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Il soggiorno romano della regina Maria Casimira d’Arquien Sobieska

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Maria Kazimiera d’Arquien Sobieska, Jacques Blondeau, 1684- 1696, Biblioteca Nazionale di Varsavia [Polonia]

traduzione it: Maciej Wiliński

La regina polacca Maria Casimira d’Arquien Sobieska lasciò la Polonia nel 1698 in seguito alla perdita delle elezioni che privò il suo figlio primogenito Giacomo di ogni possibilità di ottenere la corona reale. Il caos politico scatenato dal mancato riconoscimento della maestà di Federico Augusto I, Elettore di Sassonia, da parte dei sostenitori della candidatura del duca francese Francesco Luigi di Borbone-Conti, accelerò la sua decisione di lasciare il Paese. Tale decisione, però, richiedeva il consenso del Sejm e l’assicurazione delle rendite e obbligazioni della vedova del re Giovanni III. L’invito rivolto da papa Innocenzo XII alla regina a partecipare alle celebrazioni del Giubileo straordinario del 1700 divenne un comodo pretesto. Tuttavia, la regina, politicamente attiva, non voleva essere privata di una vera influenza e non si accontentava del suo status di magnate, come lei stessa suggerì più volte nelle lettere: “È necessario che io mantenga la mia posizione di regina con la stessa dignità, come all’inizio, e per questo ho solo le mie proprietà […] sono sempre la stessa regina ”.

Il viaggio della regina a Roma iniziò il 2 ottobre 1698 con la benedizione impartita nella chiesa domenicana di Jaworów. Maria Casimira intraprese il viaggio con un corteo numeroso e abbondante. Attraversando Lwów, Przemyśl, Wysock, Przeworsk, Łańcut, Rzeszów, Tarnów, Dunajec, Szczepanów e Tyniec, la regina raggiunse Cracovia alla fine di ottobre. Il 29 ottobre, il corteo lasciò i confini della Polonia ed entrò nella Slesia imperiale, proseguendo per l’Italia via Opava, Olomouc, Reichenhall e il Trentino. Il percorso continuò da Venezia passando per Ferrara, Modena, Bologna e Ancona fino a Loreto, dove, come promesso, la regina si sarebbe recata in pellegrinaggio al santuario mariano.

La richiesta della regina di rimanere in incognito fu rapidamente respinta dagli ospiti. Quando uno dei suoi servitori, Jan Kosmowski, si recò a Verona per monitorare i preparativi per l’accoglienza della regina, divenne evidente che la città si stava preparando per una grande festa. Lo dimostrarono la costruzione di porte trionfali, la decorazione delle finestre delle case con ricchi arazzi e ghirlande di fiori. Maria Casimira mantenne dunque una parvenza di identità, ma lo fece solo simbolicamente, per rimanere coerente con la decisione presa in precedenza. Può darsi che la volontà di celarsi sotto il nome di contessa “de Jaworów” e rimanere in incognito fosse dovuto alla sua riluttanza a sostenere i possibili costi di rappresentanza, a investire in ulteriori costumi sfarzosi per sé e per i suoi cortigiani, in carrozze decorative e in oggetti che ormai possedeva. Lo status di incognito garantiva inoltre l’inviolabilità e permetteva una discreta penetrazione nella società della corte per conoscere le persone che componevano l’entourage del sovrano e le relazioni tra di loro. Maria Casimira era anche incerta se sarebbe stata trattata come una sovrana presso le corti principesche a causa del fatto che il re polacco veniva scelto per elezione. Come affermò la stessa regina: “Cosa c’entra il fatto che io sia cognito con il fatto che si commettano degli errori? […] Inoltre, l’incognito aiuta in tutto. Si cessa di essere un principe polacco quando non si usa il proprio nome e si fa sedere il proprio servitore nel posto più importante durante un viaggio in carrozza”.

Intanto, papa Innocenzo XII si stava impegnando per creare delle regole di cerimoniale che permettessero a Maria Casimira di essere accolta degnamente al soglio apostolico. Allo stesso tempo, Pompeo Scarlatti, residente bavarese a Roma e consigliere della regina, stava determinando il luogo della sua permanenza. Il papa aveva proposto un castello a Bracciano, vicino a Viterbo, come residenza, ma inaspettatamente suo nipote, il duca Livio Odescalchi, si offrì di ospitare la regina. Nel Palazzo Odescalchi le mise a disposizione le stanze un tempo appartenute alla regina svedese Cristina, decorate con dipinti, sculture e oggetti preziosi. Così si stabilì un legame storico tra le due regine, sebbene diverse per origine e status.

Palazzo Zuccari a Roma, la sede della regina Maria Kazimiera d’Arquien Sobieska dal 1704 al 1714, fot. J. Pietrzak

La permanenza della regina sul Tevere cominciò con un’udienza ufficiale alla corte papale, preceduta da un ingresso trionfale, che ebbe luogo il 21 giugno 1699. Partendo da Porta Flaminia e da Piazza del Popolo, il corteo composto da cinque carrozze guidate da schiere di cortigiani e da una guardia di valletti in esotici costumi orientali giunse al Quirinale. Lì l’esercito pontificio presentò le armi alla regina e il maestro di stalla papale Giuseppe Lotario Conti, duca di Poli, la condusse fino ai gradini dello scalone, dove il ruolo di accompagnatore fu assunto dal duca di Colonna, che, assieme ad arcivescovi, vescovi e protonotari, scortò la regina fino alla sala delle udienze, dove l’attendeva papa Innocenzo XII. La regina si avvicinò al trono e baciò umilmente i piedi del Santo Padre. Successivamente i due conversarono tra loro, con la mediazione di padre Jan Kurdwanowski. Al termine della conversazione, il papa impartì la benedizione ai cortigiani di Maria Casimira. Dal Palazzo del Quirinale, il corteo si recò nella Basilica di San Pietro per ricevere la comunione e pregare sulla tomba dell’Apostolo. Altrettanto dignitosa fu l’udienza concessa alla regina da Clemente XI circondato da senatori romani in Campidoglio l’8 aprile 1701. La regina, a sua volta, diede udienza a illustri ospiti e membri della Curia romana in una sala appositamente allestita nel Palazzo Odescalchi.

Il soggiorno romano di Maria Casimira, durato quasi quindici anni, fu un periodo pieno di eventi che permisero alla regina di affermare sistematicamente la sua posizione dominante. Non c’è dubbio che ella abbia basato la sua reputazione sulla memoria del defunto marito Giovanni III, difensore della cristianità e comandante in capo della campagna di Vienna. Questo si manifestò non solo nella commissione di opere musicali sul tema dell’assedio di Vienna, ma anche nell’organizzazione di celebrazioni annuali della Vittoria. In questa occasione, il 12 settembre, la regina ordinò di addobbare il suo palazzo, di illuminarlo con torce o di organizzare uno spettacolo di fuochi d’artificio. Tali celebrazioni furono anche accompagnate da festeggiamenti tenuti nella Chiesa di San Stanislao a Roma, che, eccezionalmente nel 1702, furono presieduti da papa Clemente XI. La testimonianza della grande venerazione del marito divennero i monumenti che a tutt’oggi si possono ammirare durante le visite alla Città Eterna. La memoria della Vittoria di Vienna è immortalata da una lapide incastonata nel Palazzo Capitolino e da una meridiana nella chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, costruita nel 1702.

Lo stemma della regina Maria Kazimiera sopra il portone principale del Palazzo Zuccari, fot. J. Pietrzak

La vita quotidiana della regina si incentrò su attività culturali, viaggi e manifestazioni di religiosità. Il cardinale Pietro Ottoboni, vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, introdusse la regina nel mondo culturale romano dell’Accademia Arcadica e le infuse l’amore per la musica e i drammi teatrali. Egli stesso disponeva di una grande cappella e di enormi risorse finanziarie, che utilizzava per commissionare opere liriche. La regina era l’ospite principale del Palazzo della Cancelleria e del Collegio Nazareno per oratori e opere teatrali. Nel Palazzo Zuccari, sua residenza permanente dal 1702, Maria Casimira preparava spettacoli teatrali e rappresentazioni di opere occasionali con contenuti che celebravano il marito e rafforzavano lo splendore della famiglia Sobieski. In concorrenza con i teatri del cardinale Ottoboni e del duca Francesco Maria Ruspoli, la regina offriva al pubblico opere note come drammi per musica, il cui contenuto fu creato dai librettisti e segretari Carlo Sigismondo Capece, Giacomo Buonaccorsi e Giovanni Domenico Piola, con musiche composte da Alessandro e Domenico Scarlatti e dal liutista Sylvius Leopold Weiss. I libretti degli otto drammi per musica e le partiture di singole arie, serenate e oratori sono noti ancora oggi. L’ambientazione musicale delle opere veniva completata dalle decorazioni sceniche disegnate da Filippo Juvarra a partire dal 1710, che in seguito fu impiegato alla corte di Torino come architetto principesco. Tipicamente, il luogo di rappresentazione delle opere era un ponte di legno sulla via Felice (oggi via Sistina), noto come Arco della Regina, che collegava il terzo piano del Palazzo Zuccari e la Casa Stefanoni, dove risiedeva il padre della regina, Henri de la Grange d’Arquien. Proprio dal livello del ponte scorrevano nelle orecchie del pubblico le arie eseguite dai magnifici cantanti alle dipendenze della regina, tra cui Anna Maria Giusti, detta la Romanina, Maria Dominica Pini, Caterina Lelli, Giovanna Albertini, detta la Reggiana, e i castrati Giuseppe Luparini-Beccari “della Regina” e Pippo della Grance.

Durante la permanenza, la regina compì numerosi viaggi a Roma e nei dintorni della penisola italiana. Inizialmente veniva accompagnata dai suoi cortigiani in brevi passeggiate nella Città Eterna e, come raccontò uno dei suoi ufficiali, Jan Kosmowski, amava ammirare le antiche rovine. D’estate, desiderosa di sfuggire dal caldo torrido di Roma, Maria Casimira si recava nelle ville di Frascati, Tivoli, Nettuno e talvolta al Castello di Palo, di proprietà del duca Livio Odescalchi. In due occasioni, nel 1699 e nel 1702, la regina visitò Napoli, dove partecipò a cerimonie in onore di San Gennaro e assistette al miracolo della trasformazione del sangue coagulato in sostanza liquida, considerato un segno di grazia e di protezione del patrono celeste sulla città. Di grande interesse furono anche le spedizioni intraprese nel 1704, quando la vedova di Giovanni III si recò a Loreto e poi a Venezia per incontrare la figlia dell’Elettore di Baviera, Teresa Cunegonda Sobieska-Wittelsbach. In questo modo, la regina cercò di prevenire un attacco alla Baviera da parte delle truppe imperiali e di fare appello all’imperatore Leopoldo I per ottenere aiuto nella liberazione dei suoi figli, i principi Giacomo e Alessandro, dalla prigionia sassone. Nel 1707, invece, Maria Casimira giunse a Bari, dove rese omaggio a Bona Sforza, sua predecessora, davanti alla lapide nella Cattedrale di San Nicola.

La regina era estremamente pia e il clima religioso di Roma la spingeva a diverse forme di devozione. Veniva anche coinvolta in fondazioni monastiche, come dimostra il convento di monache benedettine dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento, importato dalla Francia nel 1702 e allestito nel palazzo di Trinità dei Monti. La regina desiderava evitare pubblicità, ma il suo soggiorno attirò fin dall’inizio l’ammirazione del popolo romano, che riconobbe la sua pietà, durante le sue visite alle chiese, tra cui la Basilica dei Dodici Apostoli, San Pietro in Vincoli, San Pietro in Montorio, Santa Maria in Via Lata, Santa Maria Nuova e Santa Maria in Portico. Maria Casimira espresse il suo attaccamento alla Polonia e alle questioni legate al Paese pregando sulla tomba di Stanislao Kostka, allora beato.

Tempietto di Maria Kazimiera d’Arquien Sobieska, Francesco Juvarra, 1711, Francesca Curti, Lothar Sicke, Dokumente zur Geschichte des Palazzo Zuccari 1578–1904, Roma 2013

Durante il suo soggiorno a Roma, Maria Casimira non rinunciò a tentare di imporre la sua volontà politica e non si sentì una figura relegata, dipendente dalla volontà del papa. Dal momento del suo ingresso, attraverso la partecipazione alle cerimonie, ai rapporti con i vari gruppi sociali, cercò di identificarsi con la regina Cristina. Si può supporre che tale comportamento non avrebbe avuto effetti negativi, se non fosse stato per l’emotività e l’esaltazione con cui la regina si rapportava ai suoi benefattori. I suoi tentativi di influenzare la politica papale e il suo coinvolgimento nell’alternare il sostegno all’Impero e alla Francia, a seconda del mutare delle azioni politiche nei confronti della famiglia Sobieski e degli insediamenti militari nel teatro di guerra per la successione spagnola, la esposero a critiche e la condannarono a trattamenti sgradevoli. Già nel 1710, dopo una discussione con Clemente XI, la regina minacciò di partire per la Francia. Mise in pratica le sue minacce quattro anni dopo quando, con il pretesto di una convalescenza, ottenne da Luigi XIV il permesso di recarsi a Marsiglia e poi a Blois.

La voce più carismatica d’Italia

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foto: Gianfranco Tagliapietra

traduzione it: Katarzyna Lewandowska

Lo scorso 6 settembre è stato il sedicesimo anniversario della morte di una delle voci più potenti al mondo: Luciano Pavarotti, che ha ottenuto tutto ciò che poteva e anche di più, passando dall’opera alla musica popolare. Una grande voce nata a Modena.

Federico Fellini, il grande mago del cinema e ritrattista del sogno italiano, diceva che tutto prende forma nell’infanzia. Luciano Pavarotti ha aiutato l’opera a raggiungere luoghi precedentemente sconosciuti. È stato un grande diffusore del ricco patrimonio dell’opera italiana, che ha portato negli angoli più remoti del mondo attraverso le sue apparizioni televisive e esibendosi in immensi stadi stracolmi. È uno dei più grandi cantanti della storia, specializzato nel repertorio del belcanto, in particolare delle opere di Bellini, Donizetti, Rossini e Verdi. Ha conquistato tutti i possibili palcoscenici operistici del mondo, e tra le star della musica popolare che sono state al suo fianco si possono citare Celine Dion, Mariah Carey, Sting, Elton John, Grace Jones, Erik Clapton e James Brown. Vi racconto com’è iniziata la storia di uno dei sogni più belli del mondo, che scorre sulle note del “Nessun dorma” di Puccini.

Luciano Pavarotti nacque, nel bel mezzo del regime di Benito Mussolini, a Modena in Emilia-Romagna, in una piccola famiglia, piuttosto singolare per quei tempi. Abitava in un piccolo caseggiato in periferia con i genitori, la sorella Gabriella di cinque anni più giovane, la nonna e il nonno. Dietro la sua casa si estendevano campi e foreste. Nacque il 12 ottobre 1935, poco dopo la morte della zia Lucia, sorella della madre, da cui ha ereditato il nome Luciano. Come ha poi ricordato nelle interviste, la sua nascita ha segnato la fine del lutto e della tristezza che da tempo attanagliavano la casa. Luciano era il figlio prediletto, perciò gli era concesso più degli altri bambini. Fu anche il primo ragazzo a nascere nel caseggiato, diventando subito popolare.

Suo padre Fernando era un fornaio che faceva il pane per i tedeschi durante la guerra. La vita trascorreva modesta ma dignitosa, senza povertà né ricchezza. “Avevamo tanto, quanto serviva per vivere”, ha confessato nelle interviste. Non possedevano la macchina, e la radio arrivò molto tempo dopo che era diventata un elemento comune in ogni casa. Senza radio e musica non si poteva immaginare la vita, mentre la mancanza della macchina era accettabile. Il mezzo di trasporto per tutta la famiglia era il motorino di suo padre. La madre del futuro tenore era un’amante della musica. Diceva che sebbene la voce di Luciano fosse stata ereditata da suo padre, c’era però il suo cuore e il suo amore per la musica. La madre di Pavarotti, Adele Venturi, oltre a occuparsi della casa, lavorava duramente in una fabbrica di sigarette che le limitava il tempo con i figli. Non aveva tempo per dare un’educazione completa, quindi quando trovò il tempo per loro, lo riempì di musica, commossa dalle arie verdiane. Nella formazione di Pavarotti la figura più importante è stata sua nonna Giulia, che il piccolo Luciano adorava e ammirava moltissimo per la sua forza e per il rispetto universale che tutti nutrivano per lei. Era sua nonna che aveva l’ultima parola su tutte le questioni, ma nonostante il suo carattere forte, trattava il nipote con leggerezza, come “un piccolo animale selvatico, così caro, delicato e dotato di un’anima”.

Il mondo di Luciano finiva sulla via principale della città, a poche case da dove abitava, ma la sua fantasia era sconfinata e sempre in contatto con la natura. Da bambino gli piaceva cacciare rane e lucertole e passava ore a saltare con i suoi amici più piccoli sugli alberi che crescevano intorno alla casa. Amava ammirare e osservare la natura, in particolare gli animali. A nove anni li vide “fare l’amore” per la prima volta, fatto che lo scioccò, come avesse scoperto lo spazio. Uno spazio brutalmente interrotto dalla guerra.

La guerra fu indubbiamente l’evento più drammatico dell’infanzia di Pavarotti, anche se inizialmente ne era ignaro. La vita a Modena nei primi mesi di guerra fu relativamente tranquilla. Fu solo quando gli americani e gli inglesi iniziarono a bombardare la città che il piccolo Luciano si rese conto di cosa fosse questo gioco innocente con le pistole che faceva con i suoi amici in cortile. Il bombardamento della città, dovuto ai suoi numerosi impianti industriali, la rese pericolosa e la famiglia si trasferì per qualche tempo nei dintorni di Napoli. La più sanguinosa repressione nella regione modenese avvenne a soli venticinque miglia da dove abitava la famiglia Pavarotti. Nella città di Marzabotto furono radunati e fucilati 1830 abitanti, persone indifese, innocenti, civili, tra i quali molti amici e vicini di Luciano. Un giorno, il ragazzo non se ne accorse e calpestò un vicino morto che giaceva per strada. Per un bambino di nove anni, tale esperienza fu un incubo.

Nei ricordi di Luciano del periodo bellico c’è un unico ricordo positivo, il lavoro nei campi, che lui amava. A parte il trasferimento successivo da Modena, le loro vite erano relativamente sicure. I giorni erano sorprendentemente calmi, solo le notti ricordavano che c’era una guerra nelle vicinanze. Non si sentivano soltanto i rumori degli spari, a casa Pavarotti arrivavano anche i soldati feriti e assetati d’acqua, e spesso subito dopo arrivavano i tedeschi a chiedere informazioni. Ma la famiglia Pavarotti poteva sentirsi più al sicuro rispetto ad altri. In primo luogo perché Fernando faceva il pane per i soldati tedeschi, in secondo luogo, il nonno lavorava all’Accademia Militare e portava a casa tutto ciò di cui i soldati non avevano bisogno o che non mangiavano. Quindi avevano le due cose più preziose: il pane e il sale. Soprattutto il sale era prezioso e permetteva lo scambio, per mezzo chilo di sale si potevano comprare due chilogrammi di zucchero o un litro di olio d’oliva.

L’avventura canora del futuro tenore iniziò con l’iscrizione al coro della chiesa, di cui faceva parte anche il padre. La sera andavano insieme a cantare musiche di vari compositori durante i vespri. Uno degli eventi più importanti nella vita del piccolo Luciano fu l’incontro con Beniamino Gigli, che a quel tempo era uno dei tenori più famosi al mondo. Pavarotti, dopo aver saputo dell’arrivo del suo idolo a Modena, si recò a teatro durante le prove per ammirare il grande Gigli, un sessantenne ancora in ottima forma. Dopo un’ora di canto, si avvicinò al piccolo Luciano, il quale, incantato, gli confessò di voler diventare anche lui un tenore, Gigli gli accarezzò la testa e gli disse: “Bravo, ragazzo mio! Ma ricordati che devi imparare tutta la vita. Mi hai appena sentito praticare”. Questo incontro segnò fortemente Pavarotti, che si immerse ancora di più nel mondo della musica. Ascoltava dischi in vinile di famosi tenori praticamente senza sosta, indirizzando inconsciamente il suo destino all’età di dodici anni.

La carriera di Luciano Pavarotti è materiale per un articolo diverso. La storia di un uomo che ha attraversato tutti i confini musicali. Vale la pena ricordare, però, che questo ragazzo modenese, che giocava ad acchiappare lucertole, iniziò la sua carriera come tenore in piccoli teatri d’opera regionali italiani, debuttando nel ruolo di Rodolfo ne “La bohème” al Teatro Municipale di Reggio Emilia nell’aprile del 1961. Dopo i numerosi successi in Europa arrivò il momento di andare negli Stati Uniti. Il 17 febbraio 1972 si esibì nell’opera “La fille du régiment” al Metropolitan Opera di New York, in cui fece impazzire il pubblico con i suoi acuti fatti senza sforzo in una delle arie caratteristiche dell’opera. Nel 1990, la sua interpretazione dell’aria “Nessun dorma”, dalla “Turandot” di Giacomo Puccini, fu scelta quale colonna sonora per la copertura della BBC della Coppa del Mondo FIFA 1990 in Italia. L’aria è così diventata una hit pop, diventando la colonna sonora dei Mondiali di Calcio. Successivamente Luciano ha realizzato il primo concerto con il progetto Three Tenors, che si è svolto alla vigilia della finale dei Mondiali FIFA 1990 nelle antiche Terme di Caracalla a Roma, con la partecipazione dei tenori Plácido Domingo e José Carreras e il direttore d’orchestra Zubin Mehta.

Un altro sorprendente e rivoluzionario risultato è stata la registrazione dell’album “Carreras Domingo Pavarotti in Concert” dei tre tenori, nominato per il Grammy Award nella categoria “album dell’anno”, un evento senza precedenti. È l’album di musica classica più venduto di tutti i tempi e ha portato a un cambiamento nel modo in cui l’industria musicale commercializza la musica classica. Attraverso la collaborazione dei tenori, Pavarotti ha raggiunto luoghi dove nessuno del mondo della lirica, nemmeno l’adorata Maria Callas, era mai giunto prima. Approfittando del suo successo nella musica pop nel 1995 registrò la canzone “Sarajevo Girl” con la rock band irlandese degli U2. Questo fu l’inizio dei duetti che sarebbero diventati un elemento importante della carriera di Pavarotti fino alla sua morte, con tra gli altri: Spice Girls, Celine Dion, Mariah Carey, James Brown, Erik Clapton, Deep Purple, Queen, Bon Jovi e Sheryl Crowe. Nel 1998, Luciano ha ricevuto il Grammy Legend Award. Fino ad allora, solo altri 11 artisti avevano ricevuto lo stesso premio, inclusi Billy Joel, Liza Minelli e Michael Jackson. Pavarotti era, è e sarà la voce più bella d’Italia, che risuona ancora in tutto il mondo.

Sciabola, mazurka, polonaise

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Parlando delle etimologie delle parole che si usano sia in polacco sia in italiano, quasi sempre si tratta di vocaboli di provenienza greca o latina e che sono entrate nella lingua polacca o direttamente dal latino o attraverso una lingua neolatina come ovviamente l’italiano o anche molto spesso il francese. Le parole che invece dal polacco entrano nella lingua italiana sono pochissime e la loro etimologia è o incerta o, anche se provengono dal polacco, hanno un’origine diversa, ad esempio tedesca o turca.

Sciabola

Le parole che vengono prestate dalle altre lingue spesso riguardano cose inventate in una regione specifica oppure elementi caratteristici per certe nazioni e per cui sono divenute famose. La sciabola, probabilmente l’arma più popolare tra i nobili polacchi del Seicento e non solo, è divenuta un vero simbolo della nobiltà polacca e fin ad oggi è sempre usata dall’esercito polacco come un elemento cerimoniale in alcune occasioni. La parola sciabola in italiano proviene dal polacco szabla, che però è d’origine ungherese. L’ungherese szablya deriverebbe a sua volta da una parola prestata da qualche lingua turca e contaminata dal verbo ungherese szab che significa tagliare. Si tratta, riassumendo, di un nome che descrive la funzione principale della sciabola, cioè tagliare.

Mazurka

Probabilmente uno dei prestiti linguistici dal polacco più sicuri è il termine musicale mazurka. La parola può derivare da Mazurka, nome etnico femminile per le abitanti della regione Masovia. È un termine un po’ confuso, perché in polacco si usa il nome maschile mazur, mentre mazurek (sempre maschile), derivato di mazur, indica una danza stilizzata. Così mazurka può derivare anche dal genitivo della parola mazurek. A parte il fatto di come mazur sia diventato mazurka in italiano, tutte le parole riguardano la regione Mazowsze, la cui radice maz– (come in mazać nel senso di sporcare) si riferisce alla originariamente grande quantità del fango e umidità in questa regione.

Polonaise

Il nome della danza nazionale polacca, cioè polonez, non solo in italiano, ma anche in polacco, proviene dal francese e significa semplicemente “(danza) polacca”. Per questo motivo anche in italiano esiste la forma “polacca” al posto del francese polonaise. Anche se al giorno d’oggi in Polonia si dice prevalentemente polonez, questo non significa che non c’è un nome nativo e tradizionale. Anzi, ci sono molte alternative, probabilmente quella che si può incontrare più spesso è chodzony ovvero che si cammina, perché la danza somiglia a una passeggiata di molte persone in fila. Vale la pena aggiungere che, anche se può sembrare lo sia, la danza polka non è d’origine polacca (in polacco polka significa donna polacca). Invece, la parola viene dal ceco půlka (metà) perché è un ballo a tempo binario.

Le città visibili: intervista con Christian Costa

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Pineta Castel Volturno

Le città visibili è una performance presentata nell’ambito del Campania Teatro Festival il 18 giugno 2023, che usa il teatro per far emergere il genius loci, le urgenze delle comunità, attraverso la voce di ragazzi che vivono nella zona di Castel Volturno. Lo spettacolo è ispirato a Le città invisibili di Calvino. La regia è dell’artista Christian Costa.

A Napoli in estate si è svolto il Campania Teatro Festival dove è stato presentato il tuo spettacolo Le città visibili. Tra incanto e disincanto. Come è nato questo progetto?

La Fondazione Campania Teatro Festival organizza da anni due eventi: il Campania Teatro Festival a giugno, e in autunno Quartieri di vita, una sezione di teatro sociale, da cui a novembre dell’anno scorso è partito il nostro progetto. L’idea era quella di affiancare 12 artisti internazionali (io rappresentavo la Polonia) con artisti che fanno teatro sul territorio campano in contesti difficili. Io ho lavorato con Antonio Nardelli sull’area di Castel Volturno: un territorio complicato, rischioso. A novembre del 2022 abbiamo fatto 10 giorni di prove con 10 ragazzi adolescenti del territorio che non avevano mai fatto teatro in vita loro. Hanno preso seriamente questo impegno, sono venuti alle prove nonostante la pioggia o i problemi personali. Come conclusione abbiamo presentato una restituzione scenica.

Come è andata?

L’abbiamo presentata a dicembre (2022) a Grazzanise, un paesino vicino a Castel Volturno, con il pubblico locale che ha reagito in maniera fortissima. Non ho voluto realizzare una rappresentazione unidirezionale in cui la gente è seduta e guarda. Il pubblico era intorno ai ragazzi, volevamo coinvolgere le persone. Questa dimensione è stata impossibile da realizzare, invece, durante il festival di giugno, perché il teatro Trianon è un classico teatro monumentale in cui tutto converge verso il palco. Abbiamo dovuto riadattare lo spettacolo per uno spazio diverso.

Come avete fatto?

Abbiamo fatto recitare i ragazzi in tutti gli spazi disponibili del teatro: per gran parte del tempo loro stavano in platea. Sul palco c’era un video. I ragazzi interagivano con le persone, si muovevano tra le poltroncine, ogni tanto salivano sul palco e ridiscendevano: lo spettacolo era molto dinamico. Il feedback del pubblico è stato molto buono anche a Napoli.

Siete partiti da Le città invisibili di Italo Calvino.

Sì, è stata una cornice. I ragazzi hanno letto il libro insieme a noi. Poi abbiamo deciso di provare a descrivere delle nostre città. In un paio di giorni i ragazzi hanno scritto i loro testi che poi sono stati recitati durante lo spettacolo: ognuno ci ha messo la propria vita. La qualità mi ha soddisfatto, alcuni testi sono veramente buoni. 

Come sono queste «città visibili»?

Sono tutte città molto cupe. C’era un grande contrasto tra l’atteggiamento generale, che era allegro, e il tono che era accusatorio o grottesco. I ragazzi hanno sottolineato in maniera molto forte le cose che non vanno sul territorio. Essenzialmente tutti i testi girano intorno al fatto che la gente è intollerante, che gli extracomunitari sono trattati male, che l’ambiente non è rispettato, che non ci sono posti dove andare. Hanno inserito tutte queste tematiche. Che loro abbiano trovato la maniera per farlo attraverso il teatro, per me, è perfetto.

Secondo te, l’arte può avere un impatto reale sulla vita?

Assolutamente sì, uso l’arte per cambiare la realtà. Lavoro prevalentemente a progetti di arte pubblica sotto di profilo relazionale: lavoro con gruppi di persone sull’identità di un territorio per capire cosa c’è di interessante nell’area e poi trovare una maniera per parlarne in modo stimolante. E di conseguenza devo occuparmi sia dei luoghi, che delle persone. Per me l’attività artistica è quello che dice Rancière: il politico è l’estetico e l’estetico è il politico; qualunque gesto estetico ha valenza politica. L’uso dei linguaggi estetici non deve essere una cosa confinata ad un teatro, una galleria, ma li si usa per intervenire sui propri luoghi. Se uno vuole che succeda, succede.

Cosa mi dici dei luoghi?

Sono abituato a lavorare sui genius loci. Perciò dall’inizio ho detto: non limitiamoci a fare delle prove chiusi in una stanza, andiamo in giro ad esplorare il territorio. Avevo già visitato la pineta di Castel Volturno qualche anno fa; era un bosco di pini che andava verso le dune per poi finire in mare. C’erano cumuli di frigoriferi, di bufale morte, era un posto complicato. Lavorando a Quartieri di Vita ho proposto di andare a vedere la pineta. E siamo rimasti scioccati, perché la pineta non c’era più. Un insetto l’ha mangiata letteralmente tutta. Sembrava il paesaggio dopo un’esplosione nucleare. Ho fatto delle foto e poi sul “Corriere della Sera” è uscito un articolo La pineta di Castel Volturno sta morendo, che ha attirato molta attenzione. Così il lavoro con i ragazzi è diventato immediatamente una denuncia sociale, senza nemmeno averlo pianificato.  

Invece dopo?

Quando siamo ritornati a maggio per il secondo spettacolo, era ancora peggio. Tutti gli alberi morti erano stati rimossi. Al posto dei pini stanno piantando cespugli e piante aromatiche, rosmarino: nascerà una sorta di area pic-nic. Invece della pineta meravigliosa che avrebbe potuto attrarre turisti, portare soldi, c’è questa devastazione totale. E la gente non se ne rende conto, è così abituata al degrado degli ambienti, che non riesce nemmeno ad immaginare come dovrebbe essere. Questa cosa è entrata nello spettacolo immediatamente.

Hai realizzato anche tanti altri progetti, tra cui Spazi Docili a Firenze, Biennale Urbana a Venezia, il progetto Isole a Palermo che consisteva nel dipingere a colori alcuni frangiflutti in cemento. Quale progetto ti è particolarmente caro?

Il progetto in Sicilia era il primo di questo tipo. Per me l’opera non sono i frangiflutti colorati, ma è tutto quello che è successo intorno: appena abbiamo cominciato a dipingerli, è venuta una marea di gente. Un’azione estetica deve essere un’occasione per far nascere delle discussioni più profonde. Per far capire che tu il tuo paesaggio non lo devi subire, lo puoi anche cambiare. Poi un ragazzino che per tutta la sua vita, aprendo  la finestra, vedeva quelle cose grigie, l’ha aperta e ha trovato un cubo rosso. Ed era raggiante, felicissimo: per me l’opera è quella, non l’oggetto fisico. Anche per Spazi docili a Firenze abbiamo fatto tantissime azioni, sempre insieme all’artista Fabrizio Ajello, che insieme a me ha concepito il progetto e ci lavora dal 2008. 

Lavori tra la Polonia e l’Italia. Come quest’esperienza si rispecchia nelle tue opere?

Mia madre è polacca, mio padre era napoletano. Sono nato in Polonia: per l’identità sono polacco, o semmai metà napoletano, metà polacco, ma italiano non tanto. Sono molto legato all’identità locale di Napoli. Il punto è essere bilingue: per me dal punto di vista linguistico c’è sempre un paragone tra il mondo italiano e il mondo polacco. Qualunque cosa può essere descritta con due approcci totalmente diversi. Mi capita spesso mischiare l’italiano e il polacco: è il desiderio di introdurre altri campi semantici nella comunicazione. Questo ovviamente si riflette anche nell’immaginario visivo. 

Rapporto WEI sulla crescita economica della Polonia, tra 10 anni nel G20

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Da 9 anni il Warsaw Enterprise Institute pubblica il “Bilancio di apertura”, una diagnosi dell’economia polacca nel contesto del recupero del ritardo con i paesi più ricchi dell’Europa occidentale, in particolare la Germania. La discussione durante la presentazione delrapporto è stata guidata dal vicepresidente del Warsaw Enterprise Institute, Sebastian Stodolak. Il nono rapporto di questa serie presentato ieri, intitolato “Bilancio di apertura 2023”, mostra che la Polonia sta raggiungendo la Germania, ma il ritmo di avvicinamento è rallentato. Le stime elaborate dal prof. Krzysztof Piech dell’Università Łazarski, autore del rapporto, mostrano che, a seconda dello scenario, la Polonia raggiungerà la Germania solo a metà degli anni ’60 del XXI secolo o già prima del 2038. Entro almeno un decennio, la Polonia potrebbe unirsi al gruppo delle 20 maggiori economie del mondo (G20), a condizione che riesca a raggiungere una crescita sostenibile e superare l’1% della sua partecipazione nel PIL globale. Nel 2032 raggiungerà il Giappone. Sfortunatamente il tasso di crescita del PIL della Polonia non è più eccezionale. Nel 2022, secondo le stime del Fondo monetario internazionale (FMI), la Polonia si classificava all’88° posto a livello mondiale, anche se l’aggiornamento dei dati ha migliorato questa posizione al 63° posto. Le previsioni del FMI per quest’anno indicano che questo potrebbe essere l’anno peggiore degli ultimi 40 anni, con una crescita di appena 0,56%, che colloca la Polonia lontano dai primi posti nella classifica mondiale. Nel 2024, con una crescita prevista del 2,28%, la Polonia sarà solo al 139° posto nel mondo, un risultato considerato modesto, soprattutto nel contesto della necessità di accorciare la distanza rispetto agli altri paesi. La situazione non è facilitata, tra le altre cose, dalla guerra oltre il confine orientale e dalle tendenze economiche globali che sono lontane dalla ripresa economica. Dopo la pandemia, la Polonia ha registrato una crescita del PIL eccezionalmente elevata, dopodiché il tasso di crescita economica è diminuito fino al primo trimestre del 2023. Negli ultimi due trimestri abbiamo notato una leggera accelerazione della crescita economica, che è influenzata dalle relazioni commerciali sempre più forti tra Polonia e Germania. La Germania è il principale partner commerciale della Polonia, rappresentando quasi il 29% delle esportazioni polacche e il 21% delle importazioni. La Polonia rafforza sistematicamente la propria posizione sul mercato tedesco. Nel 2021 la Polonia è stata il quinto partner commerciale più grande della Germania, registrando un aumento del fatturato di quasi il 19% rispetto all’anno precedente. Questo fatturato è aumentato di 20 miliardi di euro nel 2022 rispetto all’anno precedente. Le importazioni e le esportazioni in rapporto al PIL non mostrano più forti tendenze al rialzo. Dal 2021, la maggior parte dei paesi dell’UE ha registrato un aumento della quota delle esportazioni sul PIL. La Polonia ha mostrato una crescita moderata, rimanendo vicina alla media UE ma inferiore a quella della maggior parte dei nuovi Stati membri (ad eccezione di Croazia e Romania). A partire dal terzo trimestre del 2022 questa quota diminuisce leggermente. Nel 2021-2022 sono state osservate tendenze in aumento delle importazioni, che indicavano un miglioramento dell’economia, ma nel 2023 questa tendenza si è indebolita (dal terzo trimestre del 2022). Il nuovo governo avrà l’opportunità di risolvere i problemi che i suoi predecessori non sono riusciti ad affrontare, ma ciò dipende dall’introduzione di riforme adeguate. Viviamo in un’epoca di grandi trasformazioni geopolitiche. Se riusciremo a rafforzare l’economia del nostro Paese, ciò ci consentirà di sfruttare la “geoconfusione” a nostro vantaggio, in modo che la Polonia passi dall’essere un importatore di decisioni sul destino dell’UE ad un esportatore di decisioni, cioè che la sua voce sulla scena internazionale diventerà la voce di un paese co-decidente.

il vicepresidente del Warsaw Enterprise Institute Sebastian Stodolak
il prof. Krzysztof Piech

Il dorato autunno polacco: intervista a Luca Palmarini

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Il professor Luca Palmarini, ligure che vive a Cracovia da più di vent’anni, è slavista, storico, scrittore, traduttore e docente del Dipartimento di Italianistica dell’Università Jagellonica. Con la sua attività educativa e le sue pubblicazioni amplia la conoscenza reciproca tra i polacchi e gli italiani, diventando un intermediario tra le due culture.

Come è iniziata la sua fascinazione per la Polonia?

È cominciata tanto tempo fa. Erano i primi anni ’90, ero un giovane studente e viaggiavo attraverso l’Europa centro-orientale, ovvero oltre l’ex cortina di ferro. A quei tempi il fenomeno dell’Interrail, cioè un solo biglietto ferroviario per tutta l’Europa, era molto popolare tra i giovani. Al contrario dei miei amici, che volevano visitare Amsterdam, Londra o altre capitali dell’Europa occidentale, io ho scelto di andare in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia, per vedere di persona i cambiamenti epocali in atto dopo la caduta del comunismo e come la gente stava reagendo a tale situazione. Sono arrivato per la prima volta in Polonia in settembre. La prima città che ho visitato è stata Katowice, un centro urbano tipicamente industriale. Ho visto un vero “autunno dorato”, per questo tuttora associo la Polonia ai colori autunnali. Tutto era un po’ malinconico, perché stavano arrivando i primi giorni freddi. Ricordo anche un forte odore di carbone.

Come mai si è trasferito a Cracovia e ha iniziato la collaborazione con l’Università Jagellonica?

Durante il mio primo viaggio mi sono innamorato della Polonia e poi ci sono tornato ogni anno. Nel frattempo, ho iniziato i miei studi in Italia. Ho deciso di studiare slavistica, più precisamente lingue e letterature polacca e russa. Ho vinto una borsa di studio offerta dal governo polacco e ho passato alcuni mesi a Varsavia. Poi, mentre portavo a compimento la mia tesi di laurea, ho ottenuto un’altra borsa di studio e ho passato un semestre a Cracovia. Ho prolungato il mio soggiorno, mi sono laureato la tesi e ho cominciato a lavorare come insegnante di italiano. All’inizio lavoravo nell’odierno JCJ (Centro Linguistico dell’Università Jagellonica), che all’epoca si chiamava Studio per il Perfezionamento Linguistico per gli Insegnanti. Poi ho insegnato per anni presso l’Istituto Italiano di Cultura e in diverse scuole private. Solo in seguito è iniziata la mia avventura con l’Italianistica all’Università Jagellonica.

Grazie ai viaggi e agli studi slavistici, senz’altro aveva non solo la conoscenza della lingua e della cultura polacca, ma anche una certa visione della vita in Polonia. Ma c’è qualcosa che l’ha sorpresa dopo il trasferimento?  

Direi di no perché come studente di slavistica sapevo cosa mi aspettava. Però, ancora prima del trasferimento, alla fine degli anni ‘90, mi ha positivamente sorpreso l’atteggiamento della gente. Nonostante il fatto che in quegli anni la Polonia affrontava la crisi economica, i polacchi erano molto aperti e ottimisti. Mi ha colpito anche il fatto che ovunque la gente leggeva. Camminando per le strade, in particolare a Cracovia e Breslavia, ho visto tante persone che leggevano libri nei parchi o in tram. Sono stato positivamente sorpreso anche dalla grande popolarità degli scacchi. La preparazione culturale e la formazione dei polacchi mi ha impressionato molto. Vedevo quindi solo le cose positive, ma ovviamente ero e sono ancora innamorato della Polonia.

Insegna italiano agli studenti dell’Università Jagellonica e tiene corsi legati alla storia e alla cultura italiana. Cosa prova nel diffondere conoscenze sull’Italia agli studenti polacchi?

Ovviamente, Italia e Polonia sono due Paesi e due culture diverse. Spesso è difficile capire pienamente un’altra persona, anche all’interno della stessa cultura, visto che esistono microcosmi, culture regionali. Durante le lezioni vedo un forte interesse e grande simpatia per l’Italia, il che è logico nel caso degli studenti di Italianistica. La maggior parte degli studenti sa già tante cose ed è aggiornato sull’attualità italiana. Certo, uno degli scopi più importanti degli studi è imparare la lingua, però sento che gli studenti si rendono conto che la lingua da sola non basta. Sanno che bisogna conoscere la cultura per poter trasferire significati e valori da una lingua all’altra, sia parlando con un’altra persona sia traducendo un testo. Capiscono che la cultura e la lingua sono strettamente correlate, studiare Italianistica non è quindi un semplice corso di lingua.

È autore di numerose pubblicazioni, tra queste ci sono due libri a carattere divulgativo: “Polveri d’ambra”, in cui analizza le leggende dalle terre polacche, e “Nowa Huta, la città ideale”, che tratta della storia di questa città ideale socialista. Cosa l’ha ispirato a trattare questi temi?

Sono due pubblicazioni che celebrano la Polonia. È il mio modo di onorare il Paese che mi ospita. Mi sento molto bene in questo Paese e vorrei, con questi libri e con quelli su cui ora sto lavorando, contribuire a far conoscere meglio la Polonia, presentando agli italiani alcuni aspetti culturali, storici, architettonici e letterari. 

Il libro “Polveri d’ambra” raccoglie leggende delle terre polacche, aree che hanno avuto confini mutevoli e per questo sottolineo la multiculturalità della Polonia e i cambiamenti storici avvenuti nei secoli. Ovviamente non si tratta di una semplice versione italiana di alcune leggende, c’è anche un’analisi sulle loro origini. Le storie che ho scelto sono legate ai posti autentici che possiamo visitare ed esplorare più profondamente. È quindi un modo di incoraggiare i lettori a visitare la Polonia pensando alle leggende. “Polveri d’ambra” è solo l’inizio, visto che sto già raccogliendo un materiale per un altro libro dedicato a questo tema. 

 

Invito il lettore a esplorare la Polonia anche nella seconda pubblicazione, “Nowa Huta, la città ideale”. Mi interessa l’architettura, soprattutto quella del XX secolo, che purtroppo è spesso legata ai totalitarismi. Oggi in Polonia tale architettura, in parte modernista e in parte del realismo socialista, è in certa misura sgradita. Vivendo a Cracovia, ho conosciuto Nowa Huta. A mio avviso questa città è un fenomeno unico a livello mondiale. Rappresenta uno degli esempi più importanti dell’architettura del realismo socialista e allo stesso tempo una parte importante della storia dei polacchi. È una città costruita da zero, non solo per quanto riguarda l’urbanistica, ma anche socialmente. Non celebro l’architettura comunista come tale, piuttosto richiamo l’attenzione sulle persone che sono arrivate a Nowa Huta da tutta la Polonia per edificare la città e che poi hanno combattuto per la democrazia. Ricordiamo lo sciopero nel Kombinat e gli scontri contro il regime. Una città fondata dal governo comunista che poi si è ribellata contro il regime. E alla fine ha vinto!

Dice che la cosa più importante per lei sono le storie delle persone. Per raccogliere il materiale per i libri ha dovuto parlare molto con gli abitanti, anche dei momenti difficili della storia della Polonia. Che esperienza è stata?

Da quando sono arrivato in Polonia ho sempre parlato con la gente. Le persone che incontravo per strada erano spesso aperte e pronte ad aiutarmi a conoscere il loro Paese. Da un lato erano sorprese dalla mia curiosità, dall’altro fiere di ciò che mi raccontavano. Ognuna di queste persone aveva una storia unica. Mi ricordo quando all’inizio degli anni ’90 a Varsavia ho incontrato alcune persone che a quel tempo avevano già più di 80 anni e mi hanno parlato delle loro esperienze di guerra e della ricostruzione della città nel dopoguerra. Quando lavoro ad un libro la conversazione con gli abitanti è per me cruciale. Soprattutto nel caso del libro su Nowa Huta, la cui idea è nata proprio parlando con la gente della vita ai tempi del comunismo. Il punto centrale del libro è la comunità di Nowa Huta e la sua lotta contro la dittatura, quindi il dialogo con la gente è stato fondamentale per me.

Da italiano che vive in Polonia, cosa pensa delle relazioni italo-polacche?

Possiamo trovare un’infinità di esempi, nei secoli, di buone relazioni italo-polacche, e questa è un fatto che mi ha colpito profondamente; aggiungo che non sono certo l’unico ad aver notato che tra tutti i popoli slavi sono proprio i polacchi ad essere i più vicini agli italiani. Non si tratta solo del comportamento o del temperamento, ma anche dell’attività letteraria. Le differenze tra le nostre nazioni non sono così grandi come sembrano, abbiamo lingue e culture diverse ma anche tanti e forti legami storico-culturali.

Incontri con il business italiano – l’invito

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Invitiamo cordialmente per il prossimo evento della serie “Incontri con il business italiano”. Questa volta ci concentreremo sul workshop giornalistico in Polonia e in Italia, esplorando i segreti del “linguaggio giornalistico” e le metodologie di traduzione dei testi giornalistici. L’incontro avrà luogo in collaborazione con l’Istituto di Comunicazione Specialistica e Interculturale.

Sono invitati gli studenti di tutti gli anni accademici!

📆 11.01.2024
⏰ 13:00
📍 Via Dobra 55, sala 3.110, terzo piano

Carpe diem, la storia di una polacca che è andata in vacanza… e non è più tornata!

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foto: Anna Białkowska

Quando si parte per la Sicilia in auto, non si può essere sicuri di arrivare e non si sa nemmeno se si tornerà da una tale vacanza. E quindi scopriamo la storia di un viaggio pieno di sorprese: da un guasto alla macchina in Germania, a una serie di decisioni spontanee, alla gestione del vostro business online e al lavoro nelle fattorie ecologiche italiane. Si parlerà di coraggio e di ricerca della libertà, del sostegno della famiglia e degli amici e della scoperta della bellezza di una vita semplice nella campagna italiana. Anna Ewa ha condiviso con noi le sue esperienze di wwoofing e i suoi sogni di un luogo comune per i nomadi digitali. La sua storia ispira ad andare oltre la routine e a godersi la vita “giorno per giorno”.

Sei andata in vacanza… e non sei tornata! È così che dovremmo iniziare questa intervista?

È proprio così! L’anno scorso, alla fine di giugno, ho deciso di andare e tornare dalla Sicilia con la mia auto. Avevo qualche migliaio di zloty da parte, avevo preparato l’auto in modo sicuro e avevo programmato di dormire nei campeggi promettendo di tornare a settembre. Ho avvisato i miei clienti che nelle prossime settimane avrei lavorato a distanza per loro e sono partita per la Germania… senza un piano. Evviva l’avventura!

Cosa è andato “storto”?

Può essere difficile da credere, ma già nella prima settimana del mio viaggio avevo problemi con l’auto! Come potete immaginare, la battaglia con l’assistenza autorizzata tedesca è durata molte settimane e sono stata costretta ad accamparmi. A quel punto avevo già capito l’importanza dell’accesso WiFi: nel corso di un mese e mezzo avevo speso quasi 1.000 zloty solo per il roaming! Sono state settimane difficili, in cui lottavo contro la delusione e la perdita di motivazione. Tuttavia, quando l’auto era pronta, a metà agosto, ho deciso che non avrei mollato e sono partita senza un piano concreto per il mio ritorno.

E l’appartamento, la famiglia, gli amici e i clienti? Come hanno reagito?

A luglio, preoccupata per i costi e per il lungo viaggio, ho disdetto l’affitto dell’appartamento a Varsavia. Tutte le mie cose sono state impacchettate da mio fratello in un magazzino. Si potrebbe dire che questo è stato il primo passo per vivere in movimento e diventare un vero nomade digitale! Da allora, ho provato una sensazione di leggerezza e libertà e ho persino iniziato a sentirmi a mio agio con il solo bagaglio della mia auto. Ammiro molto le persone che viaggiano solo con uno zaino, ma io non sono ancora a quel punto. Avevo molta paura di parlare a mio padre dell’idea, ma quando ha visto quanto ero felice di essere fuori città, senza un piano e in pace con me stessa, è diventato per me un grande sostegno. E gli amici? Hanno sempre saputo che avevo difficoltà a stare ferma! Molti di loro hanno scritto che ero avventurosa e hanno seguito le mie avventure su Instagram. Siamo sempre in contatto. Per quanto riguarda il lavoro, ancora oggi collaboro con alcuni clienti e vengo a trovarli quando sono a Varsavia. Credo che la cosa più difficile per me non sia stata misurarmi con le aspettative degli altri, ma con le mie stesse paure, la solitudine e la risposta alla domanda: “Cosa sto facendo con la mia vita?”.

Cosa ti ha motivato all’inizio del tuo percorso?

All’epoca ero una ambasciatrice del programma Skills for Tomorrow di Google. Gli spettacoli dal vivo organizzati con me sono stati seguiti da diverse migliaia di giovani! Naturalmente, oltre al sostegno della famiglia e degli amici, sono stati questi “caffè della domenica” a darmi la motivazione più forte. Nel giro di poco tempo, sul mio profilo Instagram (glinda.molinda) c’erano giovani che si ispiravano alla mia storia: volevano imparare il marketing online e avere la possibilità di vivere una vita e avventure simili. Nel mio caso, il fattore chiave è stato che, pur avendo studiato geografia, lavoravo nel marketing da diversi anni e avevo già le competenze per gestire la mia attività anche dall’estero.

In estate hai vissuto in tenda, poi hai trovato un bnb già in Italia. Ma non è tutto?

Esattamente! Dopo essere arrivata in Italia, sono finita in un luogo dimenticato dai turisti: le pittoresche colline della Val Tidone, vicino a Piacenza. Qui ho vissuto tante avventure ed è senza dubbio materiale per un libro in stile “Mangia, prega e ama!”. Ho alloggiato in un antico bnb in pietra fino alla fine dell’anno e poi mi sono spostata in Trentino e sui monti Lessini, scegliendo ogni volta camere molto, molto economiche in bnb insoliti (350-450 euro al mese). Durante l’inverno, ho iniziato a ricordare i bei tempi della Val Tidone, quando aiutavo una famiglia italiana che avevo conosciuto qui con la vendemmia. Sempre in quel periodo, uno dei miei nuovi clienti era una coppia che gestiva un’azienda agricola di permacultura e insegnava a costruire comunità. Tutti questi temi erano sempre più con me. Volevo trascorrere le mie giornate nella natura, muovermi di più e imparare nuove abilità, ma anche avere il tempo per gestire la mia attività. È stato allora che ho deciso di diventare un wwoofer!

Cosa comporta questo lavoro e quali sono le attitudini necessarie per svolgerlo?

Si può descrivere più semplicemente come eco-volontariato. In cambio di 4-5 ore di lavoro al giorno nelle fattorie, si riceve vitto e alloggio. Tutte le eco-fattorie italiane possono essere consultate sulla piattaforma wwoof.it, basta candidarsi nella data prescelta e concordare i dettagli. Finora ho fatto quattro viaggi di volontariato di diverse settimane. Ho raccolto lavanda, dato da mangiare alle capre, piantato lattuga, lignificato pomodori, piantato un nuovo vigneto, lavato piatti in un ristorante, diserbato aiuole, innaffiato fiori, fatto creme per il corpo, liquori di ciliegie e marmellate di ribes, ma anche pulito, cucinato e, quando potevo, ho preparato “pane polacco” e fatto i pierogi! Dedicavo alla fattoria le mattine e lavoravo “per conto mio” la maggior parte dei pomeriggi e delle sere. Devo ammettere che questo non è idilliaco, soprattutto a lungo termine. La considero anche una strada accidentata e a volte difficile, ma è la migliore e più veloce per scoprire se stessi.

Qual è la cosa più speciale che hai scoperto in Italia?

Per me la cosa più importante è sempre stata conoscere la “vera” vita italiana. Vado raramente nelle grandi città ed evito consapevolmente le attrazioni turistiche. Sono stata a Milano, Venezia, Verona, Genova e Bologna, ma sono la campagna italiana e le piccole città ad avermi rubato il cuore. Non riesco ancora a fare a meno del Nord Italia! Solo a ottobre visiterò l’Umbria, come contadina che raccoglie olive! Sul mio Instagram mostro le bellezze naturali, ovviamente italiane, il cibo locale e le meraviglie turistiche, ma anche quelle di tutti i giorni, come le albe, gli edifici antichi, i negozietti o i gatti. Contrariamente a quanto pensano i miei amici, non mi sento in vacanza permanente, ma al contrario. Cerco di concentrarmi sui piaceri di una vita semplice e di notare tutti i momenti che compongono una storia colorata e autentica. Ogni giorno con gratitudine, ma non senza preoccupazioni.

Qualche consiglio per i nomadi digitali in erba?

È bene essere realisti. Non tutti i nomadi digitali lavorano da un’amaca. Pensate a voi stessi: avete bisogno di un posto dove collegare il caricabatterie, e quando lavorate per diverse ore avete bisogno di un tavolo o di una sedia. È anche importante che ci sia ombra, in modo da poter vedere tutto ciò che appare sullo schermo, e che ci sia silenzio: in una fattoria stavo lavorando a un tavolo in un ristorante, e poco prima della mia chiamata, quando avevo già sistemato la struttura e collegato tutto, il figlio del padrone di casa e i suoi amici hanno iniziato a suonare la batteria. La chiave, ovviamente, è internet. Finora mi sono affidata a luoghi con accesso a internet o al roaming. È bene tenere presente che, per gli italiani, l’accesso a Internet non implica necessariamente un’ottima velocità e una connessione costante.

Quali obiettivi hai per i prossimi mesi? Vorresti rimanere stabilmente in Italia?

Sono costantemente alla ricerca di progetti interessanti al confine tra community building, eco-agricoltura e turismo. Di recente, ho persino scritto a WWOOF Italia, offrendo la mia consulenza in materia di marketing e promozione rivolta a persone provenienti dall’estero. D’altra parte sono tentata di vedere come funziona il wwoofing in Irlanda, Scozia o Norvegia. Mi piacerebbe partecipare alla costruzione di co-working e co-living nel nord Italia. Da qualche parte in montagna, non lontano da una grande città, in una vecchia casa di pietra, con un orto, una grande cucina, un cortile ombreggiato, camere modeste e, naturalmente, una buona rete internet.

Gazzetta Italia 102 (dicembre 2023 – gennaio 2024)

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Una meravigliosa veduta delle Langhe piemontesi apre la 102^ Gazzetta Italia. Un numero impreziosito dall’intervista all’eclettica artista italo-polacca Monika Mariotti, dall’articolo dedicato al celebre marchio di cappelli Borsalino e da una serie di stimolanti proposte di viaggio in Italia tra cui il racconto dei giri in solitaria per il Bel Paese della blogger Mirka Jeske. E per la serie Polonia da visitare segnaliamo l’articolo di Elisa Baioni sulle meraviglie naturalistiche dello Slowinski Park Narodowy. Non mancano poi le tradizionali rubriche di cucina (in particolare di Emilia Romagna, Friuli e Piemonte), benessere, motori (la storia della Lamborghini 350), letteratura, fumetti, angolo linguistico ed etimologia. Insomma correte agli Empik o scriveteci per non farvi sfuggire questo numero 102 che vi consentirà di partecipare anche ai nostri vari concorsi con premi. Buona lettura!