“La mia musica è contaminazione, sperimentazione, innovazione nella tradizione”. Così Enzo Favata, noto compositore polistrumentista sardo, definisce oltre trent’anni di produzione musicale. Una carriera iniziata da ragazzino, suonando per passione nei garage con le band di amici, ed arrivata ai vertici del jazz italiano ed europeo.
Cominciamo dall’inizio, come hai scoperto la tua vena artistica?
“Per caso. Quando ero ragazzo mia madre mi regalò una chitarra. Cominciai a strimpellare per gioco e imparai da autodidatta, all’epoca non c’era certo l’offerta di studi musicali che c’è oggi. Ad Alghero abitavo in un quartiere popolare e si usava andare in spiaggia al mattino e poi al pomeriggio ci chiudevamo in qualche garage ad ascoltar musica e suonare. Già allora capii che non mi accontentavo di suonare pezzi famosi ma volevo inventare. Tra i nostri amici ce n’era uno che faceva il cameriere a Londra ed ogni volta che rientrava dalla allora Swinging London – che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, stava però entrando in una nuova fase musicale – riempiva la valigia di vinili acquistati a pochi soldi a Portobello. All’epoca senza youtube e spotify si sceglievano i dischi guardando le copertine. E così ogni volta che aprivamo quella valigia, come fosse uno scrigno, uscivano le tendenze della capitale mondiale della musica. Erano i tempi del Rock Progressive psichedelico, dell’Heavy Metal, i miei gruppi preferiti erano Genesis, Deep Purple e soprattutto Pink Floyd. La svolta avvenne un giorno in cui chiesi a questo amico perché non ascoltavamo mai un certo disco che lasciava sempre da parte, un LP, come dicevamo allora, con in copertina un afroamericano che suonava la tromba su uno fondo blu. “No questo disco non è un granché”, disse l’amico. Io insistetti e lo mise su. La prima traccia era “My favourite things”… avevo quindici anni… John Coltrane mi cambiò la vita. “Questa è la musica che voglio fare!”, dissi e da allora la direzione della mia strada musicale era segnata.
In quel momento hai deciso che da grande volevi fare il musicista?
No, cioè adoravo suonare, ma ero giovane ed avevo anche altre passioni come la vela e il windsurf, in cui vincevo tante regate. Però non provenivo da una famiglia
così benestante da potermi dedicarmi solo allo sport, né potevo accedere agli studi musicali jazzistici all’estero (allora c’era solo Berkley negli Stati Uniti). Nel frattempo sognavo di imparare a suonare il sassofono e ne comprai uno usato, un po’ malandato, con cui cominciai a spernacchiare sulla base dei dischi di Coltrane, ma non solo. L’anno seguente guadagnai qualche soldo andando a vendemmiare e potei comprarmi un sassofono nuovo. Così mi misi a studiare seriamente musica ed ero sempre più coinvolto in vari gruppi musicali. E poi giravo per i festival in Sardegna. La seconda svolta avvenne con l’arrivo del digitale e del mondo dei filtri elettronici a basso costo, dei registratori multi traccia economici, questo mi permise di iniziare a sperimentare, di mescolare diverse sonorità. E mentre da un lato ero riuscito a frequentare i corsi estivi della scuola di jazz di Siena, dall’altro studiavo da autodidatta etnomusicologia e giravo la Sardegna per conoscere e raccogliere suoni e musiche della tradizione.
Si può dire che la contaminazione, tra cui quella etnica, è diventato il tuo cosiddetto “marchio di fabbrica”?
“Sì. Forse perché abitando sin dalla nascita ad Alghero sono stato influenzato dalla città che è protesa sul mare, verso le culture diverse che arrivavano attraverso i giovani turisti appassionati di musica, ma dall’altro lato era una città che non guardava alle sue spalle, ovvero verso l’interno della Sardegna, dove invece avrei scoperto un bel mix tra differenti tradizioni musicali. Così è iniziato il mio viaggio di scoperta della mia terra e delle sue tradizioni musicali che, come quelle linguistiche, sono il frutto di diverse secolari stratificazioni culturali. Sono stati anni di grande ricerca ed entusiasmo, giravo con un registratore e prendevo appunti, conoscevo persone nuove, tutto era potenziale materiale da studiare ed utilizzare nelle mie composizioni. Questa esperienza ha avuto grande importanza nella musica che poi ho fatto nel tempo, un modello di lavoro che poi ho applicato verso altre culture come quelle del Sud America, dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente. Per quanto riguarda i miei lavori sulla Sardegna, a me è sempre piaciuto sposare i generi, il jazz con la musica etnica, il canto a “tenores”, le benas (strumento di origine primitiva ricavato dalla canna palustre), la launeddas (strumento musicale a fiato), le musiche argentine, il Coro a Cuncordu di Castelsardo, la “New Thing” americana degli anni Settanta, fino a mescolare musica classica con quella elettronica, e poi ancora ho collaborato con un grande virtuoso del bandoneon come Dino Saluzzi. In questo avventuroso percorso artistico il disco boa, ovvero quello che ha rappresentato un punto preciso della mia carriera è “Voyage en Sardegne” che rappresenta una sintesi degli strumenti e delle sonorità che ho sperimentato tra cui incroci coraggiosi tra jazz e musica etnica.
In questo approccio di contaminazioni nei tuoi concerti qual è il confine tra rispetto di una partitura e l’improvvisazione?
Il grado di improvvisazione dipende dal gruppo con cui mi esibisco. È chiaro che quando suono con i 40 musicisti della Metropole Orkestra della radio nazionale olandese l’improvvisazione si limita ad alcuni momenti di progressione di accordi. Mentre se suono con ensemble più ridotte allora c’è più spazio per l’improvvisazione. Seguiamo un canovaccio al cui interno divaghiamo spesso, ad esempio nell’introduzione o negli assoli. La simbiosi massima e quindi la maggior possibilità di improvvisare la raggiungo suonando con il gruppo The Crossing che è quello che mi accompagnerà nei due concerti in Polonia in ottobre.
Ci presenti i The Crossing?
È la band che cercavo da tempo, quella con cui ho sempre sognato di lavorare. È un laboratorio di idee in continuo divenire. A farne parte sono il pianista e compositore Simone Graziano, che si esibisce in una veste originale di bass synth keyboard, pianoforte Rhodes (quello famoso degli anni 70) tastiere e live elettronics. Al

vibrafono e marimba midi c’è Pasquale Mirra, considerato uno dei maestri di questo strumento. Completa la band Marco Frattini alla batteria e samplers drum. A livello internazionale ormai mi definiscono “il Maverick (ovvero il battitore libero) del jazz Italiano”, The Crossing è un mix musicale fresco, con vibrazioni ed elettronica, sintetizzatori di basso elettrico e live electronics e batteria che creano atmosfere stratificate e poliritmiche, ma meravigliosamente leggere ed elastiche. Per interpretare nuove suggestioni e nuovi colori sonori ho riunito gli autentici fuoriclasse di The Crossing. Dopo un tour nel 2019 con loro la stampa giapponese scrisse: “una musica visionaria dal gusto selvaggio mediterraneo, rock cosmico, musica elettronica che si fonde con i ritmi ipnotici dell’Etiopia e le atmosfere balinesi, mescolati con la musica jazz con un uso sapiente dell’elettronica e dell’improvvisazione. Una potenza sonora poetica ed unica, il jazz italiano ci riserva sempre delle grandi sorprese, ma questa band è davvero brillante”.

Ed ora i concerti in Polonia.
Il mio sarà un ritorno in Polonia, dove anni fa, con un progetto diversissimo: Voyage en Sardaigne per orchestra d’archi, coro a tenores e quintetto jazz, ho partecipato alla famosa Settimana Mozartiana a Gdansk. Poi, per quanto riguarda il mio legame con i musicisti polacchi, voglio ricordare che al Festival Jazz Musica sulle Bocche, di cui sono direttore, abbiamo ospitato due grandi musicisti polacchi: lo scomparso Tomasz Stanko e il trio del pianista jazz Marcin Wasilewski.
I vostri concerti saranno un’occasione anche per mostrare che la musica italiana non è confinata tra opera, cantautori e disco.
Bè la cosa non può che farmi piacere, in questo senso credo che sia importante che i mezzi di comunicazione non si limitino a parlare solo degli aspetti più stereotipati dell’italianità nella musica. Per esempio abbiamo una grande tradizione di jazz, con molti musicisti e tanti Festival, e in Sardegna siamo in tanti a sperimentare un jazz non convenzionale in cui emerge una sorta di codice genetico musicale sardo.
La cosa che mi fa più piacere è quella di venire a suonare in una nazione dove il Jazz ed i jazzisti stanno dando molto alla scena mondiale, spero che il mio “Maverick“ – The Crossing potrà soddisfare molto gli appassionati, noi ce la metteremo tutta.
Enzo Favata and The Crossing si esibiranno a Cracovia il 26 ottobre (19.30), in un appuntamento organizzato dall’associazione Shardana (Facebook: @ShardanaPL) e dall’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia in collaborazione con l’Akademia Muzyczna Krzystof Penderecki e la Szkola Muzyczna Bronislaw Rutkowski, nella cui sede si svolgerà il concerto con ingresso gratuito; e poi il 28 ottobre a Varsavia in occasione del famoso Jazz Jamboree Festival al club Stodola (alle 19.00) in una serata organizzata dall’associazione Shardana e dall’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia.
















consigliati in tutte le occasioni in cui è necessaria una fonte di energia rapidamente utilizzabile (ad esempio in gravidanza, durante l’attività sportiva o la convalescenza). Grazie alla presenza di circa il 2% di fibre, hanno anche una buona capacità di stimolare l’attività intestinale. L’indice glicemico del fico fresco (cioè la sua capacità di far variare la glicemia dopo il consumo) è solamente di 35 (il pane bianco ha un indice glicemico di 100), consentendone un consumo moderato anche a chi desidera perdere peso.




scenario del West viene ricreato da Magnus nei minimi dettagli: i paesaggi e la natura (come affermava lo stesso artista, ogni foglia e ogni goccia di pioggia da lui disegnate sono frutto di un attento studio), così come gli edifi ci, le armi, i cavalli e gli stessi personaggi sono raffi gurati con una precisione e un realismo senza pari, spesso sulla base di fotografi e e disegni dell’epoca. Il tratto di Raviola rimane sempre arrotondato, pulito e ricchissimo di dettagli, con un sapiente contrasto tra bianco e nero. Benché non manchino piccoli spunti umoristici, vicini all’estetica di “Alan Ford” e di altre opere di Magnus, i toni della storia sono seri e particolarmente oscuri, talvolta sconfi nando quasi nell’horror.



collana che aveva deciso di pubblicare il testo, Elio Vittorini, nella quarta di copertina fi niva praticamente per stroncare il libro fenogliano, riconducendolo ad una attardata ripresa del verismo ottocentesco. Fu questo uno smacco e una ferita molto dolorosa per Fenoglio, che poi portò dentro di sé per tutta la vita. La malora, però, diversamente da quanto pensava Vittorini, era un libro di grande modernità, pienamente novecentesco, in cui ritroviamo tutti gli elementi del secondo polo della scrittura di Fenoglio, cioè il mondo contadino e le Langhe, con i suoi personaggi bruschi e solitari, segnati da una realtà crudele, cruenta, da un destino spietato. Anche l’ultimo libro stampato in vita da Fenoglio non è stato esente da una nuova, decisiva incomprensione. L’opera, intitolata Primavera di bellezza, del 1959, racconta la storia di un giovane soldato italiano, anglofilo, soprannominato da tutti Johnny, chiamato a fare i conti con la disfatta dell’esercito italiano dell’8 settembre 1943, dopo l’armistizio con gli anglo-americani. Il romanzo ci porta dentro una pesante e generale atmosfera di pre-catastrofe, di tracollo militare e morale di un’intera nazione, dove la gran parte dei generali, ancor prima che dei soldati, abbandona le caserme cercando una via di fuga verso casa. Johnny, per converso, decide di prendere parte alle iniziali forme di Resistenza che si organizzarono nel Nord per trovare la morte in uno dei primi scontri a fuoco con i fascisti. In realtà il progetto di Fenoglio era quello di scrivere un grande
romanzo epico, in cui accompagnare il suo protagonista nel fi tto della storia italiana dal 1939 al 1945. Davanti alle perplessità del suo nuovo editore verso questo imponente e strabordante progetto, che Fenoglio intendeva pubblicare in due volumi, l’autore decide di troncare di netto la seconda parte, interamente dedicata alla lotta partigiana, per consegnare alle stampe un volume più breve che ponesse termine alla vita del suo protagonista durante la primissima fase della guerra di liberazione, nel dicembre del 1943. La parte che Fenoglio decide di sacrifi care è in realtà un enorme progetto di epos novecentesco, rimasto incompiuto, trovato fra le sue carte e dato alle stampe nel 1968, a cura di Lorenzo Mondo, con il titolo redazionale Il partigiano Johnny. Questo testo, nonostante non rappresenti ovviamente la versione finale voluta dall’autore, e nonostante permanga un work in progress, complicato ulteriormente da diverse stesure (su cui la critica fenogliana sino ad oggi discute), rappresenta uno dei più importanti romanzi europei sulla Seconda Guerra Mondiale. La lingua è ricchissima, vertiginosa, incandescente come la lava, sospesa fra inglese e italiano, costantemente tesa verso una sorta di fl uviale e inarrestabile moderno poema epico. Al suo interno troviamo la descrizione, come dal vivo, quasi in presa diretta, delle sorti di un soldato, reduce dall’8 settembre, che decide di entrare nel “regno arcangelico dei partigiani” per scivolare nel fango delle battaglie, affrontare il gelo e la neve di un inverno infinito. Johnny incarna quella che un altro grande testimone anti-retorico della Resistenza quale Luigi Meneghello definiva come la “piega eroica del pensiero”, propria dello scrittore di Alba. Il protagonista del romanzo di Fenoglio sente che fare il proprio dovere difficilmente gli permetterà di uscire vivo dalla guerra, ed è costantemente accompagnato da un presentimento di morte imminente: di qui una tensione al sublime, drammatica, perturbante ed esplosiva delle frasi, un’aggettivazione spasmodica, tale da creare e plasmare una nuova lingua che non ha precedenti nella tradizione letteraria italiana. Libro monumentale e di intramontabile attualità, carico di angosce, speranze e dilemmi, Il partigiano Johnny ci restituisce, come ha sottolineato Gabriele Pedullà, uno dei suoi massimi interpreti contemporanei, “i principi ideali e le paure e le ragioni e i sogni di un’intera generazione come nessun libro è riuscito a fare”. In questa opera le Langhe si animano, il vento, il cielo, le acque e la terra urlano la loro presenza e la loro potenza arcaica, minacciosa e simbolica. In una realtà prossima ad un caos originario Johnny ci appare, di volta in volta, come scolpito dal genio omerico, o provenire direttamente dalle pagine della Bibbia o dell’Eneide, così come dalla scena del teatro elisabettiano.
della morte dell’autore, all’interno della raccolta Un giorno di fuoco. Il protagonista di questa opera è un giovane appassionato di letteratura (in primo luogo inglese), di nome Milton (come l’autore del poema epico del XVII secolo Il paradiso perduto), il quale nel bel mezzo della guerra partigiana perde ogni contatto con la realtà che lo circonda, impazzendo come un novello Orlando di fronte al terrore che la ragazza che aveva corteggiato prima della guerra, Silvia, lo abbia tradito con il suo migliore amico, Giorgio, compagno di lotta partigiana, attraverso le Langhe, abbandona il suo dovere di partigiano, per cercare di liberare Giorgio al fine di scoprire la verità, una verità più importante (e più devastante per Milton) della guerra stessa, una verità “privata”, sentimentale e assoluta, talmente sconvolgente da accecarlo e da spingerlo, inesorabilmente, verso la follia e incontro alla morte.
















































































































































































































































































































































































































































































