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“Vespoholismo”

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Intervista a Marek Witon “Cipiór”

Buongiorno, come nasce il Vespa Club Polska?

Ufficialmente il Vespa Club Polska nasce il 13 gennaio 2003 ma le origini del Club le possiamo datare un può prima. Nel 2001 ho comprato una Vespa GS del 1961 la moto non funzionava e dovevo riparala. Purtroppo avevo dei problemi per trovare i ricambi per la mia Vespa e ho fatto la ricerca sul internet. Non era facile trovarli perché in Polonia era più conosciuta la Lambretta che la Vespa. In quel tempo ho conosciuto gli amici, che già erano grandi appassionati di Vespa, Piotr Kulesz? “Kuler” di Varsavia e  Szymon Chojnowskiego “Ortos” di Wroc?aw. Nel 2002 insieme con mia moglie siamo andati in Austria e siamo rimasti sorpresi perché là in ogni paese esistono i club di Vespa che raccolgono tantissimi appassionati. Allora in quel momento abbiamo pensato perché non fondare uno in Polonia? Importante momento per il club fu l’incontro a ?ód? (Moto Bazar Weteran a ?ód? 11.01.2003)

Allora 2003 si può considerare come data ufficiale del inizio di Vespa Club Polska?

Sì, 13 giugno 2003 abbiamo creato il nostro sito web abbiamo comprato il dominio e abbiamo cominciato le attività. Nell’idea di creare questo club c’era la volontà di aiutarsi reciprocamente per esempio per risolvere problemi tecnici degli scooter, l’acquisto di ricambi etc. Vorrei aggiungere che il nostro club funziona rigorosamente come attività no profit, nonostante il fatto che si potrebbe guadagnare qualcosa.

Quali i momenti più importanti del vostro club?

Uno dei più importanti eventi legati con la storia del nostro club era la prima esibizione delle nostre Vespe nel “V Skuteromania – Raduno Nazionale del scooter d’epoca e classici” a Piaseczno il 10-11.07.2005. Un altro momento importante è stata la partecipazione al meeting internazionale della Vespa degli associati di F.I.V (Federation Internationale Des Vespa Clubs)  ovvero “Eurovespa 2005 – Pörtschach” a  Klagenfurt in Austria. Durante questo evento siamo stati accolti nel gruppo europeo della Vespa. Un momento indimenticabile quanto durante la serata di gala davanti al 8 mila di partecipanti di tutto mondo è stata esposta la bandiera polacca.

Quante volte vi incontrate?

Ci incontriamo inl raduni nazionali in tutta Polonia e inoltre ci vediamo ogni anno a Varsavia per farci gli auguri prima di Natale e per festeggiare il giorno di San Valentino “Vespovalentynki”, e a Wroc?aw ci incontriamo prima di Pasqua per gli auguri. Ma se qualche lettore di Gazzetta Italia volesse partecipare ai nostri incontri a Varsavia per conoscere meglio le nostre vespe lo invitiamo ogni mercoledì alle ore 19 davanti di monumento di Nicola Copernico.

I prossimi raduni?

20-25 maggio a ?l?sk, 20-22  giugno a ?ód? e il secondo weekend di settembre nei pressi di Varsavia, ancora dobbiamo decidere dove fare questo raduno (prendiamo in considerazione Warka, Sochaczew o zona di Zgierz). Per sapere di più vi invitiamo di visitare il nostro sito www.vespaclub.org.pl

Come supporta la tua moglie il fatto che tu dedichi tante energie a questa passione?

Hm..una domanda interessante…Mia moglie si è innamorata della vespa quando la prima volta ha fatto un giro con la mia “Bellezza” del 61 e mi pare che da quel momento lei abbia accettato il mio hobby. Mia moglie ha organizzato paio di raduni autunnali e quando il nostro club passava momenti di difficoltà mi ha dato un supporto importante. In questa occasione vorrei ringraziare tutte le mogli che rispettano e chiudono un occhio su questo nostro hobby. Oltre alla moglie anche mio figlio di 3 anni mi dà un supporto importante nello sviluppare la mia passione visto che gira sotto casa con la sua vespa elettrica. Spero che tra pochi anni mio figlio guiderà una vespa vera, ora mi fa compagnia quando scendo in garage a riparare la moto.

Hai partecipato a qualche raduno di World Vespa Days organizzato in Italia?

Fu l’inizio dell’amore per l’Italia e probabilmente la causa della mia passione. Nel 2004 siamo andati con mia moglie a visitare la Mecca per gli appassionati di Vespa: il Museo Piaggio a Pontedera. Nel 2006 siamo andati ad un World Vespa Days a Torino dove erano presenti circa 8 mila partecipanti, con grande orgoglio guardavo come la bandiera polacca sventolava avanti al Palazzo Reale. L’anno dopo, 2007, in un altro raduno abbiamo girato insieme con circa 7 mila Vespe per le pittoresche strade di San Marino. Mi ricordo con grande affetto il meeting World Vespa Days a Torino nel 2006 una passeggiata con la moto lungo il fiume Po, una strada piena di curve e intorno profumo di grano, mais, aranci e gente delle piccole città sorridenti, dove sembra che nessuno guardi l’orologio e soprattutto si beve un ottimo caffè.

Quanti associati ci sono nel Vespa Club Polska?

Non abbiamo un elenco di associati, nè tessere. Vespa Club Polska è una organizzazione aperta ogni uno può diventare membro, la Vespa è il nostro hobby e se uno vuole diventare uno della nostra famiglia è il benvenuto. Attualmente sul nostro sito sono registrate circa 1200 persone invece ai raduni si presentano 50-100 vespe, in un meeting erano presente anche 120 vespe. Sul nostro forum virtuale durante tutto l’anno sono attive 150-180 persone.

Cambieresti la tua Vespa per un’altra moto, diciamo una Harley Davidson?

Sì e no…oltre alla Vespa possiedo nella mia collezione anche una Triumph Bonnevilla SE’10. Qualcuno mi può accusare d’aver tradito la Vespa perché possiedo un moto che si associa con la cultura Rockers. Negli anni 60-70 in Gran Bretagna le culture Rockers&Modys (che giravano con le Vespe e Lambrette) non si amavano.Per fortuna questi tempi sono passati e ora con gran piacere ogni tanto faccio un cambio tra Vespa e Triumph.

Ringrazio per l’intervista Marek Witon, e ai tutti soci del Vespa Club Polska auguro: buon viaggio!

L’Europa e il ruolo dell’Italia nel mondo

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Giorgio Napolitano

LA VIA MAESTRA

L’Europa e il ruolo dell’Italia nel mondo

conversazione con

Federico Rampini

 

Premessa (quasi autobiografica)

Nel mio dialogo con Federico Rampini, nelle mie risposte alle sue domande e alle sue sollecitazioni, si riflette l’esperienza di un settennato (2006-2013), intensamente vissuto da presidente della Repubblica anche sul terreno delle relazioni internazionali. Nel disegno costituzionale concepito, nell’Italia liberatasi dal fascismo, tra il giugno 1946 e il dicembre 1947, così come nelle analisi interpretative, nella prassi politica e nella giurisprudenza che ne hanno fatto nei decenni successivi una realtà vivente, aperta a ogni prova e verifica, la figura del capo dello Stato è stata identificata con quella di un presidente “non esecutivo”. Un presidente, cioè, non dotato di poteri di governo, ma investito di precise funzioni sancite nella Carta, tra cui certamente anche quella di rappresentare il paese nella vita internazionale. Di rappresentarlo insieme e d’intesa con il governo, riconoscendo l’autorità di decisione dell’Esecutivo, sorretto dalla fiducia del Parlamento, anche in materia di politica estera nonché di politica di difesa e sicurezza.

Dunque, senza alcuna confusione e sovrapposizione di poteri e di responsabilità (al di là di qualche episodio di frizione e dissonanza verificatosi nei passati decenni), il presidente della Repubblica è comunque partecipe e coprotagonista di una fitta rete di relazioni, da quelle con i capi delle missioni diplomatiche straniere di cui accoglie le credenziali a quelle con i capi di Stato che riceve in Italia e dai quali è ricevuto, in visite di Stato o informali, nei rispettivi paesi. Si realizza così – e si è realizzata nel corso del mio settennato – una vasta messe di incontri di valore internazionale: ho tenuto in Italia 112 incontri con capi di Stato e numerosi altri con personalità di governo e rappresentanze straniere, e ho compiuto 75 viaggi all’estero, anche su invito di organizzazioni internazionali, dall’Onu alla Nato, al Parlamento europeo. Occasioni speciali d’incontro sono state offerte dalle iniziative per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, culminate nella grande celebrazione a Roma del 2 giugno 2011; mentre hanno avuto un particolare significato gli incontri annuali “Uniti per l’Europa” degli 8 presidenti europei, secondo una consuetudine inaugurata dal mio predecessore Carlo Azeglio Ciampi e dai suoi omologhi dell’epoca (presidenti “non esecutivi”).

Ho richiamato questa cornice istituzionale e questa esperienza personale per chiarire come valutazioni e punti di vista espressi via via nelle pagine che seguono scaturiscano dall’insieme degli scambi di opinione, delle discussioni pubbliche e riservate, che hanno costituito il contenuto della mia attività internazionale tra il 2006 e il 2013, e degli approfondimenti che han- no preceduto e seguito ogni incontro. Vorrei aggiungere e sottolineare che quell’attività è stata fonte di conoscenza di molti attori della vita internazionale e di sviluppo, quindi, anche di significativi rapporti personali. Può essere di qualche interesse, forse, citare alcuni esempi e ricordare alcuni episodi di particolare spessore umano ed emotivo. Penso, per esempio, a come si è aperto e a come si è concluso i1 mio primo settennato.

Si è aperto – il 21 maggio 2006, pochi giorni dopo i1 mio insediamento al Quirinale – con una visita a Ventotene, per partecipare all’omaggio programmato per il 20° anniversario della scomparsa di Altiero Spinelli. Era i1 riconoscimento dovuto all’uomo dal quale avevo tratto una decisiva lezione ideale e “di metodo”. E mi riferisco a una fase lontana della mia storia politica e culturale, a quella che fu (a partire dalla fine degli anni Sessanta) la fase dell’“apprendistato europeistico” dei comunisti italiani: la fase del passaggio del Pci da una posizione negativa e di diffidenza verso la nascente Comunità europea all’assunzione della consapevolezza della necessità di non estraniar- si dal processo di integrazione avviato dall’Italia di De Gasperi insieme con gli altri 5 paesi “fondatori”.

Di quell’evoluzione, che personalità come Giorgio Amendola e Nilde Iotti vissero entrando nel 1969 a far parte de11’Assemblea di Strasburgo, io fui partecipe con piena convinzione, traendo poi una determinante ispirazione da1 rapporto diretto con Altiero Spinelli (eletto nel 1976 come indipendente nelle liste del Pci) e dall’approfondimento della sua esperienza e del suo pensiero (ne diedi testimonianza nel 2007 nella raccolta di scritti Altiero Spinelli e l’Europa). Fu dunque con profonda emozione che, nella limpida luce del mattino di quel 21 maggio 2006, dissi a Ventotene delle idee e delle battaglie di Spinelli: “Si tratta del lascito più ricco su cui possano contare, per formarsi moralmente e per operare guardando al futuro, le nostre generazioni più giovani. Lo penso ancora oggi, e ne sono convinto più che mai, constatando come da un indebolirsi, in larghi strati di cittadini ed elettori, della conoscenza e comprensione del progetto europeo con- segua il diffondersi della sfiducia nella politica, nella democrazia e nell’avvenire comune.

Il settennato si è concluso, il 24 marzo 2013, con il pellegrinaggio a Sant’Anna di Stazzema – luogo di una delle più feroci stragi naziste sul finire della seconda guerra mondiale – che abbiamo compiuto insieme io, da presidente della Repubblica italiana, e Joachim Gauck, da presidente della Repubblica federale tedesca. Nel comune omaggio alla memoria delle vittime — inermi di ogni età, bambini, intere famiglie —, nell’abbraccio tra noi presidenti e con la popolazione di quel piccolo borgo, sopravvissuti alla strage, eredi delle vittime, gente modesta e laboriosa, sentimmo forte lo spirito, il senso più alto dell’unità europea.

Il superamento di micidiali nazionalismi aggressivi: era questo l’obiettivo con cui si identificò Altiero Spinelli, immaginando, dall’isola in cui era ristretto come prigioniero, il disegno di una nuova Europa. La riconciliazione, il riavvicinamento tra nazioni e tra popoli la cui reciproca ostilità aveva per ben due volte, nel Novecento, trascinato l’Europa nell’abisso di guerre mondiali sempre più devastanti: e dunque la pace e la cooperazione, soprattutto tra Francia e Germania, come essenziale matrice politica di un processo di integrazione europea, che non nacque in chiave puramente economicistica. Che non nacque e tanto meno può oggi restare chiuso in quella chiave, in quella dimensione.

Ecco quel che sentivamo, io e il collega e amico Gauck, sulle colline di Sant’Anna di Stazzema. Perciò a me quella giornata è apparsa come un ideale punto di approdo di sette anni, nei quali per tanta parte il mio impegno sia internazionale sia nazionale è sta-to segnato da convinzioni e da scelte europeistiche.

E vorrei anche dire che in quell’omaggio del presi- dente tedesco alle povere vittime della macchina di guerra e di oppressione scatenata dal nazismo in ogni angolo d’Europa ho ritrovavo l’immagine esemplare, in- dimenticabile, del cancelliere Willy Brandt – già oppositore del nazismo ed esule – che cade in ginocchio dinanzi al monumento alle vittime del ghetto di Varsavia.

L’esperienza e le idee di Brandt hanno rappresentato per me un alto punto di riferimento, sempre più suggestivo da quando lo incontrai per la prima volta fino a quando discutemmo insieme della sinistra italiana nei suoi rapporti con la socialdemocrazia europea in quel giorno – 9 novembre 1989 – che per singolare coincidenza con un’imprevedibile accelerazione della storia sarebbe stato anche il giorno della caduta del Muro di Berlino. Ho ricordato quel magico momento, quell’incontro personale con Willy Brandt, rivedendo il 1° marzo scorso all’Università Humboldt di Berlino – che mi aveva invitato a inaugurare con una lezione sull’Europa una delle annuali Willy Brandt lectures – Egon Bahr, uno dei più eminenti e fedeli collaboratori di fede europeistica del cancelliere della Ostpolitik. Ci eravamo salutati l’ultima volta, commossi, alla cerimonia funebre per Willy Brandt, nell’ottobre 1992, nell’edificio del vecchio Reichstag a Berlino.

Il lettore vorrà comprendere questo mio risalire a momenti del passato partendo da storie di anni e per- fino mesi recenti. È un fatto che in quel passato si ritrovano non secondarie premesse del modo in cui ho potuto assolvere le mie responsabilità internazionali di presidente. Queste le ho, naturalmente, adempiute in stretta ed esclusiva aderenza a una tradizione e visione unitaria dell’interesse e del ruolo dell’Italia sotto il profilo della sua collocazione internazionale e della sua politica estera. Ma le mie pluriennali esperienze precedenti in campo internazionale – pur vissute nel- lo svolgimento di funzioni politiche di parte (già superate, peraltro, nel presiedere la Camera dei deputati italiana o la Commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo) – mi hanno fatto sempre sentire a mio agio, e mai a disagio, nel rappresentare infine da presidente della Repubblica il mio paese, tutto il paese, in Europa e nel mondo.

In effetti ho ripreso – senza soluzione di continuità – il rapporto di collaborazione e amicizia con personalità conosciute vent’anni prima, come il presidente austriaco Heinz Fischer o quello israeliano Shimon Peres. E mi sono trovato subito in un comune sentire con europeisti di una generazione molto più giovane, come Bronislaw Komorowski, divenuto presidente polacco nel solco della grande tradizione di Solidarno??, i1 cui esponente più eminente per sensibilità e cultura europea, Bronislaw Geremek, conoscevo e seguivo con ammirazione già negli anni Ottanta. E come Danilo Turk, presidente sloveno fino al 2012, studioso di diritto internazionale di impronta italiana, impegnatosi con me e con il nuovo presidente croato, Ivo Josipovi?, a gettare le basi di una riconciliazione e nuova cooperazione nell’Adriatico, a chiusura di drammatiche tensioni ereditate dalle vicende della seconda guerra mondiale nei Balcani. Gli incontri, non solo di vertice ma popolari, a Trieste ne1 2010 e a Pola nel 2011 rimangono le tappe più coinvolgenti da me vissute nel percorso di allargamento e consolidamento dell’unità europea.

E anche alla condivisione di quel percorso che ricollego il singolare rapporto che si è stabilito tra me, da presidente della Repubblica italiana, e il pontefice Benedetto XVI, fino alle sue dimissioni nel febbraio 2013. Un rapporto nato dall’’interesse, che si manifestò subito tra noi, a conoscerci, a comprenderci, a confrontare le nostre valutazioni e opinioni sui temi che ci coinvolgevano entrambi nell’esercizio dei rispettivi ruoli. E tra quei temi prese subito rilievo l’Europa, rispetto alla quale convergevamo nel considerare decisivo il processo di unificazione e integrazione e il potenziale contributo a una positiva evoluzione del quadro internazionale, a cominciare dalla ricerca di una soluzione pacifica del conflitto mediorientale.

La frequentazione del papa è stata per me un’esperienza nuova, e particolarmente stimolante e ricca per to spessore culturale della sua personalità. Ma la sintonia e la confidenza non comuni che hanno caratterizzato i1 nostro rapporto non si spiegano solo alla luce di affinità personali. Quel che ci faceva sentire vicini era un essenziale retroterra comune, in quanto entrambe le nostre vite risultavano integralmente inscritte nella grandiosa e terribile esperienza storica del Novecento. Un’esperienza che i nostri due paesi di origine avevano più di tutti gli altri vissuto in termini drammatici e traumatici fino alla metà del secolo scorso, e dalla quale noi stessi come persone – Joseph Ratzinger al pari di me – avevamo tratto un decisivo impulso a riconoscerci nella visione di una nuova Europa unita, continuando a coltivarla e perseguirla anche una volta giunti ad altissime responsabilità a1 vertice della Chiesa cattolica e dello Stato italiano.

Un così significativo e caloroso rapporto tra il presidente e il pontefice è stato naturalmente molto importante anche per consolidare un’operosa collaborazione, nel reciproco rispetto, tra Stato e Chiesa in Italia. Che qui ricordo, com’è facile intendere, non tanto quale componente della politica internazionale che ho condiviso da presidente, quanto come uno degli architravi del processo di coesione – sempre da consolidare e rinnovare – della società italiana. È la strada su cui già ci stiamo inoltrando anche con il nuovo pontefice Francesco.

Nello stesso tempo, l’asse dell’europeismo attorno a cui hanno ruotato fin dagli anni Cinquanta la presenza e l’iniziativa dell’Italia nella vita internazionale è sempre stato inseparabile dall’altro riferimento decisivo: quello dell’amicizia e alleanza con gli Stati Uniti, nel più vasto quadro transatlantico. Inseparabili, quell’asse e questo riferimento, lo sono stati anche nella mia esperienza lungo il primo settennato presidenziale e il trentennio precedente. Quando nel 1978 potei compiere la mia prima visita in America, non mi limitai a uno sforzo di rappresentazione della realtà politica italiana, in cui trovassero il giusto posto le posizioni della sinistra. Parlando in alcune delle più importanti università statunitensi e in prestigiosi centri di formazione dell’opinione pubblica, mi feci nello stesso tempo portatore della visione di un’Europa comunitaria che si andava facendo sempre più inclusiva e anche più assertiva, e tendeva ad assumere un profilo internazionale più autonomo ma senza mettere in questione il suo legame storico con gli Stati Uniti. Quella mia missione si collocava in antitesi all’antiamericanismo ancora diffuso in Italia nella sinistra di opposizione.

La visione di cui mi facevo portatore aveva all’epoca – per la mia qualifica di dirigente del Pci – i connotati dell’“eurocomunismo”, un fenomeno che interessava fortemente i più sensibili e aperti circoli culturali e politici americani, così come li interessava – più dell’“ordinaria” politica interna italiana – la singolare realtà del Pci. Di quell’interesse, e del ruolo da me svolto negli anno Settanta e oltre, ho colto (non senza sorpresa) ancora tracce e testimonianze in occasione del mio più recente viaggio – da presidente della Repubblica – negli Stati Uniti (gennaio 2013).

Nel progressivo consolidarsi e arricchirsi della mia visione delle componenti ideali e storiche del rapporto tra Europa e Stati Uniti, del loro comune radicamento e della loro comune appartenenza all’Occidente come “luogo della democrazia”, posso rivendicare una continuità e una coerenza rafforzatesi attraverso le revisioni e i cambiamenti d’orizzonte culturale e politico che pure ho conosciuto fino alla grande svolta del 1989. Di quella continuità, e di certi fecondi antecedenti, mi sono largamente giovato nello svolgere il mio ruolo e nel dare il mio contributo – nel settennato presidenziale – sia sul fronte politico e istituzionale europeo sia sul fronte dei rapporti Europa-America.

Un “antecedente” che mi piace ricordare è quello della partecipazione, negli anni Ottanta-Novanta, a un ciclo di incontri semestrali promossi dall’Aspen Institute tra parlamentari europei (una ristretta rappresentanza) e parlamentari statunitensi (in più nutrita schiera): incontri dedicati all’evolversi, in anni cruciali, delle relazioni tra Est e Ovest.

E vorrei anche ricordare l’assai formativo “antecedente” dell’esperienza da me compiuta, a partire dal 1984 e per ben dieci anni, come membro dell’Assemblea parlamentare della Nato. In quella sede ebbi modo di coltivare le tematiche della difesa e della sicurezza, e di avere colleghi – specialmente europei, e in particolare della sinistra (tedeschi, inglesi, spagnoli) – con i quali mi sarei poi reincontrato in diverse vesti e occasioni. I molteplici percorsi che ho ricordato sarebbero negli anni scorsi confluiti nel rapporto stabilito al livello più alto con le sfere dirigenti americane: da presidente italiano con il presidente degli Stati Uniti. Ho seguito da vicino, con neutralità istituzionale e con personale passione e speranza, l’emergere e l’affermarsi di Barack Obama alla guida degli Stati Uniti. Il rapporto che si è stabilito tra noi ha toccato livelli di attenzione, fiducia e finanche confidenza reciproca, e ha presentato tonalità umane, di autentica amicizia, che non avrei potuto prevedere. In fin dei conti, rappresentiamo generazioni e storie diversissime: ma che ciò non abbia costituito un ostacolo, e abbia piuttosto rappresentato uno stimolo, dimostra quanto sia importante – nei rapporti tra i diversi paesi e le loro leadership – un’affinità di approcci, di modi di sentire, di retroterra ideali e morali, oltre che di orientamenti e di impegni politici. E da questo clima instauratosi nell’esercizio delle rispettive funzioni e delle comuni responsabilità tra il presidente italiano e il presidente americano ha tratto beneficio il mio paese, e ha tratto beneficio l’Europa. L’interesse nazionale italiano e l’interesse comune europeo: è questo che, in definitiva, ha contato e conta per me più di ogni altra cosa.

Giorgio Napolitano

 

Post scriptum

Questo libro, nato da un’idea di Federico Rampini, è stato da noi concepito — e scritto “a quattro mani” — come parte del bilancio del settennato presidenziale (maggio 2006 – aprile 2013) sotto i1 profilo delle iniziative e delle relazioni internazionali di cui sono stato parte attiva nell’esercizio della mia funzione istituzionale. Poi, in circostanze del tutto impreviste, sono stato sollecitato – nonostante mie nette dichiarazioni di volontà in senso opposto – a rendermi disponibile per la rielezione a presidente, che ha avuto luogo – con un voto di larghissimo consenso – il 20 aprile 2013. Questo libro vede la luce, dunque, a breve distanza dall’inizio di un secondo mandato, e non può dar conto di sviluppi, che ancora non ci sono stati, della mia attività internazionale. Ma al testo abbiamo lavorato fino all’ultimo giorno prima di andare in stampa, con la massima attenzione per ogni novità che intervenisse nel quadro europeo e mondiale.

Atelier Smaku e API Food

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Alcuni tra i migliori prodotti dell’eccelenza italiana si sposano con la fantasia culinaria di due promotori polacchi di cucina vegetariana, vegana.

Dal ottobre 2013 la ditta API Food ha iniziato una collaborazione con Atelier Smaku (Atelier del Gusto) di Jola S?oma i Mirek Trymbulak, conosciuti dalla serie televisiva sul canale Kuchnia Plus.

La collaborazione e’ partita dal viaggio in Piemonte dove Jola e Mirek insieme ad API Food ha visitato la ditta Inaudi specializzata nella produzione di eccelenze in basa ai tartufi e funghi, e la ditta Oxicoa di Torino – produttore di ottimo cioccolato senza glutine.

Dal 7 di aprile sono disponibili le puntate dove Jola e Mirek cucinano le specialita vegane utilizzando i prodotti commercializzati da API Food. I filmati sono disponibili sul canale Youtube di Atelier Smaku e API Food. Fino ad oggi sono state realizzate le ricette: pizza vegana con la tartufata (crema al tartufo bianco e porcini), olio al tartufo bianco e cuori di carciofi, gnocchi con spinaci, la tartufata e oceto al tartufo, grissini ai semi di lino con la salsa di marroni e miele al tartufo, lasagne senza glutine di mais e la verdura.

Prima dell’emissione delle puntate dedicate alla preparazione di pietanze, sono usciti filmati del viaggio in Piemonte: le ricerche del tartufo nelle vallate di Langhe e Roero, la visita dalla famiglia Inaudi che ha spiegato cose’e il tartufo, il viaggio a Torino con la sua storia del ciccolato e castagne e alla fine assagio dei gianduiotti presso l’azienda Oxicoa.

L’avventura di API Food e Atelier Smaku prosegue. Ogni domenica si possono vedere le nuove puntate dalla cucina di Atelier Smaku.

Puntata n. 12 Pizza

nr. 13 Gnocchi

nr. 14 Grissini

nr.15 Lasagne

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Oramai sono diventata milanese…

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Sono arrivata a Milano il 13 gennaio 2014. In Polonia ho lasciato la mia famiglia; i miei genitori che senza dubbio sono il mio punto di riferimento e mio fratello con il quale, anche se se sposato e con tre bimbi meravigliosi, ci vedevamo ogni giorno e parlavamo di tutto. A Varsavia è rimasta anche la mia cagnolina, Coco, che mi sono regalata con il mio primo stipendio. Tutto ciò senza dimenticare i miei amici, che sono molto importanti per me e che ora fatico a sentire su Skype o su Facebook perchè ognuno di noi è molto impegnato. Ho anche lasciato il mio lavoro alla concessionaria Lexus Warszawa-Wola dove ho passato due anni e dove mi trovavo molto bene. Ho cercato sempre di fare del mio meglio al lavoro e questo è stato molto apprezzato dai miei superiori; devo ammettere che non è stato per niente facile prendere la decisione di licenziarmi…

Adesso forse volete sapere com’è nata questa idea e cosa faccio?

Mi sono trasferita a Milano per fare un Master in Fashion Communication. Prima ho frequentato gli studi in Italianistica presso l’Università di Varsavia dove ho conseguito la Laurea magistrale ed allo stesso tempo ho anche studiato Mass Media all’Accademia della Pedagogia Maria Grzegorzewska di Varsavia per tre anni.

Ho completamente cambiato la mia vita principalmente per seguire i miei sogni. Infatti la moda è da sempre la mia vera passione e dopo il Master spero di poter trovare un lavoro in una prestigiosa casa di moda o in una rivista di settore. Il Master è molto impegnativo e mi sta permettendo di imparare molte cose che son sicura saranno molto importanti per conseguire il mio obiettivo.

Inoltre Milano per me non significa solamente studio e lavoro… infatti qua vivo con il mio fidanzato che mi supporta in tutto quello che faccio e che rende la mia vita felice!

Vi saluto,

Magdalena Makowska

Se avete qualche domanda scrivetemi pure! (alla mail di GI)

PS: Da pochi giorni sono anche su Twitter https://twitter.com/MaddalenaMakows, seguitemi! 😉

Ostuni, la città bianca

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Il comune di Ostuni, caratteristico paesino della provincia di Brindisi che conta circa 33mila abitanti, sorge sulle ultime propaggini della Murgia meridionale a circa 200 metri sul livello del mare. La città vecchia è inconfondibile per l’accecante colorazione monocroma del suo abitato rigorosamente bianco. La tinteggiatura a calce tipica di ogni casa e la sua peculiare topografia hanno suggerito nel tempo appellativi quasi fiabeschi quali “la città bianca”, “la regina degli ulivi”, “la città presepe” con cui è spesso chiamata e conosciuta ancor più che con il suo stesso nome.

Il nucleo antico è arrampicato sui fianchi di un colle e alla sua sommità si erge la Cattedrale, mirabile sintesi di elementi romanici, gotici e veneziani e da cui, affacciandoci dal belvedere, si domina la Piana degli Ulivi Secolari fino al mare.

Ostuni è un’affascinante intreccio di stradine, piazzette e vicoli tortuosi. L’unica vera strada che dalla cima del colle scende verso Piazza della Libertà dove si trova il Palazzo San Francesco sede del Municipio e la Colonna di Sant’Oronzo, patrono della città insieme a San Biagio, è via Cattedrale che divide il centro storico in due parti. Tutte le altre stradine che la intersecano spesso sono vicoli ciechi o scalinate strette e ripide. In queste stradine troviamo abitazioni a volte scavate nella roccia unite da archi e semiarchi che fungono da sostegno.

Data la sua vicinanza al mare, in estate Ostuni è meta di villeggianti e turisti . Uno dei più importanti eventi folcloristici del territorio altosalentino è la Cavalcata in onore di Sant’Oronzo che si tiene ogni anno a fine agosto.

La statua argentea del Santo viene scortata in processione da un drappello di cavalieri in costume rosso trinato di bianco su cavalli bardati. La divisa dei cavalieri è una casacca rossa (in memoria del martirio del Santo), pantaloni bianchi, cappello cilindrico con pennacchio scarlatto; il cavallo, murgese, oltre ai vari finimenti tutti lavorati, è coperto da una gualdrappa rossa, lavorata con bottoncini di madreperla, che lo avvolge fin quasi agli zoccoli. L’intero nucleo familiare si dedica alla vestizione, spesso aiutato da parenti e amici.

Nella seconda metà del 1600, esattamente nel 1657, Ostuni fu risparmiata dalla peste grazie al miracolo attribuito a Sant’Oronzo, da qui la devozione degli ostunesi che dal 1793 ripropongono ogni anno la tradizione della cavalcata.

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Nestor Grojewski: “Scorsese? Persona straordinaria e fenomenale”

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Chi è Nestor? È il cuoco polacco delle stelle straniere: così lo descrive la stampa e la televisione. Nel 2008 apre il suo ristorante Cru.dop In via Tuscolana, vicino a Cinecittà, celeberrimo quartiere del cinema a Roma. Si può dire che così viene automaticamente inserito nel mondo del cinema. Lavorando sui set dei film americani arriva attraverso lo stomaco ai cuori delle stelle di Hollywood e del famoso Martin Scorsese. La sua avvertura con la cucina dura per sempre. È specializzato nei cibi freschi, pesci crudi e frutti di mare preparati davanti agli ospiti (il suo ristorante è sempre pieno di gente). Abbiamo una buona informazione per gli abitanti di Wroc?aw: forse tra poco Grojewski sposterà il suo ristorante proprio lì, nella sua città natale cui anela tornare.

Da quanto tempo gestisci il tuo ristorante?

Da cinque anni. Sì… sono già passati cinque anni. L’ho aperto nel 2008.

Perchè aprire in via Tuscolana a Roma?

Non esiste niente di simile. A Roma non c’è un posto dove si possono mangiare cibi crudi. Per questo ho deciso di fare qualcosa totalmente diverso da tutti gli altri. Volevo stare fuori dal solito mercato.

Ce l’hai fatta! Quali sono le tue specialità?

La mia specialità è il pesce crudo, frutti di mare, carne cruda, tartara e carpaccio. Faccio tutto quello che si può inventare con carne cruda e condimenti.

E per quanto riguarda il vino?

Dipende dalla provenienza della persona, dalle sue preferenze personali. I vini verdicchio e sauvignon sono ordinati più spesso.

E tu dove vai a mangiare? Quali sono i ristoranti italiani che consiglieresti ai nostri lettori?

È una domanda difficile. Mangio soprattutto nei ristoranti dei miei amici, che mi conoscono e sanno che preferisco i cibi freschi. Sono allergico a alcuni conservanti presenti in certi piatti pronti. I nomi dei ristoranti? Tutto dipende dal gusto. Fuori Roma amo mangiare a Ischia, in Sardegna, in Sicilia.

Non hai pensato di aprire un tuo ristorante in Polonia?

Sì, e lo penso sempre più spesso. Ci sto lavorando e se o farò sarà a Wroclaw!

Perché a Wroc?aw, non invece a Varsavia?

Sono nato a Varsavia, ma ho la famiglia a Wroc?aw.

È vero che hai cucinato per Scorsese?

Vero. Sono stato il suo cuoco privato per 9 mesi quando girava il film “Gangs of New York”.

Come vi siete conosciuti?

Ho lavorato sui set dei film precedenti come “Il talento di Mr. Ripley” (dir. Anthony Minghella”), “Sogno di una notte di mezza estate” (dir. Gabriele Salvatore) etc. Sono abbastanza conosciuto e mi hanno consigliato a Scorsese. Sono andato a casa sua per un mese di prova, dove ho incontrato sua moglie e il bambino di 18 mesi. Dopo aver superato la prova, il regista mi ha invitato allo studio cinematografico.

Che cosa gli hai cucinato?

Tutte le specialità non contenenti farina; aveva tale dieta.

Come è privatamente? Cosa diresti di lui?

Una persona unica e fenomenale. È garbato, ma come la maggior parte dei grandi registi ha suoi vantaggi e svantaggi.

Quale altre persone note e meno note hai avuto l’opportunità di ospitare a casa?

Sui set dei film ho preparato piatti per Daniel Day-Lewis, Leonardo Di Caprio, Cameron Diaz. Facendo il film “Talent di Mr. Ripley” ho anche incontrato Matt Damon. A Roma ho anche preparato i cibi per tanti capi di stato.

Anche per il Papa?

No, purtroppo no.

Conosci tante stelle. Perché non ti trasferisci a Holywood?

La risposta è banale. Hollywood è troppo lontano da casa, dall’Europa, dalla Polonia. Adesso per tornare da Roma al paese mi basta una macchina o un volo di un ora e mezzo.

Ti manca la Polonia?

Devo ammetterlo: sì! Mi manca l’inverno, la neve (se c’ è)… mi manca…

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Diana Tejera

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Diana Tejera è cantante e compositrice italiana di origini andaluse molto talentuosa. A Gazzetta Italia racconta del suo passato con I Plastico, delle sue canzoni e collaborazioni musicali,  soprattutto di quella speciale con Tiziano Ferro. Cresciuta a Keith Jarrett, Joni Mitchell, Carole King, oggi canta le poesie di Patrizia Cavalli nell’album “Al cuore fa bene far le scale” e nello stesso tempo sta lavorando al suo prossimo disco: “Sarà un album diverso, in cui cerco di raccontare con uno sguardo non ottimista, ma sicuramente più positivo le esperienze della vita. Un distacco, la fine di un amore, un momento di solitudine, l’emozione per una scoperta non sono mai esperienze a sé, ma diventano un pezzo di storia, una tessera del mosaico che mi ha resa quella che sono, di cui sono felice. È un disco in cui, di fondo, si respira un senso di “gratitudine” per le cose, il mondo, tutto quello che si muove nelle mie giornate”. Prima che Diana parta per l’India “meta ideale per riflettere meglio sui suoi lavori”, ascoltate il suo hit primaverile “Amore semplicissimo” – ideato e diretto da un bravissimo regista e fotografo romano, Mario Parruccini – non resterete delusi!

Oggi ti conosciamo come cantautrice solista ma non sempre è stato così. Prima di cominciare la tua carriera facevi parte di un gruppo chiamato I Plastico. Come ricordi questi anni insieme, i vostri successi?

Con I Plastico mi sono fatta le ossa e mi sono divertita moltissimo. Eravamo molto giovani e le esperienze che avevamo la possibilità di vivere ci sembravano un sogno. Ricordo quegli anni con molta tenerezza perché eravamo ingenui e puri all’interno di un mercato discografico spudorato. Abbiamo avuto molte soddisfazioni: la vittoria al festival di San Marino, la partecipazione a Sanremo nel 2002, e i concerti sui palcoscenici più ambiti come il Fila Forum di Assago.

Hai affiancato vari musicisti romani tra cui Marco Fabi, Barbara Eramo, Andrea Di Cesare, Alessandro Orlando Graziano, Nathalie e soprattutto Tiziano Ferro, col quale hai firmato “E fuori è buio” (pubblicato nell’album “Nessuno è solo” del 2006) e “Scivoli di nuovo” (presente nel disco Alla mia età del 2008). Come è stato lavorare con questa star internazionale della musica italiana? Che emozioni ti ha trasmesso?

Tiziano era principalmente un amico, quindi è stato naturale collaborare con lui. Di certo è stato molto emozionante sentire le canzoni scritte insieme cantate da lui, scoprire le sfumature diverse che poteva dare la sua voce. È stato bellissimo poi salire sul palco del Palalottomatica di Roma per suonare con lui “E fuori è buio”, mentre migliaia di persone la intonavano.

La tua ultima canzone “Amore semplicissimo” è davvero stupenda. La trovo incantevole, magica. Anche il video girato da Mario Parruccini è un capolavoro. Ci racconti come si sono svolte le riprese, di chi è stata l’idea o forse ci racconti qualche aneddoto?

Amore semplicissimo è una delle mie canzoni preferite dell’album “Al cuore fa bene far la scale”. Il testo, assolutamente meraviglioso, è della grande poetessa Patrizia Cavalli con la quale ho avuto il privilegio di collaborare. Il video è stato scritto e diretto da Mario Parruccini, che aveva bene in mente la fotografia, la delicatezza delle immagini che è riuscito a rendere oniriche, simboliche. Posso raccontare che la temperatura era veramente fredda e resistere tante ore con un vestito leggero non era certo facile…mi si congelavano le mani mentre suonavo, e infatti alla fine di ogni playback venivo subito ricoperta di cappotti, maglioni e piumini!

Sei italiana ma di padre andaluso. Come ti hanno influenzato i tuoi origini spagnoli? Torni spesso in Andalusia? Canti anche in spagnolo?

Si, canto anche in spagnolo…mi piace molto anche se ora scrivo sempre in italiano. Le mie origini mi hanno influenzato soprattutto nel modo di suonare la chitarra: con un piglio deciso, intenso, caldo. Purtroppo vado poco in Andalusia, ma porto sempre con me i suoi colori, impressioni, la forza e anche l’allegria della terra dove affondano le mie radici.

Suoni e canti da quanto eri una bambina. Chi è stato il tuo maestro, l’esempio da seguire nel mondo di musica, qualcuno che ti ha segnato per sempre come cantante?
Ho avuto tanti modelli di riferimento. Sono molto cambiati nel corso degli anni. Da bambina ascoltavo estasiata Keith Jarrett, ma poi mi sono appassionata alle cantautrici: prima con Joni Mitchell, Carole King e poi, da più grande, Ani di Franco.
Il mio grande maestro è stato Antonio Sardi De Letto, con il quale ho iniziato il mio percorso musicale, e che purtroppo è mancato ancora giovane nel 2011.

L’album, canzone o collaborazione di cui vai più fiera?
L’incontro con Patrizia Cavalli, grandissima poetessa, è stato per me determinante. Mi ha profondamente ispirata e l’esperienza insieme è stata fonte di un cammino di crescita artistica e anche umana.

Si dice spesso che le poesie più belle nascono dalla sofferenza. Come funziona con te? In quale situazione o momento della giornata crei i tuoi testi? Cosa ti ispira particolarmente? Di che scrivi?
Da più giovane scrivevo spesso per una sorta di “necessità terapeutica”: mettevo nelle mie creazioni il mio dolore per trasformarlo in qualcosa di creativo. Questa dimensione ad oggi rimane, ma è divenuta molto più complessa. Al racconto del mio passato, delle esperienze, dei pensieri sulla realtà che mi circonda si è aggiunto uno sguardo più ironico, leggero, ma nel senso calviniano della “levità”, grazie alla collaborazione con la giovane e talentuosa Sara De Simone con cui sto scrivendo i brani del mio nuovo disco.

Secondo Virgilio anima era un soffio che usciva dal corpo subito dopo la morte, per Platone e Socrate anima è diventata il simbolo di purezza e spiritualità del mondo delle idee, invece per te  – che tramite le tue canzoni e poesie tocchi le anime umane – cosa vuol dire l’anima?
Difficile rispondere a questa domanda, confrontandosi con i più grandi filosofi e pensatori della storia. Nel mio piccolo, dico la mia: per me l’anima non è disgiunta dal corpo, anzi è “corpo”. Non credo, purtroppo, in un altro mondo ma penso che dobbiamo vivere il tempo a nostra disposizione perseguendo fino in fondo i nostri desideri, le inclinazioni e soprattutto la verità.

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Televisione: usarla o farci usare?

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Alzi la mano chi ha voglia di criticare la televisione italiana. Siete troppi, non c’è tempo per tutti, allora parlo io. Tutta Europa, e non solo, ci ride dietro quando pensa a quello che passa sulle reti nostrane; per la maggior parte delle occasioni, in verità, potremmo avvalerci dell’arma verbale “senti da quale pulpito viene la predica” ma proviamo a lasciare da parte l’orgoglio, siamo superiori alle polemiche e cerchiamo di analizzare la situazione da un punto di vista obiettivo.

Molto spesso avrei voglia di prendere il televisore e scaraventarlo fuori dalla finestra, la qualità della nostra programmazione televisiva è davvero infima. Si assiste a telegiornali che cominciano con tragiche notizie di cronaca, presentate da una giornalista con faccia cadaverica e coinvolta che, un nanosecondo dopo è capace di mettere la maschera da perfetta idiota al pic nic e cominciare a lanciare servizi di gossip con musica commerciale e soubrette in topless. Sì, avete capito bene, nello stesso telegiornale che cerca di occuparsi di guerre, economia, politica, cronaca ecc… (Per informazioni più dettagliate, per fatti, link e nomi precisi di questi “geni della lampada” avete sempre il mio indirizzo e-mail: lingua@gazzettaitalia.pl). Per non parlare dei reality e talent show dove sembra che l’Italia abbia fatto a meno per 20 anni del Di Caprio o Pavarotti di turno o di un format nel quale un palestrato belloccio senza lingua si siede su un trono pronto a scegliere giovani oche o insoddisfatte signore di mezza età che gli sbavano dietro. Orrore! Perché siamo arrivati a tanto? Una questione politicamente delicata. Cercherò di darvi la mia spiegazione in uno dei prossimi articoli.

Nonostante tutta questa tv spazzatura che ci circonda non sono d’accordo con chi afferma che sarebbe meglio non avere affatto un televisore in casa. Molti sostengono che la televisione sia un mezzo di comunicazione superato, che ora si dovrebbe usare solo internet, l’unico strumento davvero libero e democratico. Siamo sicuri di questo? Non è forse vero che in internet possiamo cadere in una bufala in ogni momento? Senza contare che è pieno di criminali in cerca di facili prede ingenue. La rete è uno strumento delicato che va maneggiato con molta attenzione. Sono, quindi, dell’opinione che non dovremmo, comunque, rinunciare ad accendere il televisore per rilassarci un po’ o informarci su quello che succede nel mondo che ci circonda; la vera preparazione sta nell’essere abbastanza abili da riuscire a scegliere bene quello che vale la pena guardare, mantenendo sempre una nostra opinione, non influenzata, dei fatti che ci vengono presentati.

Cominciamo con il dire che non si può non guardare un programma di tribuna politica, almeno una volta alla settimana. I vari “Ballarò, Servizio Pubblico, Piazza Pulita” ecc… (tutti programmi che possono essere anche guardati in internet con calma) servono per tenerci informati su quello che, dal punto di vista politico-sociale-economico e culturale, accade nel nostro Paese. Magari, voi che seguite queste vicende potreste dire che anche qui, i politici, ospiti di turno, ripetono la stessa storiella da vent’anni, ed è vero, avete ragione. Questo, comunque, non giustificherebbe il fatto di ignorare i vari punti di vista, giusti o sbagliati che siano. In Italia, attualmente, c’è la moda, soprattutto fra i giovani, di dire che la politica non interessi. Per me è solo un modo di giustificare l’ignoranza in materia. I giovani, proprio quelli che devono capire gli attuali limiti politici per cercare di far ripartire il Paese. Del resto, molti di loro sono solo il prodotto della sottocultura televisiva; proprio questo è l’obiettivo di quella parte di programmazione spazzatura, far addormentare le menti e, a giudicare dal livello di cultura media del Paese, sembra che ci stia riuscendo.

Continuando nella sfera di ciò che si può salvare, ci sono delle trasmissioni, molto interessanti, che ripercorrono con un occhio obiettivo i fatti della storia. Cose accadute molto tempo fa e, che ora, possono essere guardate con maggiore serenità e meno coinvolgimento. Format che parlano di viaggi, documentari che ci fanno conoscere le diverse culture presenti nel mondo, la geografia, le abitudini di specie animali (che noi stiamo mettendo a rischio, spesso solo a causa della nostra vanità), come funzionano la Terra e l’Universo, tutti programmi che possono essere considerati positivamente e che non mettono in pericolo la nostra intelligenza.

Molti di voi conosceranno il termine “Velina”, un modo per indicare una bella ragazza presente in una trasmissione e che non deve far altro che ballare e mettere in mostra il proprio corpo, alimentando le ire delle femministe. Eppure questa figura nasce in uno dei programmi, secondo me, più interessanti del palinsesto italiano: “Striscia la Notizia”. Un telegiornale molto particolare, che dura solo una ventina di minuti, che dà notizie importanti commentate con vena satirica. Molto spesso i suoi inviati fanno dei servizi in cui smascherano persone poco oneste che cercano di truffare i cittadini. Cosa che, del resto, viene fatta anche nel mio programma preferito. Quello che non perdo per nessuna ragione, anche perché può essere comodamente riguardato in internet. Si chiama “Le Iene”. Potrebbe essere definito un varietà, un programma in cui si parla di tutto ma in modo molto intelligente. Ed è bello proprio per questo, ha un ritmo incalzante che presenta servizi di elevata portata sociale alternati a momenti più leggeri, quasi di gossip, ma sempre affrontati con la giusta dose di ironia. Gli inviati di questo programma fanno dei reportage spesso anche molto pericolosi attraverso i quali mettono in guardia da tutte le cose brutte che succedono nel mondo, offrendo dei momenti di buona informazione. Insomma, è uno dei pochi programmi per i quali si possa dimenticare dove abbiamo lasciato il telecomando.

Tirando le somme, reputo che un’eventuale campagna volta a distruggere completamente il mezzo televisivo fallirebbe senza alcuna ombra di dubbio; la televisione è uno strumento troppo importante per chi detiene il potere e, attraverso essa, manipola le menti, crea tendenze, mode da seguire, miti, ci coccola rendendoci persone che obbediscono alla pubblicità, veri animali da consumo. Il ruolo che la scatoletta magica ha assunto nella nostra società e troppo radicato per pensare di poterla eliminare. Quindi, visto che ci dobbiamo convivere, l’unico modo per uscire vincitori da questa battaglia è quello di sfruttare intelligentemente, solo a giovamento della nostra esistenza, le poche cose positive che in essa possiamo scovare.

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Firenze città dell’eleganza

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Da una parte strade affollate piene di artisti, pittori e visitatori di tutto il mondo seduti sulle scalinate delle chiese con la mappa pronti a scoprire la città, dall’altra negli spazi ristretti delle vie e viuzze il flusso interminabile di auto, motorini, scooter. Un suono caratteristico dominato però dal rumore delle campane delle chiese, dove racchiuse ci sono opere d’arte uniche. La Cattedrale con la sua cupola architettata da Brunelleschi e con il Battistero, Santa Maria del Fiore, Orsanmichele con la sua Madonna di Bernardo Daddi, Santa Maria Novella, Santo Spirito e tanti altri tesori d’arte di Firenze. Non è difficile smarrirsi nell’intrigo di una città come Firenze magnifica e stupefacente con le persone che sfilano eleganti davanti a noi, con il suo fiume Arno che si snoda lungo la città circondata dalle colline eleganti ed accoglienti. Le case medievali che sovrastano le colline e con  il belvedere da San Miniato che vi regala una panoramica indimenticabile e completa della città.

Botteghe, innumerevoli laboratori ad ogni angolo della città del giglio con il loro clamore caratteristico e piacevole all’orecchio: strumenti abilmente usati da veri artigiani che deliziano il nostro udito mentre scolpiscono nel marmo o nel legno oppure fanno scarpe di pelle attenti ad ogni dettaglio. Per una sosta raccomando di scendere giù per le scalette  nelle trattorie semplici, per scoprire il gusto della ribollita oppure della bistecca alla fiorentina (detta anche chianina), o la farinata al gorgonzola o chissà quale altra prelibatezza, doverosamente accompagnata dal calice del celebre vino Chianti. Lo splendore della città  risale ai tempi antichi con la sua fioritura maggiore che fu nel Quattrocento, ai tempi della famiglia dei Medici. Firenze costruita in base al commercio con le sue operazioni bancarie, industrie dei fili d’oro e delle stoffe di seta e abbellita dai suoi più illustri e noti in tutto il mondo artisti. Onore e gloria a: Leonardo da Vinci, Botticelli, Michelangelo, Brunelleschi, Masaccio, Giotto, Donatello e tanti altri. Basta socchiudere gli occhi per farvi sprigionare la fantasia e al posto della folla dei turisti far comparire i nostri grandi “artisti vestiti di una lunga tunica, stretta in vita da una cinghia e di un mantello che arriva fino a mezza gamba, custodi di una storia movimentata di Firenze”, come scriveva Duberton.

Ma proseguiamo perché vi aspettano le bancarelle come ad esempio al Mercato Nuovo che abbondano di stoffe di vario genere e di colori che ci ammaliano e ci avvolgono nel loro colore indimenticabile e poi le stoffe uniche, i tessuti pregiati, e arazzi che rispecchiano i paesaggi e monumenti toscani. caratteristiche che fanno di Firenze una città elegante e i suoi abitanti ghiotti come usano dire i cittadini di quella terra simpatica con la sfumatura del dialetto con la “h” aspirata che rende la lingua italiana ancora più elegante e dolce. D’altronde è Firenze la culla dell’italiano. Intanto ammiriamo l’eleganza degli  arabeschi di vetro, vetri, della lana cotta con le terrecotte che i Pisani hanno importato in Italia dopo la conquista di Maiorca, dove un certo Luca della Robbia (1400-82 ) ha avuto l’idea di rendere le terrecotte più resistenti applicando un’invetriatura all’argilla creando così un’arte nuova, una decorazione nuova e fresca. L’artigiano fiorentino esegue l’attività tradizionale con passione e abilità per fornire ai suoi cittadini, anzi a tutto il mondo i suoi prodotti. L’artigiano prima di diventare un professionista  si sottoponeva  a un lungo apprendistato e così tutt’ora fare l’artigiano a Firenze richiede una grande formazione professionale. Mentre l’occhio è ammaliato dalle stoffe colorate, naturalmente per non parlare delle opere d’arte, il naso è deliziato dall’odore della pelle utilizzata per le scarpe, guanti, portafogli, borse, borsette e tanti altri accessori compresi capi di abbigliamento di utilità pratica e quotidiana. Le mani dei nostri artisti fiorentini non si fermano mai ma ricercano sempre più nuovi modelli e idee per inventare le più svariate forme pervase dalla  loro vena artistica.

Negozietti con le vetrine dove spicca il ricamato fatto a mano destinato a vari usi sono un riferimento valido per chi se ne intende. Un mestiere raffinato che si usava una volta ma che tutt’ora attira i passanti stupiti dalla bellezza unica del prodotto.

Senza un itinerario preciso, capitiamo sempre davanti a qualche edificio o scultura celebre  interessante da studiare ed analizzare. Non mancano i posti  incantevoli, gallerie, musei, palazzi, piazze, monasteri  dove facilmente perdiamo la testa.  Così giunge il culmine del nostro viaggio elegante e raffinato che suggella il nostro percorso fiorentino: il Ponte Vecchio con le sue numerose botteghe di orafi dove esposti splendono  gioielli d’oro e argento e la via Tornabuoni  conosciuta per le migliori boutiques di stilisti di alta moda che vi seducono  per la loro eleganza.

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Per la nostra e vostra libertà

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Avevo sentito qualche racconto su Montecassino quando ero ancora una studentessa presso l’Accademia di Belle Arti a Cracovia, negli anni del comunismo tra il 1987- 1988. Ero  una viziata adolescente italiana di diciotto anni, come la maggior parte della mia generazione non mi interessavo particolarmente di storia ma una volta in Polonia ho seguito con un certo interesse gli avvenimenti collegati a Solidarnosc. Tornata in Italia diedi vari esami di storia all’università italiana, ma nessun libro che ricordi descriveva il calvario di questa armata del secondo Corpo Polacco, che aveva liberato l’Italia aprendo la strada per Roma conquistando Montecassino, baluardo considerato inespugnabile dagli inglesi. Armata formata per la maggior parte da ex prigionieri denutriti e maltrattati nei lager russi, fatti trasferire grazie ad una serie di abili accordi tra il generale Sikorski, il generale Anders e Stalin in Persia per essere addestrati dagli inglesi dopo l’invasione della Russia da parte del loro precedente alleato, la Germania.
Più di un anno fa una signora polacca che lavora in biblioteca qui a Milano, Gabriella, mi parlò di suo padre ufficiale dell’armata di Anders, che aveva combattuto a Montecassino e che poi, rientrato in Polonia per ricongiungersi alla famiglia, era stato più volte perseguitato dal governo comunista di allora che considerava gli ex soldati dell’armata di Anders dei “nemici della patria”.
Era vietato allora parlare di Anders. Così anche in Italia, dove il partito comunista aveva una certa influenza, questa storia non veniva divulgata volentieri e persino ora non sono riuscita a trovare in alcuna biblioteca milanese il libro di Anders, “Un’armata in esilio”, pubblicato nel 1947, praticamente sparito (o fatto sparire?).

Iniziai a documentarmi e a raccogliere interviste tra gli ultimi reduci del secondo Corpo Polacco guidati da Anders e ciò che non smette ancora di sorprendermi è il loro amore incondizionato non solo per la  Polonia, per la cui libertà combatterono senza ottenere nulla in cambio, ma il loro amore per l’Italia, che in fondo non aveva potuto fare molto per loro, nonostante che In Italia i polacchi persero 17.131 uomini, alcuni dei quali sepolti nei i 4 cimiteri di guerra a Casamassima (Bari, 450 caduti), Montecassino (1070 caduti), Loreto (1070), San Lazzaro di Savena (Bologna, 1450).
Solo in 3.000 di 115.000 ottennero la cittadinanza italiana, grazie a dei matrimoni stipulati prima del 1945, gli altri furono costretti a migrare, senza patria, senza casa, avevano perso tutto in quanto la maggior parte di loro proveniva dalla Polonia orientale occupata dai russi. Quelli sposati dopo il 1945 fecero persino perdere la cittadinanza italiana alle proprie mogli italiane che, per amore dei mariti diventati apolidi, li seguirono nei remoti angoli del pianeta, Argentina, Stati Uniti, Canada, Inghilterra etc.

Così, mentre io avevo potuto usufruire della scontata libertà essendo nata in Italia, senza neppure conoscerne le ragioni profonde, i miei coetanei polacchi all’Accademia si lamentavano del comunismo, delle file ai negozi, dell’impossibilità di viaggiare senza un invito ufficiale di uno straniero, della povertà delle proprie famiglie costrette a comprare quasi tutto al mercato nero (sapone, shampoo, carne, caffè, elettrodomestici etc). Eppure italiani e polacchi avevano combattutto insieme, per la stessa libertà. Per gli stessi ideali. E così la mia ricerca continuò appassionatamente, tra archivi sparsi per l’Europa e testimonianze dirette degli ultimi superstiti di questa grande epopea, la liberazione dell’Italia, di Montecassino, grazie al contributo dei polacchi. Nonostante le grandi difficoltà mi sono sentita in dovere di continuare questo film e di finirlo in tempo, per presentarne almeno uno spezzone all’anniversario di Montecassino, alla presenza delle istituzioni polacche e italiane, alla presenza di veterani polacchi provenienti da tutto il mondo, accompagnati dalle proprie famiglie, alla presenza di atleti internazionali che verranno a Montecassino per partecipare ad una maratona organizzata dal comune sui luoghi della battaglia.
Per i polacchi Montecassino rappresenta il proprio sacrificio incondizionato, l’ amore per la Polonia, come inciso nella lapide del cimitero: “noi soldati polacchi abbiamo donato l’anima a Dio, i nostri corpi all’Italia, i nostri cuori alla Polonia”.

Sia l’inno nazionale italiano che quello polacco parlano dell’amicizia tra i due popoli “fratelli”. L’inno polacco nacque nel 1797 a Reggio Emilia, nello stesso anno e luogo dove era nato il tricolore:
-“Marsz, marsz, D?browski, Z ziemi w?oskiej do Polski” (“marcia marcia D?browski, dalla terra Italiana alla Polonia”) -“Già l’aquila d’Austria/ le penne ha perdute/ il sangue d’Italia/e il sangue Polacco/bevé col Cosacco/ma il cor le bruciò”. Ennesima curiosa coincidenza che sancisce l’amicizia tra i due popoli.

Noi italiani abbiamo un debito con la Polonia, non dobbiamo dimenticarlo.
Nel film non si parla solo di guerra, ma anche d’amore, di fratellanza e di persistenza ai propri ideali anche  quando tutto sembrava perduto;  dopo le notizie non incoraggianti che circolavano  in seguito agli accordi di Teheran,  i Polacchi continuarono la loro battaglia per  liberare l’Italia, per dare l’esempio. E poi come non parlare della mascotte di questo esercito, Wojtek, un orso che li seguì dall’Iran alla Palestina fino all’Italia, dove sotto le bombe aiutava i soldati a trasportare le munizioni?
Diventato la mascotte dell’armata, anche l’orso Wojtek, come i suoi commilitoni soldati, non ottenne la libertà meritata e venne chiuso in uno zoo ad Edimburgo dove si intristì; si animava soltanto quando sentiva parlare il polacco o qualche soldato oltrepassava la grata per giocare con lui, come ai vecchi tempi.

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