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Morawiecki a favore delle sanzioni contro le autorità bielorusse
A Lublino è stata avviata la produzione del farmaco per il COVID-19
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Niente tamponi e nessuna quarantena per chi torna dall’estero
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L’ambasciatore di Israele su Giovanni Paolo II
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Luigi Pagano: “L’ispirazione è il divino, è Dio che tira fuori l’arte. Noi siamo solo dei mezzi.”
Musicista, anima zingara, napoletano, così si definisce il cantautore italiano Luigi Pagano. Il suo spirito vagabondo, curioso del mondo, lo ha portato nel corso della vita in diverse lontane regioni, soprattutto del Medio Oriente, dove ha cantato per più di 20 anni nei jazz club. Attualmente Luigi è residente in Polonia, terra madre di sua moglie, un paese a cui ha subito sentito di appartenere e dove ora, con la sua musica, incanta il pubblico polacco.
“Amo l’originalità. Tutti quanti possiamo fare musica, ma quanti di noi sono veramente originali? Per non essere una meteora che passa, brilla e sparisce bisogna avere una base forte, studio, disciplina, talento e ispirazione.”
K.R.: Come è nato il tuo amore per la musica?
L.P.: Nella mia famiglia quasi tutti hanno una grande passione per la musica. Però il ruolo più importante lo ha giocato mio fratello, più grande di me di dieci anni, che ascoltava ai suoi tempi gruppi come Pink Floyd e Deep Purple. Io ero più attratto dal jazz e per questo motivo ho deciso di studiarlo. Il mio idolo è stato Frank Sinatra. Non ricordo esattamente nè quando è nato il mio amore per la musica, nè quando ho preso per la prima volta una chitarra in mano, come un bambino che non riesce a richiamare alla memoria il momento in cui ha cominciato a parlare.
Possiamo dire che suoni “da sempre”?
Esatto. Già a 15 o 16 anni ho cominciato a occuparmi professionalmente della musica. Suonavo durante le feste a Napoli, addirittura ero minorenne quando ho fatto il primo contratto in Svizzera. Però grazie al fatto che lavoravo con un pianista di una certa età e alla firma di mio padre sono riuscito a suonare fino all’una di notte. Era un periodo in cui studiavo e suonavo. Poi quando mi sono diplomato il mio maestro dell’accademia mi ha detto “sei pronto per fare una bella esperienza all’estero” e mi ha dato un numero di telefono. Ho telefonato e mandato una cassetta ad un impresario di Milano e dopo una settimana ho ottenuto un contratto in Oman. Lì ho conosciuto mia moglie Agnieszka. Lei allora cantava con la band del mio bassista, Mirek Trębski. Con mia moglie abbiamo formato un duo, suonando per 20 anni negli alberghi e in TV tra Dubai, Maldive, Kuwait, Austria, Svizzera.
Quando avete deciso di trasferirvi in Polonia?
Per la prima volta sono venuto in Polonia 20 anni fa ed ho avvertito come un flash back, un’impressione di déjà vu. Ho sentito subito di appartenere alla Polonia, percepivo un certo richiamo verso questo paese e ho deciso di costruire la casa dove viviamo oggi. Possiamo dire che è stata mia la decisione di venire a vivere qui, e finora non ho rimpianti. Ormai siamo fissi in Polonia da 4 anni. A dire il vero volevamo venire in Polonia per “andare in pensione”, per fermarci un po’, crescere il nostro bambino. Anzi, volevo aprire un ristorante!
Però il destino è stato più forte e continui a dare i concerti. Com’è iniziata la tua carriera nel mondo della musica qui in Polonia?
La musica da sempre era un uragano che mi attirava. Un giorno una grande azienda di Varsavia che vendeva ceramiche ha organizzato un banchetto ed il proprietario voleva assolutamente che io cantassi. Ci ho pensato prima di accettare la proposta perché non ho mai cantato per fare soldi o per fare carriera, semplicemente amo farlo. Al banchetto era presente anche un mio ex chitarrista che è un grande amico di Robert Janowski che allora conduceva lo show “Jaka to melodia?”. Janowski dopo avermi sentito mi invita a casa per farmi cantare una serenata per sua moglie per San Valentino. Nei giorni successivi è venuto anche a sentire uno dei miei concerti e dopo lo spettacolo mi ha preso a parte e ha detto: “Farei di tutto per portarti nel programma Jaka to melodia!”. Da allora ho formato una band acustica con la quale giro la Polonia. Cantiamo soprattutto le canzoni napoletane e le mie composizioni. Se c’è bisogno faccio anche “wloskie przeboje”, le canzoni italiane che i polacchi conoscono. Però io sono un napoletano e vado in giro con il mio “essere napoletano”. E questa testardaggine artistica mi sta premiando perché faccio molti concerti, anche nella televisione polacca (Wielki Test, Dzień dobry TVN). Ho appena registrato il mio primo CD da cantautore.
Tra le tue collaborazioni in Polonia quale consideri la più importante?
Qualche anno fa, durante il Campionato europeo di calcio a Parigi, mentre ero a pranzo con l’allenatore Nawałka è nata l’idea di scrivere una canzone per la nazionale polacca. Ho scritto un brano intitolato Polska, la traduzione in polacco è stata fatta da Paolo Cozza con cui l’ho cantata. È una canzone molto patriottica anche se è stata scritta da un italiano. Inoltre, ho cantato al Teatr Palladium con Halina Benedyk in occasione del concerto di beneficenza per le vittime del terremoto di Amatrice. Se parliamo di duetti con i polacchi, la prima nel mio cuore e nei miei pensieri è Izabela Trojanowska. Ci siamo conosciuti durante una conferenza stampa nel corso del festival di Lublino, Europejski Festiwal Smaku (2017), dove c’erano anche Stefano Terrazzino, Al Bano e Romina Power e Drupi. Abbiamo registrato due canzoni, Mambo italiano e Amore, e devo dire la verità, Izabela canta in italiano meglio di un italiano. È fantastica! Anche adesso ci capita di fare concerti insieme.
Come mai ai polacchi piace così tanto la musica italiana?
Una volta ero in un ristorante al centro di Varsavia con Stanislaw Sojka, che ho conosciuto durante uno dei miei concerti in uno dei locali che lui frequenta spesso. E quella volta al ristorante ha detto una cosa che ritengo giusta: “voi italiani siete maestri nel combinare armonia e melodia. Anche tramite gli accordi strani, riuscite ad ottenere una linea melodica molto bella”. Infatti i polacchi amano la melodia. E non sono d’accordo con chi dice che i polacchi vogliono sentire solamente “włoskie przeboje”. I polacchi vogliono una buona musica. La maggior parte di voi è cresciuta con almeno uno strumento in famiglia. I polacchi non fanno differenza fra la canzoni napoletane e italiane. Per loro il napoletano è l’italiano, gli fa piacere ascoltarlo.
Ti definiresti artista-cantante?
Prima di tutto non mi ritengo un cantante, piuttosto un musicista. Mi piace stare vicino al pubblico e respirare le emozioni della gente. Per questo motivo amo esibirmi nei club privati, locali piccoli dove viene la gente che ti dà soddisfazione perché ti conosce, ti segue e le piace quello che fai. I miei sono ritmi zingari, compongo canzoni napoletane ma con un tocco zingaro, mediterraneo. Amo il deserto, verso cui provo un amore quasi paragonabile alla mia Napoli. Non amo molto le città grandi. Infatti tutte le volte che faccio un concerto in qualche città polacca poi torno sempre a casa, anche se mi danno una stanza in albergo. Ho un’anima molto vagabonda però ad un certo punto della vita arriva un momento in cui si preferisce semplicemente tornare a casa. Trovo ispirazione e pace solo nel deserto oppure davanti al mare o in campagna. Ma in fondo credo che non siamo noi che abbiamo l’ispirazione. L’ispirazione è il divino, è Dio che entra in una persona e tira fuori l’arte. Noi siamo solo dei mezzi.
foto: Gosia i Jacek Klepaczka
Al Bano: la “Felicità” nel bicchiere
L’articolo è stato pubblicato sul numero 73 della Gazzetta Italia (febbraio-marzo 2019)
Abbiamo incontrato Al Bano Carrisi, icona della musica italiana nel mondo, al Ristorante San Lorenzo di Varsavia in occasione della sua ultima tournee con Romina Power in Polonia, dove i loro concerti, nella capitale e Danzica, hanno registrato il tutto esaurito. Ma il pranzo al San Lorenzo, alla presenza dell’Ambasciatore italiano in Polonia Aldo Amati, è stata l’occasione per presentare a importatori e ristoratori italiani e polacchi la nuova grande passione di Al Bano: il vino.
L’Azienda vinicola Al Bano, nasce nell’antica masseria di Curti Petrizzi, dove la viticoltura è una tradizione che si tramanda da secoli. I vini Carrisi sono importati in Polonia in esclusiva da Mille Sapori Inalca F&B.
Nel 1982 cantavate “Felicità è un bicchiere di vino con un panino”, oggi “Felicità” ma anche “Nostalgia” e “Romina”, sono degli apprezzati vini.
È un ritorno alle origini. La passione per la produzione vinicola fa parte della storia della mia famiglia da generazioni. È vero che da ragazzo ho fatto il possibile per non seguire la strada di famiglia e neppure i desideri di mia madre che mi voleva vedere sistemato in qualche professione. In testa avevo la musica e mi sono lasciato tutto alle spalle. Ma col tempo ho riscoperto la mia terra e l’amore per il vino. Da ragazzo promisi a mio padre “Un giorno tornerò ad occuparmi della produzione vinicola ed il primo vino lo chiamerò con il tuo nome”. Promessa che ho rispettato con il vino Don Carmelo.
Come si vive nei panni di inossidabile ambasciatore della musica italiana?
Non so dare una risposta precisa. Posso solo dire che vivo questo ruolo da oltre 50 anni con piacere e stupore inalterato, è una sensazione che non so definire né spiegare anche perché nella musica come in ogni arte tutto cambia, ogni periodo storico ha la sua musica, e quindi mi rende ancora più orgoglioso il fatto che le mie canzoni continuino ad essere apprezzata in anni in cui il rap e altri generi contemporanei si allontanano molto dalla tradizione melodica italiana.
Dei suoi inizi si ricorda spesso l’incontro con Celentano.
È stata una fortuna conoscerlo, da lui ho imparato moltissimo ed il mio primo contratto discografico lo firmai proprio con il clan Celentano. Ma non meno importante fu l’incontro agli inizi della mia carriera con il grandissimo Domenico Modugno.
La musica italiana è una sorta di password per entrare nei paesi di una Europa che oggi si interroga sulla sua identità.
Sento molte voci preoccupate sull’Europa ma se guardiamo il passato di questo continente sicuramente oggi conviviamo meglio di prima. L’Europa è fatta di tante culture diverse e quindi ci sarà sempre un confronto tra diverse prospettive e valori, tra l’altro neppure gli Stati Uniti sono veramente così uniti come sembra. Dico questo perché bisogna accettare la fluidità dell’evoluzione storica, non esiste un mondo perfetto e completamente unificante.
Torta Linzer
Ingredienti:
- 100 gr nocciole in farina
- 100 gr mandorle non sbucciate in farina
- 200 gr di farina 00
- 130 gr di zucchero semolato
- 8 gr di lievito chimico per dolci
- 2 cucchiaini di cannella in polvere
- 1 pizzico di sale
- la buccia grattugiata di 1 limone
- 1 uovo
- 200 gr di burro a temperatura ambiente
- 300 gr di confettura di lamponi o di ciliegie
Procedimento:
In un mixer, o ciotola se lavorate a mano, inserite la farina di mandorle e nocciole, la farina 00 e di grano saraceno, lo zucchero, il lievito, la cannella, la buccia grattugiata del limone. Mescolate brevemente. Unite l’uovo, il burro a cubetti morbido a temperatura ambiente, lavorate per 1-2 minuti fino ad avere un composto ben amalgamato.
Formate un panetto, avvolgete in pellicola alimentare e mettete in frigo per 2 ore. Imburrate ed infarinate uno stampo a cerniera 22 o 24 cm. Stendete 3/4 d’impasto al suo interno ad uno spessore di circa 1,5 cm, alzate leggermente i bordi. Mettete al centro la confettura lasciando i bordi leggermente liberi, chiudete i bordi verso l’interno. Stendete l’impasto rimasto aiutandovi con un po’ di farina e ricavate tante stelline o formate la classica griglia, posizionatela sulla confettura.
Spennellate solo il bordo della torta con poco uovo sbattuto con il latte, ricoprite con mandorle a lamelle. Mettete in frigo mentre il forno raggiunge la temperatura (in questo modo la torta e le decorazioni manterranno meglio la forma). Cuocere in forno preriscaldato a 160° per 40-45 minuti. Fate raffreddare bene e poi sfornate.
Buon appetito!
Ferrari F50, brutto anatroccolo dalla laguna
A tutti a volte succede di passare una giornataccia, in cui non abbiamo voglia di fare niente e il mondo intorno a noi diventa insostenibile e brutto. Quando mi è capitata una giornata del genere, ho pensato al modello più brutto di tutte le Ferrari. Quindi andiamo avanti e facciamola fi nita! Una forte aspirante per questo titolo potrebbe essere la 410 SA del 1956, una Ferrari con ali Cadillac, terribile!
Fortunatamente l’azienda ha rapidamente abbandonato questo modo di compiacere la clientela americana. Non sono neanche tanto belli i modelli Mondial degli anni Ottanta, così come la Dino 308 GT4 del 1973, anche se è riuscita ad affascinare lo stesso il re del rock and roll Elvis Presley. L’auto è sopravvissuta fino ad oggi ed è esposta al Museo dell’Auto di Graceland. Parlando di Elvis, ricordiamo che l’altra sua auto italiana era la De Tomaso Pantera del 1971 che il Re ha personalmente e letteralmente fucilato quando ostinatamente non voleva mettersi in moto. Qui a parte alcuni bizzarri prototipi Ferrari, il nostro ”Elenco dei modelli brutti” avrebbe potuto essere chiuso [abbastanza bene visto gli oltre 150 modelli usciti negli ultimi 70 anni] se non fosse stato per la F50 del 1995, è questa la macchina che vince o, se preferite, perde la classifica. Per alcuni la F50 che avrebbe dovuto coronare i 50 anni di storia della Ferrari, era uscita troppo presto ovvero due anni prima dell’anniversario ma altri pensano che fosse uscita troppo tardi perché la produzione di redditizi modelli multiserie ne ritardò di due anni la messa in produzione. Un approccio un po’ strano per festeggiare un compleanno, vero?
L’auto il cui ideatore e promotore principale era il figlio di Enzo Ferrari, Piero, sarebbe diventata una degna erede dell’iconica F40. L’auto doveva essere una dimostrazione e una conferma delle capacità tecnologiche e dei risultati ottenuti dalla Ferrari in pista.
Partendo da una costruzione a guscio fatta dai compositi della carrozzeria e terminando con un serbatoio in gomma riunendo per quanto possibile le soluzioni testate in Formula 1; in pratica è stata creata un’auto di F1 che poteva essere guidata su strade ordinarie.
Pininfarina, o meglio il suo designer Pietro Camardella, ha dovuto adattare la forma della carrozzeria alle tecnologie utilizzate e alle esigenze di guida delle vetture designate dai responsabili di progetto. Quindi, questa forma ondulata è stata bucherellata con numerose prese d’aria circolari e i necessari, enormi spoiler da incubo. L’ostentato, il che probabilmente era intenzionale, nell’occasione è diventato insistente il che probabilmente non era stato pianificato. Tuttavia, si trattava di una vettura estremamente veloce che aveva una grande aderenza sulla strada, aveva per l’epoca una potenza di 514 cavalli, anche se sembrava che fosse stata puntata esattamente dallo stesso numero di calabroni. Tutte queste carenze estetiche erano compensate dal suo carattere sportivo: da zero a cento in 3,7 secondi, agile, senza precedenti, era come la divinità di Napoli, Diego Armando Maradona, uno dei primi proprietari della F50, anche se il vero primo acquirente è stato un altro campione, Mike Tyson.
Attenendosi al principio del fondatore Enzo Ferrari secondo cui nel mercato dei beni di lusso la domanda deve sempre superare l’offerta, è stata annunciata la produzione di 350 pezzi. Tuttavia di F50 ne è uscita una in meno dalla catena di montaggio. Chi sia rimasto privo dell’auto ordinata è un segreto aziendale e… di un cliente sfortunato. Tutte le 349 vetture sono state vendute ad acquirenti accuratamente selezionati anche prima dell’inizio della produzione e oltre alla lista ufficiale, sono state prodotte anche altre 6 vetture ordinate dal Sultano del Brunei, e allora a tali clienti non si può dire di no.
La Ferrari è in grado di combinare tecnologia avanzata e prestazioni eccezionali con bellissime linee di carrozzeria. Nel caso della F50 però, questo non è riuscito, l’auto nel tempo non si è affinata, purtroppo non si è trasformata da brutto anatroccolo in un dignitoso cigno, anche se… Presumo che la maggior parte dei nostri lettori abbia visitato la laguna di Venezia [altrimenti, fatelo subito, ma vi prego non una di quelle gigantesche navi da crociera!], ma quando vi chiedo chi ha visitato il centro di questa meravigliosa città in auto, sicuramente non vedrò alcuna mano alzata. Questo non può succedere, a meno che non conosciamo un uomo di nome Livio de Marchi. L’artista veneziano ha costruito a mano una replica in legno della F50, che poi ha fatto galleggiare sul Canal Grande sconvolgendo tutti. Così una macchina il cui profilo è associato con l’onda ascendente e discendente, e nella versione con il tetto rimosso è chiamato ”barchetta” ovvero barca piccola ma ha trovato il suo posto ideale nel paesaggio locale.
Canticchiando sotto il mio naso „Always look on the bright side of life” di Monty Python, sono giunto alla conclusione che oggi la F50 attirerebbe certamente meno attenzione se non fosse… semplicemente una Ferrari rossa.
In conclusione ecco una breve lista delle auto di cui gli italiani non sono fieri e a parte i SUV ”diversamente belli” che hanno recentemente prodotto, abbiamo un’Alfa Romeo Arna [1983] acclamata come la più brutta Alfa di tutti i tempi, Lamborghini Silhouette [1976] che fortunatamente scomparve rapidamente dal mercato, Maserati 5000 GT Touring [1966], diverse copie personalizzate erano tanto lussuose quanto brutte. Lancia Beta Trevi [1980], un aspetto da incubo non è tutto, la stampa inglese ha chiamato il suo cruscotto ”formaggio svizzero”. Il re non incoronato di questo elenco vergognoso è tuttavia la Fiat Multipla I [1997], guardandola i nostri occhi semplicemente soffrono. A proposito, chiedendo perdono, saluto l’amichevole Multipla Club Polonia.
Il modello in scala 1/18 qui presentato è un prodotto dell’azienda italiana Bburago. A causa di quanto scritto sopra, non stavo cercando un’opzione migliore. La Bburago non era sinonimo di buona qualità, anche se devo ammettere che da quando hanno riacquistato la licenza per produrre modelli Ferrari ci stanno lentamente lavorando.
Anni di produzione: 1995-97
Esemplari prodotti: 349 + 6 pezzi
Motore: V-12 65°
Cilindrata: 4698 cm3
Potenza / giri: 514 KM / 8500
Velocità massima: 325 km/h
Accelerazione 0-100 km/h (s): 3,6
Cambio: 6
Massa: 1230 kg
Lunghezza: 4480 mm
Larghezza: 1986 mm
Altezza: 1120 mm
Interasse: 2580 mm
foto: Piotr Bieniek
traduzione it: Karolina Wróblewska
Carlo Sironi, la bellezza del non detto
Lena è incinta ma non vuole o piuttosto non è pronta per diventare madre perciò viene in Italia a vendere la bambina che porta in grembo. Ermanno è un ragazzo della periferia romana che vive di piccoli furti giocandosi poi tutto quello che guadagna alle slot machine. Ermanno decide di aiutare suo zio e la moglie ad ottenere l’affidamento attraverso un’adozione tra parenti e quindi finge di essere padre della bambina. I due sconosciuti si trovano in casa insieme, vivono l’uno accanto all’altro senza bisogno di esteriorizzare niente. Tutte le emozioni rimangono dentro accumulando una massa di questioni irrisolte.
Nonostante i momenti di svolta, che cambiano l’atteggiamento di tutti e due, continuano a trattenere le emozioni non mostrando né attrazione reciproca né tutte la difficoltà della situazione. Apparentemente non succede niente ma in realtà succede tutto, nella loro lotta interiore e nel lento crescendo delle emozioni fino alla loro esplosione finale. “Sole”, il primo lungometraggio del regista romano Carlo Sironi tocca un tema attuale e importante da un punto di vista diverso, delicato e molto intimo.
“La scelta della tematica è venuta un po’ dal desiderio di raccontare il percorso di paternità in un altro modo. Ad un certo punto, per tutta una serie di vicende personali, mi sono chiesto se riuscirei mai a diventare padre di un bambino che biologicamente non è mio? È una scelta molto difficile perché l’imprinting biologico è una cosa fondamentale per un uomo per avere una sorta di immortalità. La cosa buffa di tutto questo è che all’epoca stavo lavorando ad un altro film. Ho solo ipotizzato questo tipo di storia e quando poi mi sono documentato ho capito che è assolutamente reale. Nella ricerca mi ha aiutato molto la presidentessa del Tribunale dei minori di Roma Melita Cavallo che affronta questo tema quotidianamente. È stata una strana sensazione perché l’immaginazione che ho avuto combaciava con la realtà. Ho dovuto solamente scegliere che tipo di film volevo fare: sulla tratta dei neonati, sulle false adozioni, sulla maternità surrogata, su quanto è duro quel mondo? Alla fine ho deciso di raccontare una storia molto intima. Ragionando per contrasto ho scelto di narrare una vicenda che è brutale e molto cruda in una maniera delicata e anzi paradossalmente quasi tenera.”
Dalla tua documentazione risultava che sono proprio le donne dell’est che vengono a vendere i figli in Italia?
Si, ho avuto la fortuna di accedere a delle statistiche che erano state redatte da una ong che si chiama Women East smuggling traffic. Questa organizzazione monitor tutta la migrazione dall’est Europa verso tutta l’Europa dell’ovest. La documentazione conteneva anche il reparto italiano che affrontava il discorso della tratta dei neonati in Italia. Al tempo, e stiamo parlando del 2013, il numero maggiore di donne proveniva dall’Ucraina e dalla Bulgaria. Però fra i paesi dell’est industrialmente molto sviluppati la Polonia risultava la prima e mi hanno spiegato che questo era legato alle restrizioni legislative polacche.
Il tuo modo di raccontare ha qualche ispirazione cinematografica?
Il cinema giapponese è quello che io amo alla follia, soprattutto quello degli anni Cinquanta e Sessanta. Ad esempio Mikio Naruse è un regista che viene sempre dimenticato perché ha iniziato la carriera ancora ai tempi del cinema muto. I suoi film sono ritratti di famiglie, di giovani innamorati, malinconici e molto semplici. Anche se sono molto diversi dal mio film quella malinconia del cinema giapponese mi ha aiutato. Una cosa che mi piace molto del cinema giapponese che cerco un po’ di riportare è il pudore attraverso cui raccontano l’emozione cioè lo sforzo di non mostrarla. In qualche maniera volevo raccontare una storia piena di pudore. Quando ti piace una persona tu non sai in realtà come dirglielo e io cerco di cogliere quel non detto, è questa per me una cosa fondamentale.
È interessante la scelta dei protagonisti, un’attrice professionista straniera con un giovane ragazzo italiano senza nessun esperienza cinematografica, come li hai guidati per farli entrare nei loro ruoli?
Ermanno doveva essere non professionista per essere un po’ inconsapevole di quello che faceva. Un attore avrebbe troppo sottolineando tutte le cose. Lena invece la volevo più sicura con un approccio serio per questo ho scelto un’attrice professionista. Ho visto selftape di tante ragazze da quasi tutta l’Europa dell’est. Sandra subito mi è piaciuta tantissimo, già me la immaginavo nel film prima di vederla dal vivo. Però poi quando l’ho incontrata e abbiamo fatto lunghissimo provino lei interpretava il personaggio in modo completamente diverso da come mi ero immaginato ed era molto interessante. Mi è piaciuto molto quel suo tono un po’ infantile e fantasmatico, la sua leggerezza. Claudio invece era talmente identico a come me lo immaginavo che era impressionante. Era bravo, molto portato ma nello stesso tempo molto bloccato, anche fisicamente. Faceva perfino fatica a mostrare quell’emozione in più alla fine del film. Quindi abbiamo fatto tante prove e quando veniva Sandra facevamo una settimana intensiva. Solo appena prima delle riprese gli ho fatto fare un po’ di improvvisazioni che servono un po’ per sciogliersi. È stato veramente divertente lavorare con loro.
“Sole” è una coproduzione italo-polacca quindi hai passato un po’ di tempo in Polonia lavorando al film, che impressione ti ha fatto?
Ho lavorato con la compositrice Teonika Rożynek a Varsavia però abbiamo lavorato molto a casa. Comunque quando ho visitato quel poco che potevo ho pensato quanto scioccante sia stato vedere come una città europea che aveva una ricchezza architettonica e culturale importante sia stata rasa al suolo. La seconda guerra mondiale è un periodo che mi interessa molto e mi sono documentato un po’, anche sugli episodi più scabrosi, quindi sapevo che cosa era successo ma vedere dal vivo una capitale europea che è stata completamente ricostruita dopo la guerra dà una fortissima impressione emotiva. Poi è una città di una funzionalità straordinaria rispetto all’Italia. Tutto quello che dovevo fare era di una estrema facilità. A Cracovia invece ho avuto modo di girare senza fine ed è una città meravigliosa, con quell’atmosfera bohemienne e un miscuglio di diversi stili architettonici ti fa sentire a casa. Lì sono stato molto fortunato di poter andare alla Warner Studios e lavorare con delle persone stupende e infatti, cogliendo l’occasione, vorrei ringraziare Michał Fojcik sound designer, Teonika Rożynek con cui spero davvero di lavorare nel prossimo film perché sono entusiasta delle musiche che ha fatto. Ringrazio inoltre il Polish Film Institute per il supporto che ha dato al mio film.
E quando finisce la frenesia legata alla promozione di questo film quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Ho un soggetto che ho scritto da solo e anche la sceneggiatura vorrei scriverla da solo, si tratta di una storia molto personale e difficile da fare per me in questo momento perché legata ad una malattia. Non sono sicuro di essere pronto a farlo adesso. E ce n’è un’altra storia che, diciamo, è un sogno di sempre, un adattamento di un romanzo giapponese degli anni sessanta di Yasunari Kawabata che si chiama “La casa delle belle addormentate”.
GAZZETTA ITALIA 82 (agosto-settembre 2020)
Gazzetta Italia 82 omaggia il grande Ennio Morricone con la splendida copertina disegnata da Rick Flag e con due approfondimenti dedicati al maestro recentemente scomparso. Il panorama polacco-italiano è poi indagato con le interviste all’intellettuale Leszek Kazana, alla soprano di Wroclaw Dominika Zamara e all’allenatore di Futsal a Bielsko Biala Andrea Bucciol. Come sempre tanto cinema con la rubrica “Finchè c’è cinema c’è speranza”, l’intervista all’attore Luigi Lo Cascio e un bell’approfondimento sulla dogaressa del cinema Flavia Paulon.
Poi ancora arte, moderna e antica, con la presentazione della splendida mostra dedicata a Tommaso Dolabella in programma al Castello Reale, e poi ampio spazio all’interessante collaborazione tra Wilanow e Firenze nel giardinaggio. Naturalmente non mancano rubriche e approfondimenti dedicati a cucina, tra cui la vera storia del gelato, lingua e motori.