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Home Blog Page 74

Perla Negra

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Perla Negra si occupa di importare e distribuire prodotti di marchi italiani ed internazionali di bevande, dolci (e biscotti) nonchè prodotti cosmetici certificati bio. Il loro impegno è di soddisfare le esigenze del cliente attraverso proposte di prodotti di alta e garantita qualità, qualità che viene assicurata grazie alla selezione di produttori che sanno coniugare tradizione ed innovazione ed in possesso di certificazioni internazionali

Tra le marche distribuite da Perla Negra sono: Galvanina, Zuegg, Amaretti Virginia e la linea di cosmetici Bio Alteya Organics.

Sito web: https://perlanegra.pl/
Facebook: https://www.facebook.com/PerlaNegraBoutique/

PepsiCo: 1 miliardo di PLN per un nuovo impianto di produzione di snack a Środa Śląska

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Ieri si è svolta la cerimonia della posa della prima pietra per la costruzione dell’impianto di produzione di snack PepsiCo a Środa Śląska. L’investimento del valore di oltre 1 miliardo di PLN, è il quinto impianto di produzione dell’azienda situato in Polonia, sarà sviluppato gradualmente fino al 2025. La nuova fabbrica fornirà snack su mercato polacco e per l’esportazione in oltre 20 paesi, tra cui Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. L’impianto di produzione sarà costruito a Święte vicino a Środa Śląska all’interno della Zona Economica Speciale di Legnica (Voivodato di Dolnośląskie). Il nuovo investimento di PepsiCo in Polonia avrà un impatto positivo sullo sviluppo costante e sostenibile dell’economia polacca ed europea, sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sullo sviluppo delle comunità locali e contribuirà a un significativo aumento della portata del Programma Agrario che l’azienda sviluppa in collaborazione con gli agricoltori polacchi. Il nuovo, modernissimo impianto è stato progettato tenendo conto di soluzioni significative nel campo dello sviluppo sostenibile, utilizzando i principi dell’ecodesign. Tutti gli stabilimenti PepsiCo in Polonia utilizzano già elettricità proveniente esclusivamente da fonti rinnovabili, ma la struttura più recente utilizzerà ulteriori soluzioni a favore dell’ambiente. Nei prossimi anni nel nuovo stabilimento saranno impiegati oltre 450 dipendenti qualificati. “Grazie a progetti industriali come l’investimento PepsiCo, la regione e l’intero paese, riceveranno un altro forte impulso di sviluppo, questa volta nell’industria agroalimentare”, ha affermato Adam Ruciński, sindaco di Środa Śląska. I prodotti agricoli per la produzione di snack nel nuovo stabilimento saranno consegnati da agricoltori polacchi che collaborano strettamente con PepsiCo nell’ambito del cosiddetto Programma Agrario. Il programma è stato avviato 28 anni fa e attualmente PepsiCo collabora direttamente con 80 aziende agricole di tutta la Polonia.

https://www.portalspozywczy.pl/inne/wiadomosci/pepsico-1-mld-zl-na-nowy-zaklad-produkcji-przekasek-w-srodzie-sl,202274.html

In costruzione barriera difensiva lungo i 180 km di confine tra Bielorussia e Polonia

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

L’esercito polacco ha iniziato ieri a costruire una recinzione alta circa 3 metri sul confine polacco-bielorusso, in particolare nella zona di Żubrzyca Wielka nel voivodato di Podlaskie. Alla fine la recinzione coprirà 180 chilometri e renderà sicura la sezione terrestre del confine. “Stiamo sigillando il confine”, ha scritto il ministro della difesa Mariusz Blaszczak su Twitter, mentre pubblicava foto di soldati che costruivano la recinzione. A Usnar Górny, sul lato bielorusso del confine, un gruppo di stranieri a cui non è stato permesso di entrare è accampato da diversi giorni. Il confine è protetto dalla polizia e dalla guardia di frontiera.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news%2C935269%2Cruszyla-budowa-25-metrowego-ogrodzenia-wzdluz-zielonej-granicy-z-bialorusia

Ieri, oggi, domani

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Antonella Lualdi e Vittorio De Sica in "Padri e figli" (1957)

Il ladro di biciclette che spogliò sullo schermo Sophia Loren. Il comico dal sorriso sbarazzino che faceva i conti con i traumi dell’Italia del dopoguerra. Lo scopritore dell’oro di Napoli e del miracolo a Milano. Donnaiolo. Intelligente. L’uomo che insegnava a baciare a Marcello Mastroianni. Per il mondo un grande regista, per gli italiani il corteggiatore del cinema. Ecco Vittorio De Sica.

È il 1901. Inizia il XX turbolento secolo che mostra d’avere voglia di cambiamenti fin dai primi giorni, mesi. È leggermente impudente. Ribelle senza motivo. Dice addio al mondo vestito in abiti antichi ispirati ai chitoni greci, ancora di moda alla fine del secolo precedente. Nascono Marlene Dietrich, Walt Disney, Gary Cooper. Il cinema presto accoglierà i loro volti. Dopo quasi 64 anni di regno muore la regina Vittoria. Arriva il mondo nuovo. Scienza, tecnica, pensiero, tutto corre. A Stoccolma si assegna il primo premio Nobel. A Parigi si apre la prima mostra di Pablo Picasso, nasce il cubismo. In Italia Italo Pacchioni, inventa e costruisce una macchina da presa – dopo che i fratelli Lumiere avevano rifiutato di vendergli il cinematografo – con cui filma il funerale di Giuseppe Verdi a Milano. E così l’opera cede il passo ad una nuova musa. In questo clima, a Sora nel Lazio, in provincia di Frosinone sul fiume Liri, viene al mondo Vittorio De Sica. Uno dei grandi padri italiani del cinema.

Sono le 11:00. Esattamente il 7 luglio. C’è afa. Il sole sembra essere un grande girasole. Sotto i suoi raggi, poco prima di mezzogiorno, nasce Vittorio Domenico Stanislao Gaetano De Sica. Viene al mondo nella famiglia del signor De Sica, impiegato nell’ufficio locale della Banca d’Italia, originario di Cagliari in Sardegna. È proprio al padre che il regista dedica uno dei suoi film più importanti “Umberto D.” (1952), una storia nostalgica di un uomo anziano e del suo cane, emarginati che provano a sopravvivere a Roma con la pensione del governo mente madre, una casalinga napoletana che ha dato tutta la sua vita per creare il calore famigliare. Subito dopo la nascita in una famiglia modesta, che col tempo ha definito come “miseria aristocratica”, finisce nella parrocchia di S. Giovanni Battista, dove nelle mani dei padrini (Sorani Alfonso e Cristina Giannuzzi) viene battezzato ricevendo, come quinto nome, Sorano, omaggio alla città medievale di Sora.

Nei primi due decenni Vittorio ancora adolescente viaggia. Percorre la strada della vita insieme con la famiglia alla ricerca del posto giusto. Prima il trasloco a Napoli, poi a Firenze e poi ancora a Roma. In questo periodo, incoraggiato dal padre, il futuro re dello schermo finisce il corso di contabilità. Ma la prospettiva di una vita passata contando gli sembra follemente noiosa, perciò contemporaneamente sviluppa anche le sue passioni artistiche. Così è con la scrittura tanto che, ancora ragazzino, pubblica dei suoi testi nei giornali locali. Questo è dovuto all’influenza del padre che negli anni 1909-1915 collaborò con lo pseudonimo Caside con il mensile “La voce dei Liri”. Questa esperienza stimolata dal padre lo lancia verso la prima decisione autonoma di unirsi ad un gruppo di attori principianti esibendosi per i soldati e i feriti durante la Prima Guerra Mondiale.

Vittorio De Sica, fot. Gianfranco Tagliapietra

Già durante il corso di contabilità De Sica cominciò ad essere attratto dall’ambiente del teatro dove lo accolsero come se fosse uno di loro. Grazie a un amico di famiglia, il regista Edoardo Bencivenga, presto ottenne una piccola parte nel film muto “Il processo Clémenceau” (1917) di Alfredo De Antoni. Ancora adolescente collaborò con Francesca Bertini, una delle più grandi star del cinema muto e con Gustav Sereni, l’amante dello schermo che in tutta la sua carriera recitò in oltre 100 film. Da quel momento cominciò a splendere il suo grande talento, infatti come diceva lo stesso De Sica: “nel film non basta recitare, bisogna anche avere talento”. Il talento e la carriera cominciano a prendere velocità dopo la Grande Guerra. Il giovane ragazzo presto guadagna popolarità, anche nella sua città natale, dove ritorna dopo quasi dieci anni. È il 1922 e il giovane debuttante accetta l’invito ad un concerto durante il quale recita “Canto” di Francesco Piave con l’accompagnamento del padre.

Gli anni ’20 del Novecento per il futuro co-creatore del neorealismo significano viaggiare per i teatri di tutto il mondo. Grazie alla conoscenza dell’attore Gino Sabbatini e consigliato dallo scenografo Antonio Valente si unisce alla prestigiosa compagnia teatrale di Tatjana Pavlova per recitare la parte del cameriere nel “Sogno d’amore” di Kosorotov.

Successivamente, con il gruppo della Pavlova, si reca in tournée in Sudamerica, dove recita il primo ruolo importante, Gaston, in “La Signora delle camelie”, basato sul romanzo di Alexandre Dumas. Il clima iberoamericano gli fa benissimo e sviluppa tante amicizie. Al contrario delle tendenze dell’epoca, quando il mondo artistico pulsava in Europa, a Parigi soprattutto, lui sceglie l’America, dove decide di recitare nel film di Mario Almirante “La bellezza del mondo”, al fianco della futura grande star del cinema muto, Italia Almirante–Manzini, la moglie del regista. Con Mario Almirante inizia una lunga collaborazione che consiste anche nel lavoro di traduttore ad esempio sul set del film “La compagnia dei matti” (1928).

Con il nuovo decennio, De Sica, notato da Mario Mattoli cofondatore di Spettacoli Za-Bum (il primo serio esperimento italiano che unisce la commedia con il teatro drammatico) ottiene l’ingaggio come primo attore. Dopo diversi anni di successi nel 1933, insieme alla moglie, l’attrice italiana Giuditta Rissone, formano una compagnia teatrale che nell’epoca della presa del potere del fascismo in Italia propone soprattutto delle commedie leggere, anche se ogni tanto gli autori si lanciano in testi di alto livello, tra cui pezzi di Pierre Beaumarchais.

Nel periodo che precede la Seconda Guerra Mondiale, Vittorio De Sica entra nella storia della cultura italiana come attore. Un bel Don Giovanni cui le donne non sanno resistere. Prima del secondo conflitto mondiale ha già alle spalle oltre trenta ruoli in vari film. Sono soprattutto produzioni leggere ma vale la pena menzionarne qualcuna come: “Uomini, che mascalzoni!” (1932) e “I grandi magazzini” (1939). Questi e altri film De Sica li girò con Mario Camerini, il più famoso regista delle commedie italiane degli anni ’30, un caro amico di De Sica che contribuì a renderlo famoso in tutto il mondo. Ma il successo e la fama ottenuti grazie a cinema e teatro avevano un serio concorrente: la passione per il gioco d’azzardo che lo portava spesso a sperperare ingenti somme di denaro. Per questo De Sica accettava tanti ruoli, anche se artisticamente non li apprezzava, una scelta fatta per guadagnare e mantenere la famiglia. Non nascose mai la sua passione per l’azzardo che a volte trasferì nei suoi personaggi, sia in alcuni suoi film come “L’oro di Napoli” (1954) che in quelli di altri registi. Il coinvolgimento dei personaggi interpretati da De Sica nel gioco d’azzardo è importante per la trama ad esempio de “Il generale Della Rovere” (1959) di Roberto Rossellini oppure in “Montecarlo” (1956) di Simon A. Taylor in cui negli scenari del casinò di Montecarlo giocò con Marlene Dietrich.

Vittorio de Sica con il suo sorriso sbarazzino sullo schermo si è guadagnato il soprannome di “Cary Grant italiano”, insomma il George Clooney di oggi. Ma questo ruolo col tempo iniziò ad andargli stretto e allora cominciò a dedicarsi soprattutto alla regia. Debuttò nel significativo anno 1939 sotto l’egida di un grande produttore, Giuseppe Amato, con il film “Rose scarlatte” in cui interpretò il ruolo principale. Nel frattempo scriveva romanzi e fumetti. Nei primi anni ’50 ebbe un grande successo come traduttore della commedia “Altri tempi” (1952, A. Blasetti) e “Pane, amore e fantasia” (1953, L. Comencini), in tutte e due si presentò al fianco di Gina Lollobrigida che in quel momento era al culmine della sua popolarità.

Vittorio De Sica e Rosanna Schiaffino, anni Sessanta, Mostra del Cinema di Venezia

Come regista capiva bene gli attori perché conosceva la complessità dei vari ruoli, De Sica era infatti famoso per la capacità di aiutare e ispirare gli interpreti. Fu di grande aiuto soprattutto per gli esordienti. Come molti altri registi italiani di quel periodo, gli piaceva coinvolgere nei film gente comune che non aveva esperienza di recitazione, e in questa modalità poteva esprimere al meglio la sua capacità di insegnare a recitare. Ogni tanto però i consigli erano incredibilmente dettagliati, spesso istruiva meticolosamente anche gli attori più famosi che calcavano i set dei film. Così successe ad esempio in “Matrimonio all’italiana” (1964) quando nella scena intima tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni si unì a loro distendendosi a letto e facendogli vedere come dovevano baciarsi. De Sica sceglieva gli interpreti dei suoi film in base all’autenticità dei loro volti, cercandoli per strada. Lamberto Maggiorani, il personaggio mingherlino di “Ladri di biciclette” (1948) era un operaio, Carlo Battisti che recitò il ruolo di Umberto D. era un professore universitario in pensione. Ma ogni tanto, come nella vita, quando aveva voglia di leggerezza ingaggiava per le sue commedie star da prima pagina come Cary Grant o Spencer Tracy.

I film di De Sica rappresentano un capitolo fondamentale nella storia del cinema, alcuni sono pietre miliari come “Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” o “Umberto D” oltre ad essere una pagina fondamentale del neorealismo italiano. Tre film che non rappresentano soltanto la realtà del dopoguerra ma indagano le tragedie individuali.

Nei film di De Sica la gente non viene ricompensata e la vita non ha un gusto dolce come nelle maestose, oniriche ed edoniste realizzazioni di Federico Fellini. Vittorio De Sica non dà speranza ai protagonisti che crea. I personaggi dei suoi film più importanti sono costantemente di corsa, cercano sostegno, aiuto, riempimento del vuoto e della solitudine. Così è anche in Umberto D. che incapace di adeguarsi al nuovo, al presente, vaga senza speranza, malato, depresso, aspettando la sua fine. Aspettando il miracolo. Il miracolo che dopo anni succedette a Milano.

“Miracolo a Milano” (1951) è qualcosa di diverso nella filmografia del regista che di solito o raccontava il lato più duro della vita o allegeriva l’animo con le sue commedie. Qui invece lascia andare la fantasia ed ecco che De Sica incontra in sogno Federico Fellini da cui prende in prestito l’immaginazione. De Sica in questo film propone una favola piena di speranza che libera i poveri trascinandoli nel mondo del consumismo. Qui De Sica prevede il futuro, il branco smarrito che, quando assaggia, desidera di più. Come nella scena con la macchia di sole sotto la quale si riuniscono le persone, ce ne sono sempre di più e all’improvviso uno comincia a spingere un altro, ognuno lotta per avere un po’ di questo lusso. E anche se i critici accusarono il regista di tradimento del neorealismo, e i comunisti del tradi mento del comunismo, nessuno come lui sotto l’apparenza di una favola seppe rappresentare meglio la miseria e l’arida terra persa, una volta promessa.

Superate queste critiche, dopo aver permesso quella liberazione che normalmente vietava ai suoi protagonisti menzionati all’inizio, in De Sica emerse la nostalgia. La nostalgia del paradiso perduto. Si ritorna quindi ai tempi del fascismo per poter raccontare, attraverso la sua capacità artistica, la realtà da una prospettiva diversa. De Sica è un uomo maturo che condivide con lo spettatore la sua amarezza. Davanti a lui c’è l’Italia degli anni ’50 e ’60 in cui riemerge questo turbolento XX secolo. Invece della memoria del passato sorgono i grattacieli. Invece delle lacrime e del riso appare il vuoto. E allo ecco “Il giardino dei Finzi Contini” (1970), una delle ultime, importanti, opere del regista, basata sulla storia malinconica del romanzo di Giorgio Bassani. È uno studio sulla incomprensione, pieno di frustrazione e di incompletezza in cui pulsa il vuoto dell’Europa dei primi anni ’70. Un film che sintetizza la perdita di un’esistenza felice che non tornerà più, esattamente come non tornerà quel mondo che, per le strade di Roma, cercava Umberto D.

traduzione it: Patrycja Grunwald

Sondaggio sui risparmi e gli investimenti dei polacchi

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Le informazioni scaturite dall’indagine Assay Anex, commissionata dal Gruppo Assay e condotta da Maison&Partners, indicano che il 44% dei Polacchi non possiede risparmi. Il 56% delle persone affermano che sono in possesso di un qualche risparmio, che in una situazione critica potrebbe essere d’aiuto. In media, la quota dei soldi per le emergenze è di circa 30 mila zł, solo il 6% del 56% degli intervistati ha risparmi superiori a 100 mila zł. Nella situazione migliore, per quanto riguarda il risparmio, sono gli investitori attivi e potenziali, tra questi il 78% degli intervistati dichiara che possiede risparmi notevolmente più alti rispetto a quelli medi dei polacchi. Di oltre 30 mila zł dispone circa il 50% degli investitori, mentre quelli con un importo di oltre 100 mila zł costituiscono il 15% in questo gruppo. Nel commento all’indagine è stato sottolineato che in Polonia il risparmio non va di pari passo con gli investimenti, solo il 16% dei polacchi ammette che investe attivamente i loro risparmi. Dall’indagine risulta che i polacchi non conoscono molto sugli investimenti finanziari, il che è dimostrato dal fatto che il 61% degli intervistati non ha mai fatto investimenti. In questo gruppo prevale il numero delle persone con il reddito più basso o senza reddito e dei giovani. Un polacco su quattro dichiara poca esperienza per quanto riguarda gli investimenti, prevalentemente questa persona possiede o ha posseduto i prodotti passivi, come i depositi, gli obbligazioni o i risparmi sul conto bancario. Solo il 16% di quelli che possiedono risparmi investe o ha investito attivamente le risorse finanziarie. Il 13% ha investito in titoli azionari, mentre il 12% ha investito in fondi di investimento. Circa il 10% ha investito in titoli del Tesoro e il 7% nelle polizze d’investimento. La maggioranza dei polacchi investe nelle proprietà, il 33% investe in metalli preziosi e il 18% nelle opere d’arte. Importanti per polacchi sono gli investimenti nelle cose materiali. Per quanto riguarda gli oggetti immateriali, il 13% investe volentieri nelle criptovalute. In futuro il 29% vuole investire nelle obbligazioni e nei titoli azionari, il 27% nei fondi di investimento, il 16% nelle obbligazioni aziendali e il 15% nelle società d’investimento.

https://www.pap.pl/aktualnosci/news%2C934448%2C44-procent-polakow-nie-posiada-zadnych-oszczednosci.html

San Marino: da un Santo ad uno Stato

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La Repubblica di San Marino è un piccolo scrigno di tesori da scoprire. Una meta turistica interessante che racchiude la storia di uno dei più piccoli Stati d’Europa, la possibilità di avventurarsi in percorsi naturalistici e religiosi, l’occasione di gustare eccellenze gastronomiche per poi dedicarsi allo shopping sfruttando la ricca offerta di prodotti a prezzi competitivi.

San Marino è l’unico Stato che deve la sua fondazione a un santo, documenta sin dal suo sorgere l’esemplare congiunzione fra comunità civile e religiosa. Il territorio della Repubblica è costellato di immagini del Santo che lo ritraggono nelle tre età della vita e nelle principali funzioni che la tradizione gli attribuisce. La Repubblica fonda il suo essere su quella libertas che il Santo Marino lasciò in eredità alla comunità formatasi intorno a lui, con la frase: relinquo vos liberos ab utroque homine, vi lascio liberi dall’uno e dall’altro potere. Con un’estensione territoriale di 61,19 km2, popolato da circa 34 mila abitanti, San Marino è uno dei meno popolosi fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite. La capitale è Città di San Marino, la lingua uffi ciale è l’italiano e gli abitanti sono chiamati sammarinesi. A partire dal 2008 il centro storico della Città di San Marino e il monte Titano sono stati inseriti dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità in quanto “testimonianza della continuità di una repubblica libera fin dal XIII secolo”.

La Storia

Secondo un’antica leggenda, Marino approdò a Rimini nel 257, insieme all’amico Leo, dall’isola di Arbe in Dalmazia per sbozzare la pietra nei pressi del porto. Qui diffondeva il Vangelo tra i suoi compagni, per i quali scavò un pozzo, ancora visibile nella Chiesa dei Santi Marino e Bartolomeo. Mossa dal diavolo, una donna giunse dalla Dalmazia e affermando di essere moglie di Marino, lo accusò di averla abbandonata.

Saputo ciò Marino si allontanò e si rifugio in una grotta sulle pendicidel Monte Titano, nel luogo detto Baldasserona. Qui visse da eremita. Alcuni pastori lo videro, parlarono di lui e la donna poté trovarlo. Marino si rifugiò dentro la grotta: dopo sei giorni di preghiera la donna rinsavì e tornò a Rimini dove, dopo aver confessato la sua colpa, morì. Marino allora, volendo vivere in solitudine e preghiera, si portò sulla sommità del monte dove costruì una piccola comunità religiosa. Verissimo, figlio di una matrona riminese, proprietaria di molte terre e del monte Titano, salì a provocarlo, ma fu punito con mutismo e paralisi. Portato a casa la madre Felicissima comprese l’accaduto e corse dal Santo promettendogli qualunque cosa egli volesse. Marino chiese solo la loro conversione e la terra bastante alla sua sepoltura; poi risanò Verissimo e battezzò tutti i suoi famigliari. Felicissima allora gli donò tutto il monte. Marino lasciò la sua cella sul Titano solo quando Gaudenzio, vescovo di Rimini, lo chiamò a sé insieme a Leo, avendo conosciuta la loro fama. Leo, ordinato sacerdote, si recò nel paese che da lui prese poi il nome e così fece Marino che umilmente volle restare diacono. Alla sua morte, nel 301, lasciò la terra avuta in dono alla comunità che gli si era radunata intorno.

La Basilica del Santo

Costruita all’inizio del XIX secolo in stile Neoclassico sulle fondamenta della preesistente Pieve Romanica. L’interno ha tre navate e sette altari; a sinistra dell’altare maggiore è presente lo scranno della Reggenza, dietro l’altare si trova la statua di San Marino scolpita da Adamo Tadolini nel 1830 mentre nell’altare maggiore una piccola urna contiene le reliquie di San Marino. A destra della Basilica, la chiesetta di San Pietro che conserva i due giacigli ricavati nella roccia che la tradizione indica come i letti di San Marino e San Leo.

San Marino – Museo di Stato – Palazzo Pergami Belluzzi

Nelle sale del Museo di Stato sono conservate pregevoli tele che dal XV al XIX secolo documentano iconograficamente i momenti salienti della vita di San Marino e della sua opera di protezione della Repubblica.

San Marino da non perdere!

Info e prenotazioni su visitsanmarino.com

Arrampicate: lungo le falesie del Monte Titano sale l’adrenalina

Vivi l’emozione di superare le balze rocciose del Monte Titano passando per tratti attrezzati per scoprire il Monte da un punto di vista insolito e cimentarsi con le tecniche di arrampicata, nella più totale serenità e sicurezza sotto la guida di accompagnatori esperti del Club San Marino. Durata 3 ore. Difficoltà: facile, esperienza adatta a tutti. Equipaggiamento: abbigliamento comodo e scarpe da tennis. L’attrezzatura tecnica verrà fornita dal Club Alpino San Marino.

Trekking ed escursioni: natura in libertà, da scoprire passo dopo passo

Passeggiata raccontata sulla rupe del Monte Titano (soft trekking guidato). Un viaggio fra natura e storia con panorami mozzafiato attraverso un itinerario che unisce i due centri storici medioevali di San Marino Città e Borgo Maggiore. Una camminata nel cuore della Repubblica più antica del mondo, lungo un itinerario che vi regalerà tutte le peculiarità geologiche e naturalistiche che hanno contribuito alla formazione di un habitat più unico che raro. Durata: 2 ore circa. Difficoltà media. Lunghezza: 4 Km ca. Dislivello 220 mt. ca.

E-bike: affascinanti itinerari per tutti i tipi di pedalata

Pedalata sul vecchio percorso della ferrovia, tour guidato alla scoperta della Repubblica di San Marino grazie a un esperto accompagnatore di e-Bike, attraverso un percorso sulla storica linea ferroviaria che collegava Rimini a San Marino. L’itinerario, offre notevoli spunti di interesse naturalistico e storico, permettendo di ammirare il territorio sammarinese nelle sue sfaccettature. Possibilità di completare l’esperienza con una degustazione di prodotti tipici del territorio a km 0. Durata: 3 ore compreso briefing e adempimenti amministrativi. Difficoltà: media. Lunghezza: 27 km ca. e dislivello 1.150 m ca.

Moto Tour

Vintage Riding Experience Mattino, tour guidato con moto originali anni 70. Scopri la bellezza del territorio della Repubblica di San Marino alla guida di una moto degli anni 70, attraversando i suoi 9 castelli tra affascinanti scorci panoramici. Un tour leader professionale ti accompagnerà svelandoti i segreti dell’utilizzo del mezzo, per vivere un’esperienza indimenticabile in tutta sicurezza. Al ritorno sarà offerta una piccola degustazione di prodotti tipici locali. Noleggio moto + tour guidato € 110,00. Passeggero gratuito da indicare all’atto della prenotazione. Orario di partenza: ore 9.30 il venerdì e la domenica dal 1° giugno al 30 settembre. Durata: 2 ore e mezza circa. Difficoltà: media. Tipologia percorso: asfalto. Lunghezza: Km ca. 70. Età minima: 25 anni con patente di guida.

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Tiro con l’arco: la vacanza attiva che fa sempre centro

Easy Wild: un istruttore accompagnerà i partecipanti, a piedi o in macchina, al Parco le Stradelle, dove troveranno una piazzola multipla di tiro con alcune sagome e tutto l’occorrente per due ore di tiro con l’arco istintivo. L’istruttore fornirà le nozioni di base per iniziare il tiro con l’arco in tutta sicurezza; verrà consegnato materiale didattico e un piccolo ricordo della giornata. Durata: 2 ore circa. Difficoltà: facile, esperienza adatta a tutti.

Tour del Centro Storico: trascorri le tue vacanze nel cuore della terra della libertà

Una guida turistica porterà i partecipanti in luoghi caratteristici del centro storico, alla scoperta di scorci nascosti, luoghi in cui leggende e storia si intrecciano ad avvenimenti e tradizione, circondati da panorami mozzafiato. L’occasione perfetta per conoscere la storia di una comunità rimasta intatta nei secoli, tanto da essere riconosciuta dall’UNESCO nel Patrimonio dell’Umanità. Durata: 1 ora.

Cammino del Titano

Una storia millenaria da scoprire passo dopo passo. Un nuovo itinerario che permette di esplorare e ammirare zone interne del territorio sammarinese. Il termine “Cammino”, infatti, non vuole evocare solo l’attività fisica, ma soprattutto l’addentrarsi e l’andare alla scoperta della storia e della cultura millenaria di San Marino. Un percorso di 43 km creato per permettere di esplorare gli angoli meno noti della Repubblica, con panorami unici e ricchi di fascino tra i quali spicca il Monte Titano, autentica icona del territorio riconosciuta dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Il centro storico

Prima Torre – Guaita: primo fortilizio sammarinese (XI secolo); fin dagli Statuti del 1600 era previsto un custode residente che doveva sorvegliare a vista l’intero territorio limitrofo ed in caso di pericolo dare l’allarme suonando al campana della torre. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso la Rocca è stata utilizzata anche come carcere. Nel primo cortile interno si trova la chiesa dedicata a Santa Barbara, patrona degli artiglieri. I cannoni presenti nel cortile furono regalati dai re italiani Vittorio Emanuele II e Vittorio Emanuele III.

Palazzo Pubblico: ricostruito in stile Neogotico nel 1894 su progetto dell’architetto Francesco Azzurri sulle fondamenta della più antica “Magna Domus Communis”. La torre dell’orologio contiene un trittico con le immagini di San Marino, Sant’Agata e San Leo. Palazzo Pubblico è il luogo nel quale si svolgono le cerimonie ufficiali ed è sede dei principali organi istituzionali e amministrativi. Nel centro di Piazza della Libertà si può ammirare la Statua della Libertà (1876), dono della contessa Otilia Heyroth Wagener.

Basilica di San Marino: costruita all’inizio del XIX secolo in stile Neoclassico sulle fondamenta della preesistente Pieve Romanica. L’interno ha tre navate e sette altari; a sinistra dell’altare maggiore è presente lo scranno della Reggenza, dietro l’altare si trova la statua di San Marino scolpita da Adamo Tadolini nel 1830 mentre nell’altare maggiore una piccola urna contiene le reliquie di San Marino. A destra della Basilica, la chiesetta di San Pietro che conserva I due giacigli ricavati nella roccia che la tradizione indica come i letti di San Marino e San Leo.

Cambio della Guardia: la Guardia di Rocca presta servizio d’onore a Palazzo Pubblico dove effettua il cambio della Guardia tutti i giorni nel periodo estivo (da metà luglio), ogni ora sulla mezz’ora.

Porta San Francesco: edificata nel in 1361 come semplice posto di guardia, questa porta è l’ingresso ufficiale al centro storico di San Marino. Sotto la volta due lapidi riproducono norme dello Statuto relative alla difesa del Paese. L’epigrafe bronzea più recente ricorda l’iscrizione di San Marino nella Lista del Patrimonio Mondiale Unesco.

Funivia: inaugurata nel 1959 e rinnovata negli anni ‘90, la funivia è tra i mezzi di trasporto più utilizzati dai turisti e dai residenti per raggiungere il cuore della capitale poiché collega i centri storici di Borgo Maggiore e San Marino. In meno di 2 minuti, si sperimenta un dislivello di circa 200 metri ammirando dei panorami incredibili.

Museo di Stato: ha sede nell’antico Palazzo Pergami-Belluzzi. Conserva reperti archeologici ed artistici legati alla leggenda del santo fondatore, alla storia della Repubblica e delle sue istituzioni. Da non perdere tutta la monetazione e la medaglistica sammarinese dal 1864 al 1937.

Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea: il museo si presenta con un allestimento che raccoglie una selezione di opere, tutte appartenenti alla Collezione d’Arte Contemporanea dello Stato di San Marino di alcuni dei nomi più conosciuti della storia italiana del Novecento accanto a quelle di importanti autori della scena artistica sammarinese.

Titanus Museum: video emozionali e immagini di alta qualità sorretti da un’accurata narrazione danno vita a un’esperienza multimediale che regala al pubblico un’immersione conoscitiva nei punti salienti della storia di San Marino. Le suggestioni dei contenuti multimediali conducono il pubblico lungo un arco temporale che dalla Preistoria arriva al Ventunesimo secolo attraverso l’esplorazione dei momenti storici che hanno favorito la nascita e lo sviluppo della comunità sammarinese consentendole di rimanere libera per secoli. Il percorso di visita si snoda su una superficie di 500 mq suddivisa in aree tematiche.

Museo del Francobollo e della Moneta: il museo è suddiviso in due sezioni: la parte filatelica che raccoglie i francobolli e i materiali storici utilizzati dalle Poste Sammarinesi dal 1877 in poi; il percorso numismatico in cui sono esposte le rarissime prime monete sammarinesi dell’800 e del ‘900, medaglie celebrative dello Stato, le lire emesse dal 1972 al 2001 e gli euro.

Passo delle Streghe: dalla Prima Torre – Guaita, dirigendosi verso la Seconda Torre – Cesta, si attraversa l’incantevole Passo delle Streghe, che offre delle meravigliose e romantiche vendite panoramiche sulla costa adriatica.

Cava dei Balestrieri: aperta e utilizzata negli ultimi vent’anni del XIX secolo per l’estrazione della pietra utile al restauro del vicino Palazzo Pubblico, oggi la cava ha diversi utilizzi: luogo di allenamento dei balestrieri appartenenti alla Federazione Balestrieri Sammarinese (FBS), “campo di battaglia” per numerosi tornei di balestra a livello nazionale ed internazionale, location per un’ampia varietà di eventi quali concerti, happening, mostre all’aperto e feste d’estate.

Info e prenotazioni su visitsanmarino.com

Enogastronomia

Casa Fabrica, Museo della Civiltà Contadina e sede del Consorzio Terra di San Marino: gli oggetti d’un tempo, raccolti attraverso un attento lavoro di ricostruzione storica, ritrovano vita all’interno dell’esposizione allestita a Casa Fabrica, esempio pregevole di abitazione contadina completamente restaurata che sorge su un fondo agricolo di antichissima origine. Il museo della Civiltà Contadina è pienamente accessibile e, grazie anche all’esposizione tattile, è completamente fruibile per i visitatori diversamente abili. Casa Fabrica è anche sede del Consorzio Terra di San Marino, ideatore del progetto di valorizzazione e promozione delle produzioni tipiche locali quali: carne, miele, latte, vino, olio e cereali. Attività (su prenotazione): visita del museo, degustazioni guidate, cooking lessons. terradisanmarino.com; 0549 902617; info@terradisanmarino.com

Cantina San Marino: nato nel 1979, il Consorzio Vini Tipici riunisce 100 soci che coltivano 120 ettari ai piedi del Monte Titano, ad altitudini comprese fra i 50 e i 400 metri s.l.m. Il marchio di Stato ad Identificazione di Origine “San Marino” tutela e garantisce l’origine delle uve e la qualità dei vini ottenuti. Il Wine Shop offre anche una selezione dei prodotti a marchio

Terra di San Marino. Attività: visita alla cantina e degustazioni guidate. consorziovini.sm; 0549 905124; info@consorziovini.sm

La Serenissima, antica fabbrica di torte fatte a mano: presente a San Marino dal 1942, produce da allora la Torta Tre Monti, divenuta uno dei simboli gastronomici della Repubblica, la delizia gourmet Torta di San Marino e altre specialità artigianali. laserenissima.sm, 0549 878102, info@laserenissima.sm

Montegiardino Miele: azienda agricola gestita dalla famiglia Guiducci situata in un contesto naturale di particolare bellezza, nel castello di Montegiardino, che offre splendidi panorami sia sul Monte Titano e le colline circostanti, che sulla costa adriatica. Il miele, prodotto in diverse tipologie, è frutto di lavoro fatto con passione e di natura incontaminata, dove le api non soffrono la presenza di sostanze chimiche nocive. Attività: degustazioni guidate. montegiardinomiele.com, info@montegiardinomiele.com

Ristorante Righi – 1 stella Michelin: lo Chef Luigi Sartini, 1 stella Michelin acquisita nel 2008, cresciuto alla scuola di Gino Angelini e Gualtiero Marchesi, propone una cucina che unisce tradizione, territorio, fantasia e ricercatezza nei piatti, oltre ad un’altissima qualità delle materie prime. Il ristorante si trova al primo piano di un palazzo storico che affaccia su Piazza della Libertà, il luogo simbolo delle secolari istituzioni sammarinesi. Al piano terra, l‘Osteria La Taverna offre piatti gourmet in un contesto più semplice e veloce. Il ristorante riaprirà a settembre, mentre l’osteria prosegue la sua attività durante l’estate. ristoranterighi.com, 0549 991196; info@ristoranterighi.com

Shopping

Centro storico: oltre 300 negozi con un’ampia offerta, che comprende caratteristici oggetti di artigianato artistico, e tradizionali creazioni in ceramica.

San Marino Outlet Experience: l’outlet di nuova generazione, appena inaugurato, offre oltre 70 punti vendita con brand di fascia luxury-premium per soddisfare tutte le esigenze. Tra i servizi offerti: prestigiose VIP Lounge per un’esperienza d’acquisto riservata e confortevole, deposito bagagli e l’assistenza di esperti personal shopper. Area parcheggio coperta da 1.400 posti gratuiti.

Shop del Museo del francobollo e della moneta: Piazza Garibaldi, centro storico.

Shop del Consorzio Terra di San Marino: via Eugippo 16, centro storico.

Info e prenotazioni su visitsanmarino.com

L’azienda italiana Herbolario investe nel voivodato di Santacroce

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Come ha informato il viceministro Renata Janik, i rappresentanti del marchio Herbolario si sono rivolti al Consiglio del voivodato di Santacroce chiedendo il sostegno alla realizzazione dell’impianto di produzione dedicato alla estrazione di sostanze attive dalle piante medicinali ed erba. L’azienda umbra cercano aree di investimento per questa impresa i cui prodotti sono usati nel settore farmaceutico, nell’industria alimentare e cosmetica. Dopo l’incontro polacco-italiano, Renata Junik ha accompagnato i rappresentanti di Herbolario a Morawica ed a Pinczów per farli familiarizzare con la regione e i rappresentanti politici locali.

https://www.portalspozywczy.pl/owoce-warzywa/wiadomosci/herbolario-industries-chce-inwestowac-w-nowy-zaklad-w-swietokrzyskiem,202145.html

Mercato immobiliare: volano i prezzi d’acquisto, polacchi poco propensi a vivere in affitto

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

I prezzi degli appartamenti stanno aumentando, ma questo non scoraggia i polacchi che vogliono avere una casa di proprietà e in questo si differenziano dai paesi più ricchi. Infatti anche se in termini di sviluppo economico, la Polonia sta raggiungendo i paesi più ricchi dell’Europa occidentale, tuttavia, la maggior parte degli economisti classifica la Polonia ancora come un paese in via di sviluppo. Secondo i dati dell’OCSE, circa il 70% dei polacchi vive in un appartamento di proprietà, che ha ereditato, comprato in contanti o a credito e che ha già ripagato. Circa l’11% sta ancora pagando i propri debiti bancari. Solo il 5,4% dei residenti è in affitto. La tabella preparata dall’OCSE mostra anche un’altra cosa interessante: il livello di credito dei cittadini. In Polonia, l’11% dei residenti sta pagando un mutuo.

https://www.money.pl/gospodarka/polak-kupuje-mieszkanie-zamiast-wynajmowac-tym-roznimy-sie-od-zachodu-6674986924120704a.html

Dante e il vino nella commedia

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Il 25 marzo scorso si è celebrato il Dantedì, il giorno dedicato al sommo Poeta (morto settecento anni fa il 14 settembre 1321) che in questa data, nella Pasqua del 1300, così come hanno individuato gli studiosi, iniziò nei regni dell’oltretomba il viaggio della Divina Commedia.

Probabilmente Dante non era astemio, dato anche che nel Medioevo di acqua se ne beveva poca, perché poteva essere molto pericolosa. Da documenti d’archivio si ricava che Dante aveva posseduto due poderi con vigna, alberi e ulivi.

Non sappiamo se il sommo poeta fosse dedito alla vita agricola dei suoi poderi, ma in due passi del suo poema (e più precisamente nel Purgatorio) possiamo ritrovare forse le prove che egli avesse una certa conoscenza di alcune pratiche enologiche. La prima citazione l’abbiamo nel canto XV, che si svolge sulla seconda e sulla terza cornice, luogo deputato a purgare la colpa e il peccato de l’ira, ove si espiano rispettivamente le anime degli invidiosi e degli iracondi. Dante è giunto alla III Cornice e qui è rapito in una visione estatica. Quando il poeta torna in sé capisce di aver avuto delle visioni; Virgilio lo vede camminare lentamente come chi si sveglia da un sonno pesante, per cui gli chiede cosa gli è successo, visto che per un buon tratto di strada Dante ha camminato con gli occhi velati e le gambe impacciate, come un uomo vinto dal vino o dal sonno.

Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».

Purgatorio – canto XV (118-123)

La seconda citazione la troviamo nel canto XXV dove espiano le anime dei lussuriosi. Dante, Virgilio e Stazio percorrono la scala che porta alla VII Cornice con passo veloce, uno dietro l’altro. Dante chiede come sia possibile che le anime dei golosi, pur essendo incorporee, dimagriscano per fame. Virgilio invita Stazio a fornire una spiegazione dettagliata. Stazio dichiara che nel corpo paterno c’è un sangue perfetto che non alimenta le vene e che riceve nel cuore la virtù informativa capace di dare forma a tutte le membra umane. Una volta purifi cato, esso diventa seme, scende negli organi genitali maschili e si unisce poi al sangue femminile nell’utero. Stazio spiega che, non appena il feto ha sviluppato il cervello, Dio spira nel suo corpo un nuovo spirito, l’anima razionale che assimila in sé la virtù informativa e genera un’unica anima. Perché Dante comprenda meglio il ragionamento, Stazio fa ancora l’esempio del vino, prodotto dall’umore sostanziale della vite e dal calore del sole, elemento immateriale.

E perché meno ammiri la parola,
guarda il calor del sole che si fa vino,
giunto a l’omor che de la vite cola.

Purgatorio – canto XXV (76-78)

Il Poeta quindi, per far comprendere uno dei misteri più importanti della Religione Cristiana, vale a dire come Dio riesca ad infondere l’anima intellettiva negli essere umani in modo che questa produca l’inimitabile singolarità di ogni individuo, ricorre all’esempio della vite. Come il sole (Dio) infonde ogni tipo di virtù alla vite (parte vegetativa-sensitiva) generando il vino (uomo). Durante la celebrazione dell’Eucarestia il pane e il vino rappresentano lo spirito che si fa carne.

Helena Janeczek fra tre culture

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Helena Janeczek è ospite del festival “Literacki Sopot” dedicato all’Italia che si svolge dal 19 al 22 agosto 2021 (www.literackisoport.pl)
La scrittrice ha finora pubblicato: “Ins Freie: Gedichte” (1989), “Lezioni di tenebra” (1997), Cibo (2002), “Le rondini di Montecassino”  (2010), “Bloody Cow” (2012) e “La ragazza con la Leica” (2017). Con quest’ultimo romanzo nel 2018  ha vinto il prestigioso Premio Strega.

Intervista di Roberto M. Polce

Roberto M. Polce: Helena, tu nasci a Monaco di Baviera da genitori polacchi di origine ebraica, cresci immersa nel tedesco e nell’italiano, ma non ha mai imparato a parlare polacco. Come mai?  Dicevi che tua madre e tuo padre fra loro parlavano polacco, ma non davanti a te…

Helena Janeczek: Più che altro, senza rivolgersi direttamente a me. Lo usavano ad esempio per non farsi capire dai tedeschi. Era come una lingua segreta, cosa che la rendeva ai miei occhi ancora più interessante e perciò l’assorbimento passivo da parte mia è stato particolarmente attento. Mia mamma era molto polonofila, ascoltava e cantava tutto ciò che era polacco, da Chopin in giù, dove per ‘giù’ intendo davvero tutto, fino alle canzonacce da osteria e alle nenie e ninnananne che mi cantilenava da bambina. Quindi, anche se non lo parlo, mi sono rimaste nella memoria molte parole o frasi minime di uso quotidiano che ogni tanto scappavano, sia a lei che a mio padre. Che so, per esempio: “Chodź do domu, bo jest zimno” [“Vieni a casa, ché fa freddo”].

RMP: Come mai finirono a vivere in Germania? Perché e quando andarono via dalla Polonia?

HJ: Mia madre e mio padre si erano fidanzati durante il secondo conflitto mondiale. Finita la guerra si erano ritrovati a Sosnowiec, in Slesia, insieme a due nipoti, unici membri della famiglia sopravvissuti alla Shoah, di cui uno adolescente salvatosi perché era stato tenuto nascosto presso dei contadini. Però dopo il pogrom di Kielce* decisero che era meglio non restare in Polonia e si mossero verso l’Occidente finendo in un campo per ‘displaced persons’ in Baviera. Lì  cominciarono a farsi una vita provvisoria a Monaco, la città più vicina, riuscendo in vari modi a sistemare i nipoti, aiutandoli a emigrare negli Stati Uniti. Volevano farlo anche i miei, ma a mio papà fu scoperto un focolaio di tubercolosi, per cui non gli avrebbero permesso di entrare. Dovettero perciò rimandare la loro partenza. “Ci ritroveremo in America quando questa cosa sarà curata”, pensavano, ma poi tutto è andato diversamente.

RMP: E hanno messo radici in Germania… Loro conoscevano già un po’ il tedesco?

HJ: Mia mamma il tedesco non lo ha mai imparato benissimo perché, dei due, era quella che veniva da una famiglia più assimilata, che ha fatto le scuole polacche, quindi in casa di mia mamma non si parlava yiddish. Anche mio padre aveva fatto le scuole polacche, ma lui veniva da una famiglia più tradizionale, di commercianti, e in casa loro si parlava yiddish, quindi lui col tedesco aveva meno difficoltà… Poi comunque, purtroppo, durante la guerra, nella Polonia sotto occupazione nazista, un po’ di tedesco lo avevano dovuto imparare tutti, per ovvie ragioni.

RMP: E quindi tu sei nata e cresciuta a Monaco di Baviera. Fino a che età hai vissuto in Germania?

Io là ho fatto tutte le scuole fino al liceo. C’è però da dire che i miei avevano,  per varie ragioni e da prima che io nascessi, rapporti di lavoro e di amicizia con l’Italia. Quindi io in Italia ci venivo, trascorrendovi lunghi periodi, fin da prima di… imparare a parlare. E questa probabilmente è stata anche una delle ragioni per cui i miei hanno pensato che il polacco potevo anche non saperlo, dato che crescevo già con due lingue. E l’italiano lo imparavo sul campo sin da bambina durante soggiorni molto più lunghi rispetto alla media dei viaggi turistici. Il mio bilinguismo era di un genere un po’ atipico, ma era comunque una forma di bilinguismo. Finché poi, finite le scuole secondarie, ho deciso di trasferirmi qui a Milano e di iscrivermi all’università.

RMP: Perché questa scelta di venire in Italia? Non ti piaceva la Germania?

HJ: Per me la Germania era veramente un posto molto complicato dove stare. Mi pesava quel passato – dapprima non detto, poi anche detto esplicitamente  – della Shoah. Anche se poi con il tempo le cose nella società tedesca sono cambiate attraverso l’elaborazione collettiva, però le informazioni che mi arrivavano, anche attraverso i miei, facevano sì che io da ragazzina mi sentissi molto addosso questo ruolo di figlia di sopravvissuti che mi sembrava un po’ pesante. Dall’altro lato c’era il fatto appunto che io in Italia sin da piccola avevo amici; erano amici dei miei che mi hanno svolto un po’ il ruolo di sostituti della famiglia, visto che della nostra famiglia vera e propria ne era sopravvissuta pochissima, e quei pochi stavano negli USA e in Israele. E qui in Italia mi sentivo più accolta e l’idea di venirci a vivere ce l’avevo in testa fin dall’adolescenza.

RMP: In un’intervista però hai detto che di italiano hai solo un passaporto, un codice fiscale e un figlio… Quindi non ti senti italiana, anche se hai scelto di vivere in Italia e scrivi in italiano?

HJ: Adesso non ricordo di aver detto questo, e in quale contesto, ma è ovviamente un’affermazione paradossale, ti pare? Un’altra cosa che dico spesso, e che forse fotografa questo tema in maniera più completa o quantomeno più complementare, è che non non conoscendo la mia vera lingua madre, che sarebbe il polacco, ho deciso di usare la lingua di mio figlio… ancora prima che nascesse mio figlio. Con questo intendo che ho deciso di scrivere nella lingua degli affetti che mi sono creata io, della famiglia che mi sono creata io, e questo è più importante del sentirsi qualcosa, no? Io in realtà mi sento…

RMP: …europea?

HJ: …Sì, europea va bene, certo, ma è una cosa un po’ astratta. Però alla fine, forse anche per il tipo di testa, per l’interesse che ho verso le storie minime io mi sento un po’ tutto quello che effettivamente ho ereditato e che fa parte del mio percorso. Un tempo avevo più difficoltà a integrare in questo insieme che ho dentro la mia parte tedesca, che però c’è anche quella. È un pezzo un po’ più complicato della mia appartenenza, ma fa comunque parte della mia vita, del mio percorso. 

RMP: Questa tua condizione, diciamo così, di multiculturalità, di avere in te l’anima di diversi importanti paesi della cultura europea, la vivi come un vantaggio o come un peso?

HJ: No, dal mio punto di vista soggettivo non è un peso minimamente. A volte può ovviamente creare qualche complicazione, quando ti pongono appunto la famosa domanda: ‘Cosa ti senti di più?’ E tu dici: ‘A questa domanda non so e non voglio rispondere’. Quando vedi che Wikipedia scrive che sei una scrittrice tedesca naturalizzata italiana, dici: ‘Mah… boh…’ Però d’altra parte non è che a tutti subito per forza puoi, e vuoi, raccontare la rava e la fava, anche se non ci metteresti tantissimo. Ecco, questo può essere un po’ un inconveniente, ma poi mi rendo conto che è un problema minimo rispetto a chi per esempio ha anche un colore della pelle che lo marca come non nativo. Io tutto sommato ho solo un cognome strano a rivelare che sono nata in un altro paese (anche se oggi molti di quelli che hanno cognomi tra virgolette strani sono pure nati qua a differenza mia), e questo a volte è un po’ faticoso. Cioè è faticoso in relazione alla società, non è per niente faticoso dentro di me.  

RMP: Questo però ti ha resa molto sensibile sulla questione dell’identità, tema politico di spicco negli ultimi tempi.

HJ: Sì, certo, ma ognuno dovrebbe potersi gestire da solo il problema dell’identità… Diventa però un altro paio di maniche quando su questo si costruiscono discorsi politici escludenti, discriminanti, con tutto ciò che ne consegue… Stiamo parlando il giorno dopo l’intervista in cui il presidente del CONI ha chiesto per gli sportivi lo ‘ius soli’. Questa dichiarazione non è accettabile da un punto di vista di principio, perché non  puoi dare un diritto fondamentale come quello di cittadinanza solo per meriti sportivi. Però l’insofferenza che lui ha esternato riguardo ai ragazzini che fanno seriamente sport in Italia e ai quali deve essere data la possibilità poi di gareggiare sotto la bandiera italiana e non di altri paesi, rivela che, per quanto rozzo, il presidente del CONI un po’ di esperienza in questo campo ce l’ha. Evidentemente conosce bene la macchina burocratica tremenda che rende difficile il percorso per ottenere la cittadinanza. Mentre quelli che dall’altra parte dicono: “No, basta aspettare di avere 18 anni per avere la cittadinanza” mentono sapendo di mentire, e però la gente ci crede. Tutti i paletti e gli ostacoli posti dall’attuale legge per l’acquisizione della cittadinanza mostrano chiaramente che questo spesso non è vero, e non lo è in modo vessatorio e irrazionale, ma anche controproducente. Penso, per esempio, al fatto che noi tutti che viviamo in Italia e paghiamo le tasse, cittadini e non cittadini, contribuiamo a formare i ragazzi immigrati, paghiamo per la scolarizzazione, per la formazione di questi ragazzi che poi dopo devono fare i salti mortali per poter diventare cittadini italiani. 

RMP: Parliamo delle donne, un fil rouge che attraversa tutta la tua scrittura, anche se hai dichiarato che una grande scrittrice, quale tu sei, deve sapersi calare non solo nella psicologia di una donna…

HJ: Su questo tema terrei ben separato il discorso della riflessione, dell’impegno sul tema delle donne, dall’elaborazione all’interno di un’opera letteraria. Qui secondo me è giusto fare ciò che la letteratura ha sempre fatto e dovrebbe fare: smontare gli stereotipi. Quindi la cosa importante non è tanto parlare di donne o offrire personaggi che siano modelli di identificazione o addirittura esempi di figure eroiche femminili. Non è questo che io voglio fare come scrittrice, ma lavorare contro gli stereotipi, che è una cosa che fa, o dovrebbe fare, la buona letteratura.

RMP: E in questo tuo approccio si inserisce in particolare proprio la riscoperta – e arriviamo al romanzo “La ragazza con la Leica”, con cui nel 2018 hai vinto il Premio Strega dopo 15 anni che non veniva più assegnato a una scrittrice donna – della storia di una donna, Gerda Taro, che ha fatto grandi cose e poi però è stata ‘oscurata’, in un certo senso assorbita nell’ombra di un personaggio maschile che è arrivato al successo.

HJ: Sì, certo, ma la cosa interessante nella storia di Gerda Taro è che questo processo, da una fama precoce a un oblio totale, non è colpa di nessuno se non della società e del fatto che, per combinazione, il suo compagno, Robert Capa, è poi diventato molto celebre. La stessa sorte è toccata anche all’altro loro grande amico e sodale e poi cofondatore con Capa della Magnum: Chim, cioè David Seymour nato David Szymin, risucchiato anche lui nel cono d’ombra di Capa. E questo è successo nonostante che Capa, poveraccio, dicesse che il suo amico era migliore di loro due. E però era lui quello più famoso. E la stessa cosa figuriamoci se non è successa con Gerda Taro che ha lavorato, per quel che se ne sa oggi, solo un anno e che poi è morta così giovane…

RMP: A questo proposito mi pare tu abbia dichiarato che probabilmente Gerda Taro aveva lavorato anche prima e che molte sue foto erano state attribuite a Robert Capa.

HJ: Il grande lavoro di ricostruzione della vita e dell’opera di Gerda Taro su io cui mi sono basata è dovuto alla studiosa di Stoccarda Irme Schaber che le ha dedicato decenni della sua vita. È stata lei a tirare fuori dagli archivi queste fotografie che spesso, secondo il costume dell’epoca, non venivano pubblicate con i crediti. Inoltre loro stessi, Gerda e Robert, come coppia, spesso se ne infischiavano se una foto veniva pubblicata con il nome Taro o Capa. Loro in Spagna avevano sostanzialmente due obiettivi più importanti: uno – fare fotogiornalismo di denuncia il più visibile possibile, e due – portare a casa i cachet migliori. Le ricerche più recenti hanno comunque dimostrato che lei aveva già,  fin dall’inizio del suo percorso di fotografa,  pubblicato foto su vari giornali con il suo nome. Quindi lei in Spagna ci va con un ingaggio e pubblica fin dall’inizio alcune foto con il suo nome, ma poi altre le pubblicano solo con il nome di lui, altre vengono pubblicate come Taro e Capa: insomma è un gran casino. Poi nel dopoguerra spesso succedeva che le agenzie mettessero il timbro Capa sopra il timbro Taro, cosa accaduta anche con le foto di Chim. È la legge della fama, che oscura tutto quello che finisce nel suo cono d’ombra. 

RMP: Che dinamiche c’erano fra di loro? Lui era per lei un maestro, quello che le insegnò a fotografare. E lei? È stata forse un po’ la sua musa ispiratrice?

HJ: In realtà, finché sono stati insieme, fra di loro lo schema maestro e musa – a differenza di altre famose coppie di artisti, anche di fotografi – non ha mai funzionato. È vero che Capa aveva cominciato a fotografare molto prima, che a Parigi faceva, seppur a fatica, il fotografo quando Gerda ancora si manteneva coi lavori di dattilografa. Però lui era più giovane di lei di tre anni, e hanno formato una partnership fin dall’inizio, prima di diventare una coppia, coppia in cui, in realtà,  un ruolo dominante  lo giocava più lei che  lui. Secondo le testimonianze sembra che lui la chiamasse “il mio principale”, “mon chef”, perché lei era brava a organizzare. Lei aveva più senso pratico, più senso delle opportunità. È lei ad avergli dato tutti quei suggerimenti del tipo: “Adesso però tu ti compri un abito borghese, ti presenti più decoroso, perché il mondo è fatto così e quindi, se hai un aspetto più presentabile, forse riesci a combinare qualcosa di meglio.”

RMP: Quindi il loro era tutto sommato un rapporto paritario?

HJ: Sì, era un rapporto paritario, in cui lui è stato fondamentale nell’insegnarle a usare la macchina fotografica, e tra l’altro neanche l’unico… Era un rapporto paritario perché facevano parte di una generazione in cui l’idea di sperimentare con delle forme di relazioni nuove, paritetiche, ecc., in nome dei comuni ideali universali, socialisti, era abbastanza diffusa. Ovviamente non ovunque, ovviamente tra una gioventù urbana, ma non soltanto altoborghese. E questa era l’impostazione che loro volevano dare alla loro relazione, anche se poi Capa era molto geloso di lei, che non si tirava indietro dal flirtare a destra e a manca. Però era un geloso che non pensava di avere il diritto di esserlo, che è una bella differenza…

RMP: Cioè?

HJ: Era un geloso che sapeva che la sua gelosia, la gelosia che lui provava – come poi succederà di nuovo negli anni della contestazione giovanile – era contraria a quell’ideale che nella teoria lui abbracciava.

RMP: A proposito: il superbo affresco che hai fatto di quest’epoca a ogni passo, a ogni pagina, suscita spontanei i paralleli con l’oggi. Non sono tue proiezioni, vero? Sono due epoche davvero così simili?

HJ: Sicuramente una delle ragioni per cui ero tanto attratta da questa storia era proprio per i forti parallelismi con i tempi più recenti: dalle ricadute della crisi economica alle forme di xenofobia, dalle leggi fatte per limitare la possibilità  per gli stranieri di radicarsi, fossero essi migranti o profughi (che allora si chiamavano peraltro col termine più elegante di ‘esuli’). Anche gli esuli in Francia, però,  erano persone che, così come oggi, dovevano scappare per ragioni politiche e poi razziali dai loro paesi di origine, e quindi anche là c’erano queste leggi che non permettevano di lavorare, di essere assunti…

È stato da parte mia un lavorare sulle somiglianze, ma anche sulle non somiglianze fra le due epoche. Per esempio una cosa che mi colpiva moltissimo in queste storie di ragazzi è che avevano una capacità  di reazione enorme alle circostanze estremamente complicate e avverse della loro epoca, sia singolarmente sia come gruppo, capacità  che magari anche oggi c’è ma che facciamo fatica a percepire. Una delle cose che ho trovato più interessante e attraente nella storia di Gerda Taro e di Robert Capa, ma  anche degli altri loro amici e sodali, è  che non hanno mai scelto o l’impegno o la realizzazione individuale, come è successo da noi con il passaggio dagli anni  ’60-’70 agli anni ’80. Invece loro erano, sì,  a tutti gli effetti imprenditori di se stessi, però come imprenditori di se stessi andarono in Spagna anche per servire la causa della Repubblica spagnola…

RMP: Questi parallelismi che riflessioni ti suscitano? Voglio dire: vedi i nostri tempi con pessimismo? Perché, come sappiamo, allora il finale fu tragico, e tutto sfociò in una tragedia immane…

HJ: Il libro è uscito nel 2017, ora noi parliamo nel ’21, tutto è così fluido e muta rapidamente. I parallelismi su certi temi, che pure c’erano e continuano ad esserci, oggi vanno proiettati in un quadro mostruosamente più vasto, come abbiamo dovuto – ahimé –   imparare letteralmente sulla nostra pelle in questo periodo di pandemia. Per non parlare poi della grande questione ambientale, che era totalmente assente dall’orizzonte delle persone degli anni ’30, ma anche degli anni ’60 e ’70.  Oggi è interessante notare come, curiosamente, alcuni dei paesi maggiormente a favore delle chiusure e più decisi nella propaganda antiglobalizzazione sono poi stati – sia in Europa, sia fuori dall’Europa – quelli su cui la pandemia si è abbattuta in modo più disastroso, sono stati quelli in cui si è notata non meno evidente incapacità  o scarsa volontà  di reagire in modo adeguato a questa pandemia. Credo che oggi, se non sbaglio, i dati dicano che l’Ungheria abbia avuto il tasso di morti più alto per covid-19 all’interno dell’Unione Europea pur avendo sfangato quasi del tutto la prima ondata. Finché c’è stato Trump negli USA la gestione del covid è stata quella che sappiamo, e ancora oggi desta preoccupazione l’aumento dei casi in Florida dove c’è un governo repubblicano. E poi il Brasile di Bolsonaro, l’India di Narendra Modi, che non ha fatto niente per arginare la seconda ondata, anzi ha condotto la sua campagna elettorale in mezzo a mostruosi assembramenti religiosi induisti, cosa che ha portato a quella catastrofe terrificante che è stata appunto una nuova ondata di covidche ha originato la variante indiana con cui ci troviamo alle prese oggi. Quindi il fatto che queste varie forme di ideologie ultranazionaliste alla fine siano anche totalmente inadeguate a tutelare anche solo la propria cittadinanza è una delle cose più tremende che stiamo scoprendo oggi. Non solo sono inadeguate a tutelare i propri cittadini, sono anche nocivissime, perché se tu puoi impedire l’entrata a un essere umano un virus non lo fermi con nessun tipo di frontiera e quello va, più veloce oggi perché abbiamo la globalizzazione. Però in realtà  anche nel Medioevo, quando la globalizzazione non c’era non si è mai riusciti a fermare un certo tipo di epidemie che si sono diffuse grazie al fatto che anche quando il mondo era poco connesso era comunque sempre un po’ connesso. Nonostante le distanze e i mezzi di comunicazione meno evoluti, la circolazione anche allora era comunque notevole, figuriamoci oggi.

RMP: Parliamo  della Polonia. Hai nostalgia, se non proprio della Polonia in cui non hai mai vissuto, perlomeno delle tue radici polacche?

HJ: Sì, sì, assolutamente, la sento parecchio! Sono felicissima – e incrocio molto le dita che tutto vada bene – per questo breve soggiorno polacco [in occasione del festival ‘Literacki Sopot’, n.d.r.]. Dopo il viaggio fatto con mia mamma in Polonia subito dopo la caduta del Muro, sono stata in Polonia una seconda volta qualche anno prima del covid, perché mio figlio aveva saputo che uno dei suoi cantanti preferiti faceva un concerto in un festival rock a Cracovia e lì si riuscivano a trovare dei biglietti. Quindi siamo partiti e siamo rimasti là forse neanche una settimana, ma ricordo che sbarcando all’aeroporto di Cracovia e prendendo il treno suburbano per andare in centro, mi ha fatto un effetto…  semplicemente mi sono commossa [ride]… 

RMP: Che impressioni hai avuto?

HJ: Io in realtà  la Polonia la seguo molto con mezzi indiretti, ma personalmente la conosco molto poco. La seconda e ultima esperienza  è stato quel viaggio con mio figlio a Cracovia: città  grande e meravigliosa, e chiaramente rispetto al viaggio che vi avevo fatto con mia madre a 5 anni dalla caduta della Cortina di Ferro ho trovato tutto fin troppo ristrutturato e tirato a lucido, che è quello che accade quando un posto diventa troppo turistico. Andando a Kazimierz nel ’93 vi si vedeva appena un inizio di restauro, mentre adesso questo quartiere è un po’ disneylandizzato. Lo stesso però c’è  un piccolo museo di storia ebraica, con pochi reperti ma secondo me bellissimo, perché l’idea di realizzarlo soprattutto con le foto dei luoghi distrutti è bella per niente finta. Mi ha fatto una notevole impressione, ma anche su altre cose sono rimasta molto positivamente colpita, stupita di quante cose fatte veramente bene ci sono. Per me era stato interessante anche quel festival musicale, dove tutto funzionava perfettamente, con ragazzi belli e simpatici, dove alla fine del concerto non c’era rimasta una sola cartaccia sul prato, come uno si immaginerebbe che potrebbe accadere in Svezia. Poi da Cracovia siamo andati a trovare una signora dalle parti di Częstochowa,  da  Częstochowa siamo andati a Katowice, da dove abbiamo preso un treno per andare a Vienna. Quindi abbiamo visto anche posti non turistici, e alla fine i treni, i tram, i ragazzi in giro per la città  di Katowice, tutto dava l’impressione di un paese che si è rinnovato tantissimo, che è molto vivo, dove vedi grandi opportunità  per i giovani, che è poi anche l’aspetto che più mi colpisce venendo da un paese vecchio come l’Italia. Quindi mi ha fatto venire una gran voglia di tornarci, di tornarci forse anche un po’ più a lungo rispetto alla toccata e fuga che posso fare adesso. E ancora mi ha colpito la cortesia, e il calore della gente.

RMP: In effetti si dice che i polacchi siano un popolo nordico con l’anima mediterranea.  Sanno lavorare,  organizzarsi come i paesi nordici, però hanno dentro un calore che hanno solo i paesi dell’Europa del Sud.

HJ: Be’, ti racconto una cosa di cui ho parlato anche in “Lezioni di tenebra”. Oltre ai problemi legati al fatto di vivere nella terra degli assassini degli ebrei, ovvero la Germania (e nella nostra famiglia si insisteva con l’adagio “noi non siamo tedeschi”), uno dei punti su cui si martellava era l’ospitalità, che era anche una delle ragioni per cui i miei si trovavano molto meglio in Italia che in Germania. Per esempio per noi era scandaloso essere invitati da una famiglia tedesca a una grigliata e vedere che il convito consisteva in una cotoletta e un’insalatina per ciascuno! Ma come?!… [ride] Non è possibile, ti pare? I paesi slavi e i paesi mediterranei hanno in comune un diverso codice dell’ospitalità. Era un aspetto che sentivamo molto, in famiglia, e l’ho molto sentito anch’io. Ci pareva ‘innaturale’ quel pagare ognuno per sé, del tipo: “io ho bevuto soltanto una birra…” no? Che è una cosa che in genere gli italiani non fanno. Io mi sono anche sposata con un uomo originario del Sud, e quando ci ritroviamo con i suoi parenti questi mi dicono sempre:  “Ma come fai a essere così terrona?”… E io rispondo: “È perché la mia cultura di origine lo prevede”. 

 Note

*Il 4 luglio 1946 a Kielce si verificò un pogrom in cui 40 ebrei polacchi  perirono e 80 rimasero feriti. Anche se non fu, per numero di vittime, uno dei pogrom più gravi della storia, è un fatto molto significativo in quanto accaduto a oltre un anno dalla fine della seconda guerra mondiale e dopo la sconfitta del nazismo. In questa località della Polonia sud-orientale vivevano allora circa 200 ebrei sopravvissuti alla Shoah.  Quel giorno si era sparsa la voce che alcuni ebrei avevano rapito un bambino per usarne il sangue per i loro riti. La popolazione della cittadina si radunò nei pressi degli edifici in cui vivevano gli ebrei e, nell’indifferenza della polizia locale, ne linciò i residenti [n.d.r.].