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Milano Natalizia

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C’era una volta un bambino che spesso si addormentava a bocca aperta. Una notte uno sciame di api iniziò ad entrare e uscire dalla sua bocca. Il padre del bambino all’inizio si spaventò, ma poi, vedendo che il bambino continuava a dormire, capì che le api non gli avrebbero fatto del male, e rimase a guardare.

Si accorse che le api avevano depositato del miele nella bocca del figlio, senza pungerlo. Quel bambino, che si chiamava Ambrogio, divenne poi vescovo, scrittore, protettore dei poveri, delle api, degli apicoltori, dei fabbricanti di cera, e soprattutto di Milano.

Tutti gli anni, il 7 di dicembre, a Milano si festeggia Sant’Ambrogio: le scuole sono chiuse, l’arcivescovo celebra la messa nella chiesa di Sant’Ambrogio, e molti dei milanesi che non partono per le prime sciate della stagione, si godono la fi era degli “Obej Obej” che da qualche anno si svolge al Castello Sforzesco, dal 5 all’8 dicembre, dalle 8.30 alle 21 (ingresso gratuito).

Spesso si parla di Milano come meta per lo shopping, e non si può negare che fare shopping in questa città può essere davvero divertente, perché c’è un’ampia scelta per tutte le tasche, ma a Milano ci sono anche molti luoghi bellissimi da visitare. Se, per esempio, sarete nel capoluogo lombardo tra il 5 e l’8 dicembre, e andrete a farvi un giro alla fi era degli “Obej obej”, dove potrete trovare un sacco di idee carine per i vostri regali di Natale, non potete assolutamente non fare un giro dentro il Castello Sforzesco.

Dal Castello Sforzesco alla Piazza Duomo sono circa 5 minuti a piedi. Una volta arrivati in Piazza Duomo, intorno alla quale lo shopping offre la sua più ampia scelta, dal 1 dicembre al 6 gennaio 2023, dalle ore 9 alle ore 21, ci sarà il famoso mercatino di Natale in cui potrete curiosare tra 60 chalet che offrono cibi tipici del Natale, prodotti locali ed esteri e artigianato per tutti i gusti. Come “Obej obej”, un mercatino perfetto per gli acquisti natalizi.

Sempre il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, si accendono le luci dell’albero di Natale in Piazza del Duomo, aggiungendosi a quelle dell’albero Swarovsky in Galleria Vittorio Emanuele (il mio preferito).

Quando sarete in galleria non dimenticatevi di sfidare la fortuna: cercate il “toro” sul mosaico del pavimento della galleria, nella zona centrale, e, stando attenti a non tirare giù l’albero di Natale, fate tre giri su voi stessi appoggiando il tallone sulle zone intime del toro, ed esprimete un desiderio.

Non avete mai visto la Madonnina del Duomo da vicino, e la Piazza dall’alto? Allora vi consiglio di fare un salto, a piedi, per smaltire il pranzo, o in ascensore, sulla terrazza sopra
la basilica, aperta tutti i giorni dalle 9 alle 18.45 Se arrivate a Milano entro il 18 dicembre, siete già in centro e vi piace creare contenuti per i social, vi consiglio un pit stop alla mostra “Museum of dreamer”, ideata dalle sorelle Sella, in Piazza Cesare Beccaria. Impossibile non scattare foto a raffica tra le numerose scenografie proposte con l’utilizzo di neon, disco ball, luci interattive e colori sgargianti, in un ambiente pop, molto pop.

Ovviamente, come sempre quando si viaggia, consiglio di indossare delle scarpe comode (i tacchi teneteli per la cena), così che, dopo una prima tappa in centro, potrete continuare la vostra passeggiata.

E’ vero che Milano è grande, ma è vero anche che le zone da non perdere sono tutte abbastanza vicine al centro, e quindi raggiungibili anche a piedi.

A pochi passi dal Duomo, a Palazzo Reale, fino al 29 gennaio 2023 ci sarà la bellissima mostra “Relationship” del fotografo Richard Avedon e fino al 26 febbraio la mostra di Max Ernst, uno dei maestri del surrealismo

A due passi dal Duomo, in Piazza dei mercanti, luogo che amo molto, c’è la famosa Loggia dei Mercanti dove, se parlate contro una delle colonne che sorreggono gli archi, la vostra voce verrà sentita da chi si appoggerà alla colonna opposta alla loggia. Una piccola magia da vivere con la famiglia o con gli amici.

Un’altra piccola magia la potrete vivere in una chiesa non molto conosciuta, ma davvero splendida: nella chiesa di “Santa Maria presso San Satiro”, in una stradina senza uscita in Via Torino, in fondo all’altare, potrete ammirare un affresco, opera di Donato Bramante, che fa sembrare la chiesa molto più spaziosa e profonda. L’abside sarebbe dovuta essere di 9 metri e 70, ma visto che non c’era lo spazio, Bramante la fece finta, di 97 cm. Provare per credere!

Se arrivate a Milano con i bambini, o, come me, siete rimasti un po’ bambini, dal 20 Novembre al 9 Gennaio sarà aperta la pista di pattinaggio riscaldata e al coperto, nei giardini Indro Montanelli, a due passi da Porta Venezia, dove potrete vivere un’esperienza super natalizia nel “Villaggio delle meraviglie”.

Oltre alle bancarelle tipiche del periodo natalizio, ci saranno concerti, cinema 5D, esibizioni sul ghiaccio e l’immancabile Babbo Natale.

Niente bimbi e voglia d’arte? Dal Castello sforzesco potete dirigervi verso la basilica di “Santa Maria delle Grazie” per visitare la chiesa e il “Cenacolo di Leonardo” dipinto da Leonardo da Vinci nel 1498 nel refettorio della basilica (vi consiglio di prenotare con largo anticipo).

Avete già visto “L’ultima cena”? Allora ve ne andate a fare un giro in zona Brera e vi godete le opere artistiche e pittoriche della “Pinacoteca di Brera”, dove ogni terzo giovedì del mese potete assistere ai concerti di “Brera musica”, dentro le sale espositive.

Amanti della pop art? Andy Warhol vi aspetta alla Fabbrica del Vapore in Via Procaccini 4 fino al 26 marzo 2023. Una volta in zona io vi consiglio di visitare il Cimitero Monumentale. So che può sembrare un suggerimento strano, ma io lo trovo davvero stupendo, e ci riposano grandissimi personaggi milanesi e non, tra cui Alessandro Manzoni, Salvatore Quasimodo, Luca Beltrami, Carlo Cattaneo e Alda Merini.

Per tornare alla Pop Art, dal 23 dicembre al 12 febbraio 2023, gli spazi del Super Studio in Via Tortona 27 ospiteranno “Pop air, l’arte è gonfiabile”, le installazioni di 18 artisti e collettivi d’arte internazionali che, in circa 6000 metri quadri, dopo il successo di Roma e Parigi, creeranno il magico museo dei palloncini lungo la Balloon Street, per la gioia di grandi e piccini.

Se anche per voi la musica è una forma d’arte, un altro evento da non perdere è il musical “Sister act” che sarà in scena al teatro Nazionale fino al 7 gennaio. E per finire in dolcezza, se verrete a Milano nel periodo natalizio, vi consiglio di fare un salto da Marchesi in Via Montenapoleone, o in Galleria Vittorio Emanuele, per comprare il loro mitico panettone 1824.

In effetti Marchesi è uno dei pochi che il panettone lo produce tutto l’anno, quindi anche se verrete dopo Natale, il panettone lo trovate sempre.

Non ho mai capito perché certe cose buone le vendono, quasi tutti, solo un mese l’anno: io il panettone lo mangerei tutte le mattine.

Buone feste a tutti!

GAZZETTA ITALIA 97 (febbraio – marzo 2023)

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Viva la Commedia dell’Arte! Con questo slogan si apre Gazzetta di febbraio-marzo che ospita un bellissimo articolo su questa antica e speciale forma di teatro che ha creato personaggi mitici dell’immaginario collettivo come Arlecchino.

In questo interessante numero spiccano le interviste con Fabio Troisi, direttore dell’IIC di Varsavia che annuncia il programma del 2023, e con Magda Wrana, docente di italianistica dell’Università Jagellonica, che racconta il suo irresistibile amore per il sud Italia.

Con questo numero nasce la nuova rubrica “Ieri, oggi, domani” che diventerà un breviario insostituibile per chi, oltre a studiare l’italiano e a ricercare il lifestyle del Bel Paese, vuole anche conoscere scampoli di attualità. Tra gli articoli di viaggio segnaliamo Mantova segreta e Il Castel Nuovo di Napoli, per la musica gli ultimi successi dei giovani cantanti italiani e un bell’approfondimento del maestro Caldi sulla Cavalleria Rusticana, opera che dirigerà a Bialystok a marzo.

Non mancano poi tutte le nostre rubriche su cucina; salute (con un curioso articolo sui profumi afrodisiaci); fumetti; etimologia (alla scoperta del senso dei nomi Italia, Polonia, Europa) e cultura con la recensione dello splendido libro Leoni (Lwi) di Stefania Auci (tradotto in polacco) di cui potrete vincere una copia seguendo i nostri prossimi concorsi!

Insomma che state aspettando? Correte a comprare Gazzetta negli Empik o ordinatela online (cartacea o in versione digitale) sul sito di gazzettaitalia.pl

Katarzyna Jędrysik-Castellini: l’Italia è una costante fonte di ispirazione artistica

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Laureata alla Facoltà di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia, Katarzyna Jędrysik-Castellini, dal 2000 al 2016 ha vissuto in Italia con il marito Giovanni ed il figlio Dino, nato a Modena, per poi tornare in Polonia. I suoi dipinti, saturi di motivi italiani, sono esposti alla GaleriaArt.Pl di Varsavia.

Quali sono I tuoi primi ricordi legati all’Italia?
Gli odori, incredibili! Ho visitato spesso le mie zie ed i miei zii in Italia sin dalla tenera età. Rimanevo molto colpita dagli odori: il miscuglio dei profumi delle piante e del mare, l’aroma del caffè, dei “bomboloni”, del cibo, delle spezie e, naturalmente, il profumo del bucato lasciato ad asciugare, appeso ovunque.

Come sei diventata italiana?
Nel 1998 ero in vacanza in Italia. Sulla spiaggia di Sirolo, nelle Marche, in provincia di Ancona, un giovane italiano mi ha chiesto l’ora. È così che, banalmente, ho conosciuto Giovanni, il mio attuale marito. Si è scoperto che suo zio di Bologna, un chirurgo, in passato aveva operato mio zio, e che la cugina è la migliore amica di Cristina, la figlia di mia zia, che negli anni Cinquanta sposò un italiano e trovò lavoro all’università, alla facoltà delle lingue romanze. Ci siamo sposati a Falconara Marittima, la festa si è svolta nella cittadina costiera di Portonovo, con un menù ovviamente composto da pesce, crostacei e frutti di mare.

Com’erano gli inizi della vita italiana?
A causa del lavoro di mio marito, che è un finanziere, ci spostavamo spesso di sede. All’inizio vivevamo a Conegliano Veneto, in provincia di Treviso. Era l’ultimo anno dei miei studi all’Accademia di Belle Arti di Varsavia. Come oggetto della mia tesi di laurea ho proposto “Ritratto di una città italiana”; una rappresentazione sociologica e architettonica di Conegliano, con i suoi edifici, le sue architetture, le sue tradizioni e, soprattutto, i ritratti di persone che riflettevano sia la loro fisionomia che il loro carattere. Ogni mese viaggiavo in pullman per le correzioni dal relatore della tesi, il prof. Krzysztof Wachowiak. Erano più di 30 ore a tratta ed ogni volta rischiavo che i miei dipinti venissero fermati alla frontiera. Nonostante questo, il diploma è stata una grande gioia per me. Ho passato ore a dipingere, seduta nella biblioteca locale, cercando e spiegando curiosità sulla città. Gli sforzi sono stati ripagati perché ho ottenuto il diploma con lode e dopo ho ricevuto il premio Ewa Tomaszewska e il premio ZPAP della città di Varsavia.

Il primo incanto italiano?
Il momento preferito della giornata era l’ora della siesta. Ancora oggi, nelle città più piccole d’Italia, dopo pranzo, intorno alle tredici, la vita si blocca e cala il silenzio completo. Tutte le persiane delle case sono chiuse, le persone riposano, spengono i loro telefoni. I negozi e gli uffici fanno una pausa. In quei momenti sgattaiolavo fuori ed ero tutta sola nella città. Camminavo per le strade deserte, guardavo ogni angolo, scattavo foto e traevo ispirazione per quello che cercavo nei miei dipinti: pace, tranquillità e contemplazione.

Le scale sono un motivo ricorrente dei tuoi quadri.
La maggior parte delle regioni d’Italia non è pianeggiante, le scale sono un elemento tipico del paesaggio. A Conegliano, in Piazza Cima, le scale portavano al Teatro Accademia; scale di pietra, ampie, illuminate dal sole. Il motivo delle scale ha per me una dimensione simbolica, perché riflette la natura degli italiani che si alzano la mattina pronti per un nuovo giorno, non stanno mai fermi, vanno avanti, sempre più lontano, più in alto. Eppure sono in grado di celebrare le loro tradizioni in un modo così meraviglioso.

E da dove viene il motivo della scacchiera?
Ogni anno nel mese di ottobre, a Conegliano si celebra la festa della “Dama castellana”. Nell’anniversario della leggendaria battaglia duecentesca, nella grande Piazza Cima viene allestita un’enorme scacchiera: è monumentale, inondata di sole durante il giorno, illuminata di notte. Al posto delle pedine ci sono i residenti della città, ospiti e celebrità travestite in costumi rinascimentali che si muovono sulla scacchiera. Un vero e proprio teatro, la città si trasforma in una scenografia e i cittadini in attori. Posso tranquillamente dire che per un anno e mezzo ho vissuto in un teatro, e da questa meravigliosa esperienza si sono create molte composizioni nella mia testa e ho fatto schizzi e dipinti ai quali torno spesso nel tempo. Sulla stessa scacchiera si celebra anche la “Festa dell’uva” celebrata in tutta Italia nel mese di settembre. A Conegliano si chiama “Gioco fino all’ultimo bicchiere”, perché al posto delle pedine si gioca sulla scacchiera con bicchieri di vino bianco e rosso. Vino che, ovviamente, viene abbondantemente degustato.

E i tuoi arlecchini e pierrot?
Vivendo vicino a Venezia, mi sono innamorata del carnevale, delle folle in maschera con volti dipinti che indossano costumi di arlecchino, dei giullari e dei pierrot in abiti rinascimentali. Secondo me, i veneti hanno il teatro nel sangue. “Sono attori nati”, come scriveva Guido Piovene. La messa in scena viene loro naturale, senza alcuno sforzo. I veneti amano vestirsi, gesticolare, tutti i partecipanti entrano nei propri ruoli, interpretano spontaneamente i personaggi e le scene, si muovono con la grazia dell’epoca, hanno un grande senso estetico. Tutto ciò è per me una miniera di ispirazioni pittoriche.

Onnipresenti nei tuoi dipinti sono anche i portici.
Mentre vivevo a Bologna, ho fotografato e disegnato innumerevoli portici. La città ne è piena, i miei preferiti sono nella Basilica di Santo Stefano che è composta da un complesso di 7 chiese. In qualsiasi momento lÌ trovavo pace e tranquillità per contemplare. Amo dipingere i deliziosi contrasti, creati dalle ombre e dalle superfici infiammate dal sole. Un po’ come i pavimenti in pietra italiana, con colori e motivi geometrici diversi, sui quali si creano effetti speciali quando vengono colpiti dalla luce.

Parlaci dei tuoi uccelli e delle tue bambole.
Nei miei dipinti, gli uccelli sono un simbolo della caducità del momento, del bisogno di libertà di fuga. Si fermano solo per un momento che bisogna immortalare in fretta, perché presto voleranno via. Gli uccelli compaiono nelle mie nature morte, nei miei scatti di architettura, nei ritratti e portano la vita nelle mie opere. Le bambole sono reminiscenze del museo, antiche bambole secolari di Sirolo. Sono rimasta colpita dai loro volti individualizzati, che riflettono le emozioni umane, dai loro abiti e dalle loro acconciature fatte di capelli umani.

A proposito di uccelli, sei anche appassionata di canto e della musica italiana?
Agli italiani piace cantare. Mio marito canta, come un italiano e io suono il pianoforte fin dall’infanzia, quindi da quando stiamo insieme cantiamo molto. Entrambi amiamo l’opera. Creiamo anche le nostre composizioni e le registriamo per il nostro piacere. Questa è la nostra passione comune, un trampolino di lancio. Quando suono e canto, sono in un mondo diverso.

E la cucina italiana?
La adoro! Abbiamo vissuto per tre anni a Falconara Marittima vicino ad Ancona, nella casa di famiglia di mio marito. Una casa grande, centenaria, con pareti bordeaux. La casa era su una collina, circondata da ulivi coltivati biologicamente, il mio suocero Luciano li piantò in modo che le radici rafforzassero i pendii. Ci fu un anno di grande fertilità, così raccogliemmo le olive in modo tradizionale, salendo sugli alberi e scuotendoli, lasciando cadere le olive sulle reti distese. Nel frantoio delle olive, abbiamo spremuto l’olio a freddo, che si è rivelato essere il migliore che avessimo mai assaggiato. Tutta la famiglia italiana era felice e la quantità di olio era sufficiente per un anno. L’olio, un po’ di parmigiano o pecorino, origano fresco, buon pane, spaghetti e vino: tutto il necessario per rendere una persona felice.

Ti manca la vita italiana in Polonia?
Mi manca la luce italiana, il sole, i contrasti per le mie opere. Ho portato ispirazioni dall’Italia, tanti schizzi, ma qui in Polonia, senza quella luce, non è facile ricreare quel mondo.

Tłumaczenie it: Weronika Rosół

Necropoli, sarcofago, cimitero

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All’inizio di novembre in tantissimi paesi si celebra il giorno dei morti e pochi giorni prima anche Halloween, che, al contrario della solennità cristiana, adesso funziona, almeno per una gran parte della società, come una festa non connessa alle credenze religiose e inseparabile dalla sua dimensione pop culturale. Entrambe le usanze seguono però la stessa tematica: la morte, o meglio, la vita post mortem. Ci sono quindi anche certi termini che diventano attuali in questo periodo: il cimitero, le tombe ecc. Alcuni di questi vocaboli derivano dall’antichità greca e romana, il che non è molto sorprendente dato il fatto che la morte e i diversi riti per l’ultimo addio esistevano dagli albori della civiltà umana.

Necropoli
Una delle parole forse non molto popolari, ma comunque usata nel contesto ad esempio dei grandi cimiteri, è la necropoli. La parola viene dal greco antico ed è costruita attraverso due lemmi greci: νεκρός (nekrós) e πόλις (pólis). La prima delle due parole significa “morto”, mentre la seconda “città”. Insieme, come νεκρόπολις (nekrópolis), il nome indica “città dei morti”. Questa parola dimostra anche la prospettiva degli antichi sulla struttura del mondo e la sua certa regolarità, dandoci un indizio per immaginare l’aldilà come una dimensione separata. Come curiosità si può dire, che benché nella lingua polacca sia conservato il genere femminile della parola necropoli (pólis è femminile), nel caso di un’altra parola molto simile, cioè Acropoli (città alta; in polacco “Akropol”), i polacchi, considerando questo nome di genere maschile, possono sembrare un po’
incoerenti

Sarcofago
Molto spesso i nomi complessi vengono creati come una perifrasi dell’oggetto nominato. Così è anche nel caso del “sarcofago”, che ha probabilmente una delle etimologie più interessanti tra le parole provenienti dal greco. Il nome ultimamente viene dal greco antico σαρκοφάγος (sarkophágos), una parola costruita da due parole diverse: σάρξ (sárx) e -φάγος (-phágos). La prima delle due parole significa la carne umana, ma a volte anche il corpo. La seconda invece, viene dal verbo ἔφαγον (éphagon), aoristo (uno dei tempi esprimenti gli azioni del passato) del verbo “mangiare”. Sarcofago significa quindi “che mangia la carne”, perché il nome in origine si riferiva soprattutto a una pietra calcarea che faceva dissolvere rapidamente i cadaveri facendo venire in mente il processo di consumare.

Cimitero
In realtà però di solito i morti riposano nelle tombe più umili e le parole come “sarcofago” non si usano molto. Anche la “necropoli” è una parola che non si può applicare a tanti cimiteri. Per questo motivo sia in italiano, sia in polacco la maggior parte delle persone tende ad usare un’altra parola, ma che comunque deriva dal greco antico: “cimitero” (in polacco: cmentarz). La parola è arrivata nel vocabolario italiano e polacco tramite il latino coemeterium che a sua volta è la versione latina della parola greca κοιμητήριον (koimetérion) che significa “il luogo dove si dorme” (κοιμάω (koimáo) significa dormire). L’etimologia della parola “cimitero” quindi presenta una bella immagine della morte che non è una brutta fine, ma un sonno, lungo riposo.

“Chiese chiuse”, Tomaso Montanari

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In queste settimane la casa editrice Austeria pubblicherà la versione polacca del libro “Chiese chiuse” di Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena. Sarà il primo libro dell’autore pubblicato in polacco. A seguire presentiamo la premessa al libro dello stesso autore.

Introducendo il mio Privati del patrimonio (apparso, in questa stessa collana, nel 2015) avvertivo che non avevo «l’ambizione di esaurire il tema della privatizzazione della cultura», e che per esempio rimanevano «quasi del tutto fuori […] il cruciale nodo dell’aggressione perpetrata dagli interessi privati allo spazio pubblico delle città storiche (esemplarmente rappresentato dalle Grandi Navi, che stuprano quotidianamente la Laguna di una Venezia che si è potuta ribattezzare Benettown) e la crescente mercificazione del patrimonio ecclesiastico. Ho cercato di occuparmi del primo tema in un altro libro (Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, Minimum fax, Roma 2013), e spero di trattare in futuro anche il secondo». Il libro che state leggendo è il tentativo di dar corpo a quella speranza, di onorare quella implicita promessa. La prima cosa da dire è che le circa 85.000 chiese storiche italiane, che da sole rappresentano probabilmente la maggior parte del «patrimonio storico e artistico della Nazione» (Costituzione della Repubblica, articolo 9, comma 2), sono un bene pubblico. Almeno da un punto di vista morale, tutto il patrimonio della Chiesa è pubblico, e lo è a causa di una storia incancellabile:

i cultori dei rapporti tra Stato e Chiesa conoscono le antiche ascendenze di questa concezione per così dire “pubblicistica” dei beni ecclesiastici, e di quelli culturali in particolare. Essa può farsi risalire, per limitarci nel tempo, all’Ottocento quando perfino l’intervento eversivo (ma sarebbe meglio dire “redistributivo”) veniva giustificato con il fatto, ritenuto pacifico, che l’asse ecclesiastico era in qualche modo parte integrante del patrimonio pubblico. Pubblico era il patrimonio perché pubblicistica era la posizione della Chiesa nell’ancien régime, e perché il patrimonio si era formato quando v’era commistione tra le competenze dello Stato e della Chiesa, tra società civile e società religiosa […] Si trattava, in buona sostanza, di un retaggio storico indiscusso perché frutto di una storia millenaria nella quale Stato e Chiesa costituivano due aspetti di una medesima realtà. 

Oggi, questo straordinario patrimonio pubblico – che contiene alcuni degli apici della storia dell’arte universale – è in gran parte privatizzato nei fatti: cioè negato. Sono sempre di più le chiese accessibili a pagamento, o destinate ad attività economiche redditizie o addirittura alienate. E sono tantissime quelle di cui siamo privati nel modo più radicale: a causa del loro abbandono, del loro degrado. A volte, del loro crollo. O, semplicemente, a causa della loro chiusura. C’è, poi, un modo più insidioso e sottile per chiudere le antiche chiese alla loro funzione pubblica. Ed è quello di negarne il valore culturale: che non è affatto riducibile, come vedremo, alla loro (dubbia) definizione di «beni culturali di interesse religioso». Nelle prossime pagine ci caleremo, dunque, in quella che può apparire, e invero è, una galleria degli orrori, materiali e morali. Ma vedremo anche come questo «bello ovile» di cui ogni italiano si sente, seppur in modi diversi, «agnello» potrebbe trovare una nuova funzione, che non sostituisca, ma affianchi felicemente, quella religiosa. Vorrei che fosse subito ben. chiaro che questo libro non vuole essere un atto di accusa verso i custodi – quelli religiosi e quelli civili – delle chiese italiane. Nonostante la diminuzione del clero e lo scemare della pratica religiosa, la Chiesa italiana ha fatto negli ultimi anni davvero moltissimo per tutelare il suo – il nostro – patrimonio culturale. E le soprintendenze, esauste e scientemente fiaccate da una politica immemore del bene comune, danno quotidianamente il sangue per difendere le chiese storiche. Ma la mancanza di fondi e di personale, e una scala di valori, totalmente ribaltata, che mette al primo posto i Grandi Musei schiavi dell’incasso, le mostre, gli eventi, sembrano condannare a morte tutto ciò che non rende. Per questo, il primo scopo del libro che state leggendo è accendere un riflettore sulle chiese italiane. È necessario mettere le mani avanti sulla limitazione del campo: parlerò quasi esclusivamente di chiese, ed eventualmente dei complessi monumentali che le contengono. Più vasto, e non meno doloroso, sarebbe il discorso sulle biblioteche, sugli archivi e sui musei ecclesiastici, per non parlare dei beni culturali non sacri ma di proprietà ecclesiastica. Naturalmente, in moltissimi casi gli stessi monumenti accolgono un patrimonio storico e artistico che comprende tutti questi tipi di beni, accomunati da una stessa sorte: perire, o salvarsi, insieme. Ma, se medesima è la sorte, diversi devono essere i modi e gli strumenti per impedire che essa si riveli fatale.

Un’ultima, doverosa avvertenza. Ho scritto questo libro da storico dell’arte: il tema non è quello – oggi assai frequentato in ambito ecclesiale, a livello internazionale ancor più che in
Italia – delle redundant churches in generale2, ma quello – più ristretto, anche se in Italia di fatto preponderante – delle chiese antiche: che sono, indissolubilmente, edifici di culto e
monumenti. Ma non è un libro scientifico, di ricerca: è un libro scritto “per fatto personale”. Per il dolore viscerale che provo di fronte alla rovina, materiale e morale, di una parte crescente di questo patrimonio, tanto esteso quanto vario. Dunque, l’ho scritto per quello che sono: un cittadino della repubblica, ma anche un cristiano cattolico, credente e praticante. Benché il libro contenga una serie di spunti e suggerimenti per cambiare concretamente lo stato delle cose, il suo orizzonte è quello della mentalità, delle idee e dei sentimenti. Il suo scopo principale è impostare il dibattito pubblico in modo nuovo: andando al di là della folta “letteratura amministrativa” prodotta dal ministero per i Beni culturali e dalla Conferenza episcopale italiana, e provando a indicare le ragioni ultime per cui i cittadini italiani e i cristiani devono salvare le loro chiese storiche. Mantenendole intatte, aperte al pubblico e al servizio del pieno sviluppo della persona umana.

Due sono, dunque, le stelle polari che orienteranno il viaggio: la Costituzione, e il Vangelo. Erano i due libri che si trovavano sul tavolo degli studenti di Barbiana: e don Lorenzo Milani è ancora l’insuperato modello di un esser cristiano che non nega, ma avvera fino in fondo, l’essere cittadino di uno Stato laico, democratico.

ANNI SESSANTA, IL DESIGN ITALIANO CHE CAMBIÒ LA QUOTIDIANITÀ

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Doney

In questi ultimi anni si è riscoperta la voglia di arredare casa con oggetti degli anni ’60. Nel dopoguerra, durante il boom economico, sarebbe stato impensabile tenere in casa un mobile in massello o una vetrinetta di manifattura artigianale, magari appartenuti a qualche parente. Lo slogan nell’arredare i propri spazi, sia domestici, sia lavorativi, era “via il vecchio, avanti il nuovo”, insomma era l’elegia della modernità.

Non solo le auto e le moto erano l’espressione del design italiano più lungimirante e pioneristico di quel periodo; l’innovazione si ritrovava soprattutto negli oggetti di uso quotidiano come il televisore che, come la radio prima, era stato un prodotto importante nella vita del dopoguerra, simbolo della convivialità familiare e sociale.

Così come per i mezzi di trasporto e le vetture di serie, gli elettrodomestici e altri apparecchi elettrici, il televisore rappresenta una rivoluzione sia nell’utilizzo, come oggetto portatile, sia nell’arredo. Non più grande ed ingombrante, non più inserito nel mobilio del soggiorno, del salotto o nei luoghi dedicati, il televisore si trasforma in qualcosa di più avveniristico, alleggerito nella forma, nella dimensione e colorato grazie all’utilizzo di materie plastiche per la scocca.

Doney è il primo televisore portatile, insignito del Compasso d’Oro, disegnato da Marco Zanuso e Richard Sapper. Venne realizzato dall’azienda Brionvega che produsse poi dopo pochi anni Algol disegnato dagli stessi designer con una forma più squadrata ma che manteneva l’originalità del maniglione per il trasporto. Questo stesso oggetto diventerà elemento di arredo per le scenografie di alcune note produzioni cinematografiche.

Nel film “Lo scatenato” di Franco Indovina dove l’attore Vittorio Gassman impersona un divo della pubblicità, il regista non a caso arreda la camera da letto con oggetti di design, ma, soprattutto, inserisce il televisore portatile Algol, a sottolineare il lavoro del protagonista.

Sacco

Ed è proprio il mondo del cinema che celebra il design italiano come icona di stile, non solo per la moda: basti ricordare il manifesto del film “Vacanze Romane” di William Wyler, con Gregory Peck e Audrey Hepburn seduta sulla Vespa Piaggio.

Successivamente arrivano prodotti ideati negli anni ’60 che vengono utilizzati ancora oggi per arredare e ispirare scenografie; i registi si divertono a far interagire i personaggi con questi oggetti della modernità. Un esempio è la seduta Sacco, prodotta dall’azienda Zanotta, che rompe la formalità dell’ambiente in cui viene inserita. La Sacco è ricordata dagli italiani anche perché è presente nel film comico “Fantozzi” in cui il mitico ragioniere si deve sedere non sulle solite poltroncine da ufficio ma su di un oggetto rosso, morbido, in pelle che per lui è troppo moderno e che non riesce a domare cadendo continuamente. Questa seduta è espressione di una rivoluzione culturale, in cui si esprime l’innovazione disegnata da Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro. La forma della poltrona Sacco cambia e si adatta al peso corporeo della singola persona grazie al riempimento di palline di polistirolo espanso ad alta resistenza. Oggi la seduta Sacco è uno dei modelli più utilizzati negli ambienti lavorativi e negli spazi coworking.

La struttura e l’imbottitura delle classiche sedute e poltrone conosciute fino a quel momento, facevano così spazio a nuovi oggetti resi divertenti, comodi, colorati per quegli ambienti abitativi aperti, informali e liberi da divisori.

Nel classico salotto si stavano sostituendo elementi pieni con arredi leggeri, non più legati ad una sola stanza, ad un solo ambiente. Per questo famosi registi italiani e stranieri come Dino Risi, Pedro Almodóvar, Woody Allen hanno continuato ad utilizzare il design italiano per raccontare storie e avventure incredibili ambientate in case moderne e ambienti futuristici.

Basti pensare ai film della saga di James Bond. Un esempio fra tutti? Ne “La spia che mi amava” diretto da Lewis Gilbert, il personaggio Stromberg mentre racconta i suoi malefici

Spider

piani all’agente 007 all’interno della base subacquea, è seduto sulla poltrona Elda disegnata da Joe Colombo prodotta dall’azienda Longhi. In una sala comandi molto futuristica nera con arredi bianchi e un grosso mappamondo dorato, il regista inquadra il personaggio vestito interamente di grigio seduto su Elda, rigorosamente bianca con interni in pelle nera. Non sarà né il primo e né l’ultimo film in cui un regista la sceglierà come arredo che accompagna e caratterizza il personaggio che vi si siede. La bellezza di questa seduta visionaria è data dalla sua forma avvolgente e dalla struttura girevole a 360° in fiberglass, con il rivestimento interno e i cuscini in pelle. Questa poltrona sottolinea la sperimentazione di lavorazioni e di materiali per la realizzazione di prodotti che esprimevano la genialità dei designer, oggetti che hanno reso famosa l’Italia in tutto il mondo. Joe Colombo nella sua breve vita ha disegnato anche lampade famose come Spider, realizzata dall’azienda Oluce con la quale ha vinto il Compasso d’Oro. È uno dei modelli di lampada composta da un unico corpo illuminante, pensato per una speciale lampadina a spot orizzontale, studiata per essere da tavolo, terra, parete e soffitto.

Le lampade vengono utilizzate spesso per creare l’atmosfera ideale per il protagonista di un film, dove nella scena si illumina il personaggio che si trova alla scrivania oppure quando si vuole focalizzare l’attenzione sulla conversazione al telefono o sul dialogo frontale dei protagonisti. Così accade nel film “Dolor y Gloria” di Pedro Almodóvar in cui la lampada Pipistrello disegnata da Gae Aulenti e realizzata dall’azienda Martinelli Luce rende intima la scena. Il profilo del paralume ricorda le ali di un pipistrello e rende la luce diffusa e non solo puntata sulla superficie: un risultato sofisticato ed elegante reso possibile dalla forma della base e dal sistema telescopico in acciaio inox che permette di regolare l’altezza.

In fondo è grazie alla scelta di questi dettagli che quel film riesce a regalarci un momento, una visione, una sensazione per cui ci innamoriamo di quella lampada, di quel tavolo, della seduta che ci ha portato ad acquistare quel prodotto. Non è un caso che importanti scenografi abbiano avuto il compito di allestire gli ambienti avvalendosi di aziende italiane per ricreare stanze, spazi dedicati, riconoscendo al design italiano la capacità di aver saputo creare oggetti ed arredi dalle forme ineguagliabili e celebri.

FOTO: ARCHIVIO FOTOGRAFICO FONDAZIONE ADI COLLEZIONE COMPASSO D’ORO

Daniele Stasi „Polonia restituta”

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Per capire bene un paese bisogna conoscere la sua storia. Daniele Stasi, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Economia, Management e Territorio dell’Università degli Studi di Foggia, ha adottato questo metodo per conoscere e capire la storia politica della Polonia. È stato possibile grazie anche alla sua feconda attività di visiting professor presso le Università polacche di Lublino, Rzeszòw e Varsavia. La sua recentissima monografia, dal suggestivo titolo «Polonia restituta». Nazionalismo e riconquista della sovranità polacca (il Mulino), insieme alla precedente Le origini del nazionalismo in Polonia (FrancoAngeli, 2018) costituisce una fonte importante per comprendere il nazionalismo polacco nelle sue diverse accezioni.

Come mai ha deciso di mettere al centro dei suoi studi, tra le altre cose, anche la Polonia e la sua storia?

Dopo aver concluso un lungo periodo di studi cominciato a collaborare con alcuni studiosi polacchi e poi sono diventato visiting professor dell’Università di Rzeszów dove ho passato molti anni. In quel periodo l’interesse per la Polonia è cresciuto. Quando sono arrivato la prima volta, nel 2005, era un paese che stava cercando il suo posto in Europa. Oggi la Polonia è straordinariamente sviluppata con punti di forza molto importanti di tipo economico, culturale ed accademico. Sono stato testimone di questa trasformazione della Polonia da paese post-comunista a paese europeo a tutti gli effetti. Varsavia, Poznań, Cracovia sono assolutamente città europee, ma si può dire che anche altre parti della Polonia hanno delle potenzialità molto forti. Durante il mio soggiorno in Polonia volevo comprendere meglio l’identità culturale e storica di questo paese.

Si è appassionato in particolare dell’idea di nazione e del nazionalismo.

Nel mio precedente volume, ovvero “Le origini del nazionalismo in Polonia”, mi sono occupato del nazionalismo polacco. Volevo comprendere le origini storiche di questo neonazionalismo che ha preso piede in Polonia, ormai da alcuni anni. Mi chiedevo come mai fosse possibile questo nazionalismo in un paese che era conosciuto all’estero, soprattutto per la figura straordinaria e carismatica di Giovanni Paolo II e di un’altra figura importante della storia contemporanea come Lech Wałęsa, paese che era il primo ad avere avuto un “governo libero” dopo la fine del comunismo (quello guidato da Tadeusz Mazowiecki). Ho studiato le origini del nazionalismo polacco, in particolare tre figure fondamentali dell’idea di una politica nazionalista, ossia Roman Dmowski, Jan Ludwig Popławski e Zygmunt Balicki. E ho concluso questo lavoro arrivando a una figura importantissima della storia contemporanea polacca: Józef Piłsudski. Per comprendere chi siamo bisogna studiare la storia, che è maestra di vita.

“Polonia Restituta” racconta due tipi di nazionalisimi, quello etnico e civico, nella
Polonia a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

“Polonia Restituta” ha come data finale il 1926, la data del colpo di Stato di Józef Piłsudski, che chiude una fase politica importante per la storia polacca che si riaprirà solo dopo la fine del comunismo, ovvero dopo le elezioni libere, che si terranno negli anni Novanta. Una costituzione, non di carattere autoritario, si avrà solo nel 1997. La Polonia mi sembra un paese che contiene al centro della sua cultura politica due tendenze. La prima è di carattere nazionalistico, gelosa delle proprie tradizioni e della propria identità nonché scettica nei confronti di istituzioni di carattere internazionale. Nel corso della storia questa tendenza si è manifestata con l’etnonazionalismo promosso da Roman Dmowski. La seconda, invece, conosciuta anche come il nazionalismo civico e di cui rappresentante di spicco era Józef Piłsudski, è una Polonia più aperta e basata sull’idea di uguaglianza, di convivenza pacifica e di inclusione sociale. Quindi si tratta di un dibattito interessante tra personalità dallo spiccato profilo politico, tra cui appunto Dmowski e Piłsudski ma non solo.

Immagino che sia una parte di storia poco conosciuta in Italia?

Ci tengo molto a parlarne in Italia perché il libro contribuisce a colmare una lacuna di carattere storiografico. È uno studio abbastanza approfondito su quello che è il profilo del nazionalismo in Polonia e di alcune figure di straordinario interesse. La Polonia è un paese grande geograficamente con un peso politico decisamente rilevante, perciò, le persone che si occupano di storia, politica, storia delle relazioni internazionali, storia dell’Europa centro orientale non possono non confrontarsi con questo tema. E sarei felice se gli storici italiani si interessassero maggiormente a questo paese che, come vediamo, gioca un ruolo fondamentale oggi in Europa.

Che tipo di lezione potrebbe trarre un polacco dal suo libro?

Un polacco potrebbe approcciarsi a questo testo tenendo conto della complessità della sua storia. La storia non può essere letta attraverso categorie ideologiche rigide. La storia della Polonia, per lunghi periodi, è storia di una democrazia che non è riuscita a sorgere. È la storia anche di un nazionalismo che era un nazionalismo patriottico, aperto al riconoscimento dei principi di uguaglianza e di diritti, accanto però a un etnonazionalismo discriminatorio purtroppo legato in gran parte a una pagina nera della storia polacca, ovvero l’antisemitismo. Non si può ignorare questa pagina della storia che non riguarda tuttavia solo la storia della Polonia fra le due guerre. Nel 1968 la campagna antisionistica del Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR), di cui il segretario generale all’epoca era Władysław Gomułka, portò all’emigrazione di moltissimi intellettuali e di semplici cittadini di
origine ebraica. Sarebbe sbagliato però identificare la storia dei polacchi con queste ondate di intolleranza e di discriminazione. La Polonia in molte cose è un paese che rivendica la sua originalità, le sue tradizioni, le sue caratteristiche culturali e storiche, purtroppo qualche volta lo fa in una maniera eccessiva, quasi sciovinista. Dall’altra, però, è un paese straordinariamente aperto. La mia impressione sulla Polonia è stata positiva sia da un punto di vista personale che da quello storico e scientifico. Credo che la Polonia sia uno dei paesi più importanti dell’Europa centro-orientale, dal punto di vista geografico, politico, demografico ed economico. Ha le carte in regola, secondo me, per giocare nel futuro un
ruolo fondamentale sul piano internazionale e più strettamente nell’ambito dell’Unione Europea.

Per giocare questo ruolo importante nell’Unione Europea che cosa bisognerebbe fare?

La guerra in Ucraina ha complicato tutto. Ha cambiato gli equilibri sia all’interno dell’Unione europea sia a livello internazionale, perché ci ha messi tutti quanti di fronte a un’aggressione illegale e vergognosa di uno stato sovrano. La Polonia era il paese conosciuto fino a poco tempo fa per aver costruito i muri al confine bielorusso. Oggi la Polonia è un paese che ha accolto oltre 3 milioni di ucraini in una maniera splendida, mostrando una grande solidarietà. Quello che si dovrebbe evitare, appunto, sono le strumentalizzazioni di carattere prettamente politico legate alla storia del Novecento, che non aiutano al dialogo ma costruiscono muri. C’è invece bisogno di ponti e di dialogo. Se vincerà la solidarietà, la tolleranza e la non discriminazione, credo che forse usciremo da questo disastro della guerra in una maniera diversa. Per conoscere l’altro ci vuole apertura e comprensione.

“Pane e sale”, successo polacco al Festival di Venezia

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La Biennale di Venezia, fot. ASAC, ph G. Zucchiatti

“È una storia sulla solitudine e sul distacco sempre più profondo tra le persone.” Così il regista Damian Kocur definisce il suo film “Pane e sale”, vincitore del premio speciale della giuria alla 79^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel concorso Orizzonti. Come protagonisti vediamo i fratelli Tymoteusz Bies, pianista e vincitore di numerosi premi – attualmente lavora come assistente presso l’Accademia di Musica Karol Szymanowski di Katowice – e Jacek Bies, che a parte studiare pianoforte, insieme al suo gruppo musicale crea la propria musica.

Tymek, pianista e studente dell’Accademia di Musica di Varsavia, torna a casa per trascorrere le vacanze con la madre e il fratello Jacek, anch’egli pianista, che però non è entrato nell’Accademia e trascorre il tempo con gli amici. L’unico intrattenimento nella piccola città sono gli incontri con gli amici, il bagno nel vicino fiume e gite al kebab locale, gestito da due stranieri. Le conversazioni superficiali sul nulla, un senso dell’umorismo comprensibile solo agli iniziati si alternano a scene di profonda riflessione mostrate perfettamente dalle emozioni visibili sui volti dei personaggi. Un’elegia sulla noia o un ritratto perfetto della vita quotidiana comune a molti luoghi in Polonia? Questa routine quotidiana è intervallata da piccoli atti di violenza che alimentano una spirale di odio.

Il tuo film è in parte basato su una storia vera, cosa ti ha colpito così tanto da volerla portare sullo schermo?

Damian Kocur: Raccontando una storia parto sempre da un evento oppure da un fatto che qualcuno mi ha raccontato e su questo costruisco tutto il resto. Anche un semplice evento può avere un significato metafisico o universale e dice sul mondo più di qualsiasi altro racconto epico. Cesare Zavattini, un importante esponente e teorico del neorealismo, diceva che un regista partendo da una cosa molto semplice può costruire una grande storia. Anch’io la penso così e quindi costruendo il mio film sono partito da un fatto di cronaca avvenuto in una cittadina polacca un paio di anni fa. Un immigrato che lavorava in un bar accoltellò a morte un ragazzo di circa vent’anni. Dopo la tragedia, la comunità locale e tutto il paese si convinsero che l’omicidio era avvenuto per motivi religiosi. Ci furono inviti a boicottare i ristoranti arabi, o addirittura a uccidere i musulmani. Le nuove culture che stanno emergendo nel nostro paese negli ultimi anni sono spesso una sfida per la nostra società molto omogenea. Ma il miofi lm non parla certo di immigrati. Un protagonista importante e onnipresente nel film è la violenza, che scatena un effetto domino. Inoltre, la mia cara amica, Marta Konarzewska, mi ha fatto capire che questo fi lm, in qualche modo, parla anche di me. L’approccio del protagonista, la sua arroganza nei confronti di questo ambiente, il parziale disaccordo con ciò che lo circonda. Sento che nel fi lm ci sono molti dei miei sentimenti e pensieri.

La stessa storia ambientata in una grande città non avrebbe avuto lo stesso significato?

DK: Conosco bene i piccoli paesini, perché ci sono cresciuto e ci ho vissuto fino all’età di 20 anni. I due protagonisti, Tymek e Jacek, vengono da Mikołów, una città piccola vicino a Katowice, queste origini ci hanno aiutato a trattare il tema. In tali città, anche i più piccoli

Tymoteusz Bies, Nikola Raczko

cambiamenti si notano subito. Mi sembra che questo possa essere molto positivo ma a volte possa portare a episodi negativi, perché gli ambienti così piccoli sono più propensi alle tensioni. Ricordo che nel nostro paese ogni nuovo evento attirava l’attenzione di tutti. Comunque non è solo una questione di dimensioni della città. Questa storia potrebbe anche essere accaduta in un quartiere, per strada o tra i membri di un piccolo gruppo di persone.

La forza del film sta nella sua naturalezza e nel fatto che tutto quello che succede assomiglia molto alla vita reale. Perchè hai trasposto la storia proprio in questo modo così autentico e diretto?

È il risultato di un metodo che sto usando da molto tempo. Lavoro con attori non professionisti e anche questo dà l’effetto del realismo. Esiste un fenomeno chiamato volontaria sospensione dell’incredulità (willing suspension of disbelief). Appare quando lo spettatore sa di guardare un film, ma percepisce la storia come verosimile. Crede nelle emozioni pur sapendo che si tratta di una finzione, grazie a questo fenomeno possiamo vivere il cinema. Io invece cerco di minimizzare questa sensazione nel pubblico, per dare alle persone la sensazione di guardare qualcosa di molto autentico, perché anche a me piace guardare i film del genere. Pertanto, quando qualcuno ride o piange nel mio film, è un’emozione vera. Ovviamente a volte è innescata da una cosa completamente diversa da quella che è nella scena, ma è reale. Gli attori non professionisti possono dare questo effetto perché non si controllano così tanto e se si fidano del regista, si lasciano andare. Ho l’impressione che gli attori professionisti non riescano mai ad abbandonarsi veramente, perché pensano sempre al personaggio che interpretano.

Tymoteusz Bies, Damian Kocur, Jacek Bies, La Biennale di Venezia, fot. ASAC, ph G. Zucchiatti

Come vi siete trovati nella veste di attori e in un film girato in maniera molto innovativa?

Tymoteusz Bies: Mi sembra che, paradossalmente, sia più facile recitare senza testo scritto. Secondo me, se riesci a superare la barriera comunicativa, improvvisare sarà sempre più naturale che usare la lingua scritta nella sceneggiatura. A livello di dialogo non abbiamo avuto difficoltà. Naturalmente, una cosa importante era anche il fatto che la troupe sul set era piccola. Ci sono stati momenti in cui i confini tra il film e la vita reale sparivano quasi del tutto.

Jacek Bies: La mia ragazza ha detto a un certo punto che stavo parlando in modo tale che non riusciva più a capirmi. Abitavamo nella casa dei nostri protagonisti, non in un hotel. Ho giocato al videogioco Fifa tutta la notte in salotto. La differenza tra il film e la realtà era che anche i ragazzi del kebab venivano da noi per. giocare ai videogiochi.

TB: Comunque, sarei molto lontano dal descrivere questa formula come strettamente documentaria. Naturalmente, tutte le caratteristiche, il modo di comportarsi e il linguaggio assomigliano alla nostra vita reale, ma il film racconta una storia completamente immaginaria. Chiamarlo documentario, secondo me, gioca a suo sfavore. Questa è una storia di fantasia con elementi di improvvisazione. Vorrei evitare anche un’eccessiva identificazione con il protagonista, perché parla la mia lingua, ha il mio nome, ma non sono io. Penso che la bellezza di questa storia stia nel fatto che si trova al confine tra verità e finzione.

Ci sono maestri del cinema italiano che ti ispirano?

DK: Mi piacciono molto i documentari, ad esempio “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi. Adoro questo fi lm. è un documentario, ma raccontato come un fi lm di finzione di massimo livello. Recentemente ho scoperto e ammiro molto Michelangelo Frammartino. Sono entusiasta del fi lm “Il buco”, che l’anno scorso era in concorso principale alla Mostra del Cinema di Venezia. Lui non fa spesso film. “Le quattro volte” lo ha fatto dieci anni fa. Finanziare un film completamente privo di narrazione è una vera sfida. Non posso permettermi ancora di fare fi lm del genere, ma comunque ho realizzato il mio fi lm senza compromessi. Non abbiamo preso strade facili, è stato piuttosto un esperimento e un rischio, sia in termini di casting che di metodo di realizzazione. Jurek Kapuściński, il nostro produttore di Studio Munk, ci ha dato una grande libertà. Quando gli ho mostrato il primo materiale, ho pensato che mi avrebbe detto di tagliare le scene per velocizzare e non annoiare lo spettatore. Jurek invece ha detto che quella scena doveva essere lunga perché così assomiglia al cinema di Antonioni. Mi sono sentito libero di poter sperimentare e così abbiamo introdotto molte soluzioni che erano al limite delle arti audiovisive. La versione fi nale di alcune scene e l’effetto quasi metafisico, è stata una questione di montaggio. Quando fai un film del genere, è proprio il montaggio che ti permette di raccontare qualcosa in più.

Lo spettatore di oggi è pronto per un cinema del genere?

Jacek Bies, Tymoteusz Bies

DK: So che questo film non avrà un vasto pubblico e per molte persone sarà difficile perché sono abituate a una sorta di convenzionalità nel cinema. Scontrandosi con un modo completamente diverso di raccontare e con le emozioni diverse, non sapranno cosa farne. Ma quando dopo la proiezione qualcuno viene da me e sento che ha avuto la sensibilità e la competenza per riconoscere un altro tipo di fare cinema, sono estremamente contento. Questo è più importante per me che avere migliaia di spettatori al cinema. Apprezzo molto quando qualcuno viene da me perché ha un sincero bisogno di parlare di ciò che ha visto sullo schermo.

Dopo la proiezione a Venezia hai detto che preferisci il silenzio nel cinema, ma nel caso del tuo film è molto forte l’abbinamento tra musica classica e la violenza che vediamo sullo schermo.

DK: La musica classica nel film aggiunge una sorta di sentimentalismo alle scene. è un elemento cliché e ho sempre pensato che non avesse senso esaltare ulteriormente le emozioni. Invece in questo caso è esattamente come hai notato, Chopin dopo un atto di violenza è ancora più spettacolare e significa una specie di disaccordo con ciò che è stato mostrato sullo schermo.

La cultura e la musica ci possono salvare?

TB: Un interessante punto di partenza per l’interpretazione di questo film può essere questo contrasto tra la musica classica e una vita piena di violenza, che fa vedere perfettamente che l’arte è impotente di fronte alla violenza. L’arte può parlare di qualcos’altro e in qualche modo stimolare la sensibilità ma rimane impotente e, secondo me, questa impossibilità della musica di cambiare le persone è un buon indizio per capire il rapporto tra i personaggi. Credo che l’arte non possa salvarci, ma in qualche maniera permettere di prendere le distanze da una certa brutta realtà. Quello che mi piace di più nella musica e nel suonare è che mi dà, almeno per un po’, un distacco dalla realtà, è una sorta di fuga. E queste fughe sono estremamente importanti per me, comunque questo avviene a un livello molto personale, non a livello sociale.

DK: Io mi chiedo anche fino a che punto l’arte arriva al pubblico, in Polonia per esempio, la situazione non è buona. L’arte non è aperta e attraente, ma esclusiva ed ha sempre meno pubblico. Le persone scelgono piuttosto l’intrattenimento facile, come la televisione. Negli anni Ottanta, c’erano solo due programmi televisivi, ma si sapeva che la sera ci sarebbe stato un programma dedicato al cinema dove si parlava dei film in maniera interessante e c’erano le proiezioni di alto livello. Oggi ogni informazione deve essere veloce con molti stimoli e in una forma adatta ai social media con il focus sull’immagine e non sul contenuto. Non c’è alcuna riflessione, perciò non mi illudo che l’arte possa cambiare qualcosa, perché l’arte arriva a sempre meno persone. È bello vedere una sala piena qui, al festival, ma questa è una situazione unica ed elitaria a cui non tutti hanno accesso. Artur Liebhart, direttore del festival Millenium Docs Against Gravity, mi ha detto che il suo festival è la rassegna più popolare tra il pubblico e questo è molto incoraggiante, ma mi piacerebbe credere che per i ventenni di oggi il cinema sarà sempre importante e che faranno film. Non voglio essere un rappresentante dell’ultima generazione che gira film seriamente.

Morawiecki: “adegueremo la normativa sui parchi eolici, per velocizzare l’arrivo dei fondi UE”

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl.

Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki spera che la legge sui parchi eolici sarà proseguita nella seduta successiva e subito dopo, cioè approssimativamente tra due settimane, la proposta del PNRR verrà presentata. La legge riguarda la liberalizzazione della ricevibilità della realizzazione dei parchi eolici terrestri. Secondo Morawiecki le norme attuali relative ai parchi eolici sono tra le più rigorose, se non le più rigorose in Europa. Tuttavia la Polonia ha bisogno dei parchi eolici per non bruciare il carbone colombiano o indonesiano che sono troppo costosi, e il carbone russo non si utilizza più perché c’è l’embargo. Il progetto dell’emendamento della legge sui parchi eolici dello Stato è stato presentato lo scorso luglio e prevede che la decisione sulla possibilità di localizzare nuovi parchi eolici e sullo sblocco della possibilità della costruzione di abitazioni nelle vicinanze di questi parchi eolici spetterà ai comuni.  Nonostante la Commissione europea lo scorso giugno abbia accettato il PNRR polacco, i fondi non sono stati erogati perché, secondo la Commissione, il PNRR polacco ha qualche punto importante da soddisfare prima di ricevere qualsiasi pagamento.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news,1521890,premier-wniosek-w-sprawie-kpo-zlozymy-kiedy-bedzie-procedowana-ustawa?