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Home Blog Page 162

Lino Ieluzzi

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Il suo negozio Al Bazar in via Scarpa 9 a Milano funziona sin dall’inizio degli anni Settanta. Inizialmente fu un boutique con abbigliamento alla moda, ma dopo tre anni  Lino Ieluzzi ha deciso di cambiare strategia e diventare noto per quello che lo distingue ancora oggi: abiti, cappotti, cravatte, papillon, scarpe… ovvero tutto ciò che può desiderare un uomo di classe! Al Bazar è conosciuto dai dandy di tutto il mondo; Lino  è seguito su Instagram ormai da 74 mila utenti e non appena appare alla fiera Pitti Uomo tutti i fotografi sono pronti a seguirlo per fotografare il suo outfit. Ieluzzi è una fonte d’ispirazione per uomini di tutte le età, mostrando come migliorare il proprio image e vestirsi bene magari con un pochino di disinvoltura. Ho deciso di passare al suo negozio e fare due chiacchiere accompagnati da un buon caffè e una sigaretta.

Come definirebbe la parola “sprezzatura”?

Vestire con sprezzatura vuol dire essere elegante per ogni occasione, ma con disinvoltura. Significa non sentire un peso o una costrizione per ciò che si indossa. Vestire divertendosi e facendo uscire allo scoperto la propria personalità!

Negli ultimi anni si nota nei giovani uomini un forte interesse per la moda classica. Lei che è una leggenda del settore, cosa ne pensa?

I giovani, nonostante l’esperienza che ancora devono crearsi col tempo, grazie agli errori e ai successi, hanno un pregio: oggi più di ieri, hanno una grande voglia di apprendere!

Ultimamente abbiamo assistito alla fiera Pitti Uomo. Qual è secondo Lei il futuro della fiera e della moda maschile in generale?

Non so dire come sarà Pitti tra 10 anni. Personalmente spero che questa fiera potrà nel futuro continuare a tenere salda la sua origine fiorentina, e, perchè no, il suo contesto d’eccezione all’interno della Fortezza da Basso. Un posto speciale che rende la fiera ancora più unica nel settore della moda internazionale. Tra l’altro parliamo di una fiera famosa e frequentata da addetti al settore provenienti da tutto il mondo. Del resto si sa, Pitti non è più importante solo come esposizione ma sta divenendo sempre più un’occasione unica per conoscere gente, fare pubbliche relazioni e avviare collaborazioni produttive.

Quale sartoria preferisce: inglese o italiana?

Ma sicuramente quella italiana perché noi abbiamo legato ad essa la passione che ci distingue ancora oggi. La sartoria è la nostra vita e questo fa la differenza.

Non si sa molto della Sua vita privata. Quali sono le Sue passioni? Oltre alla moda maschile e al Suo amico a quattro zampe, ovviamente… 

Le mie passioni hanno da sempre avuto un ruolo importante nella mia vita. Da giovane, sono state le stesse passioni che ancora oggi continuo ad avere, a spingermi ad iniziare a lavorare, svolgendo anche più lavori contemporaneamente, per poterle soddisfare. Oltre al mio fantastico compagno d’avventura Tommy e all’abbigliamento, spazio dalla passione per gli orologi alle penne, dagli accendini alle auto.

Cosa possono imparare i polacchi e il resto del mondo dagli italiani per quanto riguarda il vestire?

Sicuramente la sicurezza e il divertimento nel vestire, l’abbinare i colori, la cosa in assoluto più difficile, e capire che le regole non esistono: esiste solo il buon gusto.

Consigli per i dandy principianti?

La parola d’ordine è divertirsi. Chi vuole vestire deve sentirsi libero di scegliere ciò che più lo fa sentire meglio e lo fa divertire al tempo stesso. Mai vestirsi per dovere. Vestire dev’essere un gioco e perchè no, osando, giocando un po’ con i colori!

Qual è il Suo ristorante preferito a Milano?

Milano è una città davvero ricca di buoni ristoranti quindi non è facile dare una risposta. Tra gli altri Cacio e Pepe propone un’eccellente cucina romana (i carciofi alla romana e un’ampia scelta di primi sono sicuramente tra le mie scelte), Sale Grosso propone invece piatti a base di pesce di qualità, mentre la Langosteria offre piatti molto ricercati.

Tesori di pietra, rocche di tufo e boschi incantati nella Tuscia viterbese

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“Nessun rumore turbava la scena. Solo il frinire delle cicale, che si sentiva distintamente, metteva in risalto il silenzio solenne dei luoghi. Nessun segno di vita umana si notava dintorno, ad eccezione di una colonna bianca di fumo che si innalzava dai boschi, lontano”.

George Dennis, The Cities and Cemeteries of Etruria, London 1848.

Con queste parole George Dennis, il celebre ambasciatore e archeologo inglese che fu tra i primi viaggiatori stranieri a percorrere con intelligente attenzione e amore l’Etruria meridionale, descrive poeticamente uno scorcio del Viterbese, ovvero quel territorio raggiungibile con mezz’ora di macchina a nord di Roma. 

Qui si apre infatti un paesaggio inaspettato, che contrasta fortemente con il caos di una grande metropoli, per quanto grandiosa, quale è divenuta Roma. Certo, non si tratta più dell’incredibile panorama ottocentesco, simile per tanti versi a quello del mondo antico e medievale, ma a oggi è in larga parte ancora incontaminato e offre delle vere e proprie sorprese al viaggiatore – più che al turista – che vuole immergersi in un territorio più originale e variegato. Così, per chi vuole avere un’esperienza italiana diversa dalle mete più tradizionali e famose facendo capo a Roma, non resta che fuggire dalla città e ritrovarsi immersi in paesaggi ameni e diversificati, ma tutti basati su un fascino antico che ha resistito nei secoli. 

Tra il Seicento e l’Ottocento si sviluppò in Europa l’uso, per coloro che appartenevano a classi abbienti e nobiliari, di compiere un lungo “viaggio di studio” la cui meta specifica era l’Italia e i suoi monumenti antichi, prima tra tutte la Città Eterna. Moltissimi sono i diari che ci raccontano questo itinerario di viaggio di scoperta, e non pochi furono i personaggi polacchi, anche di altissimo rango, che lo vollero affrontare e che in certi casi si stabilirono poi in Italia centrale, come alcuni membri delle famiglie Sobieski e Poniatowski, oppure artisti come Tadeusz Kuntze, che affrescò chiese anche a Soriano nel Cimino. 

Tra Firenze e Roma, la via maestra era, ieri come oggi, la Via Cassia, che penetra insieme all’Aurelia e alla Flaminia in quello che era il cuore dell’Etruria, ovvero quella regione abitata tra il X e il I secolo a.C. circa da uno dei più importanti e affascinanti popoli dell’Italia preromana, gli Etruschi. Questa magnifica civiltà, che a oggi non ha nulla di misterioso né segreto sebbene tale risulti nell’immaginario collettivo, ha segnato il territorio con i suoi grandiosi monumenti di pietra destinati ad accogliere il sonno eterno di principi e aristocratici, e non solo nelle celeberrime tombe dipinte di Tarquinia e Cerveteri, entrambi siti Unesco, ma anche in fastosi monumenti scavati nel tufo a somiglianza delle case in uso all’epoca, ancor oggi visitabili, nascoste in boschi e luoghi ancora parzialmente incontaminati. 

E allora il viaggiatore curioso si armerà di cartina topografica (più che del navigatore…) e andrà alla scoperta delle necropoli di San Giovenale e San Giuliano, presso i pittoreschi paeselli di Blera, Barbarano Romano e Civitella Cesi, in una campagna collinare e boscosa dove pascolano asini selvatici e mucche maremmane, e volano alto grandi rapaci. E proseguirà poi verso Viterbo, dove si immergerà, in una sorta di viaggio nel tempo, nei silenzi delle maestose necropoli rupestri di Norchia e di Castel d’Asso, entrando all’interno di camere funerarie scavate nel masso tufaceo, quasi tutte violate dal tempo e dagli uomini, mentre alcune, ancora intatte, ritornano alla luce per opera degli archeologi restituendo i loro tesori millenari.

Ma non solo Etruschi: nel territorio di Viterbo sono importanti anche le vestigia della romanizzazione, con le strade selciate e alcuni dei monumenti-simbolo della grandezza di Roma. Si potrà così camminare sugli antichi basoli della via Cassia, la Clodia, la Flaminia e l’Amerina, fiancheggiate da monumenti funerari di età romana anch’essi scavati nella roccia e imitanti quelli degli etruschi ormai conquistati e romanizzati. A Sutri, oltre la bella necropoli, non può mancare la visita all’anfiteatro scavato interamente nel masso tufaceo, simbolo della passione romana per i “giochi” cruenti e sanguinari. Come a voler mitigare e purificare l’anfiteatro, poco lontana si apre la splendida chiesetta rupestre di Santa Maria del Parto con i suoi suggestivi affreschi medievali, creata in quello che probabilmente era un tempio dedicato al dio Mitra, di origine orientale, e forse ancor prima una tomba. 

Restando in tema romano, a Ferento, poco lontano da di Viterbo, si può passeggiare dentro una città con il suo teatro, ancora usato – ieri come oggi -per gli spettacoli. Fino a poco tempo fa questo luogo meraviglioso era chiuso, ma grazie all’opera di un’associazione di volontariato (Archeotuscia onlus) è oggi possibile ammirarne la fascinosa maestà. Isolata e grandiosa è poi la città etrusco-romana di Vulci, immersa in un suggestivo paesaggio naturale attraversato dai canyon creati dal fiume Fiora, scavalcato dall’ardita arcata del “Ponte del Diavolo”, che collega il sito con l’abbadia fortificata qui sorta, poi trasformata in castello e oggi sede del Museo Archeologico Nazionale di Vulci.

Vi sono poi altri luoghi e monumenti nascosti, ritornati alla luce solo da pochi anni e ancora poco conosciuti: a volte per scoprirli bisogna davvero impegnarsi. Ma per questo, quando li si raggiunge, la sorpresa e la soddisfazione sono maggiori: si tratta di una serie di altari etrusco-romani, tra i quali primeggia la cosiddetta Piramide di Bomarzo, nome popolare che le deriva dalla sua forma e dalle gradinate che portano alla cima di questo gran masso di peperino lavorato, sulla sommità del quale è ancora adesso possibile cogliere l’atmosfera di sacralità che doveva avvolgere gli antichi frequentatori del luogo, in un connubio strettissimo tra natura e culto. 

Risalendo il corso dei secoli, è possibile visitare in questo territorio alcune catacombe, come quelle di Santa Savinilla a Nepi e quelle pervase di grande spiritualità dedicate a Santa Cristina a Bolsena, centro quest’ultimo che si apre con il suo svettante castello a ridosso del lago di Bolsena.

Il Viterbese è infatti anche terra di laghi: Monterosi, Bracciano con Martignano, Vico e Bolsena con le sue isole Martana e Bisentina, ognuno dei quali è uno scrigno naturale sul quale si affacciano a volte graziosi borghi, a volte mantenendo le rive a verde e fornendo riparo e accoglienza a uccelli grandi e piccoli. Dall’azzurro dei laghi ci si tuffa poi nel verde dei boschi del Monte Fogliano e della Faggeta del Monte Cimino, polmone verde appena entrata, anch’essa, nella lista dei siti Unesco del Viterbese.

Non manca poi il Medioevo e l’età moderna, che hanno improntato il panorama urbanistico di tutti i paesi, arroccati su lingue e speroni di tufo, e di Viterbo stessa, prescelta come sede della curia pontificia, di conclavi e residenza stessa di Papi tra XIII e XVII, decisione alla quale non fu estranea, oltre al difficile clima politico romano, l’aria più salubre rispetto a quella di Roma e la presenza di ricche fonti termali delle quali restano ancora importanti vestigia. Per tutti valga la visita del Palazzo dei Papi, della seconda metà del XIII secolo, la cui loggia sembra ritagliata in un merletto di pietra. 

La nobiltà romana occupò questo territorio, posto in una centrale posizione strategica lungo le maggiori strade che portavano a Roma, e vi eresse palazzi – come quello Farnese a Caprarola – poi torri e castelli, le prime perlopiù dirute ma in piedi come quella di Chia, già appartenuta a Pierpaolo Pasolini, e i secondi ancora fruibili e aperti dai proprietari al pubblico, come quelli di Vignanello, Vasanello, Montecalvello, Torre Alfina e altri ancora. Tuscania poi rappresenta una vera perla di tufo, con le sue chiese che si stagliano nell’azzurro del cielo e l’abbazia cistercense di San Giusto, recentemente restaurata e resa visitabile dai proprietari.

E infine, chiudono questa rapida carrellata due luoghi visitati ogni anno da milioni di visitatori: Civita di Bagnoregio, la cosiddetta città che muore, ma che vive invece una felicissima stagione di notorietà, innalzata su uno sperone tra i calanchi, e il celeberrimo Parco dei Mostri di Bomarzo, un eccezionale complesso di magiche sculture e significati ermetico-filosofici costruito intorno al 1552 dal principe Pierfrancesco Orsini detto Vicino, che da solo vale una visita in Italia.

Se questa carrellata di luoghi e immagini susciterà in qualcuno dei nostri lettori il desiderio di visitare la provincia di Viterbo, si può assicurare che non verrà deluso nelle sue aspettative. Buon viaggio allora!

Grande ritorno do Massimiliano Caldi

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MASSIMILIANO CALDI RITORNA ALLA FILARMONICA DI SLESIA A KATOWICE ESATTAMENTE 20 ANNI DOPO LA VITTORIA NEL CONCORSO G. FITELBERG

Venerdì 6 dicembre a Katowice, il Maestro Caldi dirigerà l’Orchestra Sinfonica della Filarmonica di Slesia a nome di H.M. Górecki. Massimiliano Caldi nel Concerto-Cantata H.M. Górecki sarà accompagnato dal suo amico flautista Raffaele Trevisani. Il programma comprenderà anche la Poesia Sinfonica “Step” (it: “La steppa”) di Nowakowski e la Suite dal film “La strada” (reg. Fellini) di Nino Rota. Massimiliano Caldi dirigerà l’orchestra nel 20° anniversario del lontano dicembre 1999, quando vinse il primo premio della giuria e la medaglia d’oro dell’orchestra alla sesta edizione del Concorso Internazionale dei Direttori d’Orchestra G. Fitelberg. Il concerto rientra nell’ambito delle iniziative per celebrare il centenario delle relazioni diplomatiche polacco-italiane, nonché cade in occasione del 40° anniversario della morte di Nino Rota e delle Giornate Internazionali dedicate a H.M. Górecki.

Prima di tornare in Italia il 10 dicembre all‘Opera Baltica di Danzica, Massimiliano Caldi inizierà le prove della brillante opera comica Don Bucefalo di Antonio Cagnoni del 1847, che ha diretto e registrato su CD (Dynamic) nella sua prima esibizione moderna al Festival “Valle d’Itria” nel luglio 2008. La prima è prevista per il 31 gennaio e le prossime rappresentazioni per l’1, 2, 14, 15 e 16 febbraio 2020.

Ricciarelli di Siena

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Ingredienti:

  • 400 g di mandorle pelate intere
  • 380 g di zucchero semolato
  • 100 g di zucchero a velo
  • 50 g di farina 00
  • 2 albumi d’uovo
  • 20 g di acqua
  • mezzo rettangolo (21×30 cm) di ostia
  • 1/2 cucchiaino di lievito per dolci
  • 1 cucchiaino di estratto di mandorla amara

Procedimento:

in un cutter, tritate finemente le mandorle con 330 g di zucchero semolato, poi trasferitele in una capiente ciotola e mescolate. In un pentolino portate ad ebollizione l’acqua con i rimanenti 50 g di zucchero semolato. Quando lo sciroppo ottenuto velerà il cucchiaio, togliete dal fuoco e versate sopra il composto di mandorle tritate e zucchero. Mescolate bene, poi aggiungete 50 g di zucchero a velo, la farina e il lievito setacciati tutti assieme. Mescolate ancora il composto. Coprite il composto con un panno umido e lasciate riposare a temperatura ambiente per almeno 12 ore.

Montate a neve gli albumi aggiungendovi gradatamente i rimanenti 50 g di zucchero a velo e l’estratto di mandorla amara. “Rompete” l’impasto riposato con le mani o con una spatola fino a renderlo lavorabile. Amalgamatevi gli albumi, mescolando delicatamente dal basso verso l’alto.

Poi portate il composto sul piano di lavoro spolverizzato con zucchero a velo setacciato e lavoratelo con le mani fino a renderlo malleabile. Formate dei filoncini e con un coltello tagliate delle fettine. Date loro la forma allungata pizzicando le estremità con le punte delle dita. Ritagliate l’ostia con la sagoma del ricciarello e disponetele su una teglia rivestita di carta forno. Ponete sopra ciascuna ostia ritagliata il ricciarello. Spolverate con zucchero a velo setacciato. Cuocete in forno statico (senza ventola) a 110° per 10 minuti circa: i ricciarelli devono rimanere morbidi e chiari. 

Fate raffreddare prima di impiattare. Conservateli in una scatola di latta: saranno morbidi e fragranti per almeno 4-5 giorni.

Buon appetito!

GAZZETTA ITALIA 78 (dicembre 2019 – gennaio 2020)

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Gazzetta Italia 78: Il tratto di Beata Malinowska-Petelenz ci regala una magnifica copertina dedicata a Venezia, città dei cui problemi e prospettive si parla ampiamente nello speciale “Capire Venezia” in cui intervengono sette autori. Questo numero di Gazzetta si arricchisce della nuova rubrica “Finchè c’è cinema c’è speranza” dell’esperta Diana Dabrowska che esordisce con una splendida analisi del cinema italiano a partire dalla pellicola cult “Il Sorpasso”. Storia, mito e stereotipi machiavelliani vengono invece sviscerati dal professor Campi che ci propone una visione innovativa sulla figura del grande fiorentino. E poi ancora si parla di viaggi (Calabria e Pompei), di moda (Elisabetta Franchi), d’arte, di cucina, di lingua italiana, di Ferrari e grazie allo scrittore Alessandro Marzo Magno scoprirete le autentiche origini del panettone!

Sgombro marinato in dolce cottura

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Un gustosissimo pesce povero ricco di omega 3, ottimo come antipasto e secondo piatto leggero.

Ingredienti:

2 sgombri  (medi da ca. 250 g cad.)
Prosecco 100/150 ml
Aceto bianco (1 cucchiaio)
Zenzero q.b.
Alloro  5/6 foglie
Timo  qb.
Aglio (1 spicchio)
Zucchero (2 cucchiaini da caffè)
Sale qb.
Olio di semi di girasole 300 ml

Preparazione:

Pulite bene gli sgombri. Tagliate la testa e sfilettate. Con una pinzetta diliscate i filetti. Prendete un contenitore e ponete sul fondo i filetti con la pelle rivolta verso il basso; versate il prosecco mescolato all’aceto e spargete tutti gli ingredienti. Lasciate riposare a temperatura ambiente per 3 ore.

Trascorse le 3 ore, sciacquate leggermente i filetti con un po’ d’acqua. Versate tutto l’olio in un pentolino, mettete sul fuoco più basso possibile (se potete con un termometro misurate la temperatura che dovrebbe assestarsi a 65°). Tagliate i filetti a rombi e poneteli delicatamente nell’olio con la pelle rivolta verso l’alto. I tranci dovranno essere immersi totalmente nell’olio; cuoceteli per 5/6 minuti senza mescolare. Togliete i filetti dall’olio e poneteli su una carta assorbente e poi impiattate a piacere. Sono molto buoni sia freddi che appena tiepidi.

Buon appetito!

 

Vino e letteratura (prima parte)

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Parlare del vino significa confrontarsi con la storia dell’uomo, affrontare i limiti dell’esistenza per capire che da sempre è insita nella natura umana la tensione ad una trascendenza non religiosa, ma tutta carnale e tragicamente terrena, la tensione ad un superamento (anche se temporaneo) delle tristezze e ristrettezze della nostra vita.
Il vino ha costituito e costituisce, sin dalla più remota antichità il mezzo principe di questa momentanea liberazione dai vincoli terreni. Lo stesso Platone, noto per la rigidezza dei suoi costumi, consigliava ai vecchi di bere vino.

E d’altronde, secondo la Bibbia è stato Dio stesso a fare dono all’uomo del vino: ”bevi il tuo vino con cuore lieto” (viene detto in Qoelet, cap.9), e altrove l’uomo intona il suo canto per ringraziarlo di questo: ”Signore mio Dio, quanto sei grande!… Fai crescere il fieno per gli armenti e l’erba al servizio dell’uomo perché tragga alimento dalla terra, il vino che allieta il cuore dell’uomo” (Salmi, 104).

È difficile immaginare l’effetto che dovette fare la scoperta delle virtù ristoratrici e confortatrici del vino, sull’animo degli uomini antichi: in un mondo dove l’esistenza era difficile e breve, sempre sottoposta ad una lotta continua con una natura ostile, il vino dovette sembrare davvero un dono degli dei, il naturale accompagnamento di uno degli altri pochi piaceri concessi: il mangiare.

Oltre a ciò, il vino è spesso una delle poche fonti di piacere rimaste ai mortali, e diviene un dolce farmaco per la tristezza dell’anima, capace di rendere meno grama la vita. Nella letteratura, l’allegria che dona il vino è un vero topos, così come lo è la sua capacità di rendere più leggero il peso della vita. Infine, nell’antichità si scoprirono le sue virtù taumaturgiche: per lungo tempo il vino fu il solo tipo di disinfettante usato per le ferite e Ippocrate lo considerava elemento essenziale di ogni terapia. Insomma, nell’immaginario popolare era il corrispondente della nostra odierna mela scacciamedici.

Probabilmente il primo paese dove questa gustosa bevanda è stata saggiata è stata l’Asia minore. Una conferma di tale supposizione ci viene dal racconto biblico, che fa di Noé il primo vignaiolo; guarda caso la sua arca rimase ”alla fonda” sul monte Ararat, localizzato nell’odierna Turchia. La tesi pare confermata da una leggenda persiana, secondo la quale il vino fu scoperto proprio in Persia, alla corte del mitico re Jamsheed: si narra infatti che questo facesse conservare in vasi grappoli d’uva per essere poi mangiati fuori stagione. Poiché in uno di questi vasi l’uva produceva schiuma ed emanava uno strano odore, si pensò che fosse veleno, ma un’infelice concubina del re che tentò di darsi la morte con questo presunto veleno, scoprì invece che questo produceva una insospettata allegria ed era fonte di sonno ristoratore.

Se è vero che “in vino veritas”, Ulisse aveva ben donde di preoccuparsi per gli effetti del vino, poiché correva il rischio di svelare qualcuna delle sue magistrali truffe (in cui tanta parte aveva avuto spesso lo stesso vino, basti pensare al tiro giocato a Polifemo).
Tuttavia, i biasimi al vino restano sparute eccezioni: molto più spesso il divino succo della vite viene visto tramite della poesia più sublime o capace di donare magici poteri immaginativi.

Parte II: clicca qui

Padova, città dell’abbondanza

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Una volta scesi alla stazione di Padova, siamo circondati dai suoni: quello ritmico del treno che quasi scivola sulle rotaie si trasforma in un rumore dei motorini che arrivano in continuazione per poi, uno dopo l’altro, scomparire in lontananza nel Corso del Popolo. Lentamente, passo dopo passo, seguiamo le loro tracce. Poco dopo qualcuno ci offre un volantino, invitandoci a visitare la Cappella degli Scrovegni. Proprio lì le folle di turisti dirigono i propri passi per un momento di riflessione davanti agli affreschi di Giotto, i quali, ornando l’interno dell’edificio, da secoli, invariabilmente, fanno incantare i visitatori.

Sul tempo e sulla bilancia

Padova è una città dell’abbondanza, anche se ironicamente è nota per quello che simbolicamente le manca. E vale la pena, passeggiando per le sue vie, scoprire come mai viene chiamata <>. Non dobbiamo cercare affatto lontano, perché in un batter d’occhio dalla piazza Cavour ci ritroviamo in via VIII Febbraio, dove vi consiglio di passare un momento più lungo, degustando un caffè caldo al Caffè Pedrocchi. Questa caffetteria elegante, chiamata il caffè senza porte, diventò nota come locale aperto 24 ore nonché luogo d’incontro degli intellettuali locali. Oggi, seduti ai tavoli coperti con una tovaglia bianca, oltre al caffè si può assaggiare anche la cucina regionale e diventare un osservatore silenzioso dei passanti e della vita della città. Laciatevi portare dall’atmosfera lenta e il caffè senza porte diventerà anche una caffetteria … senza tempo.

Del suo passare vi farà ricordare la torre dell’orologio che si staglia in Piazza dei Signori, circondata dai portici ombrosi, dove soprattutto la sera fiorisce la vita sociale. La Piazza assomiglia ad un grande, ampio salotto e solamente uno sguardo attento di un turista curioso potrà notare che sul quadrante dell’orologio astronomico, decorato con i segni dello zodiaco, manca la bilancia. Troverete però una moltitudine di bilance nelle piazze adiacenti della Frutta e delle Erbe, al mattino piene di bancarelle. Entrambe le piazze per secoli costituivano il centro del commercio locale e in un certo senso lo sono fino ad oggi, trasformandosi in un mercato ricco di colori e odori. Tra le bancarelle l’odore delle erbe si diffonde nell’aria, ed i mazzi di fiori si piegano come se dessero un’occhiata nelle scatole di pomodori, risvegliando nei passanti la nostalgia di trovarsi in mezzo al verde.

Proseguite dunque avanti, prima via Roma e poi via Umberto I, la quale poco dopo aprirà le sue braccia in un gesto di benvenuto, facendovi entrare in Piazza Prato della Valle. Lì, in piazza, anche se chiamata il Prato senza erba, troverete la verde Isola Memmia di forma ellittica, attorno alla quale scorre un canale stretto. Sulle sue rive in guardia stanno delle statue orgogliose di 78 meritevoli. Tra di loro, in un’ottima compagnia di grandi poeti e scrittori italiani, come Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, potrete avvistare le statue di due re polacchi: Jan III Sobieski e Stefan Batory, sulle cui teste frequentemente riposano i piccioni.

Sui nomi e sulle scoperte (in)solite

Dalla Piazza Prato della Valle manca poco all’incontro con il Santo senza nome. Senza nome, perché gli abitanti di Padova dicendo “il Santo” sanno perfettamente di chi si tratta. La basilica di Sant’Antonio, costruita sul luogo dove sorgeva la piccola chiesa medievale di Santa Maria Mater Domini, attira costantemente folle di fedeli. La Basilica del Santo è l’edificio religioso più riconoscibile della città con le sue torrette e cupole bizantine, le quali ammiriamo sollevando la testa e proteggendo gli occhi dal sole.

Padova è una città dell’abbondanza, che di sé ci regala tanto, quanto noi siamo in grado di accettare ed ironicamente, mostrandoci quello che le manca, rivela la sua completezza. È un misterioso ed affascinante pozzo senza fondo, da cui si può attingere all’infinito e ogni volta scoprire qualcosa di nuovo. Pertanto, una volta che avrete fatto una visita al Santo senza nome, avrete gustato l’eleganza del caffè senza porte e vi sarete rilassati nel prato senza erba, date un’occhiata nei bar accoglienti nelle stradine i cui nomi non vi ricordate più e dirigete i vostri passi nelle piazze vivaci, dove il suono di caffè macinato costituisce quasi uno sfondo musicale delle lente conversazioni. Immergetevi nella vita quotidiana di Padova, perché, come scrisse Paulo Coelho, proprio nei bar, dove si raccontano le storie e si incontra la gente comune, la città mostra il suo vero volto.

Il 2020 sarà l’Anno della Famiglia Fibiger, produttori di pianoforti

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

I consiglieri di Kalisz hanno stabilito all’unanimità che il 2020 a Kalisz sarà l’Anno della Famiglia Fibiger, produttori di pianoforti. Il progetto è stato proposto dal sindaco di Kalisz, Krystian Kinastowski. Nella giustificazione della sua idea il sindaco dice che è stato a Kalisz che hanno costruito imprese fiorenti e una casa di famiglia. Gli strumenti musicali più belli, riconosciuti in tutto il mondo, sono usciti dalle loro mani. Hanno dedicato la loro vita alla fabbrica e all’educazione delle nuove generazioni degli accordatori di pianoforte e di piano. Secondo Kinastowski, le tradizioni trasmesse dalla famiglia Fibiger sono continuate nelle successive generazioni degli abitanti di Kalisz, provenienti da ex dipendenti della fabbrica Calisia o da laureati in Tecnologia di Costruzione di Pianoforti.

Nobiltà e attualità della comunicazione gestuale

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Entro in un caffè molto affollato e non posso avvicinarmi al bancone ma con lo sguardo raggiungo il barista e con un paio di gesti chiari ordino un espresso e cornetto senza proferire parola. Due conoscenti divisi da una rumorosa strada trafficata, a distanza si salutano, si dicono dove stanno andando, a fare cosa, e magari si danno appuntamento tutto solo attraverso la gestualità. Stiamo parlando con una persona quando alle sue spalle compare un amico che ci avverte, gesticolando silenziosamente, su cosa dire o non dire nella conversazione o su che tipo di persona abbiamo davanti.

Gli esempi d’utilizzo della gestualità sono infiniti esattamente come lo sono le modalità di interazione tra le persone. Il gesto è una ricchezza antica, una conoscenza trasmessa e modificata nei secoli che, al contrario di quello che alcuni erroneamente pensano, non rappresenta né un atteggiamento maleducato né tantomeno dipinge chi ne fa uso come persona di bassa estrazione sociale. Noi italiani lo sappiamo bene che il linguaggio dei gesti è importante e ne facciamo volentieri uso sia nella comunicazione verbale per rafforzare o chiarire dei concetti – che attraverso il gesto vengo visualizzati e non solo ascoltati dall’interlocutore – sia quando per scelta o per necessità comunichiamo senza parole.

Questo comunicare figurato ci contraddistingue nel mondo tanto che la caricatura dell’italiano è quella di una persona impetuosa ed esuberante che parla agitandosi, gesticolando con le mani. Una lettura che conferma la radice stessa del vocabolo gesto che deriva dal latino gerere (fare, compiere, agire) che a sua volta proviene dal greco gignomai, verbo polisemantico che contiene i significati di nascere, fare, divenire. E lanciandosi in etimologie potremmo inerpicarci fino al tedesco “gestalten”, che significa prendere forma, arrivando addirittura alla terapia psicanalitica Gestalt. Preso atto delle nobili, affascinanti, ma anche impervie vie etimologiche che portano alle radici semantiche della gestualità, torniamo invece ai gesti veri e propri nel loro uso quotidiano e popolare, gesti resi immortali al cinema e in televisione da straordinari interpreti, uno tra tutti il grande Totò che oltre a gesticolare in maniera sopraffina ed estremamente espressiva sapeva muoversi come un burattino tirato dai fili, una sorta di break dance ante temporum.

Sui motivi per cui nella penisola italica i gesti siano particolarmente diffusi esistono varie teorie, la prima sostiene che furono gli antichi Greci che colonizzarono culturalmente e in certe aree anche territorialmente l’Italia a introdurre i gesti marcati del nostro linguaggio, ragione che giustificherebbe il fatto che al Sud si gesticola più che al Nord. Altro motivo è quello che vede nella gestualità una sorta di lingua in codice per comunicare senza farsi capire da chi ti controlla o dai popoli invasori. Un’altra sicura strada che giustifica l’uso dei gesti in Italia è quella che li vede come essenziale contributo alla comunicazione tra diverse popolazioni in una penisola che, dopo la caduta di Roma, era suddivisa in una babele di lingue volgari locali derivate dal latino. I gesti vengono poi portati all’esaltazione scenica in particolare grazie alla Commedia dell’Arte, colorata forma di teatro popolare che, dai tempi di Carlo Goldoni fino al Premio Nobel Dario Fò, ha saputo affascinare il pubblico mondiale – allargando, grazie alla mimica, la platea di comprensione oltre gli spettatori di lingua italiana – attraverso uno spinto uso della gestualità corporea, che nel tempo ha anche codificato con grande efficacia la modalità di esecuzione e lo stesso significato di alcuni dei gesti più usati fino ad oggi come quelli che esprimono “l’aver fame”, “la bontà di un cibo”, o la “follia di una persona”.

La cosa curiosa è che quest’arte antica del gesticolare è stata recentemente rivalutata perfino a livello scientifico attraverso studi che dimostrano come chi ne fa uso abbia vantaggi nel pensare e nel memorizzare, insomma chi gesticola mentre parla, studia o comunica, ottiene risultati migliori. E quindi non è vero che un bravo oratore nel suo eloquio dovrebbe evitare di usare troppo le mani perché invece i gesti sono fondamentali per trasmettere i concetti tanto che spesso le frasi più ricordate sono proprio quelle arricchite dalla gestualità e questo perché, come dimostrano gli studi sulla comunicazione, il 70-80% delle informazioni/sollecitazioni che ogni individuo riceve arriva al cervello attraverso gli occhi e quindi la visualizzazione di un concetto grazie alla sua raffigurazione in un gesto raddoppia la possibilità che il concetto sia percepito dal nostro interlocutore. Per sintetizzare meglio l’importanza dell’uso dei gesti in quest’epoca di social network, basta pensare a quale enorme differenza di attenzione susciti su facebook un post con solo testo o un post con testo+foto. Il gesto è quindi l’immagine del nostro pensiero, il colore che arricchisce e rende più attraente la nostra comunicazione. Perciò d’ora in poi quando ci invitano a cena e ci servono un piatto squisito…. lasciamoci andare! Agitiamo la mano dal basso in alto, che significa “una cosa grande”, o portiamo un dito sulla guancia facendolo girare per dire “che buono”, insomma diventiamo espansivi e comunicativi!

Un fumettista tra Italia e Polonia

Luca Laca Montagliani (1971) opera in campo artistico, con intense frequentazioni polacche, dal 1987 con la creazione di CD-ROM multimediali (soggetto, animazioni 2D, musiche e doppiaggio), cartoni animati, colonne sonore, videogiochi, fumetti, attività musicali e teatrali. Nel 2013 ha ideato graficamente la statua dello gnomo italiano a Wrocław e disegnato la prima guida a fumetti della città: “Wrocław – komiksowy spacer” (in collaborazione con Ośrodek Pamięć i Przyszłość) per i testi di Marcello Murgia, tenendo inoltre diversi workshop sul fumetto, per adulti e bambini a Wrocław, Łódź e Varsavia. Dal 2014 si trasferisce in Polonia, a Kozienice, dove collabora con Dom Kultury con corsi di fumetto e italiano. A Varsavia cura l’edizione di un fumetto sul campo di concentramento femminile di Ravensbruck, scritto e disegnato da studenti di liceo, con la collaborazione dell’Istituto Nazionale della Cultura, la Fondazione Ja Kobieta e la supervisione di 5 donne sopravvissute al campo. Nel 2016 esce un fumetto sul movimento politico di “Solidarnosc a Wrocław”, scritto e disegnato insieme a Fabio Celoni e Marco Turini e prodotto da Ośrodek Pamięć i Przyszłość. Sulla linea culturale italo-polacca Montagliani ha anche il merito d’aver disegnato tre copertine di Gazzetta Italia e il divertente poster “GestItaliani” contenuto in questo numero della rivista. Nella sua carriera ha collaborato con Giorgio Rebuffi, Giulio Chierchini, Odrillo, Puck, Alan Ford, Kinder Ferrero, Rai Due, Marvel USA, Diabolik, Roberto ‘Freak’ Antoni, Il Secolo XIX, NDA Edizioni, Double Shot, 001 Edizioni, Centro Fumetto Andrea Pazienza, Edizioni Joker, Lucca Comics And Games, Lucca Junior, Il Male di Vauro e Vincino, Fondazione Ja Kobieta, Gazzetta Italia, Ośrodek Pamięć i Przyszłość, Fondazione Federico Calabresi e altri.