Cover d’importazione

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Le cover hanno sempre avuto una certa rilevanza nel mondo della musica leggera. Inoltre, dato che la maggioranza delle hit internazionali è in lingua inglese, è più che comune vedere, anche in Italia, cantanti locali che reinterpretano noti brani di artisti anglosassoni. Alcune cover sono più “tradizionali”, nel senso che mantengono il testo inglese dell’originale; più interessante è però il fenomeno delle cover in italiano di brani anglofoni, con i testi rimaneggiati in maniera più o meno riuscita e indirizzati al pubblico italiano.

Canzoni di questo tipo erano particolarmente comuni negli anni Sessanta e nei primi Settanta, sull’onda del successo del rock e del beat di provenienza statunitense e britannica. Imitare le più celebri star internazionali era prassi comune: basti pensare a un cantante come Little Tony, emulo dichiarato di Elvis Presley.

La band più iconica degli anni Sessanta furono sicuramente i Beatles. Nella prima metà del decennio Fausto Leali incise le versioni italiane di “Please Please Me” e “She Loves You”: in entrambi i casi il ritornello rimaneva (almeno in parte) in inglese mentre le strofe erano in italiano. Il testo di “Please Please Me” inizia con la frase “tu vuoi che parli un po’ l’inglese”, quasi a voler giustificare la scelta di entrambe le lingue. Tra le altre cover di brani del quartetto di Liverpool possiamo ricordare quella di “Yellow Submarine”, eseguita nel 1969 da una giovanissima Nada. Il testo (scritto per la cantante toscana dal più importante dei parolieri italiani, Giulio Rapetti alias Mogol) è semplice e spensierato come nella canzone originale e il ritornello non si discosta molto da quello dei Beatles: “noi viviamo in un bel sottomarin […] / in un giallo e bel sottomarin”. Altri artisti scelsero invece di usare testi propri: si veda per esempio “Se ritornerai” dei Camaleonti, gruppo beat italiano, uscita nel 1966 come rivisitazione di “Norwegian Wood”, altro classico dei Beatles.

Molte altre celeberrime canzoni dell’epoca vennero adattate in italiano: possiamo qui menzionare “Stivaletti rossi” di Dalida, cover di “These Boots Are Made for Walking” di Nancy Sinatra o “Sono bugiarda” di Caterina Caselli, ovvero “I’m a Believer” di Neil Diamond. In quest’ultimo caso il testo è abbastanza fedele all’originale, a parte il ritornello (che cambia “credo [nell’amore]” in “sono bugiarda”). Anche due grandi classici del rock sinfonico della seconda metà degli anni Sessanta, “A Whiter Shade of Pale” dei Procol Harum e “Nights in White Satin” dei Moody Blues, vennero eseguiti in italiano, rispettivamente dai Dik Dik (col titolo “Senza luce”) e dai Nomadi (“Ho difeso il mio amore”). Capitavano anche cover “non ufficiali”: ad esempio il brano “Pietre” di Gian Pieretti, peraltro dal testo molto bello, è fin troppo simile a “Rainy Day Women #12 & 35” di Bob Dylan, mentre “Chi ce l’ha con me” di Adriano Celentano è di fatto un rifacimento di “We Say Yeah” di Cliff Richard.

Ovviamente esistono anche esempi di cover molto più recenti: uno dei classici di Vasco Rossi, “Gli spari sopra”, uscito nel 1993, è in realtà una rivisitazione della canzone “Celebrate” degli An Emotional Fish, un poco noto gruppo irlandese. La genesi del titolo italiano è sorprendentemente semplice: il ritornello “(non) sorridete, gli spari sopra sono per voi” è nato per una semplice assonanza con “celebrate, this party’s over, I’m going home”. Il testo nel suo insieme ha qualche somiglianza con l’originale ma trasmette molta più rabbia e rappresenta una critica dura e sarcastica della società e della politica italiana. Nel 1994 invece è uscito l’album di un altro noto artista rock italiano, Luciano Ligabue, intitolato “A che ora è la fine del mondo?”. Il brano omonimo è una cover di “It’s the End of the World as We Know It (And I Feel Fine)” del trio americano R.E.M., un gruppo quindi tutt’altro che di nicchia. La versione di Ligabue, con un testo fortemente satirico sull’onnipresenza della televisione in Italia, è riuscita a diventare uno dei classici del musicista emiliano e ancora oggi viene regolarmente eseguita dal vivo.

Tomasz Skocki, autore dell’articolo

Oggi non è più così comune che canzoni ben note vengano reinterpretate in italiano. Il rischio è quello di scivolare nel kitsch, oltretutto scontentando i fan di artisti e band di culto. Un esempio non recentissimo, essendo del 2001, ma decisamente famigerato è “E chi se ne frega” di Marco Masini, cover di “Nothing Else Matters” dei Metallica, mentre lo stesso Vasco Rossi ha inciso nel 2009 la canzone “Ad ogni costo”, una rivisitazione nientemeno che di “Creep” dei Radiohead. Questi brani non sono per forza pessimi, ma per i cultori della musica rock sfiorano comunque il sacrilegio. Eppure, inutile nasconderlo, le cover “trash” di canzoni eccellenti hanno una lunga tradizione: il brano di Nino D’Angelo intitolato “Gesù Crì” (chiaramente una forma troncata di “Gesù Cristo”), del 1989, non è altro che “Let It Be” dei Beatles, trasformato in una sorta di pacchiana preghiera in dialetto napoletano.

[Ringrazio Gaia Bisignano per l’aiuto e i suggerimenti.]