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Duda dialoga con 2 comici russi credendo di parlare con l’ONU
Frutta tropicale: dall’Italia con amore
Frutta tropicale in Italia: è possibile? Certo che sì, ed è anche etica, sostenibile, e ovviamente buonissima! Anche se per molti suona ancora come una novità, è già da qualche anno che da Messico e Sud America sono arrivate in Italia le prime coltivazioni di mango, litchi, frutto della passione, macadamia, e soprattutto avocado, che in Sicilia, Puglia e Calabria trovano un terreno più che mai fertile e un clima mite e favorevole. Anche alcune zone del Nord Italia promettono bene: a Bergamo si coltivano l’asimina, il kiwi arguta, il mirtillo siberiano, le noci Pecan. Tutti rigorosamente bio.
Secondo un sondaggio Coldiretti – Istituto Ixè, il mercato del tropicale italiano ha le potenzialità per crescere ancora: il 61% degli italiani preferisce acquistare frutti esotici nostrani piuttosto che quelli stranieri, con il 71% disposto a pagare di più per avere la garanzia dell’origine nazionale. Una scelta motivata dal maggiore grado freschezza, ma anche dal fatto che l’Italia è al vertice della sicurezza alimentare mondiale, con il minor numero di prodotti con residui chimici irregolari.
Ad oggi sono oltre 500 gli ettari piantati con frutti tropicali, aumentati di 60 volte nel giro di appena cinque anni! Protagonisti di questa riconversione dei terreni sono giovani agricoltori che, attenti alla sostenibilità ambientale e al consumo consapevole, hanno scelto queste coltivazioni spesso recuperando terreni abbandonati a causa dei cambiamenti climatici.
Ma perché si parla di sostenibilità ambientale? Perché nei paesi esotici, purtroppo, terreni e risorse idriche sono eccessivamente sfruttati per le coltivazioni intensive di prodotti destinati all’esportazione, causando danni a tutto l’ecosistema.
Il Sudamerica si trova in una situazione di emergenza agricola a causa della siccità: quest’anno è piovuto il 70% in meno rispetto alle medie stagionali e le autorità si sono viste costrette a razionalizzare l’acqua agli abitanti. In Cile il sindaco di Petorca, Gustavo Valdenegro, ha chiesto che siano vietate le piantagioni di avocado e agrumi nel suo comune, per risparmiare le già scarse risorse idriche, poiché gli avocado ricevono una quota maggiore di acqua delle persone.
La situazione in Italia invece è fortunatamente molto diversa, in particolare alle pendici dell’Etna. Il vulcano, grazie alla sua energia, è un catalizzatore naturale di nuvole: le attira e fa in modo che sui terreni circostanti piova molto spesso, creando un esclusivo ambiente sub tropicale umido. La posizione strategica consente di risparmiare molta acqua per le coltivazioni, e di attingere alle falde acquifere solo in casi straordinari.
Anche gli agricoltori del Salento, alle prese con la crisi dell’olivicoltura causata da Xylella Fastidiosa, stanno volgendo lo sguardo a questo nuovo business, e sono in molti a pensare di sostituire gli ulivi con alberi da frutto: avocado, fichi, melograni. Le antiche tradizioni della regione pugliese non possono e non devono certo essere rimpiazzate così facilmente, ma questa potrebbe essere una valida alternativa per aiutare gli agricoltori a superare un momento difficile, in attesa che il Salento possa tornare ai passati livelli di produttività di olio.
E per finire, l’avocado italiano rientra nel progetto Altromercato, iniziativa volta a valorizzare i prodotti agroalimentari italiani realizzati da realtà produttive di qualità, ecologicamente e socialmente responsabili.
Il progetto Solidale Italiano è stato avviato nel 2011 con alcuni dei prodotti tipici simbolo dell’Italia: pomodori, pasta, olio d’oliva, e promuove valori di sostenibilità, equità e legalità, biodiversità e tipicità del territorio, rispetto dell’ambiente e dei diritti delle persone.
I prodotti del Solidale Italiano Altromercato provengono infatti da aree del paese in via di spopolamento e da percorsi di riaffermazione della legalità, di inclusione sociale e di contrasto allo sfruttamento e al caporalato. L’Avocado Bio Solidale Italiano (varietà Hass), in particolare, è prodotto a Marsala da Agricoop, secondo metodi di agricoltura biologica, impiegando lavoratori svantaggiati come immigrati ed ex detenuti, e operando su terreni sottratti alla criminalità organizzata, con l’obiettivo di dare dignità professionale, morale ed economica all’agricoltura locale.
La filiera controllata e trasparente insieme al rispetto per l’ambiente e per le persone, permettono di essere presenti sul mercato e di fidelizzare una clientela sempre più informata, consapevole e attenta alla qualità. Ecosostenibile, biologica, solidale: la prossima volta che acquisterete frutta tropicale prestate attenzione alla provenienza, e scegliete senza esitare quella italiana!
Domande o curiosità inerenti l’alimentazione? Scrivete a info@tizianacremesini.it e cercherò di rispondere attraverso questa rubrica!
L’attore Jerzy Stuhr in ospedale
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Ferrari 250 LM – Non stop!
L’articolo è stato pubblicato sul numero 79 della Gazzetta Italia (febbraio-marzo 2020)
… 4 Con lo sguardo percorri di nuovo la macchina dall’altra parte della pista. Un’auto di cui ti fidi completamente;
… 3 Ancora una volta nella tua mente percorri questi pochi metri che vi separano;
… 2 Nei pensieri, salti sul sedile e allo stesso tempo giri la chiave di accensione. La mano scivola rapidamente sulla leva del cambio, mentre i piedi rilasciano la frizione e danno gas al motore;
… 1 Senti solo il battito del tuo cuore, quando l’orologio batte le 16.00 e la bandiera francese si piega sulla pista sfiorando l’asfalto;
… Parti, inizi a correre, le 24 ore più lunghe della tua vita sono appena iniziate.
Così alla fine degli anni ’50 poteva presentarsi lo start per uno dei partecipanti alla gara 24 Heures du Mans [24h Le Mans] sulla pista Circuit de la Sarthe. La gara di endurance più difficile, più veloce e più esigente al mondo sia per i piloti che per le auto di corsa endurance.
La velocità media in una gara F1 è di 248 km/h [record di M. Schumacher del 2003], che è un risultato scarso rispetto a quelle di NASCAR dove le velocità medie hanno superato abbondantemente i 300 km/h. Nella 24 ore di Le Mans del 2010 è stato raggiunto il record di velocità di 225 km/h media. È da considerarsi un risultato meno soddisfacente rispetto a quelli di F1 e NASCAR? Non necessariamente, infatti se confrontiamo le distanze su cui queste velocità medie sono state misurate, vediamo che quella di F1 è stata calcolata su 307 Km, NASCAR su 805 km, mentre Le Mans Audi R15 TDI Plus su un percorso di oltre 5400 km! Occorre tener conto anche del numero di pit stop e il tempo perso dai piloti, che nel caso di Lea Mans, si devono cambiare al volante. Ad esempio: Gran Premio F1 d’Italia 2011, su una distanza di 307 km e con in media 1,7 pit stop per auto, contro le 24 ore di Le Mans 2012, su una distanza di 5151 km e ben 33 pit stop.
Abbiamo ancora la 24 Ore di Dayton, ma lì le auto non lasciano mai l’autodromo, mentre per Le Mans quasi la metà del percorso attraversa strette strade pubbliche attorno le città!
24h Le Mans ha anche un suo lato molto oscuro per gli incidenti, tra cui tanti anche mortali. Tuttavia non potrebbe essere diversamente, se consideriamo il fatto che la gara coinvolge contemporaneamente le auto di diverse classi sportive e che, durante un solo giro, le auto superano per quattro volte i 320 km/h. Uno dei percorsi “scatenanti il demone della velocità” è il tratto di 6 km rettilinei di Hunaudieres [Mulsanne Straight], dove nel 1925 durante la terza edizione della gara, morì Marius Mestivier, prima vittima della 24h Le Mans. Nel 1988 WM P88 con il motore Peugeot raggiunse sullo stesso tratto una velocità di 405 km/h, il che costrinse gli organizzatori a dividerlo in due corsie per temperare la velocità dei piloti.
Tra i molti eventi più o meno drammatici, uno in particolare si ricorda come il giorno più tragico nella storia dei motori. L’11 giugno del 1955. Quando i primi equipaggi stavano per finire il 35° giro, la Jaguar guidata da Hawthorn rientrò improvvisamente nell’area di servizio per il suo primo pit-stop subito dopo aver sorpassato in doppiaggio Lance Macklin. Tale manovra sorprese il pilota doppiato che per non scontrarsi sulla Jaguar in frenata rapida, svoltò a sinistra, finendo dritto sotto le ruote di Pierre Levegh che sopraggiungeva ad alta velocità. La Mercedes di Levegh, venne catapultata in aria girandosi più volte tra il pubblico. L’auto frantumata e in fiamme uccise oltre 80 persone e ne ferì altre 200. Ciò nonostante, la gara non fu interrotta, come venne affermato in seguito, per non intensificare il panico tra le decine di migliaia di fan riuniti intorno alla pista. Il mondo rimase sconvolto. La Mercedes da allora non ha più partecipato a Le Mans fino al 1987, mentre in molti paesi è stata vietata l’organizzazione di gare [in Svizzera questo divieto è ancora oggi in vigore, anche se di recente le auto elettriche hanno ricevuto un consenso condizionato per fare gare].
La pista Circuit de la Sarthe, aperta nel 1906, ha invece un fama meno tragica. È una pista brillante nella sua semplicità, una trovata pubblicitaria dell’azienda Dunlop. Stiamo parlando di una passerella a forma di pneumatico che corre sopra la pista e sebbene piste simili si possano vedere altrove, questa è speciale poiché costruita nel 1923 e quindi coetanea e silenziosa testimone di tutte le edizioni della 24 ore di Le Mans.
Torniamo per un momento all’inizio della gara a Le Mans. I piloti che volevano scattare in testa alla corsa dovevano correre fino alla propria auto e avviarla il più velocemente possibile. Per accelerare l’intera procedura, la Porsche ha posizionato l’interruttore di avviamento e la leva del cambio sui lati opposti del volante, in questo modo il conducente poteva girare la chiave e ingranare la prima nello stesso momento. Non c’era tempo per allacciare le cinture di sicurezza, quindi praticamente nessuno lo faceva fino alla prima uscita di servizio. Nel 1969, secondo quanto riferito, Jacky Ickx si ispirò al “piccolo passo del primo uomo che atterrò sulla luna” dello stesso anno, si avvicinò alla sua macchina camminando ostentatamente. Con estrema calma allacciò le cinture di sicurezza, controllò tutti i sistemi e partì per ultimo per poi effettuare per primo il check-in dopo le 24 ore di corsa. Tale dimostrazione di ragione e il tragico incidente di John Woolfe avvenuto già al primo giro di quella stessa gara, hanno convinto gli organizzatori a cambiare la modalità di inizio della competizione a partire dall’anno successivo.
Tra i vari tipi di Ferrari presenti alla 33^ edizione della gara c’era la Ferrari 250 LM. L’auto è stata creata sulla base del modello 250 P, che gli avrebbe dovuto garantire l’approvazione per i collaudi nella categoria GT. Questa volta però la FIA non si fece ingannare come alcuni anni prima quando l’azienda di Maranello lanciò la 250 GTO. Con 32 esemplari, la Ferrari ha dovuto accettare di gareggiare solo nella categoria prototipi. Ironia della sorte, il prototipo del nuovo modello mostrato nel 1963 fu acquistato da Luigi Chinetti, capo del team N.A.R.T. La sua auto non ha terminato la prima gara, nella seconda ha preso solo un ottavo posto, e nel terzo … è andata completamente bruciata.
Le auto successive avevano un motore più grande, il corpo montato su un telaio tubolare di Vaccari realizzato da Scaglietti secondo il progetto di Pininfarina. Alcuni elementi sono stati presi in prestito dalla seconda serie di 250 GTO. Il modello 250 LM, anche se un po’ esagerato, doveva competere nella classe prototipo più forte, ebbe una serie di successi rilevanti, incluso un doppio podio nella 24 ore di Le Mans del 1965.
Davanti a noi abbiamo una replica [HW Elite 5000 pz. Limitato] dell’auto con il telaio 6313 che lasciò Maranello nel 1964 in colore rosso. Il suo proprietario era una delle più famose scuderie Ecocie Francochamps, belga, fondata da Jacques Swaters. L’auto è stata tradizionalmente dipinta di giallo, lasciandone due piccole strisce di vernice originale. Nel 1965, i belgi hanno registrato la partecipazione di due 250 LM, ricevendo i numeri 25 e 26. La numero 26 fu anche cofinanziata da Georges Marquet Team, mentre al volante si trovarono Pierre Dumay e Gustave Gosselin.
Dopo un’ottima guida notturna domenica 20 giugno 1965, proprio questa squadra era in testa, quando improvvisamente una delle ruote posteriori, non sopportando più il peso, esplose perforando il sottile corpo in alluminio. Dopo aver cambiato la ruota, la vettura è ritornata in pista con un’enorme “lacerazione” lungo l’intero parafango. Sfortunatamente non è stato possibile recuperare il tempo perso, i piloti hanno chiuso al secondo posto, cedendo il podio a un altro team a bordo di Ferrari 250 LM, la squadra N.A.R.T. I vincitori non hanno celebrato però la vittoria versando lo champagne sui loro fan, questa tradizione sarebbe nata due anni dopo anche a Le Mans, quando Dan Gurney scosse una gigantesca bottiglia di magnum “Moet & Chandon” spruzzando l’intero team trionfante di Ford. Quella stessa bottiglia con l’autografo del pilota per trent’anni ha decorato come paralume la casa del fotografo della rivista Life che rese immortale l’intero evento.
Non ho menzionato Le Mans nel contesto del cinema, in cui la gara è presente grazie a un uomo chiamato “King of Cool” e alla sua Ferrari 250 Berlinetta Lusso.
Anni di produzione: 1963-65
Quantità prodotta: 31 pezzi [+ 1 con motore 2953 cm3]
Motore: V-12 60 °
Dislocamento: 3.285,7 cm3
Potenza / giro: 320 CV / 7500
Velocità massima: 295 km / h
Accelerazione 0-100 km / h (s): 4.5
Numero di marce: 5
Peso in ordine di marcia: 820 Kg
Lunghezza: 4090 mm
Larghezza: 1700 mm
Altezza: 1115 mm
Interasse: 2400 mm
foto: Piotr Bieniek
traduzione it: Amelia Cabaj
Prima visita estera per Duda sarà in Italia e in Vaticano
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Presidenziali: Duda confermato presidente
DaniloPè: l’arte della vignetta e l’amore per il Napoli
L’articolo è stato pubblicato sul numero 79 della Gazzetta Italia (febbraio-marzo 2020)
Danilo Pergamo in arte DaniloPè, noto artista, illustratore e vignettista partenopeo, ci racconta in esclusiva della magia del suo lavoro e la grande passione per il Napoli.

Quando è nata la tua passione per il disegno?
“L’amore per il disegno esiste da sempre… da che ho memoria, ho sempre disegnato. Da bambino costringevo mio papà a riprodurre per me i personaggi dei fumetti, e dopo dovevo provarci io. È stata anche la mia arma contro la timidezza: cambiavo spesso scuola, e il disegno mi aiutava a socializzare e farmi conoscere. Come oggi, insomma!”
Anche tuo padre disegna? È da lui che hai ereditato il tuo talento?
“Sì, diciamo che in famiglia disegniamo un po’ tutti, anche se io sono l’unico ad averne fatto una professione. Più che mio padre era in realtà mia madre che da giovane amava fare ritratti, mentre mia sorella dipingeva. Io sono sempre stato più orientato verso il disegno fumettistico”.
Come spiegare ai lettori polacchi l’arte delle vignette? In Italia credo sia giusto sottolinearlo, esiste una grande tradizione di vignettisti.
“C’è tanta confusione tra vignette, fumetti, a volte addirittura con le caricature. La vignetta è un’unica scena in cui sono presenti tutti gli elementi che servono a capire una storia”.

Ci sono autori che hanno ispirato il tuo stile?
“Sicuramente i tempi e l’umorismo di Leo Ortolani, i riferimenti pop di Zerocalcare e la critica sociale di Makkox hanno avuto una buona influenza, soprattutto nella fase di crescita, così come i manga, che sono stati la mia “base” per il disegno vero e proprio, e che negli anni sono poi andato a “semplificare” nei tratti e nei dettagli. Credo comunque che il fumetto italiano abbia raggiunto livelli molto molto importanti. Mi piacerebbe un giorno accostarmi a questo mondo, anche se la differenza tra la vignetta singola e la storia articolata è più grande di quanto si immagini”.
Quello che presenti con ironia nelle tue vignette trae la propria forza dalla cultura pop (cinema, serie tv, calcio…), dalle news, a volte anche dalla politica. I tuoi lavori sono sempre molto “freschi”, pieni di vita, ogni settimana presenti velocemente in rete qualcosa di nuovo e i tuoi fans sui social ti hanno già battezzato come il “re delle vignette 2.0”!
“Da questo punto di vista mi sento un po’ una “spugna”, nel senso che mi tengo perennemente informato sugli eventi, dal locale al globale, e sono un divoratore di prodotti di intrattenimento, infatti il mio modo di comunicare è ricco di citazioni. Ho una mia visione del mondo e della vita, e provo “semplicemente” a condividerli con le persone. Vedere che tanti si rispecchiano in essa è piacevole e anche incoraggiante. Uso tantissimo i social. Credo che in una manciata di anni si sia alzata molto l’asticella, il pubblico è sempre più attento e serve qualità per attirare l’attenzione. Ci sono persone che mi contattano scrivendo che in seguito ad una mia vignetta sono andati a documentarsi e sono venuti a conoscenza dei fatti di cronaca che l’hanno ispirata. Per me è un grande onore, vuol dire che non ho fatto soltanto intrattenimento, ma anche informazione”.
Guardando i tuoi profili sui social (FB, Instagram o Twitter) è impossibile non notare il tuo amore per il calcio e per il Napoli, la squadra azzurra è spesso la protagonista assoluta dei tuoi lavori.
“Mi sono appassionato al Napoli quando ero ancora bambino, passavo tantissimo tempo con mio nonno che era tifosissimo del Napoli. È stato lui a trasmettermi questa passione, che poi in seguito ho coltivato quasi esclusivamente fuori casa, visto che nella mia famiglia nessuno, a parte mio fratello minore negli ultimi anni, segue il calcio. Condividevo quindi la passione con gli amici, e sui forum online. Con l’avvento dei social ho iniziato prima a scrivere, poi a realizzare fotomontaggi post-partita, che molto spesso venivano copiati da pagine più grandi. Per questo motivo ho deciso di fare in modo che le cose che realizzavo potessero essere immediatamente riconoscibili, e per questo ho iniziato a rappresentarle sotto forma di vignetta. Che ormai è il mio modo di comunicare col mondo”.
Qual è il tuo giocatore preferito del Napoli di sempre?
“Escludendo “le divinità”, credo di aver avuto la fortuna di vedere ottimi giocatori a Napoli, e di poterne apprezzare ancora di più le qualità perché ho vissuto gli anni bui della storia del Napoli. Detto questo, ho amato Cavani, un calciatore che mi ha regalato gioie grandissime. Ricordo che ebbi un incidente molto serio all’occhio sinistro, rischiai seriamente di perderlo. Quando seppi che fortunatamente l’occhio non aveva riportato danni, rifiutai di restare in ospedale perché il giorno dopo c’era la prima in Champions del Napoli, contro il Manchester City. Quel gol di Cavani mi fece saltare via un paio di punti di sutura! Oggi stravedo per Mertens, che oltre alle doti tecniche è stato in grado di incarnare alla perfezione l’essenza del Napoletano, ma da (ormai ex) difensore centrale non posso non stravedere per due calciatori “duri” che sono Koulibaly e Allan”.
Cosa intendi per “l’essenza del Napoletano” quando ti riferisci a Mertens? Essendo tu stesso napoletano sono curiosa della tua definizione.
“Per quanto riguarda Mertens, la napoletanità è intesa come “modo di vivere”. Il belga è un ragazzo allegro, sembra sempre spensierato, scherzoso, ha molta fantasia e molta ironia, anche nel modo di comunicare. Ti faccio un esempio: Insigne, anche nei momenti di massimo rendimento, non è riuscito a “fare breccia” nel cuore dei tifosi. Uno dei motivi, a mio parere, sta nell’atteggiamento. Le sue interviste sono sempre molto professionali, il suo utilizzo dei social è legato quasi esclusivamente allo sponsor tecnico, il tifoso in queste cose legge freddezza. Mertens, da questo punto di vista, ha saputo meglio entrare nel cuore dei tifosi. Anche nei momenti meno felici per la squadra il tifoso nei suoi confronti ha sempre dimostrato maggior benevolenza”.
Il Napoli è una delle squadre che non ha rivali in città, cosa che succede nel caso di Milan/Inter, Lazio/Roma o Juventus/Torino. Anche quando certe volte entra in crisi possiede una delle tifoserie più fedeli in assoluto. Come spiegare questo fenomeno, questa bellissima – è spesso molto movimentata – storia d’ amore?
“Credo che nella tifoseria napoletana ci sia stata, negli anni, la voglia di riscatto di un intero popolo. Negli ultim(issim)i anni purtroppo questa passione è andata un po’ affievolendosi, il Napoli si è messo addosso l’etichetta di squadra di vertice che però non vince, e questa cosa a molti tifosi non è andata giù, e la conseguenza è stata uno stadio sempre più vuoto, fino poi agli eventi dell’ultimo anno [una serie di partite perse specialmente in casa, l’improvviso cambio di allenatore] che hanno creato, purtroppo, una situazione poco piacevole e decisamente anomala per una tifoseria passionale come quella azzurra. Speriamo si risolva in fretta, il Napoli ha un enorme bisogno del suo dodicesimo uomo”.
Cosa pensi di Gattuso nelle vesti di nuovo allenatore del Napoli?
“Credo sia ancora presto per valutarlo. Sicuramente arrivare all’esonero di un allenatore non è mai bello, perché vuol dire che c’è stato il fallimento di un progetto ed è un male per un club. A Napoli poi ormai eravamo totalmente disabituati agli esoneri, quindi un po’ fa male, soprattutto se ad essere esonerato è un allenatore del calibro di Ancelotti, che ho sempre considerato tra i più grandi in assoluto. Detto questo, sicuramente di Gattuso mi piace la grinta, e il Napoli negli anni ha dimostrato di aver bisogno di allenatori bravi a tenere alta la concentrazione della squadra, come Mazzarri o lo stesso Sarri. Ancelotti probabilmente ha perso un po’ questa caratteristica, essendo ormai abituato da tanti anni ad allenare squadra composte da giocatori abituati a vincere e quindi ad “autogestire” il livello di attenzione. Il Napoli invece ha bisogno di qualcuno che lo tenga un po’ più “sveglio”. Speriamo che Gattuso ci riesca, vedere il Napoli così in basso è molto triste”.

I giocatori del Napoli seguono il tuo profilo FB? Nella rosa azzurra ci sono anche due giocatori polacchi!
DaniloPè: “Alcuni mi seguono e mi conoscono, è un grande orgoglio per me, significa che si rivedono in quello che rappresento. Purtroppo non Zielinski e Milik, nonostante soprattutto il numero 99 sia spesso soggetto delle mie vignette. Prima o poi, chissà!”
Ti ricordi qual è stata la tua prima vignetta che ebbe grande successo sui social?
DaniloPè: “Per quanto riguarda la vignetta “virale”, sicuramente quella che ha girato maggiormente e che mi ha fatto più piacere è quella di mertens in versione ragazzino dei vicoli di Napoli, quello in cui la mamma lo chiama “ciro”, come è stato “ribattezzato” a Napoli. È una vignetta alla quale sono molto legato, sia perché, essendo stata condivisa dallo stesso Dries, mi ha fatto conoscere da tante persone, ma anche perché sono felice che lui si sia rivisto in quella mia “interpretazione”, è come se avessimo visto la sua situazione di “napoletano nato altrove” con gli stessi occhi. Mi ha fatto enormemente piacere, e ci sono molto legato”

Hai dedicato molta attenzione nei tuoi disegni anche alla serie “Gomorra”, che ha ottenuto un enorme successo nel mondo. Con una delle sue protagoniste – Cristiana dell’Anna (nota al pubblico per il ruolo di Patrizia) – hai anche instaurato un’insolita collaborazione artistica.
DaniloPè: “Ho avuto – e ho – la fortuna di conoscere molti personaggi della serie, alcuni sono diventati cari amici e mi sento fortunato per questo. Per quanto riguarda Gomorra, non posso che essere contento del suo successo, che ha finalmente portato un prodotto seriale italiano, realizzato a Napoli, nell’Olimpo delle grandi serie internazionali. È un grande orgoglio”.
Cristiana in pochi anni è diventata una delle mie più care amiche, abbiamo visioni molto simili e questa cosa ci ha accomunato parecchio. Abbiamo realizzato insieme alcune vignette, soprattutto sulla tematica dell’integrazione tra popoli e culture, una tematica che sta molto a cuore ad entrambi. Abbiamo alcuni progetti in cantiere, ma al momento non posso ancora dire nulla!”
È capitato che una delle tue vignette sia stata interpretata in un modo negativo, opposto alle tue intenzioni?
DaniloPè: “È capitato, purtroppo, soprattutto per vignette non calcistiche. Le vignette sul tema dei migranti, ad esempio, o quelle sulla triste vicenda di Stefano Cucchi, mi hanno portato molti messaggi poco piacevoli, alcuni anche molto brutti. Da questo punto di vista i social sono un’arma nelle mani di persone che credono di poter scrivere quello che gli pare senza doverne pagare le conseguenze. È una realtà di cui i social stessi e le autorità dovrebbero tenere maggiormente conto”.
Non hai mai pensato di creare un fumetto dedicato alla serie A?
DaniloPè: “Come ho detto prima Il divario tra vignetta e fumetto è abbastanza ampio. Però sì, mi piacerebbe davvero tanto poter raccontare una storia sul mio Napoli. Magari vincente. Incrociamo le dita!”
Domenica si vota per le presidenziali, nei sondaggi testa a testa tra Duda e Trzaskowski
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Pizza da Enea alla Regina Margherita
L’articolo è stato pubblicato sul numero 79 della Gazzetta Italia (febbraio-marzo 2020)
La pizza ha origine antichissime, l’usanza di collocare gli alimenti sopra un disco di pasta da usare come piatto era diffusa ovunque e in tutte le epoche. Quando poi non c’era abbastanza cibo, si mangiava pure il piatto, come descrive Virgilio nell’Eneide: «Enea, i capi supremi e Iulo si distendono/ sotto i rami d’un albero altissimo: preparano/ i cibi, mettendo sull’erba larghe focacce di farro/ come fossero tavole (consigliati da Giove),/ e riempiono di frutta i deschi cereali./ Allora, consumati quei poveri cibi,/ la fame li spinse a addentare le sottili focacce/ spezzandone l’orlo. “Ahimè – fece Iulo/ scherzando – noi mangiamo anche le nostre mense”.»
La prima volta che compare la parola pizza è nel 997, in un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano, a sud di Roma, al confine tra Lazio e Campania. Il documento, conservato nell’archivio del duomo di Gaeta, afferma che, oltre all’affitto, ogni anno erano dovute ai proprietari nel giorno di Natale «duodecim pizze», assieme ad altri beni alimentari. E dodici pizze erano la regalia prevista pure per Pasqua. Non sappiamo cosa quelle pizze fossero, probabilmente focacce. Ci è più chiaro, invece, in cosa consistesse la pizza napoletana descritta dal Bartolomeo Scappi, cuoco personale di papa Pio V, nella sua “Opera”, pubblicata nel 1570. Questa è la seconda citazione conosciuta della pizza, e si tratta più che altro di un dolce. Bisognava pestare in un mortaio mandorle, pinoli, datteri e fichi freschi, uva passa, unendo acqua di rose in modo da ottenere una pasta che potesse essere mescolata con rossi d’uovo, zucchero, cannella e mosto d’uva. Il tutto andava poi tirato in una sfoglia da infornare alta circa tre centimetri. Scappi tuttavia è il primo a legare la pizza a Napoli e questa preparazione, per quanto complicata, è pur sempre una base su cui mettere sopra qualcos’altro. «In essa pizza si può mettere d’ogni sorte condite», precisa il cuoco papale.
Una preparazione in qualche modo simile sopravvive in Veneto e Friuli, dove la pinza (guardacaso l’etimologia della parola è la stessa, e deriva dal greco “pita”) è un dolce di farina e frutta secca, piuttosto basso e cucinato in una teglia da forno. Buono da mangiare, ma brutto da vedere, è il dolce tipico dell’Epifania.
A Napoli, invece, dovrà passare qualche secolo, ma la base si trasformerà da un pastone di frutta fresca e secca con uova e burro, a una semplice pasta di farina e lievito. Con l’aggiunta del pomodoro arrivato dall’America, il gioco è fatto: ecco la nostra pizza. E quando Raffaele Esposito battezza quella con mozzarella, pomodoro, basilico e parmigiano, il cerchio si chiude.
La margherita si chiama così in onore della regina Margherita di Savoia, moglie di re Umberto I. Ma esisteva già e non è stata inventata per la delizia dell’augusto palato, come in genere si racconta. Il colpo di genio di Raffaele Esposito, ovvero il pizzaiolo accreditato dell’invenzione, non sarebbe stato quello di aver creato dal nulla una pizza nuova, ma di aver risposto «margherita» – ovvero lo stesso nome della regina – alla domanda su come si chiamasse quella i cui tre colori (verde del basilico, bianco della mozzarella, rosso del pomodoro) richiamavano la bandiera italiana.
La leggenda narra che il suddetto Raffaele Esposito, cuoco della pizzeria Pietro… e Basta Così (fondata nel 1780, ancor oggi esistente con il nome di pizzeria Brandi) nel giugno del 1889 fosse stato chiamato da un funzionario della real casa nella reggia di Capodimonte, dove i sovrani si trovavano in visita.
Il buon Esposito prepara tre pizze diverse e la regina dichiara di apprezzarne in particolare modo una, cioè quella che sarebbe diventata la margherita. A incoronare Raffaele Esposito re dei pizzaioli ci sarà poi una lettera, datata 11 giugno 1889, firmata da certo Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della real casa: «Le confermo che le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime». La lettera è esposta alle pareti della pizzeria Brandi, di Salita Sant’Anna di Palazzo. Neppure questa istituzione storica è stata risparmiata dalla crisi e qualche tempo fa ha annunciato di chiudere a mezzogiorno e di mettere in cassa integrazione una parte dei dipendenti.
Da quel 1889, tutte le volte che la regina Margherita tornava a Napoli avrebbe sempre invitato a palazzo Esposito che pigliava gli attrezzi del mestiere e si avviava assieme alla moglie con un biroccino verso la reggia dove preparava la pizza tanto apprezzata dalla sovrana.
Fin qua probabilmente è tutto vero: Raffaele Esposito sarà senza dubbio stato il miglior pizzaiolo di fine Ottocento e avrà senz’altro fatto innamorare la regina della pizza che da allora in poi avrebbe portato il suo nome. Ma è altrettanto certo che quel modo particolare di preparare la pizza non l’ha inventato lui.
10Nel libro di Francesco De Bourcard, “Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti”, pubblicato nel 1858, quando la città sarebbe stata ancora per due anni la capitale del regno delle Due Sicilie, è descritta una pizza con la mozzarella e il basilico: «Altre [pizze] sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Si aggiunge delle sottili fette di mozzarella». Il pomodoro viene dato come opzionale: «talora si fa uso», scrive l’autore napoletano di origine svizzera. Il bravo Raffaele Esposito, quindi, si sarebbe limitato a preparare per la regina tre pizze già diffuse in città e il suo merito sarebbe quello di averne battezzata una con il nome dell’augusta sovrana.
Dai ricettari di quell’epoca si apprendono altre cose interessanti sulla pizza. Per esempio che il pomodoro veniva messo sopra gli ingredienti, a coprirli e avvolgerli, e non steso sulla pasta con il resto della guarnitura collocato successivamente, come avviene oggi. Il medesimo De Broucard descrive anche la pizza piegata in due: «Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone.» Una preparazione, quindi, tradizionale almeno quanto quella della pizza aperta. Altra cosa: «il calzone si serve cosparso di una abbondante salsa bollente, fatta di pomodoro fresco a pezzi, olio, aglio, sale, pepe e origano», scrive la prima edizione della Guida gastronomica d’Italia, edita dal Touring Club Italiano, nel 1931. E questo per evitare che il raviolone di pasta si sgonfi miseramente non appena a contatto con la salsa di pomodoro fredda, come troppo spesso accade oggi.
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Pillole culinarie è una rubrica di approfondimento sulla storia della cucina curata dal giornalista e scrittore Alessandro Marzo Magno. Dopo essere stato per quasi un decennio il responsabile degli esteri di un settimanale nazionale, si è dedicato alla scrittura di libri di divulgazione storica, pubblicati da importanti case editrici e in alcuni casi tradotti in varie lingue. Ne ha pubblicati diciassette, uno di questi “Il genio del gusto. Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo” ripercorre la storia delle più importanti specialità gastronomiche italiane. Partecipa a trasmissioni televisive sulla principale rete della tv pubblica italiana.