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Miele o malto: che differenza fa?

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L’arrivo della stagione fredda mi fa istintivamente pensare ad una tazza di tè caldo. A qualche biscotto da inzuppare. Oppure perché no, da appendere all’albero. Alle domeniche passate in casa a preparare qualcosa di buono per la settimana. Ai cibi più golosi e anche più calorici, gustati senza sensi di colpa perché “è inverno e devo proteggermi dal freddo”!

Il filo conduttore di tutte queste cose belle? Il miele. Da sciogliere nelle tisane, da aggiungere ai dolcetti, ma anche ai piatti salati per chi, come me, ama i contrasti di sapore. Non ne sono estremamente golosa, ma certo in alcune preparazioni è quel tocco in più che rende tutto speciale.

Poi ho scoperto l’esistenza di malto e sciroppi: d’orzo, di riso, di mais e frumento. E come al solito ho iniziato a farmi domande, a chiedermi quale fosse la differenza, perché preferire uno all’altro. 

Iniziamo dal miele: tutti sappiamo che è prodotto dalle api, ma come? Attraverso la trasformazione delle secrezioni dei fiori (nettare) e di alcuni insetti (melata), che sono succhiate dalle api operaie, sottoposte all’azione di alcuni enzimi prodotti dalle api stesse, e poi rigurgitate nelle celle precedentemente preparate. 

Per produrne un chilogrammo le api percorrono un totale di circa 150.000 chilometri per andare a raccogliere il polline dall’alveare ai fiori. Esse sono in grado di arrivare a coprire un’area che si estende fino a tre chilometri dall’alveare. Che fatica!

A questo duro lavoro si aggiunge l’intervento umano. Il miele viene estratto tramite centrifugazione, lasciato decantare e poi riposto nei vasetti. Il colore e le sue proprietà variano a seconda dei fiori da cui proviene il nettare, ma in tutti i casi i benefici sono molti: ricco di minerali (calcio, fosforo, potassio, sodio, ferro, magnesio, zinco, rame, fluoro, manganese e selenio), di vitamine del gruppo B, e anche di aminoacidi.

Le sue proprietà sembrano essere tante, anche se è difficile capire quali siano reali, e quali invece basate solo su credenze popolari. Generalmente è considerato antinfiammatorio, sedativo, rinvigorente, antisettico e antibatterico, e quindi molto utilizzato come cura ai malanni di stagione.

E quindi, viene da chiedersi, dove può essere il problema? Come sempre nel commercio su vasta scala, che porta a metodi di produzione invasivi e spesso dannosi. Sicuramente poco rispettosi delle api, che non producono il miele per puro divertimento, ma per nutrire la propria colonia. L’intervento umano può considerarsi quindi un “furto” a nostro vantaggio: gli apicoltori in alcuni casi sostituiscono il prodotto di tanto lavoro con sciroppo di zucchero, il quale però non è del tutto equivalente alla dieta naturale. Molte api per questo motivo si ammalano e non superano l’inverno. In altri casi, gli alveari sono comunque distrutti prima che sopraggiunga il freddo, per non dover nutrire l’intera colonia e alla stagione successiva avere api più giovani e produttive. 

Se a condizioni naturali un’ape regina vive circa cinque anni, nelle produzioni industriali questa viene uccisa e sostituita ogni due, quando la sua capacità di produrre uova declina.

Si può rimanere indifferenti a queste notizie. Oppure no. La diminuzione della popolazione delle api, e le sue conseguenze sull’ecosistema, sono problemi che ci riguardano da vicino. Nel dubbio, si può scegliere di utilizzare il malto. Scopriamolo più da vicino. 

Il malto si ottiene aggiungendo orzo germogliato ai cereali cotti (orzo, mais, riso, grano). Lasciato a macerare per 3-4 giorni in acqua, l’orzo germoglia e sviluppa degli enzimi che attivano un processo molto simile a quello che avviene durante la digestione, trasformando l’amido in zuccheri più semplici. Data la presenza di orzo (che contiene glutine), il malto non è adatto ai celiaci.

La produzione dello sciroppo di cereali sfrutta lo stesso principio del malto, ma anziché partire dall’orzo germogliato, si utilizzano degli enzimi che attivano la trasformazione dell’amido del cereale. Il vantaggio è che si utilizza un solo cereale, quindi in caso di riso o mais, lo sciroppo ottenuto sarà senza glutine.

Il malto più dolce è quello di mais. Tutti però hanno un potere dolcificante inferiore del 50-60% rispetto allo zucchero bianco, data l’alta percentuale di acqua. Per le vostre ricette, tenete presente che 100 g di sciroppo di malto corrispondono circa a 80 g di zucchero semolato, e che proprio per il contenuto di acqua, ingredienti liquidi e solidi previsti nella ricetta vanno calibrati di conseguenza.

Come il miele, anche malto e sciroppi sono ricchi di vitamine e sali minerali (fra i quali troviamo in alta concentrazione potassio, sodio e magnesio) e di proprietà benefiche: azione antinfiammatoria, depurante per il fegato, antisettica per le vie urinarie (utili in caso di cistite), e favoriscono il transito intestinale.

Rispetto ad altri dolcificanti, sono una fonte energetica ad elevata biodisponibilità e rendimento, ad azione prolungata nel tempo: utilizzando il malto abbiamo un apporto continuo e costante di energia. Il tutto in cambio di un apporto calorico limitato: 100 g di malto contengono circa 300 calorie.

Malto e sciroppi di cereale quindi sono una valida e consigliabile alternativa agli altri dolcificanti più conosciuti, siano miele o zucchero bianco, del quale va ricordata la capacità di acidificare l’organismo, creando a lungo andare vari scompensi, soprattutto nell’assimilazione del calcio.

Fonti delle foto:
https://ncez.pl/abc-zywienia-/fakty-i-mity/miod-zamiast-cukru-

https://www.elle.pl/sport/artykul/miod-manuka-wlasciwosci-i-dzialanie
https://pl.depositphotos.com/35582785/stock-photo-christmas-tree-frome-honey-cells.html

Parole da buttare (seconda parte)

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Prima parte: clicca qui

Torniamo a parlare delle parole da buttare, neologismi, espressioni e tormentoni che non piacciono, che “non si possono sentire” (altra bruttissima espressione, molto usata – pronunciata e scritta – negli ultimi tempi. Se non si può sentire, basta tapparsi le orecchie, no?).

  1. BELFIE

E dopo il selfie, non poteva  mancare il belfie, cioè l’autoscatto che immortala al posto del viso il “lato b”. Il neologismo si sente per la prima volta un paio di anni fa, viene pubblicato sulla copertina di una rivista americana, e nasce dalla moda (o mania) delle celebrities di fotografarsi i glutei e di postare le foto sui social network. Iniziatrice, a quanto pare, Kim Kardashian, presto seguita da attrici, modelle, cantanti, orgogliosissime di fotografare il corpo a pezzettini e di identificare la parte (il lato b) per il tutto. 

  1. COME DIRE

Gli intercalari (dal lat. intercalaris, che viene inserito in una serie) vengono inseriti qua e là, molto spesso in modo irriflesso, e caratterizzano il modo di parlare di ciascuno di noi. Non hanno nessuna funzione specifica, né trasmettono contenuti semantici. L’intercalare come dire, se usato in modo corretto, una tantum, quando non ci viene in mente una parola, è accettabile, perché questa è, appunto, la sua funzione, ma il suo uso continuo (o meglio, il suo abuso) è particolarmente fastidioso. Non va, quindi, usato, in frasi come “Sono abbastanza, come dire, preparato per rispondere”, ma va bene per recuperare una parola che abbiamo sulla punta della lingua, oppure, ovviamente,  quando non conosciamo la parola esatta. Umberto Santucci, esperto in comunicazione, ammette anche un’altra possibilità per l’uso di come dire, utilizzabile per virgolettare un concetto, come ad esempio nella frase: “Il tuo vestito è, come dire, quasi abbagliante”.

  1. TRA VIRGOLETTE

L’uso delle virgolette per prendere le distanze da una parola o da un’espressione può essere molto efficace, ma anche in questo caso non bisogna esagerare. Infatti spesso usiamo le virgolette, scrivendo ma anche parlando, per risparmiarci la fatica di trovare la parola giusta. In particolare alcuni giornalisti (pigri) abusano delle virgolette, finendo per scrivere articoli oscuri e approssimativi. Forse bisognerebbe ricordare loro che, alla lunga, usare troppo le virgolette non  è “bello”.

  1. ANCHE NO

Anche no è un’interiezione, cioè un’espressione “buttata in mezzo” al discorso (dal lat. interiectio «atto di gettare in mezzo»), una parte del discorso che si usa per esprimere emozioni o stati soggettivi del parlante ed è priva di legami sintattici con le altre parti della frase. L’espressione anche no si sente sempre più spesso, ripetuta da comici (la Gialappa’s in primis), politici, giornalisti e viene usata per rispondere a proposte poco allettanti. Con questa espressione vogliamo esprimere un rifiuto attenuato, vogliamo dire che “possiamo farne anche a meno”. Assolutamente no (v. Angolo linguistico nel numero precedente di Gazzetta Italia) esprime, invece, un rifiuto netto e ha lo stesso valore di espressioni iperboliche come neanche per idea, neanche per sogno, nelle quali compare la congiunzione neanche, che altro non è che la fusione di né e anche, che ha una struttura simmetrica rispetto ad anche no.

Anche no è presente nel titolo e nel testo di alcune canzoni: Anche no di Povia del 2012 (la canzone si conclude poi con l’espressione anche sì, con il significato di perché no, ma non è così popolare come anche no) e Anche no del rapper Rayden (alias Marco Richetto) del 2009.

Variante di anche no è ma anche no, espressione nella quale il ma mantiene il suo valore avversativo, a un’affermazione segue una parziale rettifica, come ad esempio nel titolo “L’Italia fuori dal G8? Ma anche no!” («Forexinfo.it», 23/10/2013).

Ma anche no è stato il titolo di un programma televisivo domenicale andato in onda per pochi mesi su La7 e condotto da Antonello Piroso, dimostrazione ulteriore di come le mode e i tic linguistici vengano prevalentemente diffusi dalla televisione.

Insomma, visto che non abbiamo il coraggio di dire un no secco, ricorriamo all’attenuazione fornita dall’anche anteposto; un semplice sì non ci sembra più sufficiente e allora ricorriamo all’esagerazione dell’assolutamente (v. Angolo linguistico nel numero precedente di Gazzetta Italia)

Vista la stretta correlazione tra mass media e diffusione di neologismi, tormentoni e mode linguistiche, quasi tutte le parole che adesso vorremmo buttare vengono dalla stampa o dalla televisione, trasmesse da «chi per mestiere dovrebbe dar prova di una rigorosa competenza linguistica» (Diego Marani, Il Sole 24 ore), ma anche no! ☺

Progetto „Citri et Aurea”

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Schema della ricostruzione della collezione di agrumi a Wilanów Autore: Jacek Kuśmierski, 2018

La Galleria degli Uffizi ed il Museo del Palazzo del Re Jan III a Wilanów hanno deciso di iniziare una collaborazione dedicata alla collezione storica di agrumi.

Il progetto intitolato „Citri et Aurea” è nato come sorta di collaborazione tra il Museo del Palazzo del Re Jan III a Wilanów e la Galleria degli Uffizi – Giardini di Boboli a Firenze – nell’ambito della collezione storica di agrumi. Le prime attività avranno luogo nel novembre del 2019 in occasione della visita studio che effettueranno a Firenze tre specialisti polacchi, realizzazione finanziata per mezzo dei fondi del Ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale nel contesto del Programmo „La Cultura che Ispira”.

Alla base del progetto vediamo i rapporti venutisi a creare tra la corte del grande principe Kosmo III e la corte del re Jan III dopo la battaglia di Vienna, relazione che nel 1684 portò all’invio di otto casse di piante da Firenze a Varsavia.

“Citri et Aurea” è un progetto a lungo termine che comprenderà ricerche storiche sui rapporti tra la corte del granduca Cosimo III e la corte del re Jan III e sull’influenza della cultura italiana del giardino sulla collezione di agrumi Wilanów. I risultati delle ricerche verranno utilizzati per preparare pubblicazioni e mostre temporanee presentate nei giardini di entrambi i partner.

Nel secolo XVI i giardini venivano associati all’età d’oro e, nello specifico, all’undicesimo dei dodici lavori di Ercole, in cui Eris ruba le mele d’oro dal frutteto delle Esperidi. Grazie all’aiuto delle fontane e delle statue i Medici diedero vita a dei simboli aventi lo scopo di unire la loro famiglia alle virtù eroiche ed alla forza di Ercole. Fu in questo modo che gli agrumi diventarono un importante simbolo all’interno del giardino, in quanto furono associati alle mele d’oro di Esperide.

Questo motivo venne poi diffuso in tutta Europa, dando forma alla creazione di straordinarie collezioni di agrumi. Il titolo di Ercole Polacco (Hercules Polonus) venne assegnato al re Jan III durante tutto il suo regno (1674-1696), come testimoniano la sua residenza estiva a Wilanów, le decorazioni del palazzo ed il circostante giardino barocco. Gli architetti ed i giardinieri creaorono un vero e proprio paradiso di agrumi che assieme al gruppo di statue riuscì a glorificare la figura del re Jan III.

La tempesta storica portò poi alla perdita e dispersione della collezione reale. Il processo della sua ricomposizione ebbe luogo nel 2016. Il Museo del Palazzo del Re Jan III a Wilanów, desiderando continuare il processo di riproduzione della storica collezione di agrumi, nel 2019 ha iniziato a collaborare con la Galleria degli Uffizi. I Giardini di Boboli, sotto la tutela del museo, vantano una collezione straordinaria, tra cui si trovano specie e varietà risalenti ancora ai tempi dei Medici.

Vino e letteratura: 3° e ultima parte

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Parte II: clicca qui

La presenza del vino nelle mense della Grecia Antica era simbolo di prestigio sociale poiché la produzione e la lavorazione del prodotto richiedeva terreni e materiali di costo elevato. Si può parlare, dunque, della Grecia Antica come della prima vera grande terra del vino. Successivamente la bevanda venne esportata, grazie alle successive colonizzazioni anche verso il Mar Nero, l’Anatolia, le coste Africane e nelle terre occidentali raggiungibili per mare dal territorio greco.
Quando Omero racconta delle città d’origine dei capi degli Achei e ne descrive gli svariati pregi, non trascura tra questi la presenza di viti rigogliose: ”Arne dai molti grappoli d’uva… Istiea ricca di vigne… Epidauro ricca di vigneti…”.

I viticoltori greci non adottavano forme di coltivazione a pergola, come facevano invece gli egizi o come venne poi fatto in Italia. In Grecia le viti erano lasciate libere di scorrere sul suolo, protetto con materiali vari (rami o stuoie) per evitare il contatto diretto del frutto con il terreno. Questo sistema era sicuramente meno costoso dal punto di vista economico, ma richiedeva un numero elevato di unità lavorative per la lavorazione del suolo. La vendemmia solitamente avveniva nella metà di settembre. Riempite le ceste di uva, questa veniva portata alla pigiatura, eseguita in conche di legno d’acacia stagionato o in muratura leggermente inclinate per favorire la colatura del mosto. Una parte del mosto veniva consumata subito, dopo aver subito leggere aggiunte d’aceto, mentre la quasi totalità di questo era destinato alla vinificazione. Il mosto veniva inviato alle cantine dove avveniva la fermentazione in grandi vasi di terra cotta (3,5 metri di altezza e un’apertura di un metro), detti pithoi. Per ridurre la traspirazione, i pithoi venivano interrati profondamente e cosparsi esternamente di resina e pece. Questa tecnica conferiva al vino un aroma particolare, che si riscontra tuttora nel vino resinato greco. Dopo sei mesi di permanenza nei pithoi, si procedeva alla filtrazione e al travaso del vino in otri o anfore di terracotta appuntite per permettere la decantazione di eventuale deposito e successivamente commercializzato.

Altra terra che un tempo disponeva di ottime potenzialità per la coltivazione della vite e per la vinificazione è sicuramente la Palestina, grazie alla vicinanza con l’Oriente, come testimoniano ritrovamenti di attrezzature (torchi e tini) nel corso di scavi archeologici. Le notizie si possono avere leggendo i testi biblici. Lo sviluppo della pratica della vinificazione in Palestina continuò senza problemi fin verso la metà del ‘600 dopo Cristo, epoca della conquista musulmana.

Quando Roma può finalmente vantarsi del nome di ”capitale del mondo”, la viticoltura aveva già alle sue spalle una lunga storia. Durante il regno di Augusto tuttavia questa pianta e questa bevanda poterono godere di maggiori cure e di maggior diffusione e prestigio. In Italia nuove tecniche e nuovi vitigni vennero importati, soprattutto dalla Grecia. Viticoltura ed enologia rappresentano due aspetti importanti per la vita economica e sociale di questo periodo. Grandi nomi latini si avvicendano e si confrontano nella composizione di trattati di agricoltura, da Catone a Varrone per giungere, nell’epoca più fiorente dell’impero a Virgilio e a Lucio Moderato Columella. Osservazioni sui metodi di produzione del vino si affiancano alle istruzioni tecniche per la coltivazione della vite. Columella distingue fra uve da tavola e uve da vino e nella sua distinzione divide gerarchicamente queste ultime in tre gruppi, a seconda del vino che se ne ottiene. Nel suo trattato “De Re Rustica”, suggeriva per ogni vitigno il terreno più adatto e consigliava di impiantare varietà diverse e di tenerle separate al fine di ottenere un vino più pregiato. Secondo gli scritti di Columella la vendemmia si effettuava del mese di agosto fino a novembre, con la piena maturazione delle uve. Il controllo della maturità si basava sul gusto degli acini, sulla struttura dei grappoli e soprattutto dal colore scuro dei vinaccioli. Le uve erano pigiate nel calcatorium ed erano torchiate nel turcularium, quindi il mosto veniva raccolto e trasferito per la fermentazione nei dolia.

Insomma il vino rappresenta da sempre non solo una bevanda piacevole al palato ma anche il simbolo di una civiltà e di uno stato sociale.

La cassata siciliana

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Ingredienti:

Per il pan di Spagna:

  • 6 uova intere
  • 225 g di zucchero semolato
  • 225 g di farina 00

Per la farcitura:

  • 850 g di ricotta
  • 250 g zucchero semolato
  • 150 g di cioccolato fondente a scaglie o a gocce
  • 40 g di pistacchi tritati
  • 250 g di canditi misti: cedro, arancia e ciliegie
  • vaniglia in polvere, cannella in polvere
  • 1 cucchiaio di acqua di fiori d’arancio

Per la glassa:

  • 300 g zucchero a velo
  • 1 albume
  • 3 gocce di succo di limone

Per la copertura:

  • 500 g di pasta di mandorle verde e bianca

Preparazione:

Preparate il pan di Spagna: in una capiente ciotola mettete le uova intere sgusciate e lo zucchero e montate fino ad ottenere una consistenza molto spumosa. Aggiungete la farina setacciata, mescolando delicatamente dal base verso l’alto, un po’ alla volta fino a esaurimento della farina. Fate attenzione a non far smontare le uova. Trasferite in una teglia rettangolare rivestita di carta forno e imburrata ai bordi e cuocete a 185° per almeno 35-40 minuti, fate raffreddare, sformate e tagliatelo a fette di 6 mm di spessore.

Preparate il ripieno: in un pentolino portate a bollore lo zucchero con mezzo bicchiere d’acqua e un po’ di vaniglia in polvere. Mettete la ricotta in una grande ciotola, versatevi sopra lo sciroppo caldo e mescolate con una spatola.

Aggiungere quindi i canditi a pezzetti, prima infarinati e passati al setaccio, l’acqua di fior d’arancio, il cioccolato a scaglie, i pistacchi e la cannella (1-2 pizzichi a piacere).

Mettete in frigorifero a riposare. In un anello da bavarese  da 30-34 cm di diametro, montate la cassata. Mettete sul fondo delle fette di pan di spagna, coprite con la crema di farcitura e terminate con altre fette di pan di spagna. Mettete in frigorifero almeno una notte.

Il giorno dopo, stendete la pasta di mandorle bianca e rivestite il top della torta che avrete sformato dall’anello da bavarese e messo sul piatto di servizio.

Preparate la glassa: mescolate con una frusta l’albume con lo zucchero a velo e aggiungetevi le gocce di limone fino ad avere una glassa fluida ma non troppo. Stendetela sul disco di pasta di mandorle, cercando di renderla più uniforme possibile. Con la pasta di mandorle verde, formate una striscia lunga quanto la torta e alta quanto la torta e fatela aderire al bordo della cassata. Infine, decorate il top con canditi a fette.

Il pasticciaccio linguistico di Gadda

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L’origine dell’uso del termine culinario “pasticcio”, alla francese “pastiche”, in ambito letterario nasce probabilmente, come in quello musicale, già a partire dal XVII secolo, quando, oltre alle realizzazioni tipiche della musica barocca, gli esercizi di imitazione nella scrittura, detti “à la manière de”, offrivano la possibilità di esercitarsi, sfruttando una maniera letteraria già nota, per farsi conoscere, realizzando combinazioni di testi pre-esistenti più o meno citati che portavano a situazioni narrative nuove. D’altronde cos’è un pasticcio, se non una nuova ed appetibile pietanza, ottenuta però riciclando vecchi ingredienti già posseduti?

Anche nel XVIII secolo, nella famosa “Encyclopédie” illuminista, si parlerà così di “pastiche” come di un qualcosa che risulta né originale né copia.

E per oltre un secolo, fino agli inizi del Novecento, di “pastiche”, soprattutto satiricamente connotati, in cui gli autori fanno dell’imitazione riconoscibile degli stili di altri autori un motivo non solo d’esercizio mondano ma anche di gioco parodistico, se ne sono contati molti, sin da quando nel 1787 Jean-François Marmontel codificherà la tecnica del pasticcio letterario: dai “pastiche” di Leopardi, a quelli di Proust, fino agli “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, che faranno del “pastiche” un elemento caratteristico della letteratura postmoderna, in cui fondamentale appare l’apertura del testo attraverso forme differenti di intertestualità ed esplicite relazioni di un testo con altri testi.

Ecco allora che nel 1934, recensendo su “Solaria” il “Castello di Udine” di Carlo Emilio Gadda, all’amico Gianfranco Contini, all’epoca giovane filologo, verrà facile, parlando dello stile particolare dell’autore, riconoscere in lui la vocazione del “pastiche”, evidenziando l’imitazione di parlate diverse e la commistione di linguaggi tecnici, arcaismi e trasposizioni di dialetti, definendo così brillantemente la scrittura di Gadda come una combinazione “di risentimento, di passione e di nevrastenia”. Ed aprendo ad una nuova, aggiuntiva, connotazione il termine “pasticcio”, che da letterario diventa anche linguistico.

E sul pasticcio Gadda evidentemente converrà, visto che nel 1957 la sua realizzazione più tipizzante è infatti il romanzo intitolato “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, vero e proprio trionfo di un “pastiche” ben diverso da quello nato in epoca barocca come echeggiamento di stili e modelli letterari, ora invece da intendersi anche a livello plurilinguistico e/o multilinguistico.

Con Carlo Emilio Gadda la lingua italiana, a livello letterario e sperimentale, subisce un’artificiosa modificazione genetica destinata, ad un livello più basso, a trionfare decenni dopo su altri mezzi di comunicazione di massa, come soprattutto la radio.

All’origine l’obiettivo dello scrittore era però chiaramente quello di evidenziare la profonda ipocrisia sottesa alla realtà dello stile di vita della borghesia a lui contemporanea, giocando su un tono sarcastico impietoso e corrosivo, con un linguaggio sferzante ed innovativo, costruito attraverso una miscellanea di strutture dialettali (in parte lombarde, in parte toscane e in parte laziali) unite a termini della lingua colta e ad espressioni e modi del linguaggio scientifico, filosofico e burocratico; costringendo anche i registri stilistici a continui mutamenti, fondendoli in un particolare ed efficace melting pot linguistico, che – seppur spesso di non agevole lettura – appare sempre in grado di produrre nel lettore effetti sbalorditivi: i repentini ed improvvisi passaggi dal sublime al comico, dal tragico al patetico, dal sarcastico al grottesco, colgono infatti sempre di sorpresa anche il lettore più avvertito.

Ma la sperimentazione linguistica non è fine a se stessa: la sua lingua caleidoscopica, soprattutto nel “Pasticciaccio”, serve a mettere a nudo la meschinità e la bruttezza del mondo, attraverso la scoperta della falsità e dell’ipocrisia che dominano la società e che solo apparentemente costituiscono la realtà quotidiana. Carlo Emilio Gadda vuole scardinare alle radici quella realtà, utilizzando la sua lingua come una sorta di strumento d’indagine sociale, che alla fine, esploratolo, mette in evidenza del quotidiano la vacuità e la mostruosità, che si celano dietro apparenze solo di comodo. Un mondo che Gadda non accetta e non legittima, e che perciò scientemente e polemicamente deforma e mistifica, proprio con la sua lingua. Interpretando in modo molto personale il filone realistico, con un linguaggio frammentato che riproduce il disordine della realtà, riportando spesso brani di conversazione, modi di dire, frasi fatte, ha quindi lo scopo ultimo di mettere in luce l’irrazionalità e la fondamentale stupidità del mondo nel quale vive.

Gadda, d’altronde, della sua epoca, anche per la sua stessa esperienza biografica, non era riuscito ad avere una percezione positiva. Nato a Milano il 14 novembre 1893, da un famiglia di buona borghesia, originaria dalla provincia di Varese, era stato infatti fin da adolescente presto costretto, dalla progressiva crisi economica per investimenti sbagliati da parte del padre Francesco Ippolito (indebitatosi nella coltivazione dei bachi da seta e, soprattutto, per l’edificazione di una villa a Longone al Segrino), a lasciare gli studi liceali, iniziati al prestigioso “Parini”, per iscriversi – spinto ossessivamente dalla madre Adele Lehr – all’Istituto Tecnico Superiore di Milano, quello che poi sarebbe divenuto il futuro Politecnico. Ma, interrotti gli studi per la leva militare nel 1915, fatto prigioniero nella rotta di Caporetto e deportato in Germania, al rientro a casa, drammaticamente informato della morte al fronte del fratello Enrico in un incidente aereo, riprenderà gli studi universitari, accoppiando all’ingegneria anche la filosofia, per poi, una volta laureatosi ingegnere, intraprendere una serie di viaggi professionali che lo portano, nei primi anni Venti, in Sardegna, in Sudamerica, nel Belgio, nella Ruhr e in Lorena: solo al suo rientro in Italia inizierà a dedicarsi seriamente alla letteratura, intessendo fitti rapporti con gli scrittori e gli intellettuali del tempo, in particolar modo con quelli del gruppo della rivista fiorentina “Solaria”, cioè i vari Bonsanti, Montale, Falqui e Bacchelli. Dal 1950 a Roma, lavorerà poi stabilmente ai programmi radiofonici della RAI, continuando a dedicarsi ai suoi progetti letterari, che vedranno nei due romanzi “La cognizione del dolore” e “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” gli esiti più significativi.

Parlando con Folco Terzani: “Mio padre, il mio maestro”

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Ci incontriamo a Firenze. Folco mi viene incontro scalzo, sorridente e gentile. Un attimo dopo mi fa entrare in un soggiorno accogliente, pieno di libri. Lì, sotto l’occhio attento di un piccolo Buddha, affondando piacevolmente in una poltrona morbida e bevendo un tè verde, parlo con Folco Terzani di suo padre, della scrittura e della divinità nascosta nella natura. 

MIO PADRE, TIZIANO

Folco Terzani, documentarista, scrittore e sceneggiatore, è figlio del famoso giornalista-scrittore italiano e corrispondente per Der Spiegel dall’Asia, Tiziano Terzani, che affascinò il mondo anche attraverso la scelta di un meraviglioso viaggio dentro di sé alla fine della sua vita. Tiziano, noto anche ai lettori polacchi, ha documentato la propria trasformazione interiore nei libri “Un altro giro di giostra”, “Le lettere contro la guerra” e nel libro-testamento “La fine è il mio inizio”, pubblicato ormai a cura del figlio.

Come era Tiziano Terzani nelle vesti di padre?

Era difficile perché era un personaggio. Mia madre dice che da quando è morto non ha più trovato un’altra persona così interessante con cui parlare. Non si tratta solo di una questione di intelligenza ma proprio di una fenomenale comprensione delle cose. E poi quando una persona del genere viene a mancare, ti accorgi che la conversazione con gli altri è completamente su un altro livello. Quando penso a mio padre, vedo subito una persona molto forte. Sicuro di sé e della propria vita. Nessuno era sopra di lui e nessuno lo comandava. Nemmeno quando ha incontrato Dalai Lama, non ha chinato la testa, era sempre lui a dominare la situazione. 

Nel libro postumo di tuo padre, da te curato, “La fine è il mio inizio”, Tiziano dice: “È come se con queste nostre chiacchierate io avessi voluto lasciare a te una sorta di viatico”. Per te invece cosa hanno rappresentato quelle ultime conversazioni? 

Una straordinaria occasione di fargli tutte le domande che volevo. Uno non si immagina che gli ultimi mesi di un rapporto con un genitore possano essere belli. E noi invece siamo stati bene. Ci siamo divertiti a parlare della vita e guardarla come un meraviglioso ciclo che continua in eterno. Lui mi passava il meglio di sé stesso e io cercavo di prenderlo e portarlo avanti come una staffetta di vita. A volte i dottori dicevano: “Non si preoccupi”, e lui rispondeva: “No, tu non ti preoccupare per me, io so come vanno le cose. Lo so che muoio e state tutti zitti e fate come dico io”. E aveva ragione lui, perché stava morendo. E io gli ho fatto tutte le domande di cui sentivo il bisogno, poi ha smesso di parlare per due giorni e quindi è morto. Si è svolto tutto con un’incredibile precisione. Se n’è andato dove voleva, quando voleva, con le persone che voleva intorno a sé. Una vicenda che sembra un po’ miracolosa ma in realtà si tratta di un approccio alla vita e alla morte che un tempo molte persone avevano. È importante avere consapevolezza di sé stessi, non devi per forza praticare la meditazione o essere una persona spirituale, importante è non avere la testa persa in mille altre irrilevanti cose intorno, bisogna vivere nel presente. 

Tiziano ha fatto un percorso straordinario di trasformazione, partendo dai reportage di guerra, finendo con uno spirituale messaggio di pace. Il suo modo di vedere la vita quanto ti ha influenzato?

In verità alla spiritualità ero più interessato io di lui. Quando sono andato a lavorare a Calcutta da Madre Teresa, lui diceva: “Sì, sì, vai, è interessantissimo. Però non buttarti dentro la minestra, assaggiala e vai via”. Lui era un giornalista e in questo lavoro devi avere la capacità di trattare temi completamente diversi, ovvero assaggi una minestra poi ne scrivi e passi ad assaggiarne un’altra, insomma conosci tante storie di vita. Gli ho risposto: “Ma se questa minestra è la più buona che abbia mai mangiato, allora non ho più ragioni a continuare ad andare in giro, mi fermo qui”. Lui rimase sorpreso, perché all’epoca da giornalista guardava alla vita in modo diverso, non era ancora interessato alla spiritualità. Per cui mi ha stupito quando poi ha sviluppato un approccio così filosofico tale da diventare uno dei miei più importanti maestri di vita. Ero curioso di quella trasformazione. Infatti la prima domanda che gli ho fatto nel libro “La fine è il mio inizio” era: “Ma tu davvero non hai paura di morire?”. Era un uomo talmente forte e deciso che quando faceva le cose, era come fosse un uragano. Credo abbia fatto un percorso così complesso in pochissimo tempo anche perché sentiva la minaccia della morte. Poi alla fine diceva che la malattia era diventata quasi una sua amica (sorride).

Qual è il ricordo più forte di tuo padre?

La sua fine. Perché mentre il suo corpo diventava sempre più debole, lui era sempre più lucido e forte. Ha saputo andare verso la morte come un guerriero, sereno, tranquillo, dicendo che era più interessato a quello che c’era dall’altra parte, invece di quello che aveva già visto qua. Mi ha stupito quando ha detto: “Sai, non mi interessa più questo mondo perché lo conosco già. Quel generale l’ho visto già 50 anni fa. Non è lo stesso generale ma è lo stesso tipo di uomo che dice le stesse bugie. Ho visto le stesse guerre per gli stessi ideali. Ed anche se può sembrare che sono delle guerre diverse, in realtà si lotta per gli stessi valori di sempre: per l’uguaglianza e per la giustizia. Ho visto queste cose, le conosco, non le voglio più vedere perché sono anche tremende. Sono più curioso di vedere cosa c’è dall’altra parte”. Sono frasi straordinarie, toccanti, per me indimenticabili. Il libro “La fine è il mio inizio” è un bel testamento. Proprio come voleva lui. 

IL MONDO

Folco, nato a New York, ha passato l’infanzia in vari paesi asiatici: Singapore, Thailandia, India, Cina e Giappone, seguendo insieme alla famiglia i passi del padre. Il soggiorno in cui parliamo, racconta le storie dei diversi viaggi compiuti, ed io decido di porre a Folco una domanda simile a quella che lui aveva fatto a suo padre: cosa vedi quando guardi il mondo?

Ho visto parecchio e sono interessato a come si sviluppa il mondo. Mi muovo spesso tra gli Stati Uniti, l’Europa e l’India. Sono tre poli molto importanti per me per capire come vanno le cose. Gli Stati Uniti è un paese rivolto alla crescita, al futuro ed all’innovazione. Poi c’è l’India dove ho vissuto molto, conoscendo la sua antica cultura ed i valori eterni custoditi soprattutto nelle montagne, i quali nelle città piano piano stanno sparendo. I valori opposti sono fortissimi. Per esempio mi viene in mente la bramosia dei cinesi nel far soldi. Loro credono profondamente nel materialismo! E poi c’è quest’Europa interessante che sta nel mezzo, avendo nello stesso tempo degli antichissimi tesori culturali, che continuano a parlarti, e la modernità. Credo che ci sia già la stanchezza della corsa verso il materialismo. Non so come siano i valori nei paesi dell’est d’Europa. Vorrei conoscere meglio la Polonia. Diciamo che voi avete incominciato quel percorso più tardi, da quando è caduto il comunismo. Siete però secondo me più freschi a comprendere le nuove idee ed a portarle avanti. E la varietà delle posizioni nei vari paesi europei credo sia un’opportunità per continuare a crescere in una direzione giusta.

Alla fine della sua vita, tuo padre si è ritirato per tre anni nell’Himalaya rivolgendo la sua attenzione verso la natura e sentendosi un tutt’uno con il mondo. Tu sei legato in un modo simile ad un luogo particolare?

(sorride)

La montagna pistoiese dove mio padre ha scelto di morire. Lì sei sulla frontiera con la natura, c’è un continuo scambio con gli animali. Come mai la montagna? Perché là trovi i tuoi spazi di solitudine. Un posto che per molti anni non era considerato e che ora piano piano viene valorizzato da una nuova consapevolezza verso il valore che ha la relazione con la nostra grande madre terra. A proposito, a volte ci passano dei polacchi e sono delle brave persone, perché chi arriva fino a lì, di solito è una brava persona. 

LO SCRIVERE

Con Folco mi incontro proprio il giorno prima dell’uscita del suo nuovo libro che leggo tutto d’un fiato in una sera (“Sei la prima!”, dice). Il libro, assicura Folco, probabilmente uscirà anche nelle librerie polacche. “Il Cane, il Lupo e Dio” è un racconto commovente, rivolto ad un lettore attento, sulla vita, sul valore della natura e sul senso del divino.

Finora i tuoi film e libri erano dei documentari. Com’è nata l’idea di scrivere una fiaba? È un libro universale adatto da 6 fino a 106 anni. 

Brava, esattamente quello! Mi hai dato la risposta giusta! 

(ridiamo)

I protagonisti del libro sono gli animali, ma metaforicamente descrivi un percorso di vita di un individuo che ha molta fiducia in Dio. Secondo te, oggigiorno è necessario recuperare i valori spirituali? 

Sì. All’università leggevo tantissimo e nel tempo mi sono reso conto che le persone di cultura spesso non sono migliori di quelle più semplici che vivono in sintonia con la natura. Mio padre ha scelto di morire in montagna ed il suo migliore amico era un contadino. Molti si stupivano ma era così. Ed i bambini, come i vecchi, sono molto attenti alla natura. Sono aperti, ascoltano e mi è venuta voglia di parlare con loro. C’era sempre il problema su come trattare il tema del divino senza toccare i capisaldi delle religioni e senza rischiare una deriva New Age. Parlare tramite gli animali mi è sembrata la cosa migliore perché essi non hanno le nostre strutture mentali, però anche loro avranno un senso spirituale di qualcosa più grande che comunica attraverso la natura.

Il messaggio più importante che vorresti trasmettere ai tuoi lettori?

Avere il coraggio di uscire dagli schemi umani e vedere che c’è qualcosa di molto più grande. Rendiamoci conto che siamo parte di una storia lunghissima, di un immenso movimento. Ripensiamoci ed abbiamo il coraggio di fare un percorso di vita in cui crediamo, per poi poter dire che abbiamo dato un senso alla nostra esistenza, come ha potuto dirlo mio padre.

Bologna a piedi: Santuario della Madonna di San Luca

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Se almeno una volta avete avuto possibilità di visitare Bologna, sicuramente avete notato un edificio caratteristico di una facciata arancione che domina sulla città. E non importa se veniamo in treno, in autobus o in aereo, il Santuario della Madonna di San Luca è il primo edificio che ci dà il benvenuto una volta arrivati nel capoluogo dell’Emilia-Romagna. 

Una lunga passeggiata sopra i tetti bolognesi

Il Santuario, a cui conduce un tratto di 666 (sì!) portici, fu costruito su una delle colline che circondano la città. Per questo una passeggiata per più di 3 chilometri per raggiungere il santuario è un pellegrinaggio, che dovrebbe essere intrapreso almeno una volta da ognuno che visita Bologna. La costruzione dei portici sulla collina che porta al santuario ebbe inizio negli anni 70 del XVII secolo. Il progetto di costruzione passava di mano in mano di diversi architetti, fino alla prima metà del XVIII secolo, quando i lavori vennero terminati.  Da secoli il santuario costituisce una meta per molti pellegrini che desiderano ammirare la famosa icona della Vergine col Bambino. Attualmente è possibile arrivarci anche in macchina, però questa soluzione non sembra piuttosto la migliore, se possiamo goderci di una lunga passeggiata, osservando come la città dietro le nostre spalle diventa sempre più piccola e lontana, fino al momento in cui potremo ammirare tutto il panorama di essa. 

Un’oasi verde

In una giornata serena, i raggi del sole arrivano attraverso gli archi dei portici e riscaldano i passanti diretti verso la collina. Invece una piacevole freschezza dei muri porta un rinfrescamento a tutti coloro che hanno deciso di fare il jogging sui colli bolognesi. D’autunno i portici proteggono i passanti dal vento e da una calda pioggia bolognese, ed una vola arrivati sulla cima,  lo sforzo della salita viene ripagato da un bel panorama: da una parte del verde dell’Emilia-Romagna, dall’altra: dei rossi tetti della cicciottella bolognese. Piccolo giardino di fronte al santuario, dove sulle coperte stanno sdraiati gli abitanti della città, sembra essere un luogo di incontro, un piccolo soggiorno in mezzo alla natura, una tranquilla oasi verde sollevata sopra i muri afosi della città riscaldati dal fervore umano. 

Davanti al tempio c’è un’atmosfera di un magico silenzio rilassante. La passeggiata sotto i portici favorisce la serena contemplazione, nella quale cadono spesso i passanti, quando durante una pausa si siedono o si appoggiano sugli archi e guardano il panorama della città, nascosto dietro le corone degli alberi. Dall’alto Bologna sembra tranquilla e di color mattone. Solamente da lontano, nell’aria, risuona un rumore di un aereo che atterra. 

Informazioni pratiche: 

  • Se avete voglia di intraprendere la passeggiata a piedi fino al santuario, potete cominciarla dalla Porta Saragozza da dove parte il più lungo tratto di portici, oppure da via Meloncello (per arrivarci vi consiglio di prendere l’autobus 94, che passa in via dei Mille, con cui arriverete direttamente in via Meloncello).

Parole da buttare (prima parte)

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Ognuno di noi ha delle parole che per qualche motivo non ama particolarmente, o preferisce non sentire, o addirittura non sopporta. A volte si tratta di neologismi non ancora registrati dai dizionari, oppure di tormentoni diffusi da mode più o meno passeggere o di vezzi (o vizi) linguistici che poi diventano popolari grazie ai mass media.

In ogni caso, stando ad alcuni sondaggi, ci sono delle parole particolarmente invise un po’ a tutti gli italiani. Vediamone alcune: 

  1. E QUANT’ALTRO

L’espressione e quant’altro, diffusa fin dagli anni Ottanta (registrata dallo Zingarelli dal 1994, dal DISC dal 2004), ma divenuta popolare solo negli ultimi anni, viene usata in chiusura di frase col valore di “e così via, eccetera” (in un registro più colloquiale si userebbe “e compagnia bella”). Probabilmente è una semplificazione della formula conclusiva, tipica del linguaggio burocratico, e/o quant’altro ritenuto utile/necessario, con perdita dell’elemento verbale. Questo uso ellittico dell’espressione crea un senso di sospensione, di inespresso che generalmente infastidisce.

  1. ASSOLUTAMENTE SÌ/ASSOLUTAMENTE NO

L’avverbio assolutamente ha valenza neutra: può avere valore affermativo o negativo a seconda del contesto e dell’intonazione con cui lo pronunciamo: “Sei d’accordo con me?” “Assolutamente!” (affermativo); “Non sei d’accordo con me?” “Assolutamente!” (negativo) e in questo caso i sinonimi sono del tutto, in assoluto, totalmente (GRADIT 1999-2000).

Il grande linguista Luca Serianni  fa notare che l’uso positivo di assolutamente (assolutamente sì) potrebbe risentire dell’inglese absolutely (usato come avverbio affermativo, che sarebbe più naturale tradurre con certamente).

Negli ultimi anni l’uso di assolutamente si è intensificato: l’uso (e abuso) isolato di questo avverbio era una caratteristica (ripresa poi da trasmissioni satiriche) del parlato di uno dei protagonisti della trasmissione televisiva Grande Fratello 2003 (È vero? Assolutamente; Sei d’accordo? Assolutamente; Ti piace? Assolutamente). Nel parlato la gestualità e l’intonazione fanno sì che non ci siano fraintendimenti (Nello scambio di battute Non ti piace? Assolutamente il secondo interlocutore avrà voluto esprimere totale accordo o disaccordo?). Anche i media ricorrono spesso (anzi, ne abusano) all’avverbio assolutamente in unione con sì o no e questo rientra nella tendenza generale all’uso di un linguaggio iperbolico e aggressivo (come si può notare nei telegiornali). 

  1. UN ATTIMINO

Attimo significa frazione di tempo e deriva dal greco atomos, quantità indivisibile. Per questo motivo la parola attimino, che dal punto di vista morfologico è un diminutivo, formato con l’aggiunta del suffisso -ino, non ha molto senso a livello logico, perché attimo indica già la più breve e indivisibile frazione di tempo. A partire dagli anni Ottanta, l’attimino si insinua tenacemente nelle conversazioni e rientra nell’uso, oggi frequente nell’italiano parlato-colloquiale, di diminutivi con valore attenuativo, di cortesia (aspetti un momentino) o di disimpegno nell’affermazione (Berruto). Successivamente, l’attimino ha esteso il suo valore semantico: da esclusivamente temporale ha assunto valore di qualità/modalità, nel significato di un po’ (sono un attimino stanca, aggiungiamo un attimino di sale…). E quest’uso di attimino modale-qualitativo resta, per il momento, fortemente avversato dai linguisti.

  1. PIUTTOSTO CHE

E come dimenticare il famigerato piuttosto che usato con valore disgiuntivo inclusivo (“o l’uno o l’altro, o anche entrambi”), anziché col valore disgiuntivo esclusivo previsto dalla norma linguistica (“o l’uno o l’altro, ma non entrambi”).

Il significato corretto di piuttosto che è invece di (Piuttosto che andare al cinema, faresti meglio a studiare = Invece di andare al cinema faresti meglio a studiare, cioè puoi fare solo una cosa), ma negli ultimi anni si è diffuso l’uso – scorretto – di piuttosto che nel significato di o, oppure (Puoi andare al cinema piuttosto che guardare un film in tv piuttosto che leggere qualcosa = Puoi andare al cinema o guardare un film in tv o leggere qualcosa, cioè puoi fare indifferentemente una o l’altra cosa). Piuttosto che può anche essere usato – correttamente – nel senso di pur di non (Piuttosto che rivelare il segreto si farebbe ammazzare = Pur di non rivelare il segreto, si farebbe ammazzare). L’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo inclusivo è stato studiato da vari da vari linguisti a cavallo del 2000 e sembrava una moda di origine settentrionale, milanese, in particolare, circoscritta ad alcuni registri (come quello economico-finanziario) e venata di snobismo. Ma l’uso e abuso in televisione del piuttosto che disgiuntivo inclusivo hanno portato, negli ultimi dieci anni, a “sdoganarlo” non solo nel parlato, anche nello scritto. Quest’uso è ancora (fortunatamente) fortemente avversato da molti (linguisti e non) e a difesa dell’uso corretto del piuttosto che si possono trovare in rete video, canzoni, pagine Facebook (in particolare quella del FLPC – Fronte di Liberazione dal Piuttosto che).

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Vino e letteratura (p. II)

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Parte I: clicca qui

A conferma dell’amore che gli antichi nutrivano per il vino, basti pensare al fatto che molti si dichiaravano certi fosse stata la sua scoperta a rendere l’uomo un essere evoluto, capace di rapporti sociali.
Il vino, insomma, è da sempre stato considerato un bene prezioso, al punto che presso certi popoli soltanto i nobili (e i ricchi) avevano il privilegio di gustarlo. A conferma di questa sua importanza “materiale” c’è anche uno dei più antichi documenti conosciuti: il codice di Hammurabi in cui si trovano precise disposizioni sul commercio e la vendita del vino. Tale era il valore riconosciutogli, che il vino costituiva l’elemento fondamentale nelle cerimonie in onore degli dei o di luoghi ritenuti loro dimora.

Distillato del sole, frutto gioioso della terra profonda, il vino rende lieve e felice la dura vita del contadino. Per questo sono ricorrenti le preghiere agli dei perché proteggano i preziosi grappoli; nel romano Lustrum ambarvale si invoca Marte con questa formula: ”Deh, tu i frumenti ed i frutti, i vigneti ed i virgulti fu che crescano e vengano su bene”.
Considerato un amico che risolleva dagli affanni, il vino è in grado di rendere meno ostile l’avversa natura e rasserenare la visione della vita.

Al tempo stesso, sotto l’effetto del vino aumenta l’umana disposizione alla riflessione esistenziale, e finalmente liberi dai vincoli psicologici che la società pone al nostro pensiero, possiamo contemplare con occhi nuovi il mondo intorno, seguendo almeno per qualche attimo le orme di Faust, presi dalla baudeleriana “Anima del vino”.

La nascita del vino

Risalire precisamente alla data di nascita del vino è praticamente impossibile in quanto la storia delle bevande fermentate ha inizio in tempi che non hanno lasciato dietro di loro documenti o tracce sicure e valide. I primi documenti che attestano la presenza del vino in quanto tale risalgono alla fine del IV millennio a.C. nella città di Sumer nella Mesopotamia meridionale. Sono stati appunto i Sumeri a fornire le prime tracce dell’esistenza della bevanda.

Il vino viene nominato per la prima volta tra i simboli cuneiformi che componevano l’“Epopea di Gilgamesh”, opera letteraria narrante le vicende di Gilgamesh di Uruk, primo eroe della letteratura scritta del Terzo Millennio avanti Cristo.

Del vino si può avere una visione più precisa se andando avanti nel tempo, e precisamente tra il X e VIII secolo a.C., ci si sofferma ad analizzare le parole di due personaggi, due grandi poeti o meglio ancora i primi due grandi poeti: Omero ed Esiodo di Ascra. Grazie ad Omero si riescono ad avere importanti informazioni riguardanti l’utilizzo e l’importanza del vino nell’Antica Grecia per quanto scritto tra le pagine dell’Odissea. Si può, infatti, con certezza risalire alle abitudini alimentari dei greci di quell’epoca.
Avevano una precisa divisione dei pasti durante tutto l’arco della giornata, precisamente sappiamo che i pasti durante tutto il giorno erano tre: l’ariston, consumato di primo mattino dove erano presenti sulla tavola pane e vino. ”Eumeo servendo sul tagliere le carni arrosto avanzate dalla sera, si affrettò ad ammucchiare nelle ceste il pane di frumento ed a mescere nella coppa un vino profumato di miele”. (Odissea XVI, 48-50).
Gli altri due pasti il deiphon e il dorpon corrispondono a pranzo e cena e come ovvio era in questi due pasti che avveniva il principale consumo della bevanda.

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