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Caccia italiani intercettano jet russi nei cieli di Polonia e Svezia

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl.

Quattro caccia russi sono decollati senza preavviso da Kaliningrad e hanno violato lo spazio aereo di Polonia e Svezia. Gli Eurofighter italiani sono immediatamente decollati da Malbork e hanno intercettato gli aerei russi. Gli Eurofighter sono parte integrante del sistema di Baltic Air Policing. Il comando italiano ha informato che anche la settimana scorsa erano intervenuti per un avvicinamento di un caccia russo al confine polacco. La missione Baltic Air Policing è in corso dal 2004, vale a dire da quando Lituania, Lettonia ed Estonia hanno aderito all’Alleanza del Nord Atlantico. Si tratta di una sorveglianza militare dello spazio aereo degli Stati baltici, effettuata in un sistema di servizio rotazionale svolto dai vari paesi alleati. Attualmente, gli italiani prestano servizio nella base di Malbork.

https://polskieradio24.pl/5/1223/artykul/3048329,rosyjskie-mysliwce-naruszyly-przestrzen-powietrzna-polski-i-szwecji-zareagowaly-wloskie-typhoony

Pasolini, la vita dopo la vita

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Il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, una delle figure più importanti dell’Italia del dopoguerra, scrittore, poeta, drammaturgo, pubblicista, pittore e regista, è una buona occasione per riflettere su come mantenere vivo il ricordo di questo intellettuale e della sua richissima produzione artistica.

Come parte del mio corso di Storia del Cinema Italiano che tengo all’Università di Varsavia, ho chiesto a studenti e studentesse di scrivere un breve saggio su uno degli argomenti selezionati. Tre persone su qualche decina hanno deciso di dedicare

Anna Osmólska-Mętrak

il proprio lavoro all’opera di Pier Paolo Pasolini: due hanno scritto di Salò o le 120 giornate di Sodoma, e uno ha condiviso le sue riflessioni sul film Mamma Roma. Tutti e tre i testi hanno ricevuto il punteggio più alto possibile. Perché scrivo di questo? Ebbene, è per me un’altra prova che la figura e l’opera di Pasolini attirano costantemente l’interesse e l’attenzione delle generazioni di giovani dalle menti aperte, critiche e riflessive. Non solo in Italia, che sembra più ovvio, ma anche in Polonia. Peraltro, i gruppi italiani sui social media dedicati a Pasolini non solo sono numerosi ma anche molto attivi. La celebrazione del centesimo anniversario della nascita dell’artista ha accresciuto ulteriormente questo interesse verso Pasolini che non mostra battute d’arresto. Ciò accresce la mia profonda convinzione che Pasolini è vivo! Se potessi scegliere una figura del passato con la quale vorrei e potrei parlare, senza esitazione sceglierei proprio Pasolini. Allo stesso modo deve aver pensato Davide Toffolo nato a Pordenone, in Friuli, quando nel 2002 ha scritto il suo romanzo a fumetti intitolato semplicemente Pasolini. Si tratta, in poche parole, della storia di un giovane giornalista che segue le tracce di un uomo che si presenta come “signor Pasolini”. Quest’uomo ha tutte le caratteristiche del nostro tempo, come un indirizzo di posta elettronica, e vuole rilasciare un’intervista al giovane giornalista, presentando le sue opinioni, che sono fatte di citazioni dai testi di Pasolini. Ricorrendo a tale rappresentazione, Toffolo dimostra chiaramente che il pensiero di Pasolini non solo non è invecchiato, ma anzi ha acquisito attualità, a volte rivelandosi profetico. Toffolo non è solo un autore di fumetti, ma anche un chitarrista della band “I tre allegri ragazzi morti”. Il gruppo, da sempre interessato a Pasolini, gli ha dedicato gran parte della sua attività, e nel 2011 ha fatto una tournée in molte città italiane, dove oltre alle proprie canzoni, hanno presentato progetti artistici dedicati all’artista friulano.

Tornando ai fumetti, la prima storia di questo tipo è stata scritta dal giornalista Graziano Origa pochi mesi dopo la tragica morte di Pasolini. Il suo titolo, Le ceneri di Pasolini, rimanda chiaramente al celebre volume di poesie Le ceneri di Gramsci (1957). Un’altra storia, pubblicata in Francia, Pasolini di Jean Dufaux e Massimo Rotundo, è del 1993. Nel 2008 è uscita la graphic novel Il delitto Pasolini di Gianluca Maconi, ricostruzione delle ultime ore che hanno preceduto il brutale omicidio del poeta. L’ultimo pezzo è Diario segreto di Pasolini del 2015 di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, ipotetico diario/autobiografia dell’artista. Dedico tanto spazio alle opere appartenenti alla cultura popolare, e non a quelle più monumentali, come Vita di Pasolini di Enzo Siciliano, o numerosi studi scientifici sull’artista, perché mi sembrano essere la migliore prova di quanto il personaggio e l’opera di Pasolini uniscano diversi ambiti della cultura e si inseriscano in vari registri della sua ricezione.

La memoria di Pasolini resta ancora altrettanto forte tra i registi, non solo in Italia. Nel 1991 il regista inglese Derek Jarman, nel suo poco conosciuto cortometraggio intitolato Ostia, ricostruisce le ultime ore della vita di Pasolini. È proprio questo un

P.P. Pasolini, Anna Magnani, Ettore Garofolo, Franco Citti, Mostra del Cinema di Venezia, 1962 / fot. Gianfranco Tagliapietra

aspetto che gli artisti trovano più interessante, per le circostanze tragiche della morte del poeta. Possiamo qui ricordare il film Pasolini (2014) di Abel Ferrara con Willem Dafoe nel ruolo di protagonista, o La macchinazione (2016) di David Grieco, dove l’ideatore di Salò… è stato interpretato dal popolare attore e cantante italiano Massimo Ranieri. Marco Tullio Giordana invece (Pasolini, un delitto italiano, 1995) ha dedicato il suo film alle indagini sull’omicidio del regista. Vale la pena ricordare anche il film Un mondo d’amore (2002) di Aurelio Grimaldi, non tanto per il suo valore artistico, ma perché l’autore affronta un periodo precedente della vita di Pasolini, ovvero la fine del suo soggiorno a Casarsa e l’inizio della sua vita a Roma. Nel 2006 Giuseppe Bertolucci realizza il documentario Pasolini, prossimo nostro, che è la trascrizione di un’intervista con l’artista, fatta durante i lavori sull’ultimo film. L’artista, con la sua voce pacata ed equilibrata, sferra un attacco alla società contemporanea e lancia l’allarme. L’intervista, inframmezzata dalle foto del set del film, è una drammatica accusa, fatta da chi sa di più, da chi vede più lontano. Straordinario omaggio al regista è stato reso dal collega più giovane, Nanni Moretti, che conclude la prima parte di Caro diario (In Vespa, 1993) con un viaggio ad Ostia, sul luogo dell’omicidio di Pasolini, commemorato lì con un monumento. Questi sono solo alcuni esempi di un lungo elenco di opere cinematografiche ispirate al personaggio e all’opera di un grande italiano.

Anche i musicisti ricordano Pasolini. Il primo brano è quasi un “instant-song”, composto pochi giorni dopo il 2 novembre 1975. Lamento per la morte di Pasolini è una ballata di Giovanna Marini ispirata all’Orazione di San Donato, canto popolare

F.Citti, PP.Pasolini / fot. Gianfranco Tagliapietra

della tradizione abruzzese. Marini è ritornata a questo pezzo nel 2002 con l’uscita dell’album Il fischio del vapore, firmato insieme a Francesco De Gregori. Nel 1985 lo stesso De Gregori dedica a Pasolini il brano A pa’, definendolo durante un suo concerto “il più grande poeta del Novecento”. Cinque anni prima il brano Una storia sbagliata era stato dedicato a Pasolini dal più grande cantautore italiano, Fabrizio De André. Il testo fa riferimento alla morte del regista, ma anche alla seconda vittima della cosiddetta Prima Repubblica, una giovane romana Wilma Montesi: “È una storia da dimenticare, è una storia da non raccontare, è una storia un po’ complicata, è una storia sbagliata”. In occasione del 40° anniversario della morte del poeta è stato realizzato un documentario della giornalista Emanuela Audisio Pasolini, maestro corsaro. L’album L’alba dei tram è la colonna sonora del film e allo stesso tempo una sigla composta da Remo Anzovino su un testo di Giuliano Sangiorgi, interpretato da Mauro Giovanardi. Il giovane cantautore Enrico Nigiotti (1987) nella canzone Pasolini canta: “Ma come si fa nel mondo che c’è a starci dentro, a respirare”. Lo stesso autore dice così: “Pasolini è una canzone in cui descrivo la società di oggi attraverso le parole di Pier Paolo Pasolini”. Anche nella musica l’elenco dei riferimenti alla figura e all’opera di Pasolini potrebbe essere più lungo.

E c’è anche il teatro. Il già menzionato Giuseppe Bertolucci realizza nel 2004 uno spettacolo basato su testi di Pasolini e Giorgio Somalvico, intitolato ‘Na specie de cadavere lunghissimo, il cui ideatore e interprete è l’attore Fabrizio Gifuni, che fino ad oggi porta in scena questo monodramma nei teatri di varie città italiane. Ma ci sono molti altri eventi simili.

Qual è il motivo di una presenza così forte e costante di PPP non solo nella cultura italiana, ma nella memoria italiana in generale? Per rispondere, si possono scrivere lunghe dissertazioni, organizzare conferenze e seminari. La ricchissima eredità dell’artista è soggetta a nuove interpretazioni. Se, però, cerchiamo di dare una risposta breve, la chiave per comprendere il fenomeno di Pasolini è qualcosa di molto semplice, e allo stesso tempo così raro e prezioso nel mondo moderno: l’onestà intellettuale, che ci dice di testimoniare, di chiamare le cose con il loro nome. Coraggio di provocare, intransigenza, riprendere i temi più difficili, spesso oscuri. Tutto questo lo ha portato a scrivere il famoso testo Io so, originariamente pubblicato sul “Corriere della Sera” del 14 novembre 1974 con il titolo Cos’è questo golpe? Io so, inserito poi come Il romanzo delle stragi negli Scritti corsari. Pasolini spiega come conosce i nomi dei responsabili degli attentati che all’epoca sconvolsero l’Italia: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. È questa consapevolezza della responsabilità e del dovere intellettuale che costituisce la forza più grande nella vita e nell’opera di Pasolini.

Tra gli innumerevoli libri sull’artista ne ho scelto uno: PPP. Pasolini, un segreto italiano di Carlo Lucarelli, una storia personalissima su ciò che ha portato l’autore ad innamorarsi di Pasolini. Scrive che ricorda bene quel momento: guardava un estratto da Comizi d’amore. Questo mi ha spinto a pormi la stessa domanda, ma non posso dare una risposta diretta. Mi sono innamorata di Pier Paolo gradualmente e continuo ad innamorarmi ancora ad ogni frase, poesia riletta, ad ogni film guardato per l’ennesima volta.

tłumaczenie it: Magdalena Grochocka

I viaggi a fumetti di Federico Fellini e Milo Manara (I)

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Il fumetto era una delle passioni di Federico Fellini, che iniziò la sua carriera proprio come disegnatore. Tra il 1938 e il 1946 il giovane Federico collaborò con varie riviste, realizzando caricature e storielle a fumetti, e anche da regista non smise mai di disegnare. Il suo più importante contributo alla nona arte, però, furono le opere create insieme a uno dei più famosi e celebrati disegnatori italiani, Milo Manara.

Nel 1984 Fellini, appassionato di magia ed esoterismo, pensò di adattare per il cinema una delle opere di Carlos Castaneda, controverso scrittore e “sciamano” di origine peruviana. Nell’autunno del 1985 il regista italiano partì per il Messico per incontrare Castaneda, accompagnato, tra gli altri, dallo scrittore Andrea De Carlo (che aveva lavorato con lui al fi lm “E la nave va”) e dall’attrice americana Christine Engelhardt. Il viaggio, costellato da strani eventi e situazioni, segnò la fi ne dell’amicizia tra Fellini e De Carlo. Quest’ultimo pubblicò, nel 1986, il romanzo “Yucatan”, ispirato proprio al loro viaggio messicano. La cosa infastidì non poco Fellini, che in quello stesso anno pubblicò la propria versione della storia (inizialmente intitolata “Viaggio a Tulun”) sul “Corriere della Sera”, presentandola come un’anteprima del suo prossimo film. Un film che però non venne mai realizzato.

Nel 1988 Milo Manara, che aveva conosciuto Fellini qualche anno prima, contattò il regista per proporgli un adattamento a fumetti del racconto pubblicato sul “Corriere”. All’epoca Manara, nato nel 1945, era già un artista affermato, conosciuto soprattutto per opere di genere erotico come “Il gioco” (1982) o “Il profumo dell’invisibile” (1985). Fellini accettò la proposta del disegnatore e quel fi lm incompiuto divenne “Viaggio a Tulum”, un fumetto onirico, divertente e sensuale come i suoi migliori film. La trama, in parte rimaneggiata rispetto al soggetto originale, è carica di mistero, magia e suggestioni legate alle civiltà precolombiane, in particolare i Toltechi.

I protagonisti del “Viaggio”, oltre a Fellini stesso, sono il regista Snàporaz, la bellissima e misteriosa Helen e il goffo e simpatico Vincenzone. Snàporaz, che all’inizio del fumetto viene scelto da Fellini come suo alter ego per il viaggio, ha le fattezze di Marcello Mastroianni ed è omonimo del personaggio che il grande attore aveva interpretato ne “La città delle donne”, film di Fellini del 1980. La figura di Helen è vagamente ispirata alla Engelhardt, mentre appare curiosa la presenza di Vincenzone, ovvero il giornalista Vincenzo Mollica, che non aveva accompagnato Fellini nel suo viaggio in Messico. La decisione di farlo apparire nel fumetto al posto di De Carlo può essere interpretata come una cattiveria ai danni dello scrittore, un’ironica vendetta per aver “rubato” la storia di Fellini. Tra gli altri personaggi possiamo ricordare Sibyl, una versione oscura di Christina/Helen, o lo stregone messicano Hernandez, ma il “Viaggio” è pieno di fi gure pittoresche e originali che talvolta compaiono solo per poche vignette. Nelle prime pagine del fumetto Helen e Vincenzone, alla ricerca di Fellini, si recano a Cinecittà, dove incontrano personaggi provenienti da vari film del regista italiano, che Manara raffi gura con grande precisione e realismo. Più avanti Fellini e Manara inseriscono nella storia il regista e scrittore cileno Alejandro Jodorowsky e il celebre disegnatore francese Jean “Moebius” Giraud, autori di uno dei capolavori del fumetto mondiale, “L’Incal” (1981-1988).

In “Viaggio a Tulum” Fellini e Manara si divertono spesso a rompere la “quarta parete” tra finzione e realtà: i protagonisti sono consapevoli di essere personaggi di un fumetto e più di una volta commentano l’assurdità della trama e la mancanza di una successione logica degli eventi. La scena più interessante è forse quella in cui Snàporaz parla al telefono con il regista, esprimendo la propria frustrazione per la storia bislacca di cui è protagonista. Ma è proprio questo il motivo, risponde il regista, per cui non ha mai girato il fi lm che da tempo aveva in mente: la sceneggiatura era semplicemente troppo assurda. E così, l’unico mezzo che Fellini aveva per portare a compimento un progetto così folle e fantastico era il fumetto. A controbilanciare la storia, decisamente surreale e onirica, abbiamo i disegni estremamente dettagliati e realistici del maestro Manara. Come in altre opere dell’artista italiano ha un ruolo di primo piano la rappresentazione del corpo femminile, ma sarebbe certamente sbagliato liquidare “Viaggio a Tulum” come un banale e volgare fumetto erotico. La raffigurazione dei volti, soprattutto quello di Mastroianni, rasenta il fotorealismo, così come nel caso dei paesaggi, edifici e scenari urbani, disegnati con un incredibile livello di dettaglio e un respiro autenticamente cinematografico.

“Viaggio a Tulum” uscì a puntate sulla rivista “Corto Maltese” nel 1989. Qualche anno più tardi, nel 1992, Fellini e Manara crearono la versione a fumetti di un altro film mai realizzato dal regista riminese, stavolta davvero leggendario: “Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet”.

Foto: Sławomir Skocki, Tomasz Skocki

Brescia leonessa della cultura

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fot. Febo Films

Antica città le cui origini risalgono a oltre 3 200 anni fa, Brescia possiede un cospicuo patrimonio artistico e architettonico: i suoi monumenti d’epoca romana e longobarda sono stati dichiarati dall’UNESCO Patrimonio mondiale dell’umanità dal 2011, è conosciuta nel mondo anche per la celebre corsa d’auto d’epoca Mille Miglia e per la produzione del Franciacorta. La città di Brescia è soprannominata “La Leonessa d’Italia”, così definita per la prima volta da Aleardo Aleardi, nei suoi Canti Patrii. La fortuna dell’espressione si deve però a Giosuè Carducci, che volle rendere omaggio a Brescia per la valorosa resistenza contro gli occupanti austriaci durante l’insurrezione delle Dieci Giornate, nell’ode “Alla Vittoria”.

Le origini di Brescia risalgono al 1200 a.C., quando una popolazione, probabilmente di

fot. Febo Films

Liguri, costruì un insediamento nei pressi del Colle Cidneo. Nel VII secolo a.C. si insediarono i Galli Cenomani, che fecero di Brescia la loro capitale. Successivamente, a cavallo tra III e II secolo a.C., Brixia iniziò il percorso di annessione alla Repubblica romana, culminato nel 42 a.C. quando gli abitanti ottennero la cittadinanza romana. Dalla caduta dell’impero fu dominata da diverse popolazioni barbariche fino a diventare un importante ducato del regno longobardo.

Proclamatosi comune autonomo già nel XII secolo, finì sotto la dominazione viscontea e poi si diede ai Domini di Terraferma della Repubblica di Venezia a cui rimarrà legata fino al 1797. Annessa al Regno Lombardo-Veneto, durante il Risorgimento fu teatro delle dieci giornate di Brescia, per poi arrivare all’annessione al Regno d’Italia nel 1860.

fot. Febo Films

La città vanta un patrimonio storico artistico di tutta rilevanza, conservato in parte nei suoi splendidi musei, che sono gestiti dalla Fondazione Brescia Musei, presieduta da Francesca Bazoli e diretta da Stefano Karadjov.

Brixia. Parco archeologico di Brescia romana
Il Parco archeologico di Brescia romana offre un viaggio a ritroso nel tempo tra i resti monumentali dell’antica Brixia: dal santuario di età repubblicana (I secolo a.C.), monumento unico nel panorama archeologico dell’Italia settentrionale, con i suoi affreschi sorprendenti per grado di

fot. Alessandra Chemollo

conservazione e qualità al Capitolium, tempio principale della città, eretto dall’imperatore Vespasiano, dedicato al culto della “Triade Capitolina”, Giove, Giunone e Minerva. Al suo interno troviamo ancora i pavimenti originali in lastre di marmi colorati del I secolo d.C. oltre agli altari in pietra e frammenti di statue di culto e di arredi. Nella cella orientale è ospitata La Vittoria Alata, raro capolavoro bronzeo del I secolo d.C., vero e proprio simbolo di Brescia, recentemente restaurato, in un allestimento museale curato dall’architetto spagnolo Juan Navarro Baldeweg, concepito per esaltare le caratteristiche materiche e formali del bronzo.

fot. Fotostudio Rapuzzi

Il percorso termina al Teatro romano, costruito e ampliato tra I e III secolo, sorge accanto al Capitolium. La cavea imponente suggerisce le emozioni delle antiche rappresentazioni. Il teatro venne utilizzato sino all’età tardoantica (fine IV-inizio V secolo d. C.). Tra il XI e il XII secolo, la scena crollò e l’edificio divenne una cava a cielo aperto. Nel XII secolo era utilizzo come luogo per pubbliche udienze, ma lo stato di abbandono in cui versava ne determinò il progressivo e definitivo interro.

Museo di Santa Giulia
Unico in Italia e in Europa, il Museo della città è allestito all’interno di un complesso

fot. Fotostudio Rapuzzi

monastico di origine longobarda e consente un viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità di Brescia dall’età preistorica ad oggi, in un’area espositiva di circa 14.000 metri quadrati. In una successione continua di luoghi straordinari si incontrano due abitazioni di età romana (I-III secolo d.C.), dette Domus dell’ortaglia parte di un quartiere residenziale, che conservano ancora oggi mosaici e affreschi su modello di quelli di Roma e Pompei; la basilica longobarda di San Salvatore (VIII secolo d.C.), testimonianza tra le più importanti dell’architettura religiosa longobarda. Eretta per volontà di re Desiderio nel 753 d.C. come cuore del monastero, la chiesa-mausoleo aveva la funzione di simbolo del potere dinastico della monarchia e dei ducati longobarda, preziosissimo scrigno ricco di colonne romane di reimpiego, stucchi a motivi ad intreccio,

fot. Fotostudio Rapuzzi

affreschi e testimonianze degli antichi arredi lapidei. Si prosegue nel Coro delle monache (inizio del XVI secolo) ambiente sontuoso destinato alle monache dedite alla clausura. Articolato su due livelli presenta le pareti del piano superiore interamente decorate da affreschi di Floriano Ferramola e di Paolo da Caylina il Giovane, che raccontano la vita di Cristo. Infine l’Oratorio romanico di Santa Maria in Solario (XII secolo), nel quale le monache custodivano il tesoro; di forme romaniche, venne costruito verso la metà del XII secolo come luogo di culto privato delle monache con massicce murature nelle quali sono inseriti frammenti d’iscrizioni romane. Edificato su due livelli collegati conserva oggetti

fot. Fotostudio Rapuzzi

appartenenti all’antico tesoro come la Lipsanoteca, cassetta d’avorio decorata (IV secolo d.C.) e la crocetta reliquario in oro, perle e pietre colorate (X secolo d.C.) fino alla monumentale Croce di Desiderio , rara opera di oreficeria della prima età carolingia (IX secolo d.C.), decorata da 212 gemme, cammei e paste vitree databili dall’età romana al XVI secolo, conservata nel piano superiore sotto uno straordinario cielo blu di lapislazzuli tempestato di stelle d’oro.

Pinacoteca Tosio Martinengo
Completamente rinnovata nel 2018, accoglie una preziosa e scelta collezione d’arte nell’elegante sede di Palazzo Martinengo da Barco, con i suoi splendidi saloni rivestiti da preziosi velluti cangianti e ornati da soffitti affrescati. Il percorso espositivo prende avvio dal Trecento e affianca ai dipinti

fot. Fotostudio Rapuzzi

mirabili oggetti di arte decorativa, in un susseguirsi di capolavori da Vincenzo Foppa, capostipite del naturalismo lombardo a Vincenzio Civerchio che si ispira a Leonardo, passando per testimonianze di assoluta fama come l’Angelo e il Redentore di Raffaello Sanzio e l’Adorazione dei pastori di Lorenzo Lotto. Il cuore della collezione è costituito dalla pittura bresciana del Rinascimento con Savoldo, Romanino e Moretto, fino ad arrivare all’umanissima stagione dei “pitocchi” di Giacomo Ceruti. Il percorso si conclude con l’Ottocento che offre capolavori di maestri assoluti come l’Eleonora d’Este di Canova e il Ganimede di Bertel Thorvaldsen, fino al potentissimo Laocoonte di Luigi Ferrari e alla struggente tela I profughi di Parga di Francesco Hayez. Un patrimonio inestimabile formatosi tra Ottocento e Novecento grazie alla generosità di privati cittadini come il Conte Paolo Tosio, di cui il

fot. Fotostudio Rapuzzi

museo porta il nome, che donarono le loro raccolte e alla cura posta dal Comune nel raccogliere e conservare opere d’arte.

Castello e Museo delle armi “Luigi Marzoli”
Arroccato sul colle Cidneo, il Castello costituisce uno dei più affascinanti complessi fortificati d’Italia e il secondo più grande d’Europa, in cui si possono leggere ancora oggi i segni delle diverse dominazioni. Protagonista di numerosi eventi drammatici in cui la città fu coinvolta, tra cui le celebri Dieci Giornate, il Castello è oggi una delle aree più suggestive di Brescia, in cui convivono più elementi: le testimonianze della presenza romana, come i magazzini dell’olio, gli edifici medievali e una locomotiva del 1909, esposta all’interno del “Falco d’Italia” per la gioia dei visitatori più piccoli. All’interno del trecentesco Mastio Visconteo, il Museo delle Armi “Luigi Marzoli”

fot. Fotostudio Rapuzzi

ospita una delle più pregiate raccolte europee di armature e armi antiche, che raccontano la lunghissima tradizione armiera bresciana, documentandone l’evoluzione tecnologica e artistica tra il XV e il XVIII secolo. Nel 2023 verrà riaperto, dopo un lungo restauro, il Museo del Risorgimento con una nuova splendida veste, che permetterà in maniera innovativa di conoscere uno dei capitoli fondamentali della storia italiana moderna.

Anticipazioni 2023
Il 2023 sarà l’anno di Bergamo-Brescia Capitale Italiana della Cultura, tanti saranno dunque gli eventi che si susseguiranno: siinizia il 23 giugno di quest’anno con la mostra “Isgrò cancella Brixia” che terminerà l’8 gennaio 2023 che intende porre l’accento sul dialogo che s’instaura tra l’archeologia e l’arte contemporanea, tra la cultura classica e la sua persistenza nel nostro tempo. Dal 29 ottobre 2022 fino al 28 febbraio 2023 sarà la volta di “La città del Leone: Brescia nell’età dei Comuni e delle Signorie”, mostra che attraverso materiali eterogenei, intende indagare in modo originale questo periodo. E ancora dal 10 febbraio al 10 maggio 2023 si terrà la mostra “Ceruti. Pittore europeo” un’occasione per celebrare questo pittore che, con le sue toccanti rappresentazioni dei ceti umili e i suoi ritratti penetranti, si impose come una delle voci più originali della cultura figurativa del XVIII secolo, e di cui la Pinacoteca Tosio Martinengo accoglie il più importante corpus di opere, al mondo. Dal 24 marzo al 23 luglio 2023, per la sesta edizione del Brescia Photo Festival, “Luce della Montagna” sarà la più importante mostra sulla fotografia di montagna realizzata negli ultimi decenni, con opere di Vittorio Sella, Martin Chambi, Ansel Adams, Axel Hutte.

 

Il Ghetto di Łódź

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Fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Łódź era una delle città più importanti della Seconda Repubblica di Polonia. Era abitata da oltre 230.000 ebrei, che costituivano il 33% della popolazione della città. Łódź era un centro importante della vita sociale, culturale, economica e politica degli ebrei.

Tutto cambiò con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. L’esercito tedesco occupò la città l’8 settembre 1939. Fin dai primi giorni dell’occupazione, gli ebrei di Łódź furono sottoposti a severe repressioni. Le repressioni assunsero forme diverse, a volte molto brutali: dalla costrizione a eseguire lavori di pulizia duri e umilianti, ad essere privati dei loro beni fino a subire violenze ed essere uccisi. Furono sanzionati dalla legge di occupazione introdotta dalle autorità tedesche attraverso ordinanze. Le repressioni riguardavano quasi ogni ambito della vita. Gli ebrei furono cacciati dal lavoro e fu loro vietato di gestire attività commerciali, privandoli così dei loro mezzi di sostentamento. Fu vietato loro di celebrare le festività, di utilizzare i trasporti pubblici, fu introdotto il coprifuoco e alla fine del 1939 fu vietato loro di lasciare la città.

L’isolamento sociale fu aggravato dall’ordine a tutti gli ebrei di indossare segni di riconoscimento: inizialmente bracciali gialli sul braccio destro, dall’11 dicembre furono sostituiti da Stelle di Davide cucite sugli abiti. Nello stesso tempo, tutti i negozi e le attività commerciali di proprietà di ebrei furono contrassegnati da una Stella di Davide gialla posta in un luogo visibile.

La fase successiva fu l’isolamento fisico nel ghetto creato nel febbraio 1940. Il piano di creare un “quartiere chiuso” a Łódź fu infine attuato l’8 febbraio 1940 con un ordine del presidente della polizia Johannes Schaefer, pubblicato sul quotidiano più importante: Lodzer Zeitung. I reinsediamenti nel “quartiere ebraico” iniziarono immediatamente e durarono fino all’inizio del marzo 1940, culminando nel cosiddetto “giovedì di sangue” del 7 marzo, quando i tedeschi uccisero centinaia di persone che opponevano resistenza.

In poco più di 4 km2 furono stipate oltre 163.000 persone. Due strade di passaggio, Zgierska e Limanowskiego, dove passava la linea del tram, furono escluse dall’area del ghetto. Per rendere possibili gli spostamenti tra le diverse parti del ghetto, furono costruite tre passerelle di legno sulle strade: due su via Zgierska (presso via Podrzeczna e Lutomierska) e una su via Limanowskiego (presso via Masarska). Ben presto divennero uno dei simboli del ghetto. Nell’aprile del 1940, il nome di Łódź fu cambiato in Litzmannstadt, quindi il ghetto viene spesso indicato come il ghetto di Litzmannstadt.

Chaim Mordechaj Rumkowski, il capo nel ghetto, si prefisse di creare il maggior numero possibile di posti di lavoro che dovevano giustificare l’esistenza del “quartiere chiuso”. Rumkowski convinse i tedeschi che c’era bisogno di persone impiegate nell’industria tedesca; aderì alla politica della “salvezza attraverso il lavoro”. Con la deportazione di gruppi sempre più ampi di persone, divenne chiaro quanto fossero illusorie queste speranze.

Le condizioni del ghetto – mancanza di cibo, di medicinali e lavoro duro – portarono a un tasso di mortalità estremamente elevato tra i suoi abitanti. La situazione era aggravata da condizioni sanitarie disastrose. Quando il ghetto fu liquidato nell’estate del 1944, si contarono oltre 43.000 morti che furono sepolti nella parte occidentale del cimitero, in via Bracka, nel cosiddetto campo del ghetto.

Nell’autunno del 1941, prima che si stabilisse il piano per la “soluzione finale della questione ebraica”, le autorità tedesche decisero di reinsediare gli ebrei che vivevano nel Vecchio Reich nei territori occupati, compreso il ghetto di Łódź. In ottobre un gruppo di 20.000 ebrei del Reich e del Protettorato e 5.000 rom dell’Austria orientale furono deportati nel ghetto. I reinsediati non conoscevano lo scopo del loro viaggio e questo gruppo comprendeva molte persone per le quali il contatto con il ghetto fu uno shock. C’era un numero non trascurabile di cattolici e protestanti riconosciuti come ebrei sulla base delle leggi razziali di Norimberga. Il loro arrivo fu uno dei momenti più importanti della storia del ghetto. Quasi del tutto non abituati alle condizioni del ghetto, incapaci di parlare la lingua e scollegati dalla loro vita precedente, i reinsediati provenienti dall’Ovest sono stati collocati nei cosiddetti alloggi collettivi.

Le deportazioni dal ghetto di Łódź a Chełmno iniziarono nel gennaio 1942: dapprima fu trasportato a Chełmno un gruppo di rom del cosiddetto campo zingari, seguito dai detenuti del ghetto. Le deportazioni continuarono fino all’autunno del 1942.

Il 3 settembre i tedeschi chiesero che tutti i bambini sotto 10 anni e gli anziani sopra 60 fossero deportati dal ghetto. Rumkowski decise di informare di persona gli abitanti del ghetto delle richieste delle autorità, organizzando a tal fine un discorso pubblico nella piazza dei pompieri. Il 5 settembre, per ordine delle autorità tedesche, fu annunciata una “szpera” (dal tedesco Gehsperre – chiusura) nel ghetto. A nessuno fu permesso di lasciare la propria casa sotto la minaccia delle punizioni più severe. Gruppi speciali della polizia tedesca e del Servizio d’ordine ebraico visitarono i successivi quartieri di strada, dove, dopo aver raccolto gli abitanti, i funzionari tedeschi selezionavano quelli in grado di lavorare e gli altri destinati allo sfollamento. La gente disperata nascondeva i propri figli e gli anziani nella speranza di salvargli la vita. Fino al 12 settembre, più di 15.500 persone furono catturate e deportate dal ghetto verso la morte.

In totale, più di 77.000 ebrei e 4.300 rom furono deportati e uccisi tra il gennaio e il settembre 1942 e nel giugno 1944.

Il 15 giugno 1944, quando nel ghetto c’erano ancora circa 75.000 persone, Heinrich Himmler ne ordinò la liquidazione. Tra il 23 giugno e il 14 luglio 1944, oltre 7.100 persone furono deportate dal ghetto e uccise nel sito di Chełmno nad Nerem. Il 15 luglio le deportazioni furono brevemente interrotte e dopo la loro ripresa i trasporti andarono direttamente al campo di Auschwitz-Birkenau. Dal 5 al 28 agosto 1944 furono deportate quasi tutte le persone rimaste nel ghetto.

Dopo la liquidazione del ghetto, un gruppo di circa 1,5 mila persone fu lasciato nei suoi locali come un cosiddetto “commando d’ordine”, il cui compito era preparare i macchinari, le materie prime e i beni di maggior valore, che si trovavano nel ghetto, per il trasporto nel Reich. Quelli che rimasero nel ghetto liquidato dovevano essere uccisi in fosse comuni precedentemente preparate nel cimitero ebraico. Tuttavia, i tedeschi non riuscirono a farlo prima che l’Armata Rossa entrasse in città. Il 19 gennaio 1945, circa mille persone furono liberate dall’ex ghetto.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Łódź era una città diversa. Edifici, case, fabbriche sopravvissero (utilizzate durante la guerra per il bene del Reich). Un gran parte degli abitanti non c’era più, sparita dallo spazio cittadino. Rimasero gli edifici e la memoria.

Tłumaczenie it: Vanda Asipenka

Il vino della pace

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In Friuli, nei pressi della città di Gorizia dove si respira l’aria della Mitteleuropa c’è una terra ricca e baciata dalla fortuna, situata vicino al fiume Isonzo, protetta dalle Alpi Giulie e riscaldata dalle acque dell’Adriatico.

Una terra dalla vocazione internazionale che da sempre ha mantenuto la sua essenza e la volontà di essere ponte e non ostacolo al dialogo e all’accoglienza.

Proprio qui a Cormòns nel 1983 nacque un’idea rivoluzionaria. Un pacifismo enoico che spinse gli allora soci delle Cantine Produttori di Cormòns a mettere nero su bianco un’idea visionaria e affascinante. Il “manifesto” su cui hanno vergato la loro idea è ancora lì, nel grande salone di degustazione della cantina sociale. Quei soci, quasi tutti anziani, avevano vissuto anche sulla propria pelle le ferite di due guerre mondiali e vollero mettere a loro modo fine alle divisioni d’Europa in un’epoca in cui c’era ancora il muro di Berlino.

Non esisteva un progetto, un simbolo simile e così. Un sogno reso possibile dall’unione di quei vignaioli friulani guidati da Adriano Drius e dal Maestro di Cantina Luigi Soini.

In quel 1983 iniziarono a piantare, nei due ettari intorno alle cantine sociali, la Vigna del Mondo.

Centinaia di varietà provenienti da ogni parte del mondo. L’elenco dei vitigni utilizzati non è statico, ma è in “work in progress”, dato che se ne aggiunge sempre qualcuno di nuovo e la vinificazione avviene in bianco. La produzione si attesta, a seconda delle annate, dalle 5 alle 15 mila bottiglie e queste bottiglie sono contese oltre che dagli appassionati di vino anche dai collezionisti d’arte. Quella di Cormòns è senza dubbio la più grande collezione di vitigni del mondo con le sue oltre 650 varietà provenienti da oltre 60 paesi; ma ciò che è straordinario è che da questa vigna dal 1985 è nato un vino unico: il Vino della Pace. Un vino nato come simbolo, che viene commercializzato in bottiglie da collezione disegnate in edizione limitata da grandi artisti. Arnaldo Pomodoro, Enrico Bay e Zoran Music furono gli autori delle prime tre etichette.

Nel corso degli anni si sono succeduti nella realizzazione i più grandi nomi dell’arte mondiale. Da Luciano Minguzzi a Salvatore Fiume da Giacomo Manzù ad Aligi Sassu da Ernesto Treccani a Yoko Ono, da Emilio Tadini a Dario Fo a Fernando Botero a tanti altri ancora.

Il “Vino della Pace” dal 1985 al 2012 è stato inviato ai potenti della terra e ai Capi di Stato di tutto il mondo “quale segno di pace e fratellanza fra i popoli”, impreziosito appunto dalle etichette disegnate da grandi artisti di fama internazionale. Fin dall’originele tre bottiglie che ogni anno compongono la “collezione” vengono inviate ai capi di stato civili e religiosi del mondo.

A riportare nelle bottiglie questo vino della Cantina Produttori Cormons è stata la vendemmia 2017 che, alla fine di settembre, ha celebrato il ritorno, sulle colline del Collio, di questo simbolo di pace e fratellanza.

In quelle bottiglie ci sono tutte le “razze” enoiche: Yuvarl Cakird, Tsirah, Tulilah, Shurrebe, Pedral, Maizy, Zinfandel, Terrano, Merlot Bianco, Gamay, Ucelut, tanto per elencarne solo alcuni di quelli che convivono nel vigneto più cosmopolita del mondo.

All’inizio dell’autunno anche il rito della vendemmia si fa speciale. In questo abbraccio simbolico di unione e fratellanza le mani che raccolgono i grappoli sono quelli delle 500 persone e 70 ragazzi del Collegio del Mondo Unito di Duino (Trieste) che rappresentano le 60 nazioni del mondo. Sono loro fin dalla prima vendemmia del 1985 a chiudere questo cerchio magico di simbologia di Pace.

Esercitiamoci!

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Non scoprirò l’America se dico che non serve a niente un modo di studiare la lingua che non prevede le ripetizioni. Vi propongo di fare quindi tre esercizi che ci aiutano a ripassare i temi ed il lessico degli articoli precedenti: Esprimere l’intraducibile, del perfetto imperfetto, Verbi pronominali, L’italiana lingua dell’amore, Il mondo dei colori. Buon lavoro!

I. Traduci le frasi in italiano
1. Kropi, więc weź parasol.
Wczoraj wieczorem lało.
2. Idę się przejść.
3. Najpierw ogarnę trochę dom.
4. On nie chce pracować na czarno.
5. Jej córka ma rękę do kwiatów.
6. On jest śmiertelnie zakochany.
7. Ludzie nic nie zrobili.
8. Wolę ciemne winogrona.
9. Musisz się zdecydować.
10. Zeszłej nocy miałam koszmar.

II. Abbina la colonna A con le espressioni della colonna B
A
a) essere al verde
b) che bello
c) ho infl uenza
d) era tutta nera
e) un principe azzurro
f) la settimana bianca

B
1. książe z bajki
2. tydzień na nartach
3. ale super
4. mam katar
5. być spłukanym
6. bardzo wkurzona

III. Completa il testo con le parole qui sotto
bel
le fa il fi lo
si sono divertiti
ci prova
sorriso (x2)
ha litigato
Maria è uscita con Luca che ……………… da un ……… po’. Lei non si fida di lui perché la sua amica Paola dice che è un tipo che …………… con tutte. A Maria però Luca piace molto ed ………………. con Paola. L’ha conosciuto ad una festa, lui le ha ……………. e lei si è innamorata di quel ……………….. Sono andati a mangiare e
……………………… molto.

LE RISPOSTE:

I.
1. Pioviggina quindi prendi un ombrello. Ieri sera ha
piovuto a dirotto.
2. Vado a fare 2 passi/ a fare un giro.
3. Prima sistemo un po’ la casa.
4. Non vuole lavorare in nero.
5. Sua fi glia ha il pollice verde.
6. E’ innamorato cotto.
7. La gente non ha fatto niente.
8. Preferisco l’uva nera.
9. Ti devi decidere/ Devi deciderti.
10. La notte scorsa ho fatto un brutto sogno.

II.
a 5, b 3, c 4, d 6, e 1, f 2

III.
Maria è uscita con Luca che le fa il fi lo da un bel po’. Lei non si fida di lui perché la sua amica Paola dice che è un tipo che ci prova con tutte. A Maria però Luca piace molto ed ha litigato con Paola. L’ha conosciuto ad una festa, lui le ha sorriso e lei si è innamorata di quel sorriso. Sono andati a mangiare e si sono divertiti molto.

Aleksandra Leoncewicz – lektorka języka włoskiego, tłumaczka, prowadzi własne studio językowe Pani Od Włoskiego.

Appena sfornati

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Viaggio onirico attraverso sogni che affondano nelle profondità della nostalgia e della malinconia. Ecco come si può in breve definire la musica che ci è stata proposta nell’album del debutto di Tommaso Paradiso.

Finora, Tommaso era conosciuto quale componente della band The giornalisti fondata nel 2009 insieme a Marco Antonio Musella e Marco Primavera. Qualche canzone di successo e tournée in tutta Italia è quello di cui potevano vantarsi per un decennio della loro esistenza. Però Tommaso Paradiso, nato nel quartiere romano Prati Paradiso, ha sempre desiderato suonare da solista, un po’ meno il suonare la chitarra come nella band madre che era la conseguenza di un sogno apparso dopo aver ascoltato “Definitely Maybe” degli Oasis. Allora, all’età di 11 anni sognava di diventare un musicista. C’è molta meno chitarra in “Space Cowboy”, ma è pieno di atmosfera spensierata in cui il musicista sembra intraprendere un viaggio introspettivo. Si possono catturare un gran numero di citazioni e ispirazioni musicali, da cui l’artista non scappa. Tocca Carlo Verdone, Vasco Rossi, The Strokes, The Beatles o Arctic Monkeys nel singolo “Silvia” con un caratteristico modo di suonare la chitarra. Nell’album si sente il synth-pop che unisce sintetizzatori, batteria e tastiere nello stile degli anni Ottanta. Dal punto di vista dei testi è un viaggio intimo, che già nella traccia di apertura annuncia che Tommaso non si vergogna delle sue emozioni. Rivela i sentimenti personali come la paura, la solitudine, l’insicurezza, la perdita e la ricerca della pace. Un’esperienza particolarmente piacevole!

Sangiovanni “Cadere Volare”
Una volta i riccioli folti, un’altra i capelli tagliati molto corti. Oggi le unghie bianche, domani di colore rosa. Uno stile che va oltre l’ordinario abbigliamento dell’adolescente medio e supera i limiti della virilità nel senso ampio del termine. Nessuna stranezza, ma con un pizzico di follia e carattere. Ecco Sangiovanni, una speranza della musica italiana, un cantante che quest’anno ha pubblicato un atteso album di debutto intitolato “Cadere Colare”. Alcuni possono associare questo gioioso ragazzo al programma Amici che scopre nuovi talenti. È quanto è accaduto con il cantante diciannovenne nato a Vicenza. Il risultato del successo televisivo prima è stato un EP e ora un album di dimensione piena promosso dal singolo di ballo “Farfalle” (quinto posto al festival di Sanremo). L’album è solo apparentemente creato per quegli adolescenti che ascoltano un pop poco impegnativo. È un disco particolarmente maturo e saggio, pieno d’amore. Molte canzoni sono dedicate a storie più o meno importanti, a sentimenti più o meno maturi. È il primo contatto con l’età adulta, una voce importante su argomenti come affrontare le emozioni, il rifiuto causato dall’orientamento sessuale o i tentativi di suicidio. In seguito è un racconto di un giovane che vuole essere leggero e libero. Sangiovanni rappresenta una nuova generazione che scappa dal moralismo ed è eccezionalmente affidabile. Nella musica mescola le profondità del pop con l’elettronica e l’hip-hop. In una delle interviste ha confessato: “A prima vista, la mia musica può sembrare leggera nel senso più superficiale del termine, ma è anche la mia forza”. Con questa onestà e sincerità di emozioni vince. Un ragazzo altamente dotato da cui possiamo imparare ad assaporare la vita e un modo leggero di vivere i momenti difficili!

Ditonellapiaga “Camouflage”
Ecco è nata una nuova regina della musica italiana che potrebbe arditamente salire sul palco con leggende globali come Dua Lipa, Roisin Murphy o Beyonce. Non a caso elenco artisti di diverse aree e generi musicali, dato che la giovane cantante romana non intende porsi limiti e assumere nuovi ruoli e recitare, come a teatro, le viene facilmente. Ditonellapiaga l’abbiamo conosciuta per esempio quest’anno al festival di Sanremo, dove insieme a Donatella Rettore, icona degli anni 80, ha eseguito una canzone accattivante, “Chimica”, rendendo omaggio alla musica da ballo e alle sue varie sfumature nel modo migliore. Nell’album di debutto “Camuflage” si trasforma in un camaleonte. Ci inonda di elementi disco, house, eurodance dei primi anni 2000, a suoni più delicati con gli elementi di soul come nella canzone “Come fai”. È in grado di sorprendere non solo con l’atmosfera retrò degli anni 60, ma anche con il suono completamente astratto come nella canzone di apertura del disco “Morphina”, il momento migliore dell’album. C’è anche un buon disco di chiusura “Carrefour Express” che parla di sentimenti non reciproci, del desiderio di possedere ciò che non si può avere. Considerando tutte queste luci e ombre, colori e suoni che non vogliono essere etichettati, otteniamo un pensiero coerente e Ditonellapiaga entra sulla scena musicale con un passo audace che non può essere dimenticato.

Tłumaczenie it: Joanna Jachimek

Da Tintoretto ai cicchetti

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Tanti turisti vengono a Venezia per un giorno: si meravigliano dell’onnipresente acqua, delle snelle gondole, dei colori delle maschere e dei vetri, si stringono in Piazza San Marco e sul Ponte di Rialto seguendo obbedientemente l’ombrello della guida. Solo immagini, sorrisi, ricordi.

L’innumerevole quantità di ponti e canali, chiese e campi, all’inizio può sbalordire e

scoraggiarti dall’esplorare la Serenissima individualmente. Tuttavia, se dedichiamo un po’ più di tempo a Venezia, si scopre che è diffi cile perdersi qui. Perché anche se ci perdiamo in un vicolo cieco, alla fi ne troveremo o un giardino segreto o una nuova vista su un canale. E non è esattamente quello che stiamo cercando? Bellezza, mistero, qualcosa che ci stupirà?

Quest’anno siamo arrivati a Venezia in aprile-maggio. Dopo esser scesi dall’autobus a Piazzale Roma, siamo stati salutati dal cielo limpido e dal verde intenso dei Giardini Papadopoli.

È a questo punto, dove il traffi co automobilistico finisce, che per la maggior parte dei turisti inizia l’avventura a Venezia.

Subito abbiamo seguito il percorso, ben noto, verso Campo Santa Margherita nel sestiere Dorsoduro, che è uno dei sei sestieri di Venezia. Un ponte, un secondo, un terzo, un quarto, un quinto. Fermata. Dobbiamo fermarci a uno di questi ponti. Questo non è un normale ponte. Questo è Il Ponte dei Pugni, un tempo scenario di furiose disfide tra veneziani. Il ponte non aveva barriere e l’obiettivo della lotta dei pugni era quello di gettare l’avversario in acqua.

Uno dei nostri bar veneziani preferiti si trova ai piedi di questo ponte – Bar Artisti Osteria Ai Pugni – qui ci sentiamo come se fossimo a casa nostra. Siccome vogliamo mangiare e bere come i veneziani, ordiniamo da bere lo spritz al Select, una versione più secca dello spritz all’aperol, caratterizzata da un colore carminio e un sofisticato gusto amaro. Come aggiunta obbligatoria gli spuntini, preferibilmente diversi tipi. All’Osteria ai Pugni ci piace mangiare i fagottini fritti ripieni di prosciutto cotto, mozzarella o melanzane. Tutto si sceglie in bocca, ogni cosa ha un suo specifico gusto ed odore. In nessun altro luogo si mangia così bene.

Venezia ci sta aspettando. Percorriamo il largo Campo Santa Margherita verso le Gallerie dell’Accademia, il tempio dell’arte, dove sono raccolti i più grandi tesori della pittura veneta: opere di Bellini, Tintoretto, Tiziano, Guardi e Canaletto. Ovunque, lungo le calli, incontriamo numerose vetrine piene di vetri e gioielli, che ci ricordano che il commercio è sempre stato alla base dell’esistenza di questa città. Ci sono anche profumerie, quasi gallerie d’arte, come Bottega Cini, che vende i prodotti della marca The Merchant of Venice (Kupiec wenecki), profumi unici e raffinati con composizioni che ricordano tutta la ricchezza di Venezia quando era all’apice della sua gloria.

La Bottega Cini prende ovviamente il suo nome dal Palazzo Cini, oggi museo che espone le collezioni di Vittorio Cini (1885- 1977), collezionista, industriale e filantropo italiano. Un po’ più in là un altro museo, o meglio una Mecca per chi si occupa d’arte, cioè la Peggy Guggenheim Collection. Nel palazzo incompiuto, situato proprio sul Canale Grande, sono raccolte le opere dei più famosi artisti del XX secolo, come Kandinsky, Rothko e Pollock. Mi ha affascinato molto la statua Maiastra di Constantin Brancusi, ovvero un mitico uccello rumeno, trasformato dall’artista in un blocco d’oro sintetico. C’è anche un meraviglioso giardino dove ci si può rilassare all’ombra e una libreria, dove non ho comprato né matite con il nome del museo né calze colorate, ma un libretto Venice the basics, di Giorgio Gianighian e Paola Pavani. Si potrebbe dire che è un libro destinato ai bambini, ma sono rimasta affascinata dalle illustrazioni di Giorgio del Pedros e da una una chiara rappresentazione di come è stata costruita Venezia: da isole naturali, rinforzate da pali, a canali e palazzi perfettamente delineati che sembrano galleggiare sull’acqua, ma in realtà poggiano su solide fondamenta che sono un capolavoro dell’arte ingegneristica.

L’estremità dell’est di Dorsoduro, chiamato Punta della Dogana, si affaccia verso la dirimpettaia isola di San Giorgio Maggiore, che accoglie i visitatori con la sua scintillante facciata bianca del Palladio e la fi gura di un angelo che veglia sul campanile della chiesa. È lì, in alto, sotto le campane, si possono guardare i quattro angoli del mondo e ammirare le tante isole di Venezia, per poi tornare sulla terra ed alzare lo sguardo per vedere l’Ultima Cena di Tintoretto nel presbiterio della chiesa. Questa è una delle tante meraviglie di questa città, un dipinto creato per questo luogo, tenendo conto della prospettiva da cui verrà visto; è ancora qui da oltre 400 anni!

Sull’isola è molto attiva anche la Fondazione Giorgio Cini. Quest’anno, grazie a lei, sono state realizzate diverse mostre: FontanaArte. Vivere nel vetro, dedicata al vetro d’arredo della fabbrica milanese leggendaria, con degli oggetti risalenti agli anni ’30 del XX secolo, An Archaeology of Silence con sculture e dipinti del famoso artista contemporaneo Kehinde Wiley, e una mostra molto intrigante, chiamata “On fire”, che presenta le opere realizzate da artisti eccezionali, mediante il fuoco. La Fondazione ha inoltre condiviso la sua galleria alla mostra Homo Faber, affollata di visitatori, che intende ricordare l’importanza dei mestieri tradizionali e la trasmissione delle tradizioni di generazione in generazione.

L’isola più vicina a San Giorgio Maggiore è la Giudecca, la più grande tra le isole che formano il centro di Venezia, dove si svolge la vita quotidiana dei veneziani. Una quotidianità eccezionale, perché puoi mai rientrare nella normalità che chi abita vicino al Redentore, chiesa che dà il nome ad una grande festa durante la quale, una volta all’anno, la terza domenica di luglio, può arrivare alla Giudecca senza usare una barca, camminando su un ponte di barche? Su quest’isola sorge l’hotel Hilton, con il suo bar “Skyline”, situato sul tetto, dal quale si può vedere la parte orientale e occidentale di Venezia. È un luogo unico, perché vedute comparabili a quella, possono essere ammirate solo dai campanili delle chiese. Il bar è anche un ottimo posto per incontrare gli amici la sera. Invece le mattine a Venezia è meglio trascorrerle come lo fanno gli italiani ovvero bevendo il caffè espresso e non quello

diluito con acqua e latte, americano o caffè latte. Adoro il caffè. Senza non riesco a immaginare il mio soggiorno in Italia, né a Venezia. L’espresso bevuto più volte al giorno ti dà forza e buonumore. Stesso effetto mi dà il gelato. Non avrei mai pensato che dopo tanti anni avrei ritrovato la gelateria dove l’avevo mangiato quando sono stata a Venezia per la prima volta durante i miei studi. È la gelateria Millevoglie gestita da Dorota e Tarcisio, vicino a quella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari dove si trova lo straordinario dipinto dell’Assunzione di Tiziano. Il nostro incontro si è trasformato in una riunione casuale di polacchi che vivono a Venezia, perché più gustavamo il gelato (nel mio caso il pistacchio, per cui ho una debolezza, e il gianduiotto, come se il gusto arrivasse direttamente da Torino), più persone si univano a noi. Nota bene, al bar di Dorota e Tarcisio, accanto alla gelateria, si può anche bere un caffè e uno spritz e mangiare cicchetti. Che dire dei cicchetti? Di certo sono deliziosi. Queste piccoli spuntini, spesso fatte con un pezzo di pane, su cui vengono adagiate verdure, formaggi, salumi e pesce fanno parte del mio rituale di cucina veneziana. Amo particolarmente quelli con pasta di pesce con baccalà o quelli con carciofi e prosciutto cotto. E per favore, vi prego di non chiamarle tapas, paese diverso, tradizione diversa, ruolo diverso. Se volete mangiare e bere come un vero veneziano, allora bevete un caffè, lo spritz al select e mangiate i cicchetti. E per cena, provereste forse la polenta con il fegato o dei frutti di mare fritti? È vero che molti hanno già detto che Venezia e l’Italia non sono solo pasta e pizza, ma vale la pena prendere a cuore questa verità.

A proposito di cuore, per Venezia è ovviamente la Piazza di San Marco, con la Basilica di San Marco, il campanile e il Palazzo Ducale. Sebbene questi siano luoghi molto affollati di turisti, non possono essere saltati. Si deve visitare almeno una volta nella vita il Palazzo

Ducale. La cosa che mi ha impressionato di più sono i dipinti, per le loro dimensioni, la loro quantità e qualità. Tintoretto e i due Bassano. Una quantità inimmaginabile di lavoro, idee e grandi capacità. Così come nella chiesa di San Giorgio Maggiore, i quadri, che sono stati dipinti per le singole stanze, sono ancora lì esposti e raccontano la storia di Venezia alle generazioni future che verranno qui. Il percorso espositivo del Palazzo è molto interessante. Direttamente dalle stanze piene d’oro, sculture e dipinti colorati, ci conduce, attraverso il famoso Ponte dei Sospiri, alle ex carceri. Scendiamo sempre più in basso, i corridoi si restringono, le finestre sono sbarrate, le porte chiuse a chiave. Tutto questo ricorda vividamente i disegni onirici di Piranesi. Al livello più basso, le finestre sono vicine al livello del canale, si può sentire l’odore dell’acqua di mare e dell’umidità. Nonostante oggi sia solo un museo, ho sentito i visitatori che respirano con sollievo, quando escono di nuovo alla luce.

Anche noi vogliamo sole, aria e brezza marina, quindi ci spostiamo ai Giardini della Biennale, ovviamente “questa” biennale, la mostra d’arte, conosciuta in tutto il mondo, che si svolge quest’anno per la cinquantanovesima volta. Qui tra gli alberi, passeggiando tra i padiglioni, si può trascorrere l’intera giornata. Ma come nel caso dei grandi musei, è bene fare una scelta, anche se è molto difficile, perché a noi interessa tutto. Senza dubbio guardiamo il padiglione principale e il padiglione polacco, con una mostra di installazioni di Małgorzata Mirga – Tas, in cui l’artista mostra le sue attività quotidiane, che sono in relazione al ritmo dell’universo. Non è una visione terrificante, anzi proprio il contrario. L’installazione, realizzata con pezzi cuciti di tessuti colorati, richiama alla mente la quiete domestica, permette di sentire il calore, la pace e l’ospitalità di una casa polacca.

Neanche ai veneziani manca il senso dell’ospitalità. Li ammiro per il fatto che con questa infinita quantità di turisti continuano a servirmi il caffè con un sorriso ed a rispondere calorosamente ai saluti, e che addirittura sono così orgogliosi della loro città e ne condividono volentieri i tesori. Allo stesso tempo, rimangono se stessi, così positivi nel riguardo alla vita e irradiano questo stato d’animo sugli altri.

tłumaczenie it: Wojciech Wróbel

In principio era Valentino

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Il primo volto del cinema a far innamorare folle di ammiratori in ogni parte del mondo, generando nello stesso momento enormi profitti per produttori cinematografi ci, fu quello di Rodolfo Valentino: misterioso rubacuori italiano che morì all’età di soli 31 anni.

Secondo i racconti della madre il piccolo Rodolfo non era un bravo ragazzo e non sembrava destinato ad avere successo nella vita. Sua madre proveniva da un villaggio francese, le piaceva divertirsi e ballare. E proprio ad un ballo conobbe un giovane veterinario italiano, straordinariamente bello, Giovanni D’Antonguella, che lavorava per un circo itinerante. Fu un colpo di fulmine. Organizzarono velocemente le nozze e dopo il matrimonio si trasferirono in un paesino polveroso e poco attraente, Castellaneta, in cui il tempo si era fermato. Rodolfo nacque il mattino del 6 maggio 1895 e venne battezzato con il nome di Rodolfo Alfonso Raffaello Piero Filiberto Guglielmi di Valentina d’Antonguella. Nei ricordi della madre fi n dall’inizio il bambino si caratterizzò per la sua testardaggine, era un ribelle, disobbediente ed avventuroso. Aveva un bel viso da cherubino. Dopo anni le sue sorelle confessarono che era il fi glio preferito del padre e che la madre non era riuscita a tenerlo sotto controllo. Già da bambino smise di obbedirle, rifi utò persino di andare in chiesa, e quando la madre provava a obbligarlo lui gridava e sputava ovunque. Era un vero tormento, specialmente dopo che il padre lo portò con sé a visitare la provincia di Taranto in occasione della festa del nuovo millennio. In una grande città ebbe modo di vedere vita, altre prospettive e opportunità, automobili ed enormi edifici. Negli occhi di un bambino la piccola cittadina di Castellaneta diventò la cella di una prigione. Da questo momento fu determinato a lasciare il paesino. Fu educato dal parroco ma anche dalle donne sposate e dalle zitelle del paese. Rodolfo detestava studiare, ragione per cui il padre lo picchiava spesso e lo obbligava a frequentare le lezioni, però senza ottenere nessun effetto positivo. La futura stella del cinema saltava le lezioni e giocava negli uliveti, immaginando di essere un eroe mitico oppure un guerriero coraggioso. Adorava recitare diversi ruoli e mascherarsi; la sua fantasia era illimitata. Questa immaginazione lo portò all’età di cinque anni a sfregiarsi la guancia destra con un rasoio. La cicatrice l’accompagnò per tutta la vita; agli amici del cortile in cui giocava raccontava che si era ferito durante uno dei numerosi duelli, in cui, ovviamente, era uscito vincitore.

Il padre di Rodolfo morì quando lui aveva 11 anni, allora il ragazzo, con il fratello, dovette prendersi cura della madre e della sorella. “Dovette”, ma non lo fece con facilità, perché invece di guadagnare per mantenere la famiglia, partecipava continuamente a risse, rubava gli ultimi risparmi dei vicini e perfino della propria madre. Rifiutò di mettersi a fare qualsiasi lavoro, era sempre più disobbediente e affascinato dal mondo erotico. Cominciò dai baci innocenti per poi passare alle conquiste sessuali di cui si vantava tra i suoi coetanei italiani. Nell’educazione di Rodolfo venne coinvolta tutta la famiglia, ma senza effetti. Un giorno uno dei cugini disse che se doveva essere un criminale era meglio che se andasse in America perchè così non metterebbe a repentaglio il nome della famiglia. E così fu, uno zio lo aiutò a stabilire contatti tra l’Italia e l’America. La partenza per il Nuovo Mondo coinvolse non solo la famiglia, ma anche i vicini che erano felicissimi di vederlo partire, tanto che contribuirono economicamente in modo che all’inizio avesse qualche soldo per mantenersi. Il 9 dicembre 1913 Rodolfo salì a bordo della nave da crociera Cleveland che stava per salpare verso New York. Per i propri cari l’unica cosa buona fatta da Valentino era lasciare l’Italia.

I primi mesi del suo soggiorno in America non furono né un sogno, né sicuramente la scoperta di un mondo migliore. Rodolfo non riusciva a mantenersi, cambiò parecchi lavori che non gli garantirono nemmeno una base per vivere. Girava la città in cerca di un lavoro migliore, a volte trascorreva la notte in strada o rimaneva da gente appena conosciuta. Per sopravvivere chiedeva l’elemosina nei ristoranti. Finalmente trovò un lavoro che gli permise di mettersi in sesto. Faceva il ballerino e il ragazzo in affitto, un gigolò che grazie alla sua straordinaria bellezza fece innamorare di sé le sue ricche clienti. In seguito si unì al gruppo itinerante dell’operetta con cui viaggiò fino a San Francisco, dove, su insistenza dell’attore Norman Kerry, si cimentò in un film. Fu in questo momento che cambiò il suo cognome in Valentino. All’inizio si trattava di film muti di scarsa qualità in cui contava un’interpretazione il più esagerata possibile. Durante i primi anni girò quasi venti film, la svolta però fu nel 1921, quando uscì il film “Cavalieri dell’Apocalisse” e in seguito l’ancora oggi iconico “Lo sceicco”. Entrambi riscossero grande successo, specialmente tra le donne. Valentino diventò il primo idolo maschile della cultura popolare a tal punto che quando dopo una visita in Europa si fece crescere la barba, le critiche dei fan lo costrinse a tagliarsela.

La fama di Rodolfo Valentino è legata a numerosi scandali, che erano ovviamente collegati a belle donne. Il suo primo matrimonio con Jean Acker finì dopo alcuni mesi. Tutto a causa del fatto che l’attrice del cinema muto non voleva avere rapporti sessuali con il giovane sposo (apparentemente era una lesbica che acconsentì al matrimonio per salvare la sua carriera cinematografica ormai al crepuscolo). In seguito nella sua vita fece la sua comparsa Natacha Rambova, una scenografa e costumista, che Valentino sposò nel 1922, prima della finalizzazione del divorzio con Acker, il che suscitò grande scandalo. Solo qualche giorno dopo il matrimonio i funzionari lo fermarono e lo arrestarono con l’accusa di bigamia. Il matrimonio tra Valentino e Rambova venne dopo poco annullato ed essi si sposarono di nuovo nel 1923. Molte persone dell’ambiente affermavano che Rambova, almeno in parte, fu la causa della rovina di Valentino. La maggior parte dei suoi amici la ritenevano assurdamente possessiva e tossica per la sua carriera. E così fu, la grande stella cominciò a sbiadire. Il cinema muto fin dagli anni 20 iniziò ad essere superato come il viale del tramonto del film di Billy Wilder. Valentino era spesso sulle copertine dei giornali che parlavano del suo critico stato di salute. Probabilmente soffrì di depressione.

Nella figura di Valentino c’è un aspetto rimasto irrisolto fino ad oggi. Considerando la sua mascolinità, la cura del corpo, l’atteggiamento, gli abiti perfettamente scelti, si vociferava di una sua possibile omosessualità. Nella lista dei suoi amanti si sarebbero trovati l’attore mexicano Ramón Novarro o il poeta francese Jacques Hebretot. Gli articoli sulle sue avance verso i maschi apparivano sempre più spesso nella stampa. Per smorzare i pettegolezzi Valentino iniziò ad interessarsi al pugilato e, per sottolineare la mascolinità, partecipò persino a qualche incontro di boxe.

Nell’agosto del 1926 Valentino ebbe un collasso nervoso mentre si trovava in un albergo a New York. Si racconta che per alcuni giorni non sarebbe uscito dalla camera. Una notte cadde improvvisamente e dopo esser stato ritrovato, fu portato in ospedale. I medici gli diagnosticarono una ulcera. Il suo stato non migliorò dopo l’intervento, al contrario peggiorò. Lunedì 23 agosto, al mattino presto parlò con i medici del suo futuro, per morire solo qualche ora dopo, alla giovane età di 31 anni.

Natacha fu informata della tragica notizia nel suo castello in Francia. Ricevette un telegramma con l’informazione della morte del suo ex marito e cadde in una grande depressione. Si chiuse nella sua camera per qualche giorno. Rifiutò cibo, contatti, conversazioni o commenti sulla morte di Valentino. Anche Jean Acker si rifiutò di rilasciare dichiarazioni, annunciò solo che Valentino era morto e che non valeva la pena di aggiungere nient’altro. La reazione più scioccata fu quella di Pola Negri. La notizia le arrivò quando era in un albergo a Hollywood, dove lavorava giorno e notte sulle scene finali del film “L’ultimo addio”. Dopo aver appreso la notizia della morte di Valentino l’attrice svenne. Dopo un attimo la disperazione passò all’isteria e iniziò a chiamare il defunto, in polacco ed in inglese. Il medico dell’albergo con l’ausilio del dottore personale dell’attrice riuscirono a calmarla somministrandole dei sedativi. Il giorno stesso sui giornali si poteva leggere: “La celebrità ha avuto un collasso che le rende impossibile rilasciare qualsiasi dichiarazione, i lavori sui film sono stati sospesi.”

Le persone che aspettavano l’attrice davanti all’ospedale ebbero per prime la notizia della morte del grande seduttore e reagirono con la stessa emotività. Dopo pochi minuti le donne radunate sotto l’ospedale cominciarono a piangere e gridare. “Rudi è morto” urlavano in coro. Alcune caddero sul marciapiede, altre svennero. La polizia fu costretta ad entrare in azione sollevando da terra le ammiratrici sconvolte. Dal trambusto davanti all’ospedale, la notizia ai tempi non ci fossero internet e i cellulari, si diffuse rapidamente in tutto il mondo. Giornali e radio si scatenarono e la morte di Valentino fu la notizia principale per alcuni mesi. Era morta una leggenda, il seduttore per eccellenza del mondo del cinema. Nelle città di tutta l’America le donne si accamparono sotto le edicole per ore, solo per comprare i giornali che riportavano il suo necrologio. Le tirature andarono esaurite in un attimo. Quando l’altra star, Charlie Chaplin venne a sapere della morte di Rodolfo confessò: “La morte di Rudolph Valentino è una delle tragedie più grandi nella storia di cinema.”

Quello che successe dopo la pubblicazione dell’informazione della morte di Valentino superò tutte le aspettative. Ci fu un lutto globale, scontri, atti di isteria da parte dei suoi ammiratori. L’ultimo desiderio dell’attore fu l’esposizione pubblica del suo corpo alla vista dei fan. Il personale delle pompe funebri lavorò tutta la notte per preparare il corpo all’esposizione con un trucco adeguato. La salma venne vestita con un abito elegante, come se fosse la cerimonia degli Oscar, la bara era di bronzo e argento, come se fosse un membro della famiglia reale. Inoltre, nell’obitorio, 4 guardie delle Camicie nere (presumibilmente mandate da Mussolini) vegliavano la bara. Un’indagine successiva rivelò che l’obitorio le aveva assunte come mossa promozionale.

Il suo corpo fu esposto nella chiesa di San Malachia. Decine di migliaia di persone vollero dare il loro addio all’attore, non di rado sull’orlo di crisi nervosa. La folla pressava la polizia di New York responsabile del mantenimento dell’ordine dell’avvenimento. The Smithsonian stimò che la folla fuori dell’obitorio era di circa centomila persone. Alla fine scoppiarono rivolte, i fan in lutto volevano a tutti i costi vedere per l’ultima volta “il seduttore italiano”. Ci furono anche suicidi. Il funerale di Valentino fu un evento trasmesso alla radio per poi divenire oggetto di discussione in tutto il mondo. Alla cerimonia, ovviamente, era presente Pola Negri che per la gioia dei giornalisti svenne un paio di volte. Secondo l’attore Ben Lyon nel giorno del funerale chiese agli organizzatori di posizionare sulla bara di Valentino una composizione floreale con la scritta “P-O-L-A”.

A quanto pare tra le ultime parole pronunciate da Valentino in punto di morte ci fu la frase: “Non tirate giù le tende. Mi sento bene. Voglio essere salutato dalla luce del sole”. E fu così. Non morì nell’ombra, ma nella luce, come un tempo. Per decenni, dopo la morte di Valentino, ogni anno, nell’anniversario della sua morte sulla sua tomba arrivava una donna misteriosa velata di nero per posare una sola rosa sulla lapide. Alla fine emerse che questo gesto consisteva in una trovata pubblicitaria con lo scopo di mantenere d’attualità il fenomeno della star del cinema.

Tłumaczenie it: Milena Lachendo, Marzena Wójcik