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Il grammelot di Dario Fo

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Nel 1969 con “Mistero buffo” il futuro premio Nobel per la letteratura Dario Fo metteva in scena uno spettacolo recitato in una lingua mescidata che univa, contaminandoli e fondendoli, diversi dialetti lombardo-veneto-friulani con la sua personale memoria della lingua dei giullari medievali. Il testo, pubblicato per la prima volta nello stesso anno a Cremona, con il sottotitolo di “Giullarata popolare in lingua padana del ‘400”, in realtà introduceva nella storia del teatro e della lingua italiana non una ripresa del padano tardo medievale, bensì quello che lo stesso Fo chiamò grammelot, cioè un discorso completamente agrammaticale e asemantico, eppure fortemente comunicativo nella sua realizzazione scenica, reso tale grazie alle doti mimiche e vocali dell’attore, costruito sulla imitazione della cadenza e della sonorità di una lingua o di un dialetto, che va a realizzare un discorso, senza però articolare frasi di senso compiuto.

Un linguaggio scenico, dunque, che non si fonda sull’articolazione in parole, ma riproduce alcune proprietà del sistema fonetico di una determinata lingua o varietà, come l’intonazione, il ritmo, le sonorità, le cadenze, la presenza di particolari foni, e le ricompone in un flusso continuo, che assomiglia a un discorso e invece consiste in una rapida e arbitraria sequenza di suoni: non solo, essendo dotato di una forte componente espressiva mimico-gestuale che l’attore esegue parallelamente alla vocalità, l’attribuzione di senso a un brano di grammelot è perciò resa possibile dall’interazione tra i due livelli che lo compongono, quello sonoro e quello gestuale.

Certamente se prodromi ed esempi di quello che oggi chiameremmo gramelot sono rinvenibili pure in precedenza nel teatro popolare europeo ma anche nel cinema, come nello straordinario monologo di Adenoid Hynkel nel film “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin, in Italia la parola però comincia ad essere testimoniata solo dopo il successo di “Mistero buffo”, nonostante lo stesso Fo abbia amato costruire una leggendaria origine storica di questa tecnica recitativa, facendo passare la vulgata che questo artificio fosse utilizzato da giullari, attori itineranti e compagnie di comici della commedia dell’arte già in epoca tardo medievale, quando questi professionisti dello spettacolo sarebbero stati indotti a recitare usando intrecci di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, affidando alla gestualità e alla mimica quel tessuto connettivo che rendeva la comunicazione possibile a prescindere dalla lingua parlata dal loro uditorio.

Ma in verità, progettando il suo “Mistero buffo”, aveva con ogni evidenza invece in mente ed evocava le narrazioni di quei fabulatori contadini che aveva avuto la fortuna di udire ed ammirare durante la sua infanzia, piegando inoltre chiaramente la sua scelta linguistico-teatrale verso un ben orientato senso ideologico, volto a valorizzare il recupero di una cultura popolare allora già in via di estinzione.

In effetti affascina il mito di queste immaginarie compagnie teatrali sempre in viaggio, che, muovendosi per l’Europa, senza poter fare affidamento su lingue franche per farsi intendere, oppure sulla conoscenza di lingue straniere da parte del pubblico, per la comunicazione non potevano che basarsi su lingue che il sito unaparolaalgiorno.it definisce “chimeriche, intrecci fra dialetti”, ipotizzando il grammelot come uno strumento capace di superare qualunque difficoltà di comprensione, pur possedendo una base linguistica al discorso e denotando la provenienza geografica del personaggio in scena. Ma anche il termine stesso grammelot o gramelot, che parrebbe una voce presa in prestito dal francese, è in realtà pure esso di origine imitativa e forse derivata dal veneziano: pensato come strumento recitativo, col suo assemblamento di suoni, onomatopee, parole e foni privi di significato in un discorso, ha trovato comunque nelle capacità gestuali di Fo la perfetta quadratura.

In “Mistero buffo” è soprattutto nella parte intitolata “La fame dello Zanni” che Dario Fo oltrepassa la mescidanza dialettale per raccontare in una lingua inventata, e soltanto risonante delle cadenze dialettali, la fame onnivora di un contadino inurbato nella Venezia del Cinquecento, Zanni, appunto: un povero che preso dalla fame si addormenta e sogna di mangiare qualsiasi cosa, immaginando di possedere tre pentoloni nei quali cucinar polenta, cinghiale e verdure; ma poi, non ancora sazio, di iniziare a mangiarsi parti del suo stesso corpo, lasciandosi alla fine solo la bocca a masticare; per poi svegliarsi e capire drammaticamente che si trattava solo di un sogno, disperandosi prima, per infine, sempre in preda ai morsi della fame, gratificarsi e saziarsi catturando e mangiando di gusto una mosca che lo stava infastidendo.

Ma a rendere efficace il grammelot serve un grande interprete, come appunto Dario Fo, capace di improvvisare un grammelot, con il quale lo spettatore si accorge di aver capito tutto, pur senza aver capito nulla. E sulla sua scia, anche un istrionico cantante come Adriano Celentano ha lasciato un esempio di grammelot musicale, imitando i suoni dell’inglese cantando nel 1972 la sua “Prisencolinensinainciusol”.

Le emozioni nostre alleate

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“Abbiamo due menti, una che pensa, l’altra che sente.
Queste due modalità della conoscenza,
così fondamentalmente diverse,
interagiscono per costruire la nostra vita mentale.”
(Daniel Goleman)

Dott.ssa Virginia Patrizi

Le emozioni accompagnano diversi momenti della nostra esistenza. A volte però vengono vissute come difficili, negative, complicate da affrontare e da gestire. La vita ci pone davanti a prove,  imprevisti spesso complessi che hanno necessariamente un impatto a livello emotivo. Riconoscere le emozioni e saperle governare permette di gestire al meglio la propria vita. In psicologia, le emozioni sono generalmente definite come uno stato complesso che si traduce in cambiamenti fisici e psicologici che influenzano il pensiero e il comportamento (L. Mecacci 2001). Sono il segnale che si è verificato un cambiamento, nel mondo interno o esterno, percepito soggettivamente come saliente. Le emozioni sono un costrutto multicomponenziale. È possibile infatti rintracciare la componente cognitiva  da parte dell’individuo circa l’antecedente emotigeno, la componente fisiologica dell’organismo (ad esempio, variazione della frequenza cardiaca, sudorazione, pallore, etc.), le espressioni verbali (il lessico emotivo) e non verbali (postura, espressioni facciali, gesti, etc.), la tendenza all’azione ed infine il comportamento vero e proprio, finalizzato a mantenere o modificare il rapporto tra individuo e ambiente in un dato momento (Scherer1984).

Perché proviamo emozioni e perché è così importante saperle decifrare? Le emozioni non devono essere confuse con i “sentimenti” e gli “stati d’animo”. Le emozioni sono caratterizzate da reazioni affettive intense, con insorgenza acuta e di breve durata determinate da uno stimolo interno o esterno. Mentre i sentimenti e gli stati d’animo presentano un’insorgenza meno acuta e tendono ad essere più durevoli nel tempo (Gordon 1985).

Inoltre le emozioni possono essere distinte in: emozioni primarie ed emozioni secondarie (Silvian Tomkins 1962, 1970).
Le emozioni primarie sono emozioni innate e sono presenti in ogni popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali. Le emozioni secondarie, invece, originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo, con l’interazione sociale  (Legrenzi, 1994). Non solo, la loro percezione e manifestazione è largamente influenzata dalla Cultura di riferimento.

Quali sono quindi le emozioni primarie o universali?
Secondo Ekman e Izard possono essere classificate come segue:

  1. rabbia, generata dalla frustrazione, può manifestarsi attraverso l’aggressività;
  2. paura, risposta innata ad un pericolo che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;
  3. tristezza, si manifesta a seguito di una perdita o da un scopo non raggiunto;
  4. gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti i propri desideri;
  5. sorpresa, origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;
  6. disprezzo, mancanza di stima e/o rifiuto verso persone o cose;
  7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.

Tra le emozioni complesse è possibile considerare: allegria, invidia, vergogna, ansia, noia, rassegnazione, gelosia, speranza, perdono, offesa, nostalgia, rimorso, delusione, sollievo  (Ekman 2008; Izard 1991).

Spesso, quando ci si riferisce alle emozioni, si tende a distinguere tra emozioni positive ed emozioni negative. Questa visione è di per sè fuorviante perché induce a pensare che esistano emozioni “giuste” ed emozioni “sbagliate”. Tale convinzione innesca un meccanismo di repressione che porta ad inibire le emozioni considerate negative. È importante invece considerare che le emozioni possono essere adeguate ad una situazione specifica o possono non esserlo, possono essere piacevoli o spiacevoli ma non sono sbagliate o negative.

Ma cosa succede quando reprimiamo le emozioni?

Secondo Freud “Le emozioni represse non muoiono mai. Sono sepolte vive e prima o poi usciranno nel peggiore dei modi.”

La mente e il corpo costituiscono un’unità, non è quindi insolito che le emozioni represse finiscano per manifestarsi attraverso problemi psicosomatici.
Uno studio condotto presso l’Università di Aalto ha rivelato come la rabbia repressa, ad esempio, è associata al doppio del rischio di subire un infarto. È inoltre noto che lo stress innesca la produzione di cortisolo, un ormone che genera processi infiammatori che risultano dannosi per le cellule del nostro corpo e che possono quindi innescare gravi malattie.

Le persone che hanno la tendenza a reprimere le loro emozioni reagiscono con una maggiore eccitazione fisiologica alle situazioni difficili rispetto alle persone che soffrono di ansia, come infatti emerso in uno studio classico condotto presso la Stanford University.

Dunque, quali sono le funzioni delle emozioni?

Le emozioni hanno un ruolo fondamentale a livello evolutivo e sono indispensabili per la sopravvivenza fisica e psicologica: servono a proteggerci, a riconoscere i pericoli e a difenderci da essi. Sono degli importanti indicatori, ci segnalano come stiamo e se stiamo raggiungendo gli obiettivi che ci siamo prefissati. Ci indicano se siamo soddisfatti o se abbiamo bisogno di un cambiamento nella nostra vita.
Tutte le emozioni sono quindi utili ed indispensabili. Senza paura per esempio non ci fermeremmo al semaforo rosso, senza la tristezza non riusciremmo ad elaborare i lutti e le perdite della nostra vita, ecc.

Quando però viviamo un’emozione troppo intensamente o quando non riusciamo a riconoscerla e decifrarla, corriamo il rischio che questa si rivolti contro di noi. Fattori culturali inoltre possono incidere sulla nostra capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni.
Capita di sentir dire per esempio ai bambini di non piangere o di non arrabbiarsi. Questo modo di agire fa sì che alcune persone in età adulta non siano in grado di gestire i loro stati emotivi e quindi tendano a reprimerli.
Dire invece come ci sentiamo o come gli altri ci fanno sentire, senza timori, ci permette di sviluppare relazioni interpersonali più mature e autentiche, aiutandoci a stabilire dei limiti sani e necessari per il nostro benessere. Si tratta quindi di dire le cose nel modo giusto, ma anche di farlo al momento giusto.
Non c’è una regola prestabilita che definisca cosa determini o meno una corretta espressione emotiva. Tuttavia, esiste un principio guida, quello di esprimere le emozioni quando sentiamo il desiderio di farlo, quando si ha la sensazione che ne va del proprio benessere.
Saper esprimere le proprie emozioni al momento giusto, in maniera chiara e senza ferire gli altri è la chiave per raggiungere il proprio benessere psico-fisico.
Rendere le emozioni nostre alleate migliora la consapevolezza di sé, orienta le proprie scelte e migliora le relazioni interpersonali.

www.virginiapatrizi.com                                                                                                Dott.ssa Virginia Patrizi

virginia.patrizi@gmail.com

+48 532 829 605

 

Fonte dell’immagine: https://www.consorziofarsiprossimo.org/

Il film “Corpus Christi” nella lista dei candidati all’Oscar

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Lunedì l’American Film Academy ha annunciato che il film del regista polacco, Jan Komasa “Corpus Christi” è entrato nella lista dei dieci candidati per una nomination all’Oscar quale migliore film internazionale. Tra i concorrenti del film polacco ci sono il sudcoreano “Parasite”, lo spagnolo “Pain and Glow” e il senegalese “Uccelli dipinti”. Sono state comunicati anche le nomination per il miglior film documentario e per la migliore colonna sonora. Nel film “Corpus Christi” recitano Bartosz Bielenia, Zdzisław Wardyn, Tomasz Ziętek e altri ottimi attori. I film polacchi hanno ricevuto ripetutamente nomination agli Oscar nella categoria del miglior film non inglese. Nel 2014 una statuetta in questa categoria l’ha ricevuta “Ida” di Paweł Pawlikowski.

Vacanze da sogno a Reggio Calabria

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Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine, scriveva Giovanni Pascoli su Reggio di Calabria. In effetti la città di Rhegion, come la chiamavano nell’età antica, è stata fondata nel VIII secolo a.C. sul territorio che all’epoca apparteneva alla Magna Grecia ed era una delle sue più importanti città con un grande pregio artistico-culturale grazie alla scuola filosofica pitagorica e alle scuole di scultura e di poesia. Tutta la città di Reggio e il suo territorio metropolitano sono finora un parco archeologico a cielo aperto. Dalle evidenze archeologiche presenti in città come l’Ipogeo di Piazza Italia (antica Agorà di Reggio), le Mura Greche e le Terme Romane sul Lungomare Falcomatà, agli scavi dell’antica Locri Epizefiri e dell’antica Kaulon. Celebri anche due statue in bronzo di uomini greci, dette Bronzi di Riace, ritrovate dopo due millenni in fondo al mare e diventate subito un simbolo della città, adesso sono custodite al Museo nazionale della Magna Grecia.

È situata esattamente sulla punta dello “Stivale”, a nord riparata dalle pendici dell’Aspromonte e a sud bagnata dalle acque del Mar Ionio, accanto dello stretto di Messina dove gli studiosi collocano l’incontro di Ulisse con i mostri mitologici Scilla e Cariddi. Si trova inoltre nel centro esatto del Mediterraneo e gode di un suggestivo panorama sulla Sicilia e sull’Etna. Infatti, la Sicilia è a portata di mano a soli 20 minuti di aliscafo. Con un alloggio a Reggio in giornata si può fare una gita a Taormina, al Parco dell’Etna, a Messina o alle Isole Eolie. Però non è solo un posto ideale per gli amanti della storia e delle vacanze attive. La città offre anche una bellissima spiaggia gratuita in centro dove passare le giornate in pieno relax e di sera, sul lungomare, non mancano le discoteche o i concerti soprattutto nella stagione estiva. Grazie al clima mite ogni stagione è ideale per visitare la Calabria.

Dalla primavera all’autunno sarà un ottimo periodo per tutti quelli che amano trascorrere il tempo tra la spiaggia e il mare, l’inverno invece sarà perfetto per chi preferisce concentrarsi sulla scoperta degli itinerari turistici. Da non perdere inoltre le prelibatezze della regione come gli agrumi, l’olio d’oliva o il gelato artigianale che qui ha gusti che sicuramente non avete mai assaggiato. Un alloggio ideale per sfruttare a pieno la ricca offerta di questa magnifica località meridionale è la casa vacanze Mare Blus situata in pieno centro di Reggio e gestita da Grażyna Zagórska, una polacca che da oltre trent’anni abita in Calabria. “È un posto magico ed indimenticabile. Tutte le persone che vengono sono entusiaste perché trovano il silenzio e la tranquillità, sono a due passi dal mare e da tutti i monumenti della città. Ho ospiti da tutte le parti del mondo ma mi fa sempre piacere accogliere i turisti polacchi,” dice la signora Grażyna che ai suoi ospiti offre un monolocale con un letto matrimoniale (è possibile aggiungere un lettino per bambini) e due splendidi terrazzi con una vista meravigliosa sull’Etna. Sul terrazzo più piccolo, nella stagione estiva, è possibile dormire sul divano riparato da un tetto. Quello più grande invece è munito di un comodissimo gazebo dove si trova un ampio divano e un tavolo per otto persone. E si possono fare, previo accordo, anche piccole feste.

La casa vacanze si trova a soli 8 km dall’aeroporto, a 4 km dalla stazione centrale, a 5 min. dall’autostrada e a 10 minuti a piedi dal porto. Ad ogni ospite è offerta una deliziosa e abbondante colazione mediterranea. Inoltre la signora Grażyna è sempre disponibile a dare delle informazioni utili: come risparmiare sui biglietti, dove mangiare le migliori specialità calabresi oppure quali monumenti e musei meritano la visita. Non è finita qui! Chi vuole avere un ricordo memorabile delle vacanze può chiedere alla signora Grażyna una sessione fotografica in spiaggia o per le strade della città. La prenotazione si può fare sul sito ufficiale di Mare Blus oppure su booking.com. A richiesta è possibile un passaggio da e all’aeroporto/stazione.

CONTATTO:

Sito web: www.casavacanzamareblus.com

E-mail: grazynazagorska@yahoo.it

tel. 0039 3204252861

Booking.com: Casa Vacanze Mare Blues

Miele o malto: che differenza fa?

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L’arrivo della stagione fredda mi fa istintivamente pensare ad una tazza di tè caldo. A qualche biscotto da inzuppare. Oppure perché no, da appendere all’albero. Alle domeniche passate in casa a preparare qualcosa di buono per la settimana. Ai cibi più golosi e anche più calorici, gustati senza sensi di colpa perché “è inverno e devo proteggermi dal freddo”!

Il filo conduttore di tutte queste cose belle? Il miele. Da sciogliere nelle tisane, da aggiungere ai dolcetti, ma anche ai piatti salati per chi, come me, ama i contrasti di sapore. Non ne sono estremamente golosa, ma certo in alcune preparazioni è quel tocco in più che rende tutto speciale.

Poi ho scoperto l’esistenza di malto e sciroppi: d’orzo, di riso, di mais e frumento. E come al solito ho iniziato a farmi domande, a chiedermi quale fosse la differenza, perché preferire uno all’altro. 

Iniziamo dal miele: tutti sappiamo che è prodotto dalle api, ma come? Attraverso la trasformazione delle secrezioni dei fiori (nettare) e di alcuni insetti (melata), che sono succhiate dalle api operaie, sottoposte all’azione di alcuni enzimi prodotti dalle api stesse, e poi rigurgitate nelle celle precedentemente preparate. 

Per produrne un chilogrammo le api percorrono un totale di circa 150.000 chilometri per andare a raccogliere il polline dall’alveare ai fiori. Esse sono in grado di arrivare a coprire un’area che si estende fino a tre chilometri dall’alveare. Che fatica!

A questo duro lavoro si aggiunge l’intervento umano. Il miele viene estratto tramite centrifugazione, lasciato decantare e poi riposto nei vasetti. Il colore e le sue proprietà variano a seconda dei fiori da cui proviene il nettare, ma in tutti i casi i benefici sono molti: ricco di minerali (calcio, fosforo, potassio, sodio, ferro, magnesio, zinco, rame, fluoro, manganese e selenio), di vitamine del gruppo B, e anche di aminoacidi.

Le sue proprietà sembrano essere tante, anche se è difficile capire quali siano reali, e quali invece basate solo su credenze popolari. Generalmente è considerato antinfiammatorio, sedativo, rinvigorente, antisettico e antibatterico, e quindi molto utilizzato come cura ai malanni di stagione.

E quindi, viene da chiedersi, dove può essere il problema? Come sempre nel commercio su vasta scala, che porta a metodi di produzione invasivi e spesso dannosi. Sicuramente poco rispettosi delle api, che non producono il miele per puro divertimento, ma per nutrire la propria colonia. L’intervento umano può considerarsi quindi un “furto” a nostro vantaggio: gli apicoltori in alcuni casi sostituiscono il prodotto di tanto lavoro con sciroppo di zucchero, il quale però non è del tutto equivalente alla dieta naturale. Molte api per questo motivo si ammalano e non superano l’inverno. In altri casi, gli alveari sono comunque distrutti prima che sopraggiunga il freddo, per non dover nutrire l’intera colonia e alla stagione successiva avere api più giovani e produttive. 

Se a condizioni naturali un’ape regina vive circa cinque anni, nelle produzioni industriali questa viene uccisa e sostituita ogni due, quando la sua capacità di produrre uova declina.

Si può rimanere indifferenti a queste notizie. Oppure no. La diminuzione della popolazione delle api, e le sue conseguenze sull’ecosistema, sono problemi che ci riguardano da vicino. Nel dubbio, si può scegliere di utilizzare il malto. Scopriamolo più da vicino. 

Il malto si ottiene aggiungendo orzo germogliato ai cereali cotti (orzo, mais, riso, grano). Lasciato a macerare per 3-4 giorni in acqua, l’orzo germoglia e sviluppa degli enzimi che attivano un processo molto simile a quello che avviene durante la digestione, trasformando l’amido in zuccheri più semplici. Data la presenza di orzo (che contiene glutine), il malto non è adatto ai celiaci.

La produzione dello sciroppo di cereali sfrutta lo stesso principio del malto, ma anziché partire dall’orzo germogliato, si utilizzano degli enzimi che attivano la trasformazione dell’amido del cereale. Il vantaggio è che si utilizza un solo cereale, quindi in caso di riso o mais, lo sciroppo ottenuto sarà senza glutine.

Il malto più dolce è quello di mais. Tutti però hanno un potere dolcificante inferiore del 50-60% rispetto allo zucchero bianco, data l’alta percentuale di acqua. Per le vostre ricette, tenete presente che 100 g di sciroppo di malto corrispondono circa a 80 g di zucchero semolato, e che proprio per il contenuto di acqua, ingredienti liquidi e solidi previsti nella ricetta vanno calibrati di conseguenza.

Come il miele, anche malto e sciroppi sono ricchi di vitamine e sali minerali (fra i quali troviamo in alta concentrazione potassio, sodio e magnesio) e di proprietà benefiche: azione antinfiammatoria, depurante per il fegato, antisettica per le vie urinarie (utili in caso di cistite), e favoriscono il transito intestinale.

Rispetto ad altri dolcificanti, sono una fonte energetica ad elevata biodisponibilità e rendimento, ad azione prolungata nel tempo: utilizzando il malto abbiamo un apporto continuo e costante di energia. Il tutto in cambio di un apporto calorico limitato: 100 g di malto contengono circa 300 calorie.

Malto e sciroppi di cereale quindi sono una valida e consigliabile alternativa agli altri dolcificanti più conosciuti, siano miele o zucchero bianco, del quale va ricordata la capacità di acidificare l’organismo, creando a lungo andare vari scompensi, soprattutto nell’assimilazione del calcio.

Fonti delle foto:
https://ncez.pl/abc-zywienia-/fakty-i-mity/miod-zamiast-cukru-

https://www.elle.pl/sport/artykul/miod-manuka-wlasciwosci-i-dzialanie
https://pl.depositphotos.com/35582785/stock-photo-christmas-tree-frome-honey-cells.html

Parole da buttare (seconda parte)

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Prima parte: clicca qui

Torniamo a parlare delle parole da buttare, neologismi, espressioni e tormentoni che non piacciono, che “non si possono sentire” (altra bruttissima espressione, molto usata – pronunciata e scritta – negli ultimi tempi. Se non si può sentire, basta tapparsi le orecchie, no?).

  1. BELFIE

E dopo il selfie, non poteva  mancare il belfie, cioè l’autoscatto che immortala al posto del viso il “lato b”. Il neologismo si sente per la prima volta un paio di anni fa, viene pubblicato sulla copertina di una rivista americana, e nasce dalla moda (o mania) delle celebrities di fotografarsi i glutei e di postare le foto sui social network. Iniziatrice, a quanto pare, Kim Kardashian, presto seguita da attrici, modelle, cantanti, orgogliosissime di fotografare il corpo a pezzettini e di identificare la parte (il lato b) per il tutto. 

  1. COME DIRE

Gli intercalari (dal lat. intercalaris, che viene inserito in una serie) vengono inseriti qua e là, molto spesso in modo irriflesso, e caratterizzano il modo di parlare di ciascuno di noi. Non hanno nessuna funzione specifica, né trasmettono contenuti semantici. L’intercalare come dire, se usato in modo corretto, una tantum, quando non ci viene in mente una parola, è accettabile, perché questa è, appunto, la sua funzione, ma il suo uso continuo (o meglio, il suo abuso) è particolarmente fastidioso. Non va, quindi, usato, in frasi come “Sono abbastanza, come dire, preparato per rispondere”, ma va bene per recuperare una parola che abbiamo sulla punta della lingua, oppure, ovviamente,  quando non conosciamo la parola esatta. Umberto Santucci, esperto in comunicazione, ammette anche un’altra possibilità per l’uso di come dire, utilizzabile per virgolettare un concetto, come ad esempio nella frase: “Il tuo vestito è, come dire, quasi abbagliante”.

  1. TRA VIRGOLETTE

L’uso delle virgolette per prendere le distanze da una parola o da un’espressione può essere molto efficace, ma anche in questo caso non bisogna esagerare. Infatti spesso usiamo le virgolette, scrivendo ma anche parlando, per risparmiarci la fatica di trovare la parola giusta. In particolare alcuni giornalisti (pigri) abusano delle virgolette, finendo per scrivere articoli oscuri e approssimativi. Forse bisognerebbe ricordare loro che, alla lunga, usare troppo le virgolette non  è “bello”.

  1. ANCHE NO

Anche no è un’interiezione, cioè un’espressione “buttata in mezzo” al discorso (dal lat. interiectio «atto di gettare in mezzo»), una parte del discorso che si usa per esprimere emozioni o stati soggettivi del parlante ed è priva di legami sintattici con le altre parti della frase. L’espressione anche no si sente sempre più spesso, ripetuta da comici (la Gialappa’s in primis), politici, giornalisti e viene usata per rispondere a proposte poco allettanti. Con questa espressione vogliamo esprimere un rifiuto attenuato, vogliamo dire che “possiamo farne anche a meno”. Assolutamente no (v. Angolo linguistico nel numero precedente di Gazzetta Italia) esprime, invece, un rifiuto netto e ha lo stesso valore di espressioni iperboliche come neanche per idea, neanche per sogno, nelle quali compare la congiunzione neanche, che altro non è che la fusione di né e anche, che ha una struttura simmetrica rispetto ad anche no.

Anche no è presente nel titolo e nel testo di alcune canzoni: Anche no di Povia del 2012 (la canzone si conclude poi con l’espressione anche sì, con il significato di perché no, ma non è così popolare come anche no) e Anche no del rapper Rayden (alias Marco Richetto) del 2009.

Variante di anche no è ma anche no, espressione nella quale il ma mantiene il suo valore avversativo, a un’affermazione segue una parziale rettifica, come ad esempio nel titolo “L’Italia fuori dal G8? Ma anche no!” («Forexinfo.it», 23/10/2013).

Ma anche no è stato il titolo di un programma televisivo domenicale andato in onda per pochi mesi su La7 e condotto da Antonello Piroso, dimostrazione ulteriore di come le mode e i tic linguistici vengano prevalentemente diffusi dalla televisione.

Insomma, visto che non abbiamo il coraggio di dire un no secco, ricorriamo all’attenuazione fornita dall’anche anteposto; un semplice sì non ci sembra più sufficiente e allora ricorriamo all’esagerazione dell’assolutamente (v. Angolo linguistico nel numero precedente di Gazzetta Italia)

Vista la stretta correlazione tra mass media e diffusione di neologismi, tormentoni e mode linguistiche, quasi tutte le parole che adesso vorremmo buttare vengono dalla stampa o dalla televisione, trasmesse da «chi per mestiere dovrebbe dar prova di una rigorosa competenza linguistica» (Diego Marani, Il Sole 24 ore), ma anche no! ☺

Progetto „Citri et Aurea”

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Schema della ricostruzione della collezione di agrumi a Wilanów Autore: Jacek Kuśmierski, 2018

La Galleria degli Uffizi ed il Museo del Palazzo del Re Jan III a Wilanów hanno deciso di iniziare una collaborazione dedicata alla collezione storica di agrumi.

Il progetto intitolato „Citri et Aurea” è nato come sorta di collaborazione tra il Museo del Palazzo del Re Jan III a Wilanów e la Galleria degli Uffizi – Giardini di Boboli a Firenze – nell’ambito della collezione storica di agrumi. Le prime attività avranno luogo nel novembre del 2019 in occasione della visita studio che effettueranno a Firenze tre specialisti polacchi, realizzazione finanziata per mezzo dei fondi del Ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale nel contesto del Programmo „La Cultura che Ispira”.

Alla base del progetto vediamo i rapporti venutisi a creare tra la corte del grande principe Kosmo III e la corte del re Jan III dopo la battaglia di Vienna, relazione che nel 1684 portò all’invio di otto casse di piante da Firenze a Varsavia.

“Citri et Aurea” è un progetto a lungo termine che comprenderà ricerche storiche sui rapporti tra la corte del granduca Cosimo III e la corte del re Jan III e sull’influenza della cultura italiana del giardino sulla collezione di agrumi Wilanów. I risultati delle ricerche verranno utilizzati per preparare pubblicazioni e mostre temporanee presentate nei giardini di entrambi i partner.

Nel secolo XVI i giardini venivano associati all’età d’oro e, nello specifico, all’undicesimo dei dodici lavori di Ercole, in cui Eris ruba le mele d’oro dal frutteto delle Esperidi. Grazie all’aiuto delle fontane e delle statue i Medici diedero vita a dei simboli aventi lo scopo di unire la loro famiglia alle virtù eroiche ed alla forza di Ercole. Fu in questo modo che gli agrumi diventarono un importante simbolo all’interno del giardino, in quanto furono associati alle mele d’oro di Esperide.

Questo motivo venne poi diffuso in tutta Europa, dando forma alla creazione di straordinarie collezioni di agrumi. Il titolo di Ercole Polacco (Hercules Polonus) venne assegnato al re Jan III durante tutto il suo regno (1674-1696), come testimoniano la sua residenza estiva a Wilanów, le decorazioni del palazzo ed il circostante giardino barocco. Gli architetti ed i giardinieri creaorono un vero e proprio paradiso di agrumi che assieme al gruppo di statue riuscì a glorificare la figura del re Jan III.

La tempesta storica portò poi alla perdita e dispersione della collezione reale. Il processo della sua ricomposizione ebbe luogo nel 2016. Il Museo del Palazzo del Re Jan III a Wilanów, desiderando continuare il processo di riproduzione della storica collezione di agrumi, nel 2019 ha iniziato a collaborare con la Galleria degli Uffizi. I Giardini di Boboli, sotto la tutela del museo, vantano una collezione straordinaria, tra cui si trovano specie e varietà risalenti ancora ai tempi dei Medici.

Vino e letteratura: 3° e ultima parte

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Parte II: clicca qui

La presenza del vino nelle mense della Grecia Antica era simbolo di prestigio sociale poiché la produzione e la lavorazione del prodotto richiedeva terreni e materiali di costo elevato. Si può parlare, dunque, della Grecia Antica come della prima vera grande terra del vino. Successivamente la bevanda venne esportata, grazie alle successive colonizzazioni anche verso il Mar Nero, l’Anatolia, le coste Africane e nelle terre occidentali raggiungibili per mare dal territorio greco.
Quando Omero racconta delle città d’origine dei capi degli Achei e ne descrive gli svariati pregi, non trascura tra questi la presenza di viti rigogliose: ”Arne dai molti grappoli d’uva… Istiea ricca di vigne… Epidauro ricca di vigneti…”.

I viticoltori greci non adottavano forme di coltivazione a pergola, come facevano invece gli egizi o come venne poi fatto in Italia. In Grecia le viti erano lasciate libere di scorrere sul suolo, protetto con materiali vari (rami o stuoie) per evitare il contatto diretto del frutto con il terreno. Questo sistema era sicuramente meno costoso dal punto di vista economico, ma richiedeva un numero elevato di unità lavorative per la lavorazione del suolo. La vendemmia solitamente avveniva nella metà di settembre. Riempite le ceste di uva, questa veniva portata alla pigiatura, eseguita in conche di legno d’acacia stagionato o in muratura leggermente inclinate per favorire la colatura del mosto. Una parte del mosto veniva consumata subito, dopo aver subito leggere aggiunte d’aceto, mentre la quasi totalità di questo era destinato alla vinificazione. Il mosto veniva inviato alle cantine dove avveniva la fermentazione in grandi vasi di terra cotta (3,5 metri di altezza e un’apertura di un metro), detti pithoi. Per ridurre la traspirazione, i pithoi venivano interrati profondamente e cosparsi esternamente di resina e pece. Questa tecnica conferiva al vino un aroma particolare, che si riscontra tuttora nel vino resinato greco. Dopo sei mesi di permanenza nei pithoi, si procedeva alla filtrazione e al travaso del vino in otri o anfore di terracotta appuntite per permettere la decantazione di eventuale deposito e successivamente commercializzato.

Altra terra che un tempo disponeva di ottime potenzialità per la coltivazione della vite e per la vinificazione è sicuramente la Palestina, grazie alla vicinanza con l’Oriente, come testimoniano ritrovamenti di attrezzature (torchi e tini) nel corso di scavi archeologici. Le notizie si possono avere leggendo i testi biblici. Lo sviluppo della pratica della vinificazione in Palestina continuò senza problemi fin verso la metà del ‘600 dopo Cristo, epoca della conquista musulmana.

Quando Roma può finalmente vantarsi del nome di ”capitale del mondo”, la viticoltura aveva già alle sue spalle una lunga storia. Durante il regno di Augusto tuttavia questa pianta e questa bevanda poterono godere di maggiori cure e di maggior diffusione e prestigio. In Italia nuove tecniche e nuovi vitigni vennero importati, soprattutto dalla Grecia. Viticoltura ed enologia rappresentano due aspetti importanti per la vita economica e sociale di questo periodo. Grandi nomi latini si avvicendano e si confrontano nella composizione di trattati di agricoltura, da Catone a Varrone per giungere, nell’epoca più fiorente dell’impero a Virgilio e a Lucio Moderato Columella. Osservazioni sui metodi di produzione del vino si affiancano alle istruzioni tecniche per la coltivazione della vite. Columella distingue fra uve da tavola e uve da vino e nella sua distinzione divide gerarchicamente queste ultime in tre gruppi, a seconda del vino che se ne ottiene. Nel suo trattato “De Re Rustica”, suggeriva per ogni vitigno il terreno più adatto e consigliava di impiantare varietà diverse e di tenerle separate al fine di ottenere un vino più pregiato. Secondo gli scritti di Columella la vendemmia si effettuava del mese di agosto fino a novembre, con la piena maturazione delle uve. Il controllo della maturità si basava sul gusto degli acini, sulla struttura dei grappoli e soprattutto dal colore scuro dei vinaccioli. Le uve erano pigiate nel calcatorium ed erano torchiate nel turcularium, quindi il mosto veniva raccolto e trasferito per la fermentazione nei dolia.

Insomma il vino rappresenta da sempre non solo una bevanda piacevole al palato ma anche il simbolo di una civiltà e di uno stato sociale.

La cassata siciliana

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Ingredienti:

Per il pan di Spagna:

  • 6 uova intere
  • 225 g di zucchero semolato
  • 225 g di farina 00

Per la farcitura:

  • 850 g di ricotta
  • 250 g zucchero semolato
  • 150 g di cioccolato fondente a scaglie o a gocce
  • 40 g di pistacchi tritati
  • 250 g di canditi misti: cedro, arancia e ciliegie
  • vaniglia in polvere, cannella in polvere
  • 1 cucchiaio di acqua di fiori d’arancio

Per la glassa:

  • 300 g zucchero a velo
  • 1 albume
  • 3 gocce di succo di limone

Per la copertura:

  • 500 g di pasta di mandorle verde e bianca

Preparazione:

Preparate il pan di Spagna: in una capiente ciotola mettete le uova intere sgusciate e lo zucchero e montate fino ad ottenere una consistenza molto spumosa. Aggiungete la farina setacciata, mescolando delicatamente dal base verso l’alto, un po’ alla volta fino a esaurimento della farina. Fate attenzione a non far smontare le uova. Trasferite in una teglia rettangolare rivestita di carta forno e imburrata ai bordi e cuocete a 185° per almeno 35-40 minuti, fate raffreddare, sformate e tagliatelo a fette di 6 mm di spessore.

Preparate il ripieno: in un pentolino portate a bollore lo zucchero con mezzo bicchiere d’acqua e un po’ di vaniglia in polvere. Mettete la ricotta in una grande ciotola, versatevi sopra lo sciroppo caldo e mescolate con una spatola.

Aggiungere quindi i canditi a pezzetti, prima infarinati e passati al setaccio, l’acqua di fior d’arancio, il cioccolato a scaglie, i pistacchi e la cannella (1-2 pizzichi a piacere).

Mettete in frigorifero a riposare. In un anello da bavarese  da 30-34 cm di diametro, montate la cassata. Mettete sul fondo delle fette di pan di spagna, coprite con la crema di farcitura e terminate con altre fette di pan di spagna. Mettete in frigorifero almeno una notte.

Il giorno dopo, stendete la pasta di mandorle bianca e rivestite il top della torta che avrete sformato dall’anello da bavarese e messo sul piatto di servizio.

Preparate la glassa: mescolate con una frusta l’albume con lo zucchero a velo e aggiungetevi le gocce di limone fino ad avere una glassa fluida ma non troppo. Stendetela sul disco di pasta di mandorle, cercando di renderla più uniforme possibile. Con la pasta di mandorle verde, formate una striscia lunga quanto la torta e alta quanto la torta e fatela aderire al bordo della cassata. Infine, decorate il top con canditi a fette.

Il pasticciaccio linguistico di Gadda

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L’origine dell’uso del termine culinario “pasticcio”, alla francese “pastiche”, in ambito letterario nasce probabilmente, come in quello musicale, già a partire dal XVII secolo, quando, oltre alle realizzazioni tipiche della musica barocca, gli esercizi di imitazione nella scrittura, detti “à la manière de”, offrivano la possibilità di esercitarsi, sfruttando una maniera letteraria già nota, per farsi conoscere, realizzando combinazioni di testi pre-esistenti più o meno citati che portavano a situazioni narrative nuove. D’altronde cos’è un pasticcio, se non una nuova ed appetibile pietanza, ottenuta però riciclando vecchi ingredienti già posseduti?

Anche nel XVIII secolo, nella famosa “Encyclopédie” illuminista, si parlerà così di “pastiche” come di un qualcosa che risulta né originale né copia.

E per oltre un secolo, fino agli inizi del Novecento, di “pastiche”, soprattutto satiricamente connotati, in cui gli autori fanno dell’imitazione riconoscibile degli stili di altri autori un motivo non solo d’esercizio mondano ma anche di gioco parodistico, se ne sono contati molti, sin da quando nel 1787 Jean-François Marmontel codificherà la tecnica del pasticcio letterario: dai “pastiche” di Leopardi, a quelli di Proust, fino agli “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, che faranno del “pastiche” un elemento caratteristico della letteratura postmoderna, in cui fondamentale appare l’apertura del testo attraverso forme differenti di intertestualità ed esplicite relazioni di un testo con altri testi.

Ecco allora che nel 1934, recensendo su “Solaria” il “Castello di Udine” di Carlo Emilio Gadda, all’amico Gianfranco Contini, all’epoca giovane filologo, verrà facile, parlando dello stile particolare dell’autore, riconoscere in lui la vocazione del “pastiche”, evidenziando l’imitazione di parlate diverse e la commistione di linguaggi tecnici, arcaismi e trasposizioni di dialetti, definendo così brillantemente la scrittura di Gadda come una combinazione “di risentimento, di passione e di nevrastenia”. Ed aprendo ad una nuova, aggiuntiva, connotazione il termine “pasticcio”, che da letterario diventa anche linguistico.

E sul pasticcio Gadda evidentemente converrà, visto che nel 1957 la sua realizzazione più tipizzante è infatti il romanzo intitolato “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, vero e proprio trionfo di un “pastiche” ben diverso da quello nato in epoca barocca come echeggiamento di stili e modelli letterari, ora invece da intendersi anche a livello plurilinguistico e/o multilinguistico.

Con Carlo Emilio Gadda la lingua italiana, a livello letterario e sperimentale, subisce un’artificiosa modificazione genetica destinata, ad un livello più basso, a trionfare decenni dopo su altri mezzi di comunicazione di massa, come soprattutto la radio.

All’origine l’obiettivo dello scrittore era però chiaramente quello di evidenziare la profonda ipocrisia sottesa alla realtà dello stile di vita della borghesia a lui contemporanea, giocando su un tono sarcastico impietoso e corrosivo, con un linguaggio sferzante ed innovativo, costruito attraverso una miscellanea di strutture dialettali (in parte lombarde, in parte toscane e in parte laziali) unite a termini della lingua colta e ad espressioni e modi del linguaggio scientifico, filosofico e burocratico; costringendo anche i registri stilistici a continui mutamenti, fondendoli in un particolare ed efficace melting pot linguistico, che – seppur spesso di non agevole lettura – appare sempre in grado di produrre nel lettore effetti sbalorditivi: i repentini ed improvvisi passaggi dal sublime al comico, dal tragico al patetico, dal sarcastico al grottesco, colgono infatti sempre di sorpresa anche il lettore più avvertito.

Ma la sperimentazione linguistica non è fine a se stessa: la sua lingua caleidoscopica, soprattutto nel “Pasticciaccio”, serve a mettere a nudo la meschinità e la bruttezza del mondo, attraverso la scoperta della falsità e dell’ipocrisia che dominano la società e che solo apparentemente costituiscono la realtà quotidiana. Carlo Emilio Gadda vuole scardinare alle radici quella realtà, utilizzando la sua lingua come una sorta di strumento d’indagine sociale, che alla fine, esploratolo, mette in evidenza del quotidiano la vacuità e la mostruosità, che si celano dietro apparenze solo di comodo. Un mondo che Gadda non accetta e non legittima, e che perciò scientemente e polemicamente deforma e mistifica, proprio con la sua lingua. Interpretando in modo molto personale il filone realistico, con un linguaggio frammentato che riproduce il disordine della realtà, riportando spesso brani di conversazione, modi di dire, frasi fatte, ha quindi lo scopo ultimo di mettere in luce l’irrazionalità e la fondamentale stupidità del mondo nel quale vive.

Gadda, d’altronde, della sua epoca, anche per la sua stessa esperienza biografica, non era riuscito ad avere una percezione positiva. Nato a Milano il 14 novembre 1893, da un famiglia di buona borghesia, originaria dalla provincia di Varese, era stato infatti fin da adolescente presto costretto, dalla progressiva crisi economica per investimenti sbagliati da parte del padre Francesco Ippolito (indebitatosi nella coltivazione dei bachi da seta e, soprattutto, per l’edificazione di una villa a Longone al Segrino), a lasciare gli studi liceali, iniziati al prestigioso “Parini”, per iscriversi – spinto ossessivamente dalla madre Adele Lehr – all’Istituto Tecnico Superiore di Milano, quello che poi sarebbe divenuto il futuro Politecnico. Ma, interrotti gli studi per la leva militare nel 1915, fatto prigioniero nella rotta di Caporetto e deportato in Germania, al rientro a casa, drammaticamente informato della morte al fronte del fratello Enrico in un incidente aereo, riprenderà gli studi universitari, accoppiando all’ingegneria anche la filosofia, per poi, una volta laureatosi ingegnere, intraprendere una serie di viaggi professionali che lo portano, nei primi anni Venti, in Sardegna, in Sudamerica, nel Belgio, nella Ruhr e in Lorena: solo al suo rientro in Italia inizierà a dedicarsi seriamente alla letteratura, intessendo fitti rapporti con gli scrittori e gli intellettuali del tempo, in particolar modo con quelli del gruppo della rivista fiorentina “Solaria”, cioè i vari Bonsanti, Montale, Falqui e Bacchelli. Dal 1950 a Roma, lavorerà poi stabilmente ai programmi radiofonici della RAI, continuando a dedicarsi ai suoi progetti letterari, che vedranno nei due romanzi “La cognizione del dolore” e “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” gli esiti più significativi.