significherebbe che tali storie non succedono più ed è esattamente il contrario. Forse ho fatto questo film per la paura che questa sia purtroppo ancora una storia attuale.

Nel film tocchi temi fondamentali come la libertà di stampa e l’indipendenza della magistratura. Quanto è importante oggi sottolineare questi aspetti?

Uno dei momenti chiave del film per me è il momento in cui Grzegorz Przemyk si è rifiutato di mostrare i documenti. Non si tratta qui di libertà della parola, ma certamente di diritti civili. Durante le riprese non ci avevo pensato molto ma ora mi sembra che questo aspetto sia uno degli elementi più importanti e universali toccati nel film. E naturalmente questo è direttamente correlato alla libertà della parola, che è valore fondamentale per la democrazia. Credo inoltre nella libertà dello spettatore perciò quando faccio i film cerco di non imporre una sola interpretazione. È lo spettatore che deve pensare al film e porsi delle domande, è una sorta di riflessione, meditazione, su ciò che ha visto e su ciò che significa per lui. La stessa scena, lo stesso personaggio, la stessa inquadratura può avere tante interpretazioni e questa è la cosa più interessante. I film dovrebbero porre domande aperte.

fot. Łukasz Bąk

Non pensi che l’eredità del comunismo influenzi ancora il modo in cui la gente si comporta, parla e si approccia a molte cose?

Nessun paese può dimenticare il suo passato. Le persone che vogliono sostituire la storia del proprio paese con una narrazione artefatta, fingendo di essere qualcun altro, vanno nella direzione sbagliata. Lavorando al film ho pensato a tanti aspetti, in particolare al fatto che la storia è scritta dai vincitori e penso che sia una dichiarazione molto attuale e coerente con ciò che sto raccontando. Mi sembra che sia necessario parlare del passato, anche se si tratta di argomenti molto dolorosi. Io ad esempio voglio conoscere il passato e parlarne per capire cosa sta succedendo ora in Polonia e nel mondo.

Sul tema si è espresso così Jacek Braciak, l’attore che interpreta il ruolo del padre di Jurek: ricordo quei tempi in cui l’allusione e la metafora erano l’unico modo accettabile ed efficace per combattere il comunismo, il sistema, la mediocrità, la schiavitù, i limiti. Queste erano le uniche ondate di leggerezza. Dopo l’ottantanove si è scoperto che possiamo dire quello che vogliamo. Ad esempio “il presidente è stupido”, solo che questo non funziona. La mancanza di allusione non stimola gli artisti, se così possiamo chiamare lo show business cinematografico polacco, a fare uno sforzo. Penso che il linguaggio diretto sia semplice, colloquiale, non molto sofisticato. Quindi, se arriva qualcos’altro che ha la possibilità di essere velato, più nobile e non diretto, secondo me è meglio. E ogni storia su, ad esempio, quei temi che abbiamo menzionato ha gli stessi riferimenti, indipendentemente dal fatto che si tratti di una tragedia greca o di un film realizzato nel 2020.

Che senso ha fare film così complessi in un mondo dominato da social media e persone perennemente distratte?

Mio padre era un giornalista nella Polonia degli anni Ottanta e Novanta, motivo per cui sono un grande fan delle interviste lunghe, degli articoli e dei libri. Amo la carta. Vi ricordate ancora che cos’è? Oggi, invece, si leggono frasi su Twitter e hashtag e io non voglio seguire questa strada. Fare film è un modo per impegnarsi in un dialogo più profondo e far riflettere le persone. Non voglio giudicare nessuno, dividere il mondo in buoni e cattivi. L’unica cosa che posso fare come regista, e ci credo fortemente, è stimolare lo spettatore durante queste due ore del film a riflettere sull’argomento trattato, su cui poi è libero di dare il suo giudizio. Arte, articoli o letteratura sono una sorta di specchio da cui puoi prendere qualcosa per te stesso e, sarò pure ottimista, ma credo che possano rendere il mondo un posto migliore. Leggere libri, articoli, guardare film, concentrarsi sulla conversazione durante un’intervista che non dura cinque minuti, sono comportamenti saggi cui è necessario ispirarsi.

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