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Maserati Ghibli, rosa dei venti

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L’articolo è stato pubblicato sul numero 80 della Gazzetta Italia (maggio 2020)

Già gli Etruschi mettevano le rosa dei venti sulle loro carte nautiche, che mostravano le direzioni del mondo e i venti più frequenti che soffiano da queste direzioni. I cartografi medievali delle allora potenze marinare di Genova e Venezia erano campioni nel compilare precise e graficamente belle carte nautiche.

Il vento ovvero l’aria in movimento è il simbolo ideale di un’auto. Sembra che la prima auto il cui nome riferiva all’aria sia stata la Chrysler Airflow del 1934, ma il nome del vento fu dato per la prima volta alla Lincoln Zephyr nel 1936.

Devo ammettere che le aziende italiane hanno un piccolo problema nel dare un nome alle loro auto, la Fiat a volte usa nomi la “Tipo”, altri modelli nomina usando i numeri, per esempio la “500” o mescola l’uno con l’altro come nel caso di una “Seicento”. L’Alfa fa lo stesso e la Ferrari affonda in una miscela di cilindrata e abbreviazioni come 308 GTB. La situazione sembra migliore con Lancia [anche se ora l’intero marchio non è di buon auspicio] e Lamborghini, dove dopo un paio di primi modelli batezzati sempre con i numeri sono passati a… beh, nomi spagnoli. Maserati in questo contesto era da qualche parte nel mezzo, in origine chiamavano tutto usando capacità del motore o numero dei cilindri, fino a quando nel 1963 apparve la Quattroporte e ciò che ci interessa di più oggi è la Maserati Mistral. Il maestrale (anche mistral) è il vento che soffia nel sud della Francia e da lì il nome di questo nuovo modello è arrivato alla fabbrica di Modena. È stato proposto da un socio del concessionario francese Jean Thépenier e anche un amico del capo progettista Pietro Frua, il colonnello John Simone. Così è nata la tradizione di dare un nome dei venti ai nuovi modelli, anche se non a tutti. Nel 1966, al 48° Salone Internazionale dell’Automobile di Torino, apparve il secondo dei fratelli ”ventosi”, la Maserati Ghibli. Questa volta, il vento pieno di nuvole di sabbia soffia dalla Libia e fa parte del possente Scirocco, che domina sul Mar Mediterraneo. Ha il suo impatto sulle periodiche inondazioni di Venezia o sul ricoprire ad esempio le strade di Firenze di polvere rossa, che ho vissuto personalmente quando un’auto lavata alla perfezione, pronta per portarci al matrimonio il giorno dopo, al mattino assomigliava più a una duna sahariana che a una limousine lucida.

Tecnologicamente, la Ghibli non era innovativa, il telaio veniva dal modello “Mexico” o, se preferite, dal telaio accorciato ancora una volta della Quattroporte. Dalla limousine di punta stato preso anche un’ottimo, ma ormai invecchiato motore della 450S sportiva del 1956. Tuttavia è stata apportata una modifica importante: si tratta del sistema di lubrificazione a carter secco. Grazie a questa soluzione, Giorgetto Giugiaro all’epoca lavorando per Studio Ghia, è stato in grado di abbassare il più possibile la silhouette della vettura, creando una delle più belle GT di tutti i tempi. Il cofano infinitamente lungo che termina con una griglia del radiatore stretta e piatta, in pratica ha svolto anche il ruolo di paraurti anteriore probabilmente il più costoso in quel periodo. Dietro la parabezza montata in basso appariva l’interno spazioso e confortevole e l’enorme bagagliaio che completava tutto. La Maserati Ghibli aveva l’aria condizionata, vetri controllati elettricamente, servosterzo, freni a disco ventilati, e l’assemblaggio di massima qualità di lavorazione, tutti gli abbinamenti erano perfetti, lo stesso vale per la verniciatura.

Come si addice ad una vettura GT purosangue, era anche veloce, che non hanno mancato di usare gli autisti guidando sull’autostrada ”del Sole” recentemente completata [1964] con il pedale dell’acceleratore premuto fino alla fine. Potevano farlo impunemente perché i limiti di velocità sulle autostrade italiane non furono fissati per la crisi dei carburanti fino al 1973. Nei centri abitati il limite dei 50 km/h era in vigore dal 1959, ma lì più lenta si muoveva la macchina, più l’ammirazione aumentava. I cerchioni in lega leggera di Campagnolo per la prima volta usati qua da Maserati sono stati una parte importante di questo. I cerchi in lega, come le chiamiamo oggi, sono stati utilizzati per primi da Ettore Bugatti nella sua Type 35 durante la gara del Gran Premio di Lione del 3 agosto 1924. Quando la Maserati decise finalmente di introdurli, erano già nell’offerta di tutti i maggiori produttori, anche se l’Aston Martin [1969] e la Mercedes [1970] hanno aspettato più a lungo ad immetterli.

Quanto piaceva la Ghibli? lasciate che la storia del proprietario del marchio Ford lo testimoni. Nonostante il fatto che il design dell’auto fosse in conflitto con tutto ciò che i designer di Detroit proponevano all’epoca, Henry Ford II, quando la vide, inviò un’offerta a Modena per l’acquisto… dell’intera società Maserati e ancora una volta [prima c’era la Ferrari] ”fu scaricato” dagli italiani. Si è accontentato dell’acquisto dell’auto stessa, per la quale ha dovuto pagare 19.000 dollari, l’equivalente di quattro delle sue Ford.Thunderbird. La Ghibli dopo il modello 3500 GT è stata un altro successo commerciale per Maserati, alla fine degli anni ’60, insieme alla Lamborghini Miura facendo una coppia non convenzionale, come Marcello e Sofia nella versione automobilistica del ”Matrimonio all’italiana”. Il 1968 è l’anno del debutto della versione aperta di Ghibli Spider, di cui sono state prodotte solo 100 esemplari in quattro anni. Nel 1970 apparve la versione più ricercata oggi della SS [Super Sport] con un motore di 4931 cc, aumentato di soli 10 CV. In questa specifica, l’azienda ha rilasciato altre 25 unità della Ghibli Spider. La produzione della seconda generazione di Ghibli è durata sette anni, è iniziata nel 1992, e non credo sia esagerato dire che la cosa migliore di questo modello è…il suo nome.

L’ultima edizione di Maserati Ghibli è stata presentata in anteprima il 19 aprile 2014 a Shanghai nel Salone dell’Auto Asiatico. L’auto si presenta come una Quattroporte più piccola, il che non è un difetto, ma si può storcere il naso alla gamma di motori diesel offerti.

Il modello della collezione SOMA è un Minichamps del 2008 ed uno dei suoi pezzi forti. Bello l’interno, il motore, le lampade e le cromature. Peggio con la vernice, perché dopo anni, „pelle d’oca” appare lentamente su di essa. L’azienda tedesca ha anche rilasciato una versione di Spider, su cui purtroppo una volta ho chiuso un occhio, cosa che oggi non farei. Finendo sui tedeschi… quando nel mondo soffiano più di 2 mila venti, perché la Volkswagen ha insistito a copiare il nome ”Bora” usato dalla Maserati nel 1971? Questo non si sa.

Qui sotto c’è la mia rosa dei venti Maserati completa:

Anni di produzione: 1967-1972
Esemplari prodotti: 1295 pezzi in ciò 100 Spider / 225 pezzi di SS / 25 pezzi di Spider SS
Motore: V-8 90°
Cilindrata: 4719 cm3
Potenza / RPM: 330 CV / 5000
Velocità massima: 265 km/h
Accelerazione 0-100 km/h (s): 7
Numero di cambi: 5
Peso proprio: 820 kg
Lunghezza: 4590 mm
Larghezza: 1790 mm
Altezza: 1168 mm
Distanza interasse: 2550 mm

foto: Piotr Bieniek
traduzione it: Karolina Wróblewska

Vicepremier Emilewicz, dal primo luglio cadono limiti a numero passeggeri aerei

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Dal primo luglio vengono meno i limiti al numero di passeggeri che possono essere trasportati a bordo degli aerei in Polonia. Lo ha dichiarato il vicepremier e ministro dello Sviluppo polacco, Jadwiga Emilewicz. La rimozione dei limiti vale per tutti i voli, sia quelli regolari, sia i charter. La decisione attende solamente la firma del premier, Mateusz Morawiecki. Una deliberazione risalente al 29 maggio, motivata dall’epidemia di coronavirus in corso, fissava il numero massimo di passeggeri a bordo al 50 per cento della capienza del velivolo.

Con-vivere col virus

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“Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà”
Luca  9,24

Ma come, non dovevamo combattere fino in fondo questa “guerra” contro un nemico invisibile e insidioso, sino alla sua totale sconfitta, sino al suo annientamento? Una guerra che si sarebbe dovuta concludere con la nostra vittoria ? Ed invece si ha come l’impressione che si tratterà di una nuova “vittoria mutilata”. Eh, sì! Perché, dopo l’imperativo categorico del “restate a casa!”, farà presto il suo ingresso ufficiale il nuovo imperativo – che ci accompagnerà nei prossimi mesi, o forse più a lungo o forse addirittura per sempre:  “convivete col virus!”.

Dopo aver lasciato sul campo migliaia di morti per contrastare (malamente) il nemico, ora dobbiamo imparare a convivere con lui? È una guerra ben strana questa contro il virus fatta dal divano di casa o da un letto di terapia intensiva. Ma ancora più strano è ora dire che dobbiamo  imparare a convivere con il virus. Cosa vuol dire convivere con il virus? La prima e più superficiale risposta potrebbe essere che dobbiamo convivere con la Cina. Il virus è cinese e convivere con lui significa convivere con la Cina. Vuol dire, insomma, abituarsi al fatto che la Cina è diventata una potenza che occupa uno spazio geopolitico, e che può sempre diventare “virale”.

Cerchiamo però di andare più a fondo, sperando di non andare a fondo. Se c’è qualcosa che questo virus ci ha insegnato, è che siamo stati, e siamo ancora, disposti a tutto pur di mettere in salvo le nostre vite.  Ma di quali vite stiamo parlando?

Cerchiamo di spiegare il punto. Già Aristotele aveva distinto la vita come “bios” dalla vita come “zoé”. Zoé è la “nuda vita”, il semplice fatto di vivere, la vita mediante la quale siamo in vita; bios, al contrario, è la vita che viviamo, la vita qualificata dal modo con cui la viviamo: è la “condizione di vita”, il “come di una zoé”. La “quarantena” allora non rappresenta altro che questo: la rinuncia, da parte nostra, ad ogni “condizione di vita”, in nome della “nuda vita”.  Ma che cos’è questa “nuda vita”, questa vita spogliata di ogni attributo, una vita che non è nulla, se non vita? Il virus stesso è questa vita, nella sua forma estrema: una vita tanto “nuda” che neppure sappiamo se sia realmente “vivo” o no. Finto vivente, finto mortale, comunque un ospite indesiderato, un intruso. Il virus è vita? È un interrogativo a cui la scienza non ha saputo ancora rispondere. Non tutte le domande forse possono avere una risposta. “La scienza”, “i virologi” (che spettacolo questi esperti, capaci di alimentare il panico collettivo e che in fondo parlano senza sapere di cosa stiano parlando!) non sono infatti neppure in grado di dire che cosa sia un “virus”, ma sono loro ora a decidere della nostra vita e della nostra morte. Non è casuale. Sono loro infatti che per primi con le tecniche di rianimazione e del connesso trapianto di organi hanno separato ciò che nell’uomo era inseparabile: la vita meramente  fisica e la vita biografica. No, no,  la scienza e la medicina  non ci immunizzeranno da questo virus.

E allora cosa ci resta? Forse possiamo passare dalla fisica alla metafisica, o se volete alla “biologia filosofica”, in senso jonasiano. La “nuda vita” del virus – priva di metabolismo? – può anche essere non vita. Un essere privo di esistenza.  E se è vita che non è vita, allora neppure muore. Ecco, allora, perché non ci resta che con-vivere col virus.

Però ha senso conviverci ponendoci, adattandoci come abbiamo fatto finora, al suo stesso livello, nuda vita contro nuda vita? Ecco l’interrogativo esistenziale dei prossimi mesi, o forse anni. E sì, perché niente sarà come prima. Siamo partiti con il piede sbagliato riducendo tutto alla “nuda vita” e ora ci troviamo costretti a convivere con essa. Convivere con l’incubo, con il panico, con l’ossessione da virus. Fuori sì, ma con guanti e mascherine che diventeranno per sempre parte del nostro abbigliamento come le cravatte e i foulard? Impareremo a baciare con la mascherina senza il contatto delle lingue, o magari utilizzando un apposito profilattico? Gli abbracci avverranno a distanza? L’università e le scuole saranno a distanza? D’altro canto magari  felici (felici?) per il fatto di poter essere in contatto continuo su whatsapp, facebook, twitter, Instagram, vicinissimi nel mondo virtuale, ma a due metri di distanza nella realtà?

Resterebbe però da chiedersi se sia possibile costruire un “Gemeinwesen” autentico, una comunità umana, basato sulla distanza. Non sulla distanza sociale – le differenze sociali sono sempre esistite – ma sulla distanza tra le persone, tra i corpi. Guardare, sentire, ma non più toccare? Neppure sfiorare con una carezza il volto dell’altro? Eppure proprio Aristotele aveva insegnato, lui per primo, che l’unico senso senza il quale non si può vivere è proprio il tatto.

E noi stiamo andando esattamente in questa direzione. Una società senza contatti o con contatti ridotti al minimo. Questa sì che sarebbe la vittoria del virus. Convivere in questo modo col virus significa ammettere la nostra sconfitta. Lui se ne andrà per conto suo seguendo le leggi della sua natura ma avendo già modificato la nostra natura. La sicurezza starà nella distanza. E anche a distanza dei dispositivi di protezione saranno obbligatori: mascherine e guanti per tutti. La nuda vita avrà allora vinto sulle nostre abitudini, sulle nostre storie, sulle nostre vite, sulla nostra vita. Ma il non-essere dell’uomo è davvero qualcosa di più terribile del non-esserci-più in modo autentico?   Più banalmente: la sopravvivenza della nuda vita è davvero l’istanza suprema? Dal punto di vista del darwinismo sociale è certo così. Ma  questo non vale per altri punti di vista. Basti pensare a Walter Benjamin: “L’uomo non coincide in nessun modo con la nuda vita” (der Mensch fällt eben um keinen Preis zusammen mit dem blossen Leben). Tranchant. L’uomo non vive semplicemente come una pianta. E se qualche volta oggi questo succede ci troviamo di fronte ad una tragica realtà prodotta dalle tecniche di rianimazione. Ma per l’uomo non conta  solo la “nuda vita”, ciò che conta è  soprattutto la storia di una vita, la vita vivente.

In fondo, è per questo che diritti fondamentali come la libertà personale, la libertà di circolazione, le libertà religiose e persino la libertà di espressione  sono caduti uno dopo l’altro come soldati mandati al macello. Perché se ciò che conta è semplicemente “salvare” la nuda vita, allora tutto è permesso. Il limite è stato abbondantemente  superato col trattamento incivile, barbaro, privo di qualsiasi pietà, riservato ai malati contagiosi. Uomini e donne lasciati morire soli, senza che abbiano potuto neppure vedere un’ultima volta i propri congiunti e i loro cadaveri bruciati come rifiuti tossici. Parlare di diritti e di diritto ha dunque ancora un senso, in una situazione come questa? E dai diritti si è facilmente passati a mettere in discussione l’ordinamento costituzionale. Per farsi carico dell’emergenza sanitaria diritti e diritto sono stati neutralizzati, sospesi. Bastano “le grida” televisive del Capo  che anticipano i suoi atti amministrativi, volti  a salvare le “nostre vite”. Possibile che siamo arrivati ad accettare tutto questo? C’è ancora una speranza?

L’episodio – riportato dalle cronache – di un nonno di Savona che, non potendo più toccare il suo nipotino, ha preferito uccidersi, in fondo è quello di un uomo – di uno dei pochi – che ha vinto la battaglia contro il virus. Il nonno per la sua età era certo un soggetto vulnerabile, esposto più  facilmente al contagio, ma per lui c’era qualcosa di più importante persino della sua stessa persona fisica, qualcosa di più alto della sua mera sopravvivenza, per lui c’era la sua vita vissuta col nipotino e a questa non poteva e non voleva rinunciare. Soltanto sopravvivere: quella, per lui, non era più Vita.

Autore dell’articolo, Prof. Paolo Becchi

Cucina polacca: cinque cose da invidiare!

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L’articolo è stato pubblicato sul numero 65 della Gazzetta Italia (ottobre-novembre 2017)

Dicono che l’Italia sia la patria della migliore cucina. Nel nostro Paese abbiamo tutto, almeno in teoria. Le migliori materie prime, e una cultura gastronomica che affonda le radici nelle nostre tradizioni più antiche: non per niente siamo la culla della Dieta Mediterranea. 

Eppure dopo essere stata qualche giorno in visita a Varsavia, e aver mangiato cibo buonissimo preparato con gli ingredienti che in Italia sarebbero definiti “poveri”, sono tornata a casa con la triste conferma dei miei dubbi. La modernità ci sta lentamente togliendo i due fattori più importanti: il tempo e la fantasia.

Sempre di più le persone restringono la propria alimentazione a pochi ingredienti, limitati nella varietà e anche nelle preparazioni. Forse perché è più semplice, o più rassicurante. Di certo non è più veloce, perché nel dimenticatoio finiscono anche tanti cibi di rapida cottura, o addirittura le verdure che potrebbero essere consumate crude.

Sono vegana e quando mio malgrado si finisce sull’argomento, la domanda che mi viene rivolta è sempre la stessa: “ma allora cosa mangi?”

Questo accade anche perché si è persa l’abitudine di consumare cereali, legumi, frutta secca e tantissimi tipi di verdura, dando invece la preferenza a cibi più moderni e purtroppo anche più calorici e meno nutrienti. Ora per fortuna qualche locale, in controtendenza, ha iniziato a riproporre la cucina di una volta, quella definita “povera”, ma di fatto più genuina e più varia. A dimostrazione del fatto che gli ingredienti sani costano meno.

Nei miei pochi giorni trascorsi nella capitale ho trovato una varietà di sapori nuova, più ampia, complici anche le forti influenze estere che si ritrovano mescolate nei piatti polacchi, e di cui ora sento la mancanza. Ecco cinque cose che la cucina italiana dovrebbe invidiare!

La tradizione israeliana, ancora fortemente presente, viene reinterpretata nella cucina polacca con l’uso di cereali e spezie. Cereali in chicco intero o spezzato, comunque integrale: cous cous, taboulè, bulgur. Per la preparazione di queste specialità, i chicchi di frumento vengono cotti a vapore, fatti essiccare, e poi macinati e ridotti in piccoli pezzi.

Presentano le stesse caratteristiche del cereale integrale. Ricchi di fibra, vitamine, minerali, sono una buona alternativa alla pasta, che oltre a essere solitamente preparata con farina raffinata, richiede una lavorazione industriale più lunga. Ricordiamo che meno trasformazioni richiede la preparazione, più il risultato può essere considerato sano.

Sempre dal Medio Oriente arriva una delle mie ricette preferite in assoluto: l’hummus, in tutte le sue varianti. Per gli italiani, che ancora lo conoscono poco: l’hummus è una crema a base di ceci e pasta di semi di sesamo (tahina), nella sua versione più tradizionale aromatizzata con olio d’oliva, aglio, succo di limone, paprica, semi di cumino in polvere e prezzemolo finemente tritato. Si presta poi a essere personalizzato in mille modi, dall’avocado ai peperoni, dalla barbabietola alla senape, arrivando persino alla versione dolce con aggiunta di cioccolato.

Viene solitamente consumato insieme a focacce di pane azzimo, oppure in accompagnamento ai falafel (polpette di ceci). Nella cucina mediterranea può essere utilizzato come salsa per verdure crude (carote, sedano, finocchio) in piacevole alternativa al classico pinzimonio, o spalmato sui crostini e all’interno di panini e tramezzini.

Goloso e leggero, è un ottimo stratagemma per riabituarsi al consumo di legumi. Da provare anche nella versione con le fave, con i lupini, oppure con i fagioli cannellini e l’aggiunta di capperi sotto aceto (prende un gusto molto simile a quello della salsa tonnata). Perfetto anche per i pranzi da asporto.

Parlando di cereali e hummus, non si possono dimenticare le spezie, in particolare pepe, paprica, cannella, curcuma e zenzero. Da sempre utilizzate per insaporire e conservare i cibi, riducono il consumo di sale, e possiedono interessanti proprietà: migliorano la digestione e l’assorbimento dei grassi, aumentano il senso di sazietà, riducono il tempo di transito del cibo nel tratto gastrointestinale, stimolano l’attività degli enzimi. Ecco perché dovremmo usarle di più.

Per terminare, frutta e verdura: sembra impossibile ma anche sotto questo aspetto avremmo qualcosa da imparare. O da ricordare.

Gli smoothies: frullati di frutta e verdura, a volte con l’aggiunta di latte o yogurt, da gustare anche mentre si cammina per la città. Nei nostri locali bere qualcosa che non sia una bibita zuccherata e che sia preparato con ingredienti freschi, sembra essere una rarità. Solitamente si trovano le centrifughe, quasi mai gli estratti (che sono da preferire perché mantengono inalterate le vitamine e i sali minerali), ma non saziano allo stesso modo di un frullato. Soprattutto, centrifugare la frutta vuol dire assumere il fruttosio privato del suo antidoto naturale, la fibra: una pratica da sconsigliare.

E le verdure? Rape, barbabietole, e soprattutto verdure in foglia, così dimenticate. Gli ortaggi a foglia verde, così come le barbabietole, sono una grande fonte di acido folico e di folati, utili per la prevenzione dell’aterosclerosi. Sono ricchi di vitamina C e favoriscono quindi l’assorbimento del Ferro contenuto nella frutta e nella verdura. 

Per quanto se ne parli, non se ne mangia mai abbastanza. Una piacevole sorpresa trovare gli spinaci crudi nelle insalatone, accompagnati da frutta fresca e frutta secca, come i semi di zucca.

Quello che invece hanno in comune la cucina italiana e quella polacca, è il cambiamento e i rischi che questo comporta. Le tradizioni sono in pericolo, minacciate dal progresso che porta fastfood, piatti pronti, sapori standardizzati. Un po’ alla volta, vengono a mancare la curiosità per gli ingredienti, la fantasia negli abbinamenti, e la pazienza di aspettare la trasformazione del cibo. 

Non facciamoci derubare di ciò che abbiamo di più prezioso. Ogni momento dedicato al nutrimento e alla preparazione dei pasti, è un investimento per il futuro.

«Quello che mi sorprende degli uomini è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute.» (Dalai Lama)

www.tizianacremesini.it

Domande o curiosità inerenti l’alimentazione? Scrivete a info@tizianacremesini.it e cercherò di rispondere attraverso questa rubrica!

Wizz Air riapre le proprie basi in Polonia e riattiva voli internazionali verso l’Italia

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

La compagnia aerea low-cost ungherese Wizz Air ha riaperto le proprie 5 basi in Polonia e ha riattivato i voli da e verso paesi quali Bulgaria, Croazia, Islanda, Italia, Norvegia e Spagna. Lo rende noto oggi la società. Wizz Air precisa che, allo scopo di assicurare viaggi in sicurezza, verranno compiute procedure aggiuntive per consentire il rispetto delle distanze di sicurezza nella fase dell’imbarco e un’adeguata igienizzazione dei velivoli. “Sebbene i filtri Hepa che si trovano in tutti gli aerei di Wizz Air filtrino l’aria in cabina al 99,97 per cento, l’equipaggio e i passeggeri saranno obbligati a indossare mascherine per l’intera durata del volo. Il personale di bordo distribuirà a ciascun passeggero fazzolettini disinfettanti. Allo scopo di ridurre il contatto fisico, esortiamo al pagamento contactless negli acquisti a bordo”, si legge in un comunicato.

Gli scienziati di Breslavia conquistano il mondo della tecnologia

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Un progetto internazionale denominato “Desire”, creato in collaborazione tra gli scienziati della facoltà di Geoingegneria, Industria Mineraria e Geologia del Politecnico di Breslavia è stato iscritto alla lista delle 1000 tecnologie moderne che cambiano il mondo. La lista è preparata dalla organizzazione Solar Impulse Foundation che premia i progetti scelti con il titolo di “The Solar Impulse Efficient Solution Label”. Alla lista vengono iscritti i progetti che hanno un impatto positivo sull’ambiente e migliorano la qualità della vita. Il nome del progetto “Desire” viene dal Control Based on Distributed in situ Sensors into Raw Material and Energy Feedstock e prevede un controllo integrato dei processi basati sulla rete dei sensori “intelligenti” per controllare i bisogni di risorse naturali e energia. Il progetto è durato tre anni e aveva un budget di 6 mln di euro che veniva dai fondi del programma di Unione Europea Horyzont 2020. Gli scienziati hanno lavoravano su uno dei quattro temi proposti esaminando come le tecnologie intelligenti riescano a migliorare il lavoro nelle miniere e portando le soluzioni più efficaci alla lavorazione di ciò che è stato già scavato. Realizzando questo progetto hanno collaborato anche con KGHM Rame Polacca perché come ci dice prof. Robert Król è proprio il processo della estrazione di rame e la sua lavorazione che consuma grande quantità di energia. Krol aggiunge che grazie alla loro tecnologia sarà possibile dire precisamente e più velocemente la composizione minerale di singoli materiali scavati e prepararli adeguatamente alla lavorazione che risparmierà energia e tempo. Nel progetto sono stati usati i sensori RFID sui quali scrivevano informazioni sui parametri di qualità e quantità del minerale scavato. La ricerca svolta nella miniera di KGHM ha confermato l’efficienza del metodo trovato dagli scienziati del Politecnico di Breslavia. Il Prof. Król ha informato che insieme al gruppo dei scienziati di Finlandia VTT Technical Research Centre cercano la sovvenzione che gli permetterebbe di continuare le ricerche su questo progetto.

A Zanzibar parlando polacco e mangiando italiano

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L’articolo è stato pubblicato sul numero 52 della Gazzetta Italia (settembre 2015)

La mitica isola delle spezie, che ha dato i natali a Freddy Mercury. Un antico snodo di commerci in cui da secoli si incrociano popolazioni, religioni e culture africane, arabe e asiatiche. Un paradiso incontaminato di flora e fauna ma anche una nuova Mecca per gli appassionati di kitesurf. Questo e molto altro è Zanzibar, meta esotica perfetta per una vacanza allo stesso tempo riposante, avventurosa e sportiva che per me si è inaspettatamente arricchita di due elementi cruciali: Italia e Polonia. L’Italia, quella culinaria, l’ho trovata nei piatti del romantico e tranquillo Twisted Palms Lodge&Restaurant del veneto Carlo Mazzuccato che nella taverna su palafitte che si allunga fino al bagnasciuga della spiaggia di Bwejuu offre piatti di stile italiano arricchiti dal pescato del luogo, tipo gli squisiti spaghetti al granchio!

A Twisted Palms ho passato con mia figlia Matilde rilassanti giornate a camminare sulla soffice spiaggia bianca o avventurandoci per centinaia di metri verso il reef quando la bassa marea lasciava scoperti scogli pieni di stelle marine, pesci color “Nemo” e tantissimi pungenti ricci. Giorni passati in una deliziosa serenità, lontano dalle mete più battute dell’isola, godendo di massaggi all’ombra delle palme mentre mia figlia si faceva tatuare con l’hennè. Davanti a noi una spiaggia incontaminata che si allungava e accorciava di centinaia di metri a seconda dell’umore delle maree, con le donne del luogo pronte a rimboccarsi la gonna per andare a cercare a mano crostacei e altre specie commestibili.

Una volta ritemprati ci siamo trasferiti nell’elegante resort di tre straordinari polacchi: Radek Mrokwa, di Bytom, conosciuto durante lo scalo a Dubai, e Kazimierz Topór con la figlia Kamila di Łapsze Niżne. Persone squisite, entusiasticamente innamorate di Zanzibar che ci hanno fatto conoscere gli angoli più remoti dell’isola, come il quartiere di Stone Town che ospita alcuni palazzoni in stile Plattenbau. Sì perché negli anni Settanta in piena guerra fredda la Tanzania – che fino al 1964 si chiamava Tanganica e solo dopo l’unificazione con Zanzibar è diventata Tanzania – era vicina al blocco sovietico. E così è successo che l’allora Germania dell’Est, la ex DDR, offrì la costruzione a Stone Town di alcuni blocchi di appartamenti stile periferia sovietica. Blocchi che sono ancora lì, tuttora completamente abitati, a testimoniare un’indimenticata pagina di storia.

Ma torniamo ai nostri amici polacchi titolari dello splendido Cristal Resort a Paje che si affaccia su una delle più belle spiagge di Zanzibar. Una location incantevole con bungalows disseminati tra le palme, una bella piscina e un ottimo ristorante dove spesso la sera si possono apprezzare danze popolari e sacrifici rituali da parte di autentici Masai.

E proprio la spiaggia del Cristal Resort è uno dei migliori luoghi al mondo dove imparare ad andare in kite. Dal bagnasciuga al reef per oltre un chilometro di larghezza, e alcuni chilometri in lunghezza, c’è una sorta di divina piscina di acqua turchese tiepida, senza scogli sul fondo, battuta sei mesi l’anno da venti costanti: il paradiso dei kitesurfer. E su quella spiaggia si possono trovare varie scuole di kite in cui si parla italiano, grazie ad un toscano che offre corsi con ottime attrezzature, e polacco grazie a Agata Dobrzyńska, giovane e bella ragazza di Gdańsk che ha imparato kite lungo la penisola di Hel, prima di diventare lei stessa insegnante e iniziare a girare il mondo insieme al suo compagno alla ricerca delle migliori spiagge per il kite.

Tra le molte escursioni fatte durante la vacanza ricordo con piacere quella in canoa lungo un’ansa costellata di mangrovie, l’uscita in mare per fare snorkelling e nuotare con i delfini, la passeggiata in mezzo alle pacifiche scimmie dell’isola, e poi la divertente gita all’estremo nord di Zanzibar sulla bella spiaggia di Nungwi. Un posto meraviglioso che in altissima stagione, ovvero durante le vacanze di Natale, è una meta cult per gli italiani tanto che ogni negozietto di prodotti locali sfoggia ironici cartelli in italiano, e qualsiasi venditore è in grado di mercanteggiare nella lingua del Bel Paese. Nungwi si distingue anche per la bella spiaggia senza barriera corallina dove a pochi metri dal bagnasciuga transitano i tipici dhow in legno con a bordo pescatori o turisti.

Ma Zanzibar è molto più di questo. Una vacanza fantastica che per gli italiani e i polacchi può diventare davvero un’esperienza speciale. Se la meta vi incuriosisce date un’occhiata ai video di Kamila Topór (canale YouTube: ZanziRaj), la giovane polacca che partita per Zanzibar per andare a trovare il papà si è poi fermata e in pochi mesi ha imparato lo swahili decidendo di vivere e lavorare nell’isola delle spezie, da lei ribattezzata proprio ZanziRaj (Paradiso-Zanzibar).

foto: Matilde Giorgi

La nascita della medicina preventiva

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La Sede del Magistrato alla Sanità nel Fontego delle Farine, sec. XVII, fu demolita nel 1807 dalla Dominazione Francese per farci i giardinetti reali

L’articolo è stato pubblicato sul numero 80 della Gazzetta Italia (maggio 2020)

Nel 1348 Venezia fu sconvolta dalla peste che giunse attraverso le vie carovaniere e navali da Kaffa in Crimea dove i Tartari, che l’anno prima avevano assediato la città, colpiti dal contagio, gettarono i cadaveri dentro le mura usando la guerra batteriologica prima della nascita dei laboratori.

La peste, che deriva dalla radice indoreuropea “pes” = “soffio mortale”, fu portata in Occidente dai mercanti genovesi che forzarono l’assedio. La pandemia nel corso di pochi mesi quasi dimezzò la popolazione veneziana e mieté in Europa circa 30 milioni di vittime. Il batterio patogeno, isolato nel 1894 da Alexander Yersin, è iniettato da una pulce parassita del ratto nero, la Xenopsilla Cheopis, che, trasferendosi sull’uomo, provoca, con il suo morso, l’ingrossamento delle linfoghiandole, ascellari o inguinali con la formazione di bubboni scuri. L’incubazione è di circa 5 giorni e il decorso va da due a sette giorni con febbre alta, arsura, delirio e, infine, morte nel 70 per cento dei casi. La peste, oggi sconfitta dagli antibiotici, si manifestava anche in forma setticemica e polmonare, quest’ultima, senza bubboni, è la più pericolosa perché trasmissibile da uomo a uomo per via aerea, con una mortalità del 95%. Perciò i medici cercarono di proteggersi con maschere dal lungo naso in cui ponevano delle erbe aromatiche.

I volumi con le leggi di sanità della Serenissima

La provenienza del contagio dal Levante, lungo le vie di terra e di mare, fu palese da subito ed anche i tempi e le modalità dell’infezione: per contatto e prossimità. Non si conoscevano le cause né la cura, perciò l’unico rimedio fu la fuga. Ogni rapporto umano e ogni relazione sociale furono stravolti dal terrore, che minò la stabilità socio-economica e gli equilibri politici. Commissioni temporanee cercarono di fronteggiare l’emergenza con la rapida inumazione dei cadaveri, con l’abolizione di processioni, fiere, mercati e riti pubblici come occasioni di contagio. Si inchiodarono le porte delle case degli appestati e si chiusero i quartieri infetti. Venezia, per i suoi rapporti commerciali con il Levante, fu esposta a continue ondate epidemiche, finché, il 28 agosto 1423, il Senato stabilì l’obbligo di comunicare l’arrivo di forestieri infetti e il divieto di accoglierli, ordinò di raccogliere ogni possibile informazione per individuare i paesi colpiti sospendendo ogni scambio, ogni capitano di nave fu tenuto a denunciare i malati a bordo, pena sanzioni pecuniarie e detentive.

Per accogliere i cittadini contagiati e i casi manifestatisi in città e sulle navi veneziane, la Repubblica inventò il primo lazzaretto della storia: un ospedale di Stato ad alto isolamento, posto sull’isola periferica di Santa Maria di Nazareth, sede dell’omonimo convento degli Eremitani. Dalla volgarizzazione del termine Nazareth in Nazaretum e poi Lazzaretto derivò la denominazione di tutte le analoghe strutture che sorsero poi in Occidente su modello di quella veneziana. Questa soluzione fu molto innovativa rispetto agli ospedali dell’epoca, in cui assistenza e carità cristiana erano un binomio inscindibile.

Nel 1468 la creazione di un secondo Lazzaretto, detto “Nuovo”, per accogliere sia i guariti, prima del loro rientro in città, che i “sospetti” che avevano avuto contatto con persone e luoghi infetti, diede un messaggio confortante sulla possibilità di guarire e di prevenire il morbo. La gestione dei due lazzaretti richiese competenze specifiche perciò, nel 1486, venne istituito il Magistrato alla Sanità, composto da tre patrizi eletti annualmente e affiancati da un ufficio tecnico, da un protomedico e da un braccio armato. Tale organismo divenne un riferimento normativo per tutte le nazioni europee e mediterranee. Monitorò l’andamento dei flussi epidemici attraverso la sua rete di diplomatici e di “spie di sanità” e dettò agli altri stati le regole e i tempi delle contumacie, creando lazzaretti nei suoi domini e posti di blocco lungo le vie di terra. Diramò migliaia di proclami a stampa per comunicare i porti e i paesi contagiati o “sospetti”, con i quali aveva sospeso ogni rapporto commerciale, invitando anche le altre nazioni a fare lo stesso. Dal 1630 la sua rete di controlli riuscì a tener Venezia indenne dalla peste che continuò a imperversare nel Mediterraneo fino a tutto l’800.

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Nelli-Elena Vanzan Marchini:

Docente di Bibliografia/biblioteconomia e di Storia della Sanità nelle Università di Vercelli e di Padova, presidente del Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospedaliera del Veneto,  ha pubblicato Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia in 5 volumi (Vicenza 1995-Treviso 2012); I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza 1995. Fra i suoi numerosi studi su epidemie e lazzaretti si ricordano: Rotte Mediterranee e Baluardi di Sanità, Milano-Ginevra 2004; Venezia e i lazzaretti Mediterranei, Catalogo della mostra nella Biblioteca Nazionale Marciana, Mariano del Friuli 2004; Venezia, la salute e la fede, Vittorio Veneto 2011, Venezia e Trieste sulle rotte della ricchezza e della paura, Verona 2016. 

Il lazzaretto Vecchio, oggi, fot. Vanzan

Ministro Esteri Czaputowicz, vogliamo Ue più forte e con bilancio ambizioso

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

La Polonia desidera un’Unione europea più forte, con un bilancio ambizioso e che giochi un ruolo importante in politica estera. E’ quanto ha dichiarato il ministro degli Esteri polacco, Jacek Czaputowicz, in conferenza stampa dopo il colloquio avuto con l’omologo tedesco, Heiko Maas. E’ il primo incontro di persona tra i due ministri dopo l’emergenza causata dal coronavirus. In questi mesi il dialogo intenso è proseguito comunque a distanza, il che per Czaputowicz testimonia del peso dato alle relazioni “buone e amichevoli”. La discussione tra i due è stata un’occasione “per parlare delle nostre relazioni bilaterali e di quelle multilaterali di politica estera”, ha continuato. “Abbiamo la consapevolezza che questa visita è molto importante, perché la Germania assumerà la presidenza dell’Unione europea il primo luglio, in un periodo molto difficile nel quale bisogna compiere sforzi per uscire dalla crisi indotta dalla pandemia e approvare il quadro finanziario pluriennale”, ha proseguito il capo della diplomazia di Varsavia. “Abbiamo discusso del Fondo di ricostruzione e di come risolvere in modo costruttivo e all’insegna del compromesso la questione dell’uscita del Regno Unito dall’Ue. Sono tutti temi che si accumuleranno durante la presidenza tedesca. Contiamo che sia una presidenza forte. Ho espresso l’appoggio della Polonia alla realizzazione degli obiettivi e delle priorità della Germania in Ue in tale periodo”, ha affermato Czaputowicz. “Polonia e Germania hanno da giocare un ruolo cruciale nell’elaborazione di un compromesso riguardante il Fondo di ricostruzione europeo”, ha valutato Maas. “Siamo persuasi che se non lasciamo nessun paese da solo, sarà meglio per tutti”, ha continuato, segnalando che gli Stati membri Ue sono profondamente legati da un punto di vista politico ed economico, pertanto è nell’interesse di ciascuno che tutti escano dalla crisi. Le risorse del programma di ricostruzione vanno investite “in una ristrutturazione equilibrata, sociale e digitale dell’economia europea”. Il ministro degli Esteri tedesco ha anche espresso la convinzione che la Polonia sosterrà i tentativi di Berlino in tale direzione durante la presidenza del Consiglio Ue.

Via libera ai voli internazionali

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Da oggi è possibile prendere di nuovo voli internazionali, come ha dichiarato il primo ministro Mateusz Morawiecki la settimana scorsa. Il 13 giugno la Polonia ha aperto i suoi confini ed è stato revocato l’obbligo di due settimane di quarantena per chi entra in Polonia. Oggi viene abolito il divieto di voli internazionali, ma la decisione se riprendere i voli spetta alle compagnie aeree. Wizzair ha annunciato che da domani sarà possibile approfittare dei loro voli e che ripristineranno le operazioni in tutte le basi polacche. I voli regolari di Ryanair saranno ripresi il 1 luglio. La compagnia aerea polacca LOT non ha ancora preso una decisione quando sarà possibile prendere i voli. Per ora, i viaggi aerei saranno possibili solo nei paesi dell’Unione Europea. Al momento non è noto quando sarà possibile riprendere i voli a lungo raggio.