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Chiuse 12 miniere per contenere diffusione coronavirus
La sibille negli affreschi di Raffaello
L’articolo è stato pubblicato sul numero 80 della Gazzetta Italia (maggio 2020)
Le sibille, antiche profetesse, hanno storie affascinanti e hanno ispirato gli artisti, specialmente nel periodo rinascimentale e barocco. A questa fascinazione è stato soggetto anche il geniale Raffaello, uno dei tre maggiori artisti del Rinascimento accanto a Leonardo da Vinci e Michelangelo. Quest’anno è stato proclamato l’Anno di Raffaello in occasione dei 500 anni dalla sua morte. In questo articolo ho approfondito la storia delle sibille e di raffrontarla all’opera di Raffaello, ovvero all’affresco della basilica di Santa Maria della Pace a Roma, largo quasi 6 metri, risalente al 1515 circa.
L’opera è nata su commissione del banchiere senese Agostino Chigi. Le figure delle profetesse sono collocate simmetricamente, due per ogni lato. La composizione è tipica dello stile di Raffaello, così come la ricchezza di allusioni simboliche e letterarie. Le sibille, che nell’antichità erano tramite tra i gli uomini e le divinità pagane, sono qui unite agli angeli, ovvero contatto tra gli uomini e il Dio del mondo cristiano. Raffaello ha tradotto questa insolita unione con erudizione. Le sibille sono affascinate dagli angeli, il che si può liberamente interpretare come una preminenza della religione cristiana sulle credenze pagane. Tuttavia l’interpretazione corretta si trova nelle citazioni dipinte tratte da Virgilio, poeta classico, che parla della discesa dal cielo di una nuova generazione, sottolineando la convinzione che fosse una profezia riguardante la vittoria finale del Cristianesimo. Perché abbiamo la certezza che Raffaello interpretasse le parole di Virgilio come una venuta del Cristianesimo? Chi lo ha confermato e l’opera di chi è stata paragonata all’affresco di Raffaello?
La parola sibilla deriva dal greco sibylla, ovvero profetessa. In altre fonti si fa riferimento a una derivazione aramaico-babilonese, sabba-il, ossia vecchia donna da Dio. C’è anche una provenienza libica della parola, di derivazione mitologica. I libici chiamavano Sibilla la figlia di Zeus e Lamia, la prima donna sulla Terra, che aveva il dono della divinazione. Tuttavia le sibille non erano tanto profetesse quanto oracoli, nel senso che non predicevano il futuro con il potere degli dei o di Dio, ma davano responsi a domande. Anticamente esistevano molte sibille e i loro nomi in molte fonti si intrecciano con le loro storie. Esiste una leggenda sui libri sibillini conservati nell’Antica Roma, all’epoca della monarchia. Sembra che in ogni importante questione di Stato vi si facesse riferimento come a un oracolo. I libri bruciarono in un incendio sul Campidoglio nell’83 a.C. e sette anni più tardi i frammenti di altri libri che contenevano le profezie sibilline furono copiati da altri testi. Purtroppo questa raccolta non è sopravvissuta fino ai nostri tempi, ma si sono conservati manoscritti medievali che includono predizioni non ufficiali. L’origine pagana delle sibille si tradusse pacificamente in credenze cristiane. La prima volta che nelle fonti una sibilla apparve come profetessa fu in Eraclito di Efeso nel VI secolo a.C., ma i suoi scritti sono sopravvissuti solamente in trasmissione indiretta. Le fonti dirette più antiche arrivate sino a noi sono La Pace di Aristofane (V secolo a.C.) e il Fedro di Platone (V secolo A.C.).
L’identificazione delle singole veggenti nell’affresco di Raffaello non è certa. Gli esperti indicano la sibilla sulla destra come quella cumana perché è la più anziana, mentre le siede accanto alla sua sinistra la persica o la tiburtina. Altri ritengono che la Sibilla cumana sia quella a sinistra, mentre all’estrema destra si trova la Sibilla tiburtina.
La Sibilla cumana
Così chiamata per il luogo d’origine, la città di Cuma, è ritenuta una figura profetica romana. È lei l’autrice dei celebri Libri sibillini, che secondo la storia di Roma scritta da Tito Livio furono venduti a Tarquinio il Superbo, leggendario re romano (secondo un’altra fonte si trattava di re Tarquinio Prisco, ma la storia è stata scritta solamente al tempo di Ottaviano Augusto e quindi cinque secoli dopo gli eventi). La Sibilla offrì i responsi oracolari contenuti nei nove libri al re, il quale considerò il prezzo eccessivo. Allora la Sibilla bruciò tre libri e chiese lo stesso prezzo per i restanti sei. Il re continuava a non voler pagare e la Sibilla distrusse altri tre libri. Il sovrano spiazzato pagò allora i tre rimanenti al prezzo originale. Secondo un’altra storia, che spiega l’apparenza della Sibilla cumana come una donna anziana, la profetessa era oggetto delle attenzioni amorose dello stesso dio Apollo. Acconsentì a una relazione con il dio a condizione che questi le offrisse tanti anni di vita quanti granelli di sabbia stavano nella sua mano. Apollo esaudì la richiesta, ma quando la donna non gli si arrese il dio approfittò della mancanza di precisione nella richiesta. La Sibilla, chiedendo una vita così lunga, non aveva chiesto di conservare la sua bellezza e giovinezza. Visse quindi centinaia di anni, ma invecchiò e si fece piccola al punto che alla fine della sua vita la sua testa poteva stare in un’anfora d’olio. La Sibilla cumana di Raffaello è una giovane donna che in una mano tiene un libro chiuso e solleva l’altra verso un angelo che tiene una pergamena con su scritto: La resurrezione dei morti. Accanto a lei un altro angelo si appoggia a una tavola con un’iscrizione che parla della venuta della luce.
La Sibilla persica
Nei manoscritti medievali conservati viene menzionata come la prima: La Sibilla persica visse ai tempi di Ciro e indossava indumenti di stoffa, ornamenti dorati e un velo bianco sulla testa. L’autore, o gli autori, scrivono che portava il nome di Sambete e che predisse le gesta di Alessandro Magno. Pare che discendesse dal Noè biblico ed era chiamata Sibilla ebraica o anche caldea o persino egiziana. Le sue visioni, messe per iscritto nel Medioevo, arrivano fino alla fine del mondo e sono quindi associate alle previsioni apocalittiche di San Giovanni. Questo spiega anche l’accettazione delle antiche profetesse pagane da parte della Chiesa. Le loro visioni, in questo caso della Sibilla persica, non erano la perpetuazione di credenze pagane, bensì un presagio del cristianesimo, e l’origine della Sibilla è irrefutabile, perché è più vecchia di Abramo (in quanto figlia o nuora di Noè).
Nella rappresentazione di Raffaello la Sibilla persica è una donna che scrive su una tavola sorretta da un angelo (La morte lo incontrerà). L’angelo indica simbolicamente con un dito il cielo. La Sibilla ha un corpo in torsione, come nella celebre antica figura serpentinata, che dominerà la pittura e la scultura del manierismo, ovvero l’epoca subito dopo il Rinascimento di Raffaello.
La Sibilla frigia
Questa veggente è una figura significativa, con un messaggio aggiuntivo. È grazie a lei che Enea poté andare nei sotterranei di Troia e raggiungere Roma. La si identifica con Cassandra (Alessandra), principessa troiana figlia di Priamo. Chiusa in una torre il giorno in cui Paride salpò per la Grecia per Elena, Cassandra predisse la caduta di Troia e l’ascesa di Roma. Le strofe conservate fino ad oggi sono predizioni della storia dell’intero mondo greco, ma hanno origine medievale e la profezia di Cassandra è stata intrecciata con altre previsioni. Simbolicamente la storia profetizzata dalla Sibilla frigia è un tentativo di legare la religione con la storia mitica di Roma.
Raffaello ha rappresentato la Sibilla frigia mentre legge una tavola mostratale dall’angelo alla sua sinistra. Sulla tavola c’è un’iscrizione che allude alla Vergine Maria: Il cielo circonda il vaso della terra. Accanto a lei un putto con una tavola sulla quale si trova l’unica iscrizione in latino dell’affresco: IAM NO[VA] PROGE[NIES].
La Sibilla tiburtina
La figura della Sibilla tiburtina è citata nei tempi antichi e cristiani come colei che ha previsto la nascita di Cristo. La famosa e bella Sibilla fu invitata a Roma e interpretò un misterioso sogno di nove soli, quattro dei quali avrebbero simboleggiato l’epoca in cui sarebbe nato Cristo. Apparentemente preconizzò a Ottaviano Augusto la venuta del Figlio di Dio, che è cosa nota in due versioni. L’Oriente parla della Pizia e l’Occidente della Sibilla. L’imperatore fece piazzare un altare per il Figlio di Dio dopo tre giorni di digiuno e offrì a Dio un sacrificio. Simbolicamente lo si ritiene il primo sacrificio fatto al vero Dio dal primo tra i pagani.
È difficile collegare l’immagine della Sibilla creata da Raffaello con la sua storia. Per questo motivo gli esperti la identificano anche con il personaggio della Sibilla cumana, solitamente rappresentata come una donna anziana.
Le sibille di Raffaello sono state spesso paragonate alle rappresentazioni delle veggenti nei celebri affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. All’epoca Raffaello stava lavorando in Vaticano creando affreschi monumentali negli appartamenti papali, mentre Michelangelo dipingeva la volta della Cappella. Da un punto di vista stilistico sono due opere separate e non c’è tra di loro alcuna somiglianza al di là del tema e dell’interpretazione erudita. Michelangelo ha creato figure monumentali e statiche dalla distinta forza fisica. In Raffaello le sibille sono liriche ed eteree, sebbene i loro corpi non siano quelli di effimere creature angeliche dagli albori del Rinascimento. Oggi dopo molte ricerche iconografiche e storiche, e inoltre osservando da una prospettiva di cinque secoli, abbiamo diverse interpretazioni di queste opere pittoriche, che fanno anche riferimento al Talmud e alla cultura ebraica. Tuttavia, in ciascuna interpretazione le figure delle veggenti e profetesse sono collegate tra loro, completandosi reciprocamente nel loro agire per gli uomini. Spiegando la citazione di Virgilio dipinta da Raffaello, bisogna ricordare quella sua Egloga in cui si trova la previsione che proclama la nascita di un bambino da una vergine. Il poeta si richiamava alla Sibilla cumana e compose una narrazione in modo tale da dare speranza per una pace duratura dopo gli eventi turbolenti degli anni precedenti: l’assassinio di Cesare e successivamente quello di Cicerone. La propaganda imperiale fece sì che inizialmente il bambino venisse identificato con lo stesso Ottaviano Augusto, ma già due secoli dopo lo si identificava con Cristo. Lo sancì l’imperatore Costantino il Grande dichiarando che Virgilio aveva previsto la venuta del Salvatore.
Le opere di Raffaello sono ancora presenti nella nostra cultura e ancora serbano molti segreti. Vale la pena provare di svelarli e decifrarli. In questo modo l’arte passata continua a vivere e affascina le generazioni successive.
traduzione it: Massimiliano Soffiati
L’economista tedesco Hillebrand loda l’economia polacca
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Chiffon cake all’arancia
Ingredienti:
- 300 gr di farina
- 300 gr di zucchero
- 1 bustina (16 gr) di lievito per dolci
- 200 ml di succo d’arancia o la spremuta fresca d’arancia
- 125 ml di olio di semi di girasole
- 6 uova grandi
- 8 gr di cremor tartaro
- Scorza grattugiata di 1 arancia
- 1 fialetta di aroma all’arancia
- Zucchero a velo
Procedimento:
Per preparare la chiffon cake all’arancia in una ciotola versiamo la farina, lo zucchero, la bustina di lievito per dolci e mescoliamo bene con una frusta, per amalgamare tutti gli ingredienti.Pian piano versiamo il succo d’arancia e incorporiamolo al composto. Aggiungiamo anche l’olio di semi di girasole e mescoliamo bene.
Prendiamo le uova a temperatura ambiente e separiamo i tuorli dagli albumi. Incorporiamo i tuorli all’impasto e mescoliamo con la frusta. Mettiamo da parte l’impasto ottenuto e montiamo a neve gli albumi, con l’aiuto delle fruste elettriche e mescoliamo agli albumi il cremor tartaro.
Uniamo un po’ alla volta gli albumi all’impasto mescolando delicatamente con movimenti lenti dal basso verso l’alto.
Aggiungiamo la buccia grattugiata dell’arancia e la fialetta di aroma arancia e mescoliamo bene.
Versiamo l’impasto in uno stampo da chiffon cake da 26 cm di diametro, è molto importante che lo stampo non sia unto e infarinato quando versate. Inforniamo e lasciamo cuocere in forno ventilato, preriscaldato a 150° per circa 60 minuti oppure in forno statico, preriscaldato a 160° per circa 60 minuti.
Una volta sfornata la chiffon cake all’arancia lasciamola raffreddare capovolta dentro il suo stampo per 2/3 ore. Passato il tempo necessario aiutiamoci con la lama di un coltello per staccare delicatamente i bordi dallo stampo.
Decoriamo la chiffon cake all’arancia con dello zucchero a velo su tutta la superficie.
Buon appetito!
“I vitelloni” (1953) di Fellini: magia, tenerezza e … fuga
L’articolo è stato pubblicato sul numero 79 della Gazzetta Italia (febbraio-marzo 2020)
Come ha giustamente osservato Alicja Helman, una stimata studiosa di cinema, “Federico Fellini ha trattato ciascuno dei suoi film come un regno di immagini estremamente poderoso, affascinante, e che va oltre a quello che l’esperienza reale ci può offrire”. Nel mondo del regista di “Otto e mezzo” siamo appunto costantemente sbattuti tra realtà e sogno, verità e finzione, tradizione e modernità. Nessuno prima di Fellini era in grado di dipingere in modo così originale (e accurato) l’intera gamma di colori che potesse caratterizzare i dilemmi di un’artista: il suo illimitato bisogno di libertà e di creare mondi straordinari e irreali. Tuttavia ci fu un periodo nel lavoro del regista di “Casanova” in cui rimase molto più vicino agli eroi e alle vicende dell'”esperienza quotidiana”. In questo episodio di “Finché c’è il cinema (…)” esamineremo da vicino i tempi di “Federico” prima ancora di diventare “Fellini”.
I vitelloni (1953) non appartengono di certo alla categoria dei film “dimenticati”, ma raramente vengono citati in prima linea accanto ai classici come “La strada” (1954), “La dolce vita” (1960), “Amarcord” (1973) o il menzionato “Otto e mezzo” (1963). Secondo alcuni interpreti dell’opera del maestro italiano, sarebbero proprio “I vitelloni” (il terzo film da essi realizzato) ad iniziare il “periodo d’autore” nella sua carriera, il vero esordio nella sua filmografia. Fellini ha trattato questa produzione come un trampolino di lancio per la realizzazione di un altro progetto che gli stava molto più a cuore, cioè “La strada”. Lo stesso regista fu sorpreso poi dalla misura del successo che i “Vitelloni” ottennero, un grande successo sia di pubblico che della critica (Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia). Ma non solo. Martin Scorsese confessò in un’intervista che il film di Fellini gli servì da preziosa ispirazione per il suo “Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno” (1973). Il regista americano fu molto colpito dal modo in cui il cineasta italiano introduce sullo schermo gli eroi della suo racconto. Usando un “narratore sensibile” nascosto al di fuori della cornice dell’inquadratura. L’autore de “Lo sceicco bianco”(1952) caratterizza con dolcezza e ironia l’ambiente da cui provengono i protagonisti e con cui – nel bene e nel male – hanno deciso di legare la propria esistenza. Lo spazio locale, chiuso (sebbene non privo di colore!) di solito completa il carattere dei personaggi, ma talvolta anche contrasta con esso in modo significativo.
La trama del film ruota intorno ad un anno di vita dei protagonisti del celebre titolo, un branco di amici che fuggono dalla maturità e dalla responsabilità, che si uniscono con piacere ai riti comuni, come matrimoni, carnevale o le elezioni di una nuova miss, ma non provano simile entusiasmo quando è necessario cercare un lavoro onesto o fare un confronto doloroso con la realtà. Tra i nullafacenti e gli spiriti liberi troviamo un seduttore seriale (anche marito e padre), uno scrittore-intellettuale locale, un cantante ghiotto, una mammone che recita senza successo il ruolo di un uomo adulto (e fratello maggiore) ed un giovane sensibile, silenzioso osservatore degli eventi. Gli episodi collegati formano un mosaico narrativo piuttosto sciolto. Non c’è nulla di prevedibile, il che viene enfatizzato dall’emozionante finale della storia.
Il film di Fellini è stato realizzato quando il neorealismo stava entrando nella sua fase calante. Le opere neorealistiche si sono concentrate – come diceva il creatore della tendenza, lo straordinario sceneggiatore Cesare Zavattini – “sull’andatura pesante e stanca” dei loro protagonisti, di solito operai, ed hanno seguito da vicino le loro azioni, le piccole gioie, ma soprattutto le preoccupazioni e le sconfitte. Trascorrendo tutte le giornate nel dolce far niente, i personaggi principali dei “Vitelloni” costituivano di certo una novità nel panorama del cinema italiano d’allora, una sorta di nuova testimonianza di alcune emancipazioni che si svolgono, paradossalmente, grazie alla contemplazione della noia. Nella storia del cinema entrò inoltre una delle scene più emblematiche del film, nella quale Alberto Sordi mostra con un gesto offensivo (il famoso gesto dell’ombrello) ciò che pensa degli agricoltori e lavoratori. E sebbene il personaggio sia poi simbolicamente punito per il suo comportamento, è impossibile non avere l’impressione che questo sia un elemento consapevolmente incluso da Fellini e un suo tentativo di dialogare con il pubblico italiano e l’ambiente cinematografico coinvolto nelle questioni sociali dell’epoca.
“I vitelloni” possono essere considerati come il primo e importante esempio di autobiografia nell’opera di Fellini. Il regista ha creato sullo schermo un mondo bellissimo, sebbene assonnato e sbrindellato, che ricorda quello della sua infanzia. Sebbene le riprese siano state realizzate principalmente nel Lazio (tra Viterbo, Ostia e Roma), non abbiamo dubbi che il cineasta italiano si sia ispirato alla sua città natale, cioè Rimini. Il regista tornerà volentieri nella sua “piccola patria” in futuro, basta pensare al film premio Oscar “Amarcord”.
L’idea del “ritorno alle proprie radici” presentata nei “Vitelloni” non si manifesta soltanto nella rappresentazione della provincia, ma si unisce anche al tema della fuga. È impossibile non associare la diserzione finale di Moraldo con la biografia del regista stesso, che, puntando tutto su una carta sola, lasciò l’Emilia-Romagna per arrivare nella capitale d’Italia alla ricerca del proprio percorso creativo. Maria Kornatowska nella sua famosa monografia su Fellini afferma che “La provincia sviluppa l’immaginazione, anche se reprime la volontà di agire. L’immaginazione si realizza nei sogni, nelle fughe impossibili. (…) La provincia non favorisce la maturità. Il tempo qui è intrappolato nella ripetizione delle stagioni, situazioni e gesti. Le persone invecchiano senza superare la soglia di maturità “.
Nel 1954, sulle pagine della rivista “Cinema”, Fellini pubblicò persino la sceneggiatura di un progetto alla fine non realizzato, “Moraldo va in città”. Tra gli specialisti della filmografia del regista, viene riconosciuto il fatto che Fellini volesse continuare le vicende del suo “vitellone in fuga” sul grande schermo, e il suo successivo destino è stato attribuito al personaggio del giornalista Marcello, protagonista de “La dolce vita”. È importante sottolineare che Moraldo tornerà anche in altri due progetti italiani fortemente autobiografici: “Roma” (1972) e “Intervista” (1987).
Sebbene il giovane abbia lasciato la sua casa di famiglia per una vita migliore, scopriamo che solo apparentemente è riuscito a cambiare il proprio stato d’animo. Certo, nell’elegante costume di Marcello, Moraldo ruota attorno allo spettacolare mondo della società moderna e ai piaceri del boom economico, ma sente ancora un forte vuoto, una sorta di malessere esistenziale, che diventerà una delle caratteristiche dell’opera di Fellini. L’eroe di Fellini è un eroe – letteralmente e figurativamente – che cerca. In cerca di un senso non solo nel proprio ambiente, ma soprattutto nelle proprie scelte di vita. Come ha scritto André Bazin: “L’eroe di Fellini non è un” personaggio “, è un modo di essere, che il regista definisce in modo completo attraverso il comportamento del personaggio. (…) Questo cinema anti-psicologico, tuttavia, raggiunge spazi ancor più lontani e profondi di quanto la psicologia – raggiunga l’anima.
“Era di una bellezza sovrumana. La prima volta che la vidi in una fotografia a piena pagina su una rivista americana “Dio mio”, pensai, “non fatemela incontrare mai!”. Quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità che si prova davanti alle creature eccezionali come la giraffa, l’elefante, il baobab lo riprovai anni dopo, quando nel giardino dell’Hotel de la Ville la vidi avanzare verso di me.” Federico Fellini
Il film “I vitelloni” è arrivato in tempi in cui Fellini non era ancora diventato una “leggenda”. Rispetto ai suoi lavori successivi, può sembrare (erroneamente) un “film minore”. Le (dis)avventure dei “Peter Pan di Rimini” hanno resistito alla prova del tempo, dai “Vitelloni” emerge tutt’ora l’autenticità emotiva. Fellini ha creato un racconto universale sul disadattamento, la necessità e il desiderio di cambiamento che non tutti sono in grado di affrontare. Non ha dimenticato, tuttavia, del divertimento e dell’amicizia, nonché il piacere che può derivare da una narrazione ben condotta: possiamo trovare la magia anche in episodi banali come quello della danza spontanea in mezzo alla strada o della partita di calcio sulla spiaggia in inverno. Fellini rimane pieno di amarezza anche quando tocca i toni della commedia, non dimenticando mai l’empatia. E forse è proprio “l’empatia” che determina davvero la grandezza della dimensione esistenziale del suo cinema.
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FINCHÈ C’È CINEMA, C’È SPERANZA è una serie di saggi dedicati alla cinematografia italiana – le sue tendenze, opere e autori principali, ma anche meno conosciuti – scritta da Diana Dąbrowska, esperta di cinema, organizzatrice di numerosi eventi e festival, animatrice socioculturale, per molti anni docente di Italianistica all’Università di Łódź. Vincitrice del Premio Letterario Leopold Staff (2018) per la promozione della cultura italiana con particolare attenzione al cinema. Nel 2019, è stata nominata per il premio del Polish Film Institute (Istituto Polacco d’Arte Cinematografica) nella categoria “critica cinematografica”, vincitrice del terzo posto nel prestigioso concorso per il premio Krzysztof Mętrak per giovani critici cinematografici.
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Dov’è il lavoro, dov’è il cuore, dov’è la casa?
L’articolo è stato pubblicato sul numero 80 della Gazzetta Italia (maggio 2020)
Dall’aereo scende una giovane donna. Indossa un cappotto verde comprato un mese fa durante i saldi in un negozio a pochi isolati da Ponte Vecchio. Pensava che sarebbe stato ideale per il clima polacco, ma ora, mentre scende le scale di metallo per raggiungere il piazzale dell’aeroporto, sente i rigori del freddo. Per di più, tira un vento forte e il cielo è completamente coperto da nuvole cupe che annunciano l’arrivo di una copiosa pioggia. Subito dopo il ritiro dei bagagli, la donna si guarda intorno e vede tutto grigio: pareti di una tonalità grigia con appesi i poster grigi, persone grigie vestite di grigio con facce grigie. Sente all’improvviso un forte desiderio di tornare alla sua amata, colorata e gioiosa Firenze, alle sue strade tortuose, agli sconosciuti sorridenti che conducono conversazioni vivaci. Tuttavia, scuote la testa. Deve dare una possibilità a questo luogo, resistere almeno un mese. Non bisogna arrendersi subito. Afferra la maniglia della sua valigia e con la testa sollevata in alto, in mezzo alla folla, si dirige verso l’uscita.
Venti anni dopo un trentenne prende il posto della donna. Si passa le dita fra i capelli ricci neri, scorrendo con lo sguardo confuso i segnali intorno a lui. Non conosce bene l’inglese, non parla affatto il polacco, e per questo è ancora più spaventato dalle voci delle persone circostanti che non parlano ma sussurrano. Deve essere davvero pazzo per aver avuto il coraggio di venire in un paese totalmente sconosciuto, senza conoscere la lingua, solo perché ha sentito le parole “Non avere paura”. Ora però prova una grande paura e inizia a pentirsi della sua decisione. A dire la verità qui non è poi così male, come si immaginava. Le persone intorno a lui sembrano allegre, alcune di tanto in tanto scoppiano a ridere, tutto ha dei colori, forse non molto intensi. L’uomo sospira. Ritira il suo bagaglio e lascia l’aeroporto. Davanti all’uscita, la vede. Un sorriso appare immediatamente sul suo viso, poi corre verso di lei e la stringe forte tra le braccia. Sì, sicuramente non sarà poi così male.
Venti anni dopo compaiono due persone: una giovane coppia. Due mesi fa si sono sposati, ora hanno deciso di vivere nella patria della ragazza. Un generoso sorriso fiorisce sul suo viso. Nota una signora accanto a lei con una giacca rosa chiaro e un cappello bianco con le paillettes. La sconosciuta si presenta in modo estremamente interessante. La ragazza dà una gomitata al marito in modo che guardi anche lui la signora, ma l’uomo è troppo stanco per reagire. Avverte un mondo diversa, che, sebbene pulsi di vita proprio come l’Italia, lo fa con un ritmo completamente diverso, che lo stordisce. Tante persone, tanti colori, confusione: non era questo che si aspettava, suo padre non gli aveva parlato così della Polonia. Sua moglie gli dice qualcosa, poi lo tira per la manica e prima che il ragazzo capisca che cosa sta succedendo, stanno già camminando verso i genitori della ragazza. “Dio, prenditi cura di me”, pensa facendo un dolce sorriso forzato alla sua nuova suocera.
Questi italiani e molti altri, che allo stesso modo sono arrivati in Polonia, si sono incontrati durante in tre sere di novembre partecipando alle tavole rotonde allestite nella sala dell’Istituto Italiano di Cultura a Varsavia. Alcuni si conoscevano, altri si sono visti per la prima volta. Ognuno di questi italiani è venuto per condividere la sua storia con coloro che volevano ascoltarla.
Ideatrice e coordinatrice del progetto “Immigrazione Italiana in Polonia: per amore o per forza” è Angela Ottone, presidente della Fondazione Bottega Italiana. Il progetto patrocinato e finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano è realizzato in collaborazione con Com.It.Es Polonia, l’Istituto Italiano di Cultura e Gazzetta Italia, nonché il suo direttore Sebastiano Giorgi. Il progetto ha coinvolto studenti di alcuni rinomati licei di Varsavia in cui viene insegnata la lingua italiana. L’obiettivo principale del progetto è quello di identificare le ragioni che hanno spinto gli italiani ad emigrare in Polonia nei tre periodi di forte emigrazione italiana all’estero che inizia a partire dalla metà del XX secolo e persiste fino ad oggi:
1968-1989 – L’altra parte del muro
1990-2004 – L’integrazione europea
2005-2018 – Un nuovo confine europeo tra mito e realtà
Al progetto hanno partecipato circa 40 studenti e 80 italiani di tutte le fasce d’età, provenienti da diverse regioni d’Italia. Durante i tre incontri, i giovani hanno intervistato gli italiani sulla base delle domande precedentemente elaborate. Gli italiani hanno parlato della loro vita, del lavoro, della famiglia, delle ragioni per le quali hanno lasciato il Paese o delle difficoltà linguistiche.
Il confronto delle diverse culture ci ha sempre affascinato. Volevamo capire su quali piani le culture si sovrappongono, dove si scontrano e dove non si percepisce nemmeno la reciproca presenza. L’esperienza del progetto Emigrazione Italiana in Polonia: per amore o per forza ha evocato un fascino ancora più forte, perché ha consentito di riscontrare la cultura italiana, intervallata dalle sfumature del spirito polacco, con la nostra. Ci siamo chiesti come sia percepita la cultura polacca, vista attraverso il prisma di un’infanzia trascorsa in Italia, tramite così tante esperienze e ricordi. Come si presenta la notte polacca quando nella memoria c’è sempre il ricordo delle dolci notti stellate della calda estate italiana. Ma anche quanto lontana dalla realtà è l’immagine dell’Italia presente nella mente dei polacchi. Che sentimento provino gli italiani quando sentono parlare del sole caldo, quali ricordi e profumi la mente rievochi?
Durante le conversazioni sulla vita privata, sul lavoro o sulla lingua, tra centinaia di aneddoti e battute, è cresciuta in noi una domanda che poi abbiamo deciso di porre ad alta voce: “Chi siete? Vi sentite italiani o polacchi?”
Le risposte sono frutto di una serie di storie, di un milione di esperienze diverse che tra l’altro non sono mai state univoche. Si può chiamare ”casa” un posto completamente diverso da quello in cui si è vissuto prima?
Una delle italiane che è venuta in Polonia negli anni ’70, ricorda le sue prime settimane a Varsavia. Bisogna tenere presente che in quel periodo la Polonia era uno stato comunista la ”Repubblica Popolare di Polonia” e si trovava sotto l’influenza dell’URSS. Di conseguenza c’era una scarsa disponibilità dei prodotti nei negozi, nonché lunghe file anche per comprare cibo. Per la nuova arrivata questa era una novità così quando andava tutte le mattine alle nove a comprare il pane, sentiva solo due parole: “Non c’è”. Solo dopo qualche tempo le hanno spiegato che per comprare il pane, bisognava andarlo a prendere la mattina presto. Una Polonia del genere poteva paragonarsi alla lontana Italia, dove non mancava assolutamente nulla?
Anche la lingua costituiva una barriera, rivelatasi però superabile. Una donna italiana racconta come ha incontrato suo marito. Lui era un polacco che non parlava italiano, lei era un’italiana che non parlava polacco. Entrambi non sapevano comunicare in inglese, quindi gli è rimasto il francese che lui studiava da anni. Nonostante i problemi di comunicazione, si sono innamorati così tanto che hanno deciso di trascorrere insieme il resto della vita. L’uomo, incapace di parlare l’italiano, ha deciso di rischiare e ha chiesto alla donna di sposarlo in francese. L’italiana per fortuna ha indovinato ciò che il suo amato stava cercando di trasmettere e ha accettato la sua proposta. Tuttavia, quando raccontava a sua madre l’accaduto, questa ha domandato la figlia se è sicura di aver capito bene la proposta. Sembra di sì visto che in breve tempo erano sposati.
Tutta la sala rimbombava di risate ed eccitazione quando parlavano in polacco. Alla domanda su quale parola la descrive al meglio si ripeteva: tragedia. Sorprendenti sono anche le prime parole polacche apprese dagli italiani: skarbonka (salvadanaio), truskawka (fragola) o idziemy do baru na piwo? (andiamo al bar per una birra?).
Non sono mancate anche le storie divertenti. Durante i primi mesi di soggiorno in Polonia, uno degli italiani ha visitato Varsavia. Tuttavia, non parlava bene il polacco. Trovandosi al ristorante ha ordinato kotleta (cotoletta), ziemniaczki (patatatine) e buziaczki (bacini) invece di buraczki (barbabietole). La cameriera è arrossita e ha ridacchiato colta dall’imbarazzo.
Con i cambiamenti politici in Polonia dopo il 1989 e l’adesione della Polonia all’Unione europea nel 2004, le differenze economiche tra i due paesi sono diminuiti fino a scomparire, mentre con la diffusione dell’apprendimento della lingua inglese, ha perso importanza anche la barriera linguistica. In questo modo, l’ultimo ostacolo sulla strada per diventare polacchi è la mentalità. Non c’è dubbio che le abitudini, i comportamenti e lo stile di vita polacco siano decisamente diversi da quelli italiani. Alla domanda sull’atmosfera al lavoro, quasi tutti gli italiani, indipendentemente dall’anno dell’immigrazione, hanno risposto che in Polonia le relazioni sono formali. Non si tratta solo di darsi del Lei, ma del semplice modo di lavorare. Tutti sembrano svolgere solo le proprie mansioni, la realizzazione del compito è la cosa più importante, non c’è tempo per fare amicizia. “Mi manca una semplice chiacchierata durante la pausa caffè”, dichiara una donna italiana. Sembra che manchi il clima di spensieratezza ai nuovi arrivati. Inoltre tra polacchi e italiani è diversa anche l’opinione sul valore del lavoro, che si manifesta evidentemente nel settore della gastronomia. “Lavorare con i polacchi in cucina può essere davvero difficile. Per noi preparare la pizza o la pasta è una passione, per loro è una sorte di mansione stile fabbrica. Più importante è creare un nuovo prodotto”, commenta un cuoco italiano. Un altro italiano, redattore di Gazzetta Italia, aggiunge: “In Polonia, tutto è svolto nel minimo dettaglio. […] I polacchi hanno la tendenza ad essere passivi. Lavorano bene, forse di più rispetto agli italiani, ma sono passivi. Io nella redazione ho bisogno di persone propositive con idee, quindi persone molto più attive“. Pertanto, queste differenze derivanti dal “carattere nazionale” non si possono ignorare. Sono comuni indipendentemente dal luogo di lavoro, molto visibili e probabilmente non scompariranno mai.
Tutto ciò però non ha influenzato le conclusioni finali che gli stessi italiani hanno tratto dalle loro storie. Parlando sempre delle differenze tra uno e l’altro, di cosa li ha sorpresi in Polonia e che cosa gli manca di più, subito dopo nostalgici sospiri per la mancanza del sole italiano e del cibo tradizionale, sui loro volti è apparso un leggero sorriso. Hanno ammesso che sebbene si sentiranno sempre italiani, ci sono piccole cose che gli ricordano come sono integrati con la Polonia. Leggere esclusivamente la stampa polacca, il sapore del pane polacco o kiszonki, sono solo alcune cose per le quali sentono la mancanza della Polonia trovandosi in Italia. Uno persona ha riassunto la risposta alla domanda sull’appartenenza con un racconto. Una volta mentre tornava in macchina dall’Italia in Polonia, dopo alcune ore di guida, dopo aver finalmente attraversato il confine polacco ha notato un cartello con il nome della città “Zgorzelec”. Ah, ha pensato, finalmente a casa.
Non volevamo che questa serata finisse. Non volevamo lasciare questa bolla di felicità che ci ha permesso di conoscere tante nuove e stimolanti persone con le quali la conversazione non era solo uno scambio di frasi in una lingua diversa dalla lingua madre, ma era soprattutto un affascinante scambio dei diversi punti di vista che ha permesso di osservare cose note sotto una luce completamente diversa. Quando dopo le conversazioni ci siamo alzati dai tavoli e abbiamo pensato che la serata stesse per finire e tutto il meglio fosse alle nostre spalle ci è stata offerta un’altra possibilità di immergerci nelle storie di altre persone. Gli italiani ci hanno mostrato gli oggetti che hanno portato con sé in Polonia. Ciò ha fatto sì che tutte le parole, tutto il linguaggio melodico che prima galleggiava nell’aria si materializzasse trasformandosi in realtà. Con il fiato sospeso fissavamo quegli oggetti, quelle radici portate dalla terra natia che ora fioriscono di nuovo curate attentamente nei raggi del sole con l’odore di futuro. Un quaderno con i disegni dei luoghi che hanno fatto battere più forte il cuore. Dischi con la musica intrisa di ricordi, libri di cucina che permettono di ricostruire la casa sulle papille gustative. Romanzi con pagine che portano i respiri del sole italiano. Siamo stati grati. Siamo stati grati che queste meravigliose persone ci abbiano fatto entrare nel loro mondo privato di ricordi ed esperienze, facendoci assaggiare il loro passato irripetibile. Ci hanno mostrato noi stessi da una prospettiva diversa e ci hanno fatto capire che conoscere le culture diverse, e soprattutto conoscere altre persone, è una delle cose più affascinanti di questo mondo.
Tutte queste storie ci hanno mostrato che per capire le altre nazioni, bisogna dimenticare tutti gli stereotipi e concentrarsi sull’empatia nei confronti dei migranti e della loro storia. È fondamentale che come polacchi e come italiani formiamo una comunità solidale. Se abbiamo abbastanza coraggio e fiducia nelle nostre forze, troveremo la nostra casa ovunque. Alla fine tutto il mondo è Paese.
traduzione it: Amelia Cabaj
Elezioni presidenziali indette ufficialmente il 28 giugno
Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl
Patrizia Pepe: un marchio con visione
L’articolo è stato pubblicato sul numero 80 della Gazzetta Italia (maggio 2020)
Patrizia Pepe è una storia d’amore per la moda italiana e per la sua visione. Gli inizi del marchio risalgono al 1993, quando Patrizia Bambi insieme al marito Claudio Orrea, dopo molti anni di lavoro per le aziende di moda italiane, decisero di fondare un proprio marchio. Attualmente Patrizia Bambi svolge il ruolo di direttrice creativa, mentre Claudio è presidente del marchio.
Il carattere del marchio è già definito dal suo nome. La prima parte deriva dal nome della sua fondatrice più la parola “pepe” che dà caratterizzazione. Questa espressione riflette perfettamente lo stile del marchio, che è una combinazione di glam-rock seducente con un tocco di ironia e di distanza da noi stessi e dalla realtà circostante. “La mia ispirazione è il mondo femminile. Le donne e le loro anime vivaci, costruite con migliaia di sfumature, talenti e passioni, la loro bellezza interiore, la loro forza, la loro fiducia e il loro desiderio di libertà”, dice Bambi.
Il tratto distintivo di Patrizia Pepe sono i tagli elaborati, grazie ai quali gli abiti si adattano perfettamente alla figura. Il marchio ha sempre prestato attenzione alla qualità dei tessuti, sia classici che innovativi. Lo conferma anche l’attuale collezione per la stagione primavera-estate 2020, creata per una donna disinvolta, che trascorre la sua giornata di vacanza in spiaggia a Santa Barbara e di sera incontra gli amici in un club di Los Angeles.
Didi Grass, Light Hibiscus o Orange Spray sono i colori principali di questa collezione, intitolata #PATRIZIAPEPEMIRAGE. Si riferiscono al tema del sole al tramonto in California. Per la stagione primavera-estate 2020, Patrizia Pepe propone abiti con tagli per bottoni, pantaloni del vestito dalla linea fluida e abiti in denim ispirati agli indumenti da lavoro. Invece la scelta ideale per le feste formali saranno abiti lucidi con ricami di paillette, che indossiamo in combinazione con le scarpe bikers. Nell’ultima collezione troviamo anche abiti con motivi safari, tagli sensuali rifiniti con frange e interessanti stampe realizzate su tessuti di lino; tutto ciò che gli amanti del boho adorano di più.
Il marchio si è sempre distinto per la sua attenzione ai dettagli e per gli accessori accattivanti. Anche questa stagione abbiamo una nuova versione della borsa di culto Sleepy Fly, questa volta decorata con pizzi fatti a mano o con pietre ornamentali, appare anche nella versione di nappa. In questa collezione troviamo anche scarpe di rafia, sandali con frange o la loro versione più elegante decorata con cristalli cabochon.
Patrizia Pepe, pur essendo sul mercato da oltre 25 anni, cerca sempre di seguire le ultime tendenze, ricordando la sua storia e le donne per cui sono fatti i suoi abiti. Nel 2019 il marchio ha lanciato il progetto #patriziape99. Nell’ambito di questo concetto di tanto in tanto un prodotto viene rilasciato in una serie limitata, che si ispira a un numero e a una persona o a una storia specifici. Tra le collaborazioni di questa serie unica nel suo genere c’è stata quella con la famosa donna influencer della moda Evangelie Smyrniotaki (@styleheroine) o con l’attrice e modella Larsen Thompson.
Da notare che, nell’ambito dell’edizione di San Valentino, il marchio ha creato la felpa “Love Hoodie”, ispirata a un momento unico degli anni ’80, che è stato l’inizio della storia d’amore dei fondatori di quel marchio italiano. A quanto pare, dopo essere andati al cinema insieme, Patrizia ha regalato a Claudio una felpa rossa che si riferiva allo stile della protagonista del film. In un’epoca in cui l’uso del jersey per la produzione dei maglioni non era ancora così comune come oggi, Patrizia e Claudio hanno deciso di sviluppare un modello che li ispirasse a presentare la loro idea di moda, e questo si è tradotto nel loro marchio.
La passione per l’arte di Patrizia Bambi si riflette non solo nelle sue collezioni ma anche nelle campagne del marchio, realizzate in collaborazione con artisti interessanti. Dietro ogni progetto #patriziape99 c’è una serie di cortometraggi che sono più un concetto artistico che una semplice pubblicità online.
#PatriziaPepeCrew, è una delle ultime idee del marchio, è un movimento inedito per creare un collettivo femminile. Il suo scopo è quello di promuovere e incoraggiare la libertà di espressione delle donne attraverso la musica, l’arte, lo sport e tutti gli altri settori in cui possono esprimere la loro natura unica. Il primo gruppo è costituito da giovani ragazze che fanno skateboard e dalla storia della loro passione per questo sport tipicamente maschile, che viene mostrata in una serie di cortometraggi. Hanno parlato delle sfide che hanno affrontato e dell’esperienza che hanno acquisito lungo il percorso, celebrando la loro grande passione e il loro stile audace, disinvolto e non convenzionale.
Tali iniziative sottolineano l’unicità di questo marchio italiano, dietro il quale si nasconde non solo la grande qualità dei suoi prodotti, ma anche una visione coerente, che si riflette nei suoi progetti, nonché le iniziative intraprese nel campo di CSR, oggi così importante.
traduzione it: Karolina Wróblewska
Sito web: www.patriziapepe.com