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Parlando con Folco Terzani: “Mio padre, il mio maestro”

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Ci incontriamo a Firenze. Folco mi viene incontro scalzo, sorridente e gentile. Un attimo dopo mi fa entrare in un soggiorno accogliente, pieno di libri. Lì, sotto l’occhio attento di un piccolo Buddha, affondando piacevolmente in una poltrona morbida e bevendo un tè verde, parlo con Folco Terzani di suo padre, della scrittura e della divinità nascosta nella natura. 

MIO PADRE, TIZIANO

Folco Terzani, documentarista, scrittore e sceneggiatore, è figlio del famoso giornalista-scrittore italiano e corrispondente per Der Spiegel dall’Asia, Tiziano Terzani, che affascinò il mondo anche attraverso la scelta di un meraviglioso viaggio dentro di sé alla fine della sua vita. Tiziano, noto anche ai lettori polacchi, ha documentato la propria trasformazione interiore nei libri “Un altro giro di giostra”, “Le lettere contro la guerra” e nel libro-testamento “La fine è il mio inizio”, pubblicato ormai a cura del figlio.

Come era Tiziano Terzani nelle vesti di padre?

Era difficile perché era un personaggio. Mia madre dice che da quando è morto non ha più trovato un’altra persona così interessante con cui parlare. Non si tratta solo di una questione di intelligenza ma proprio di una fenomenale comprensione delle cose. E poi quando una persona del genere viene a mancare, ti accorgi che la conversazione con gli altri è completamente su un altro livello. Quando penso a mio padre, vedo subito una persona molto forte. Sicuro di sé e della propria vita. Nessuno era sopra di lui e nessuno lo comandava. Nemmeno quando ha incontrato Dalai Lama, non ha chinato la testa, era sempre lui a dominare la situazione. 

Nel libro postumo di tuo padre, da te curato, “La fine è il mio inizio”, Tiziano dice: “È come se con queste nostre chiacchierate io avessi voluto lasciare a te una sorta di viatico”. Per te invece cosa hanno rappresentato quelle ultime conversazioni? 

Una straordinaria occasione di fargli tutte le domande che volevo. Uno non si immagina che gli ultimi mesi di un rapporto con un genitore possano essere belli. E noi invece siamo stati bene. Ci siamo divertiti a parlare della vita e guardarla come un meraviglioso ciclo che continua in eterno. Lui mi passava il meglio di sé stesso e io cercavo di prenderlo e portarlo avanti come una staffetta di vita. A volte i dottori dicevano: “Non si preoccupi”, e lui rispondeva: “No, tu non ti preoccupare per me, io so come vanno le cose. Lo so che muoio e state tutti zitti e fate come dico io”. E aveva ragione lui, perché stava morendo. E io gli ho fatto tutte le domande di cui sentivo il bisogno, poi ha smesso di parlare per due giorni e quindi è morto. Si è svolto tutto con un’incredibile precisione. Se n’è andato dove voleva, quando voleva, con le persone che voleva intorno a sé. Una vicenda che sembra un po’ miracolosa ma in realtà si tratta di un approccio alla vita e alla morte che un tempo molte persone avevano. È importante avere consapevolezza di sé stessi, non devi per forza praticare la meditazione o essere una persona spirituale, importante è non avere la testa persa in mille altre irrilevanti cose intorno, bisogna vivere nel presente. 

Tiziano ha fatto un percorso straordinario di trasformazione, partendo dai reportage di guerra, finendo con uno spirituale messaggio di pace. Il suo modo di vedere la vita quanto ti ha influenzato?

In verità alla spiritualità ero più interessato io di lui. Quando sono andato a lavorare a Calcutta da Madre Teresa, lui diceva: “Sì, sì, vai, è interessantissimo. Però non buttarti dentro la minestra, assaggiala e vai via”. Lui era un giornalista e in questo lavoro devi avere la capacità di trattare temi completamente diversi, ovvero assaggi una minestra poi ne scrivi e passi ad assaggiarne un’altra, insomma conosci tante storie di vita. Gli ho risposto: “Ma se questa minestra è la più buona che abbia mai mangiato, allora non ho più ragioni a continuare ad andare in giro, mi fermo qui”. Lui rimase sorpreso, perché all’epoca da giornalista guardava alla vita in modo diverso, non era ancora interessato alla spiritualità. Per cui mi ha stupito quando poi ha sviluppato un approccio così filosofico tale da diventare uno dei miei più importanti maestri di vita. Ero curioso di quella trasformazione. Infatti la prima domanda che gli ho fatto nel libro “La fine è il mio inizio” era: “Ma tu davvero non hai paura di morire?”. Era un uomo talmente forte e deciso che quando faceva le cose, era come fosse un uragano. Credo abbia fatto un percorso così complesso in pochissimo tempo anche perché sentiva la minaccia della morte. Poi alla fine diceva che la malattia era diventata quasi una sua amica (sorride).

Qual è il ricordo più forte di tuo padre?

La sua fine. Perché mentre il suo corpo diventava sempre più debole, lui era sempre più lucido e forte. Ha saputo andare verso la morte come un guerriero, sereno, tranquillo, dicendo che era più interessato a quello che c’era dall’altra parte, invece di quello che aveva già visto qua. Mi ha stupito quando ha detto: “Sai, non mi interessa più questo mondo perché lo conosco già. Quel generale l’ho visto già 50 anni fa. Non è lo stesso generale ma è lo stesso tipo di uomo che dice le stesse bugie. Ho visto le stesse guerre per gli stessi ideali. Ed anche se può sembrare che sono delle guerre diverse, in realtà si lotta per gli stessi valori di sempre: per l’uguaglianza e per la giustizia. Ho visto queste cose, le conosco, non le voglio più vedere perché sono anche tremende. Sono più curioso di vedere cosa c’è dall’altra parte”. Sono frasi straordinarie, toccanti, per me indimenticabili. Il libro “La fine è il mio inizio” è un bel testamento. Proprio come voleva lui. 

IL MONDO

Folco, nato a New York, ha passato l’infanzia in vari paesi asiatici: Singapore, Thailandia, India, Cina e Giappone, seguendo insieme alla famiglia i passi del padre. Il soggiorno in cui parliamo, racconta le storie dei diversi viaggi compiuti, ed io decido di porre a Folco una domanda simile a quella che lui aveva fatto a suo padre: cosa vedi quando guardi il mondo?

Ho visto parecchio e sono interessato a come si sviluppa il mondo. Mi muovo spesso tra gli Stati Uniti, l’Europa e l’India. Sono tre poli molto importanti per me per capire come vanno le cose. Gli Stati Uniti è un paese rivolto alla crescita, al futuro ed all’innovazione. Poi c’è l’India dove ho vissuto molto, conoscendo la sua antica cultura ed i valori eterni custoditi soprattutto nelle montagne, i quali nelle città piano piano stanno sparendo. I valori opposti sono fortissimi. Per esempio mi viene in mente la bramosia dei cinesi nel far soldi. Loro credono profondamente nel materialismo! E poi c’è quest’Europa interessante che sta nel mezzo, avendo nello stesso tempo degli antichissimi tesori culturali, che continuano a parlarti, e la modernità. Credo che ci sia già la stanchezza della corsa verso il materialismo. Non so come siano i valori nei paesi dell’est d’Europa. Vorrei conoscere meglio la Polonia. Diciamo che voi avete incominciato quel percorso più tardi, da quando è caduto il comunismo. Siete però secondo me più freschi a comprendere le nuove idee ed a portarle avanti. E la varietà delle posizioni nei vari paesi europei credo sia un’opportunità per continuare a crescere in una direzione giusta.

Alla fine della sua vita, tuo padre si è ritirato per tre anni nell’Himalaya rivolgendo la sua attenzione verso la natura e sentendosi un tutt’uno con il mondo. Tu sei legato in un modo simile ad un luogo particolare?

(sorride)

La montagna pistoiese dove mio padre ha scelto di morire. Lì sei sulla frontiera con la natura, c’è un continuo scambio con gli animali. Come mai la montagna? Perché là trovi i tuoi spazi di solitudine. Un posto che per molti anni non era considerato e che ora piano piano viene valorizzato da una nuova consapevolezza verso il valore che ha la relazione con la nostra grande madre terra. A proposito, a volte ci passano dei polacchi e sono delle brave persone, perché chi arriva fino a lì, di solito è una brava persona. 

LO SCRIVERE

Con Folco mi incontro proprio il giorno prima dell’uscita del suo nuovo libro che leggo tutto d’un fiato in una sera (“Sei la prima!”, dice). Il libro, assicura Folco, probabilmente uscirà anche nelle librerie polacche. “Il Cane, il Lupo e Dio” è un racconto commovente, rivolto ad un lettore attento, sulla vita, sul valore della natura e sul senso del divino.

Finora i tuoi film e libri erano dei documentari. Com’è nata l’idea di scrivere una fiaba? È un libro universale adatto da 6 fino a 106 anni. 

Brava, esattamente quello! Mi hai dato la risposta giusta! 

(ridiamo)

I protagonisti del libro sono gli animali, ma metaforicamente descrivi un percorso di vita di un individuo che ha molta fiducia in Dio. Secondo te, oggigiorno è necessario recuperare i valori spirituali? 

Sì. All’università leggevo tantissimo e nel tempo mi sono reso conto che le persone di cultura spesso non sono migliori di quelle più semplici che vivono in sintonia con la natura. Mio padre ha scelto di morire in montagna ed il suo migliore amico era un contadino. Molti si stupivano ma era così. Ed i bambini, come i vecchi, sono molto attenti alla natura. Sono aperti, ascoltano e mi è venuta voglia di parlare con loro. C’era sempre il problema su come trattare il tema del divino senza toccare i capisaldi delle religioni e senza rischiare una deriva New Age. Parlare tramite gli animali mi è sembrata la cosa migliore perché essi non hanno le nostre strutture mentali, però anche loro avranno un senso spirituale di qualcosa più grande che comunica attraverso la natura.

Il messaggio più importante che vorresti trasmettere ai tuoi lettori?

Avere il coraggio di uscire dagli schemi umani e vedere che c’è qualcosa di molto più grande. Rendiamoci conto che siamo parte di una storia lunghissima, di un immenso movimento. Ripensiamoci ed abbiamo il coraggio di fare un percorso di vita in cui crediamo, per poi poter dire che abbiamo dato un senso alla nostra esistenza, come ha potuto dirlo mio padre.

Bologna a piedi: Santuario della Madonna di San Luca

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Se almeno una volta avete avuto possibilità di visitare Bologna, sicuramente avete notato un edificio caratteristico di una facciata arancione che domina sulla città. E non importa se veniamo in treno, in autobus o in aereo, il Santuario della Madonna di San Luca è il primo edificio che ci dà il benvenuto una volta arrivati nel capoluogo dell’Emilia-Romagna. 

Una lunga passeggiata sopra i tetti bolognesi

Il Santuario, a cui conduce un tratto di 666 (sì!) portici, fu costruito su una delle colline che circondano la città. Per questo una passeggiata per più di 3 chilometri per raggiungere il santuario è un pellegrinaggio, che dovrebbe essere intrapreso almeno una volta da ognuno che visita Bologna. La costruzione dei portici sulla collina che porta al santuario ebbe inizio negli anni 70 del XVII secolo. Il progetto di costruzione passava di mano in mano di diversi architetti, fino alla prima metà del XVIII secolo, quando i lavori vennero terminati.  Da secoli il santuario costituisce una meta per molti pellegrini che desiderano ammirare la famosa icona della Vergine col Bambino. Attualmente è possibile arrivarci anche in macchina, però questa soluzione non sembra piuttosto la migliore, se possiamo goderci di una lunga passeggiata, osservando come la città dietro le nostre spalle diventa sempre più piccola e lontana, fino al momento in cui potremo ammirare tutto il panorama di essa. 

Un’oasi verde

In una giornata serena, i raggi del sole arrivano attraverso gli archi dei portici e riscaldano i passanti diretti verso la collina. Invece una piacevole freschezza dei muri porta un rinfrescamento a tutti coloro che hanno deciso di fare il jogging sui colli bolognesi. D’autunno i portici proteggono i passanti dal vento e da una calda pioggia bolognese, ed una vola arrivati sulla cima,  lo sforzo della salita viene ripagato da un bel panorama: da una parte del verde dell’Emilia-Romagna, dall’altra: dei rossi tetti della cicciottella bolognese. Piccolo giardino di fronte al santuario, dove sulle coperte stanno sdraiati gli abitanti della città, sembra essere un luogo di incontro, un piccolo soggiorno in mezzo alla natura, una tranquilla oasi verde sollevata sopra i muri afosi della città riscaldati dal fervore umano. 

Davanti al tempio c’è un’atmosfera di un magico silenzio rilassante. La passeggiata sotto i portici favorisce la serena contemplazione, nella quale cadono spesso i passanti, quando durante una pausa si siedono o si appoggiano sugli archi e guardano il panorama della città, nascosto dietro le corone degli alberi. Dall’alto Bologna sembra tranquilla e di color mattone. Solamente da lontano, nell’aria, risuona un rumore di un aereo che atterra. 

Informazioni pratiche: 

  • Se avete voglia di intraprendere la passeggiata a piedi fino al santuario, potete cominciarla dalla Porta Saragozza da dove parte il più lungo tratto di portici, oppure da via Meloncello (per arrivarci vi consiglio di prendere l’autobus 94, che passa in via dei Mille, con cui arriverete direttamente in via Meloncello).

Parole da buttare (prima parte)

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Ognuno di noi ha delle parole che per qualche motivo non ama particolarmente, o preferisce non sentire, o addirittura non sopporta. A volte si tratta di neologismi non ancora registrati dai dizionari, oppure di tormentoni diffusi da mode più o meno passeggere o di vezzi (o vizi) linguistici che poi diventano popolari grazie ai mass media.

In ogni caso, stando ad alcuni sondaggi, ci sono delle parole particolarmente invise un po’ a tutti gli italiani. Vediamone alcune: 

  1. E QUANT’ALTRO

L’espressione e quant’altro, diffusa fin dagli anni Ottanta (registrata dallo Zingarelli dal 1994, dal DISC dal 2004), ma divenuta popolare solo negli ultimi anni, viene usata in chiusura di frase col valore di “e così via, eccetera” (in un registro più colloquiale si userebbe “e compagnia bella”). Probabilmente è una semplificazione della formula conclusiva, tipica del linguaggio burocratico, e/o quant’altro ritenuto utile/necessario, con perdita dell’elemento verbale. Questo uso ellittico dell’espressione crea un senso di sospensione, di inespresso che generalmente infastidisce.

  1. ASSOLUTAMENTE SÌ/ASSOLUTAMENTE NO

L’avverbio assolutamente ha valenza neutra: può avere valore affermativo o negativo a seconda del contesto e dell’intonazione con cui lo pronunciamo: “Sei d’accordo con me?” “Assolutamente!” (affermativo); “Non sei d’accordo con me?” “Assolutamente!” (negativo) e in questo caso i sinonimi sono del tutto, in assoluto, totalmente (GRADIT 1999-2000).

Il grande linguista Luca Serianni  fa notare che l’uso positivo di assolutamente (assolutamente sì) potrebbe risentire dell’inglese absolutely (usato come avverbio affermativo, che sarebbe più naturale tradurre con certamente).

Negli ultimi anni l’uso di assolutamente si è intensificato: l’uso (e abuso) isolato di questo avverbio era una caratteristica (ripresa poi da trasmissioni satiriche) del parlato di uno dei protagonisti della trasmissione televisiva Grande Fratello 2003 (È vero? Assolutamente; Sei d’accordo? Assolutamente; Ti piace? Assolutamente). Nel parlato la gestualità e l’intonazione fanno sì che non ci siano fraintendimenti (Nello scambio di battute Non ti piace? Assolutamente il secondo interlocutore avrà voluto esprimere totale accordo o disaccordo?). Anche i media ricorrono spesso (anzi, ne abusano) all’avverbio assolutamente in unione con sì o no e questo rientra nella tendenza generale all’uso di un linguaggio iperbolico e aggressivo (come si può notare nei telegiornali). 

  1. UN ATTIMINO

Attimo significa frazione di tempo e deriva dal greco atomos, quantità indivisibile. Per questo motivo la parola attimino, che dal punto di vista morfologico è un diminutivo, formato con l’aggiunta del suffisso -ino, non ha molto senso a livello logico, perché attimo indica già la più breve e indivisibile frazione di tempo. A partire dagli anni Ottanta, l’attimino si insinua tenacemente nelle conversazioni e rientra nell’uso, oggi frequente nell’italiano parlato-colloquiale, di diminutivi con valore attenuativo, di cortesia (aspetti un momentino) o di disimpegno nell’affermazione (Berruto). Successivamente, l’attimino ha esteso il suo valore semantico: da esclusivamente temporale ha assunto valore di qualità/modalità, nel significato di un po’ (sono un attimino stanca, aggiungiamo un attimino di sale…). E quest’uso di attimino modale-qualitativo resta, per il momento, fortemente avversato dai linguisti.

  1. PIUTTOSTO CHE

E come dimenticare il famigerato piuttosto che usato con valore disgiuntivo inclusivo (“o l’uno o l’altro, o anche entrambi”), anziché col valore disgiuntivo esclusivo previsto dalla norma linguistica (“o l’uno o l’altro, ma non entrambi”).

Il significato corretto di piuttosto che è invece di (Piuttosto che andare al cinema, faresti meglio a studiare = Invece di andare al cinema faresti meglio a studiare, cioè puoi fare solo una cosa), ma negli ultimi anni si è diffuso l’uso – scorretto – di piuttosto che nel significato di o, oppure (Puoi andare al cinema piuttosto che guardare un film in tv piuttosto che leggere qualcosa = Puoi andare al cinema o guardare un film in tv o leggere qualcosa, cioè puoi fare indifferentemente una o l’altra cosa). Piuttosto che può anche essere usato – correttamente – nel senso di pur di non (Piuttosto che rivelare il segreto si farebbe ammazzare = Pur di non rivelare il segreto, si farebbe ammazzare). L’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo inclusivo è stato studiato da vari da vari linguisti a cavallo del 2000 e sembrava una moda di origine settentrionale, milanese, in particolare, circoscritta ad alcuni registri (come quello economico-finanziario) e venata di snobismo. Ma l’uso e abuso in televisione del piuttosto che disgiuntivo inclusivo hanno portato, negli ultimi dieci anni, a “sdoganarlo” non solo nel parlato, anche nello scritto. Quest’uso è ancora (fortunatamente) fortemente avversato da molti (linguisti e non) e a difesa dell’uso corretto del piuttosto che si possono trovare in rete video, canzoni, pagine Facebook (in particolare quella del FLPC – Fronte di Liberazione dal Piuttosto che).

Seconda parte: clicca qui

Vino e letteratura (p. II)

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Parte I: clicca qui

A conferma dell’amore che gli antichi nutrivano per il vino, basti pensare al fatto che molti si dichiaravano certi fosse stata la sua scoperta a rendere l’uomo un essere evoluto, capace di rapporti sociali.
Il vino, insomma, è da sempre stato considerato un bene prezioso, al punto che presso certi popoli soltanto i nobili (e i ricchi) avevano il privilegio di gustarlo. A conferma di questa sua importanza “materiale” c’è anche uno dei più antichi documenti conosciuti: il codice di Hammurabi in cui si trovano precise disposizioni sul commercio e la vendita del vino. Tale era il valore riconosciutogli, che il vino costituiva l’elemento fondamentale nelle cerimonie in onore degli dei o di luoghi ritenuti loro dimora.

Distillato del sole, frutto gioioso della terra profonda, il vino rende lieve e felice la dura vita del contadino. Per questo sono ricorrenti le preghiere agli dei perché proteggano i preziosi grappoli; nel romano Lustrum ambarvale si invoca Marte con questa formula: ”Deh, tu i frumenti ed i frutti, i vigneti ed i virgulti fu che crescano e vengano su bene”.
Considerato un amico che risolleva dagli affanni, il vino è in grado di rendere meno ostile l’avversa natura e rasserenare la visione della vita.

Al tempo stesso, sotto l’effetto del vino aumenta l’umana disposizione alla riflessione esistenziale, e finalmente liberi dai vincoli psicologici che la società pone al nostro pensiero, possiamo contemplare con occhi nuovi il mondo intorno, seguendo almeno per qualche attimo le orme di Faust, presi dalla baudeleriana “Anima del vino”.

La nascita del vino

Risalire precisamente alla data di nascita del vino è praticamente impossibile in quanto la storia delle bevande fermentate ha inizio in tempi che non hanno lasciato dietro di loro documenti o tracce sicure e valide. I primi documenti che attestano la presenza del vino in quanto tale risalgono alla fine del IV millennio a.C. nella città di Sumer nella Mesopotamia meridionale. Sono stati appunto i Sumeri a fornire le prime tracce dell’esistenza della bevanda.

Il vino viene nominato per la prima volta tra i simboli cuneiformi che componevano l’“Epopea di Gilgamesh”, opera letteraria narrante le vicende di Gilgamesh di Uruk, primo eroe della letteratura scritta del Terzo Millennio avanti Cristo.

Del vino si può avere una visione più precisa se andando avanti nel tempo, e precisamente tra il X e VIII secolo a.C., ci si sofferma ad analizzare le parole di due personaggi, due grandi poeti o meglio ancora i primi due grandi poeti: Omero ed Esiodo di Ascra. Grazie ad Omero si riescono ad avere importanti informazioni riguardanti l’utilizzo e l’importanza del vino nell’Antica Grecia per quanto scritto tra le pagine dell’Odissea. Si può, infatti, con certezza risalire alle abitudini alimentari dei greci di quell’epoca.
Avevano una precisa divisione dei pasti durante tutto l’arco della giornata, precisamente sappiamo che i pasti durante tutto il giorno erano tre: l’ariston, consumato di primo mattino dove erano presenti sulla tavola pane e vino. ”Eumeo servendo sul tagliere le carni arrosto avanzate dalla sera, si affrettò ad ammucchiare nelle ceste il pane di frumento ed a mescere nella coppa un vino profumato di miele”. (Odissea XVI, 48-50).
Gli altri due pasti il deiphon e il dorpon corrispondono a pranzo e cena e come ovvio era in questi due pasti che avveniva il principale consumo della bevanda.

Parte III: clicca qui

Lino Ieluzzi

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Il suo negozio Al Bazar in via Scarpa 9 a Milano funziona sin dall’inizio degli anni Settanta. Inizialmente fu un boutique con abbigliamento alla moda, ma dopo tre anni  Lino Ieluzzi ha deciso di cambiare strategia e diventare noto per quello che lo distingue ancora oggi: abiti, cappotti, cravatte, papillon, scarpe… ovvero tutto ciò che può desiderare un uomo di classe! Al Bazar è conosciuto dai dandy di tutto il mondo; Lino  è seguito su Instagram ormai da 74 mila utenti e non appena appare alla fiera Pitti Uomo tutti i fotografi sono pronti a seguirlo per fotografare il suo outfit. Ieluzzi è una fonte d’ispirazione per uomini di tutte le età, mostrando come migliorare il proprio image e vestirsi bene magari con un pochino di disinvoltura. Ho deciso di passare al suo negozio e fare due chiacchiere accompagnati da un buon caffè e una sigaretta.

Come definirebbe la parola “sprezzatura”?

Vestire con sprezzatura vuol dire essere elegante per ogni occasione, ma con disinvoltura. Significa non sentire un peso o una costrizione per ciò che si indossa. Vestire divertendosi e facendo uscire allo scoperto la propria personalità!

Negli ultimi anni si nota nei giovani uomini un forte interesse per la moda classica. Lei che è una leggenda del settore, cosa ne pensa?

I giovani, nonostante l’esperienza che ancora devono crearsi col tempo, grazie agli errori e ai successi, hanno un pregio: oggi più di ieri, hanno una grande voglia di apprendere!

Ultimamente abbiamo assistito alla fiera Pitti Uomo. Qual è secondo Lei il futuro della fiera e della moda maschile in generale?

Non so dire come sarà Pitti tra 10 anni. Personalmente spero che questa fiera potrà nel futuro continuare a tenere salda la sua origine fiorentina, e, perchè no, il suo contesto d’eccezione all’interno della Fortezza da Basso. Un posto speciale che rende la fiera ancora più unica nel settore della moda internazionale. Tra l’altro parliamo di una fiera famosa e frequentata da addetti al settore provenienti da tutto il mondo. Del resto si sa, Pitti non è più importante solo come esposizione ma sta divenendo sempre più un’occasione unica per conoscere gente, fare pubbliche relazioni e avviare collaborazioni produttive.

Quale sartoria preferisce: inglese o italiana?

Ma sicuramente quella italiana perché noi abbiamo legato ad essa la passione che ci distingue ancora oggi. La sartoria è la nostra vita e questo fa la differenza.

Non si sa molto della Sua vita privata. Quali sono le Sue passioni? Oltre alla moda maschile e al Suo amico a quattro zampe, ovviamente… 

Le mie passioni hanno da sempre avuto un ruolo importante nella mia vita. Da giovane, sono state le stesse passioni che ancora oggi continuo ad avere, a spingermi ad iniziare a lavorare, svolgendo anche più lavori contemporaneamente, per poterle soddisfare. Oltre al mio fantastico compagno d’avventura Tommy e all’abbigliamento, spazio dalla passione per gli orologi alle penne, dagli accendini alle auto.

Cosa possono imparare i polacchi e il resto del mondo dagli italiani per quanto riguarda il vestire?

Sicuramente la sicurezza e il divertimento nel vestire, l’abbinare i colori, la cosa in assoluto più difficile, e capire che le regole non esistono: esiste solo il buon gusto.

Consigli per i dandy principianti?

La parola d’ordine è divertirsi. Chi vuole vestire deve sentirsi libero di scegliere ciò che più lo fa sentire meglio e lo fa divertire al tempo stesso. Mai vestirsi per dovere. Vestire dev’essere un gioco e perchè no, osando, giocando un po’ con i colori!

Qual è il Suo ristorante preferito a Milano?

Milano è una città davvero ricca di buoni ristoranti quindi non è facile dare una risposta. Tra gli altri Cacio e Pepe propone un’eccellente cucina romana (i carciofi alla romana e un’ampia scelta di primi sono sicuramente tra le mie scelte), Sale Grosso propone invece piatti a base di pesce di qualità, mentre la Langosteria offre piatti molto ricercati.

Tesori di pietra, rocche di tufo e boschi incantati nella Tuscia viterbese

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“Nessun rumore turbava la scena. Solo il frinire delle cicale, che si sentiva distintamente, metteva in risalto il silenzio solenne dei luoghi. Nessun segno di vita umana si notava dintorno, ad eccezione di una colonna bianca di fumo che si innalzava dai boschi, lontano”.

George Dennis, The Cities and Cemeteries of Etruria, London 1848.

Con queste parole George Dennis, il celebre ambasciatore e archeologo inglese che fu tra i primi viaggiatori stranieri a percorrere con intelligente attenzione e amore l’Etruria meridionale, descrive poeticamente uno scorcio del Viterbese, ovvero quel territorio raggiungibile con mezz’ora di macchina a nord di Roma. 

Qui si apre infatti un paesaggio inaspettato, che contrasta fortemente con il caos di una grande metropoli, per quanto grandiosa, quale è divenuta Roma. Certo, non si tratta più dell’incredibile panorama ottocentesco, simile per tanti versi a quello del mondo antico e medievale, ma a oggi è in larga parte ancora incontaminato e offre delle vere e proprie sorprese al viaggiatore – più che al turista – che vuole immergersi in un territorio più originale e variegato. Così, per chi vuole avere un’esperienza italiana diversa dalle mete più tradizionali e famose facendo capo a Roma, non resta che fuggire dalla città e ritrovarsi immersi in paesaggi ameni e diversificati, ma tutti basati su un fascino antico che ha resistito nei secoli. 

Tra il Seicento e l’Ottocento si sviluppò in Europa l’uso, per coloro che appartenevano a classi abbienti e nobiliari, di compiere un lungo “viaggio di studio” la cui meta specifica era l’Italia e i suoi monumenti antichi, prima tra tutte la Città Eterna. Moltissimi sono i diari che ci raccontano questo itinerario di viaggio di scoperta, e non pochi furono i personaggi polacchi, anche di altissimo rango, che lo vollero affrontare e che in certi casi si stabilirono poi in Italia centrale, come alcuni membri delle famiglie Sobieski e Poniatowski, oppure artisti come Tadeusz Kuntze, che affrescò chiese anche a Soriano nel Cimino. 

Tra Firenze e Roma, la via maestra era, ieri come oggi, la Via Cassia, che penetra insieme all’Aurelia e alla Flaminia in quello che era il cuore dell’Etruria, ovvero quella regione abitata tra il X e il I secolo a.C. circa da uno dei più importanti e affascinanti popoli dell’Italia preromana, gli Etruschi. Questa magnifica civiltà, che a oggi non ha nulla di misterioso né segreto sebbene tale risulti nell’immaginario collettivo, ha segnato il territorio con i suoi grandiosi monumenti di pietra destinati ad accogliere il sonno eterno di principi e aristocratici, e non solo nelle celeberrime tombe dipinte di Tarquinia e Cerveteri, entrambi siti Unesco, ma anche in fastosi monumenti scavati nel tufo a somiglianza delle case in uso all’epoca, ancor oggi visitabili, nascoste in boschi e luoghi ancora parzialmente incontaminati. 

E allora il viaggiatore curioso si armerà di cartina topografica (più che del navigatore…) e andrà alla scoperta delle necropoli di San Giovenale e San Giuliano, presso i pittoreschi paeselli di Blera, Barbarano Romano e Civitella Cesi, in una campagna collinare e boscosa dove pascolano asini selvatici e mucche maremmane, e volano alto grandi rapaci. E proseguirà poi verso Viterbo, dove si immergerà, in una sorta di viaggio nel tempo, nei silenzi delle maestose necropoli rupestri di Norchia e di Castel d’Asso, entrando all’interno di camere funerarie scavate nel masso tufaceo, quasi tutte violate dal tempo e dagli uomini, mentre alcune, ancora intatte, ritornano alla luce per opera degli archeologi restituendo i loro tesori millenari.

Ma non solo Etruschi: nel territorio di Viterbo sono importanti anche le vestigia della romanizzazione, con le strade selciate e alcuni dei monumenti-simbolo della grandezza di Roma. Si potrà così camminare sugli antichi basoli della via Cassia, la Clodia, la Flaminia e l’Amerina, fiancheggiate da monumenti funerari di età romana anch’essi scavati nella roccia e imitanti quelli degli etruschi ormai conquistati e romanizzati. A Sutri, oltre la bella necropoli, non può mancare la visita all’anfiteatro scavato interamente nel masso tufaceo, simbolo della passione romana per i “giochi” cruenti e sanguinari. Come a voler mitigare e purificare l’anfiteatro, poco lontana si apre la splendida chiesetta rupestre di Santa Maria del Parto con i suoi suggestivi affreschi medievali, creata in quello che probabilmente era un tempio dedicato al dio Mitra, di origine orientale, e forse ancor prima una tomba. 

Restando in tema romano, a Ferento, poco lontano da di Viterbo, si può passeggiare dentro una città con il suo teatro, ancora usato – ieri come oggi -per gli spettacoli. Fino a poco tempo fa questo luogo meraviglioso era chiuso, ma grazie all’opera di un’associazione di volontariato (Archeotuscia onlus) è oggi possibile ammirarne la fascinosa maestà. Isolata e grandiosa è poi la città etrusco-romana di Vulci, immersa in un suggestivo paesaggio naturale attraversato dai canyon creati dal fiume Fiora, scavalcato dall’ardita arcata del “Ponte del Diavolo”, che collega il sito con l’abbadia fortificata qui sorta, poi trasformata in castello e oggi sede del Museo Archeologico Nazionale di Vulci.

Vi sono poi altri luoghi e monumenti nascosti, ritornati alla luce solo da pochi anni e ancora poco conosciuti: a volte per scoprirli bisogna davvero impegnarsi. Ma per questo, quando li si raggiunge, la sorpresa e la soddisfazione sono maggiori: si tratta di una serie di altari etrusco-romani, tra i quali primeggia la cosiddetta Piramide di Bomarzo, nome popolare che le deriva dalla sua forma e dalle gradinate che portano alla cima di questo gran masso di peperino lavorato, sulla sommità del quale è ancora adesso possibile cogliere l’atmosfera di sacralità che doveva avvolgere gli antichi frequentatori del luogo, in un connubio strettissimo tra natura e culto. 

Risalendo il corso dei secoli, è possibile visitare in questo territorio alcune catacombe, come quelle di Santa Savinilla a Nepi e quelle pervase di grande spiritualità dedicate a Santa Cristina a Bolsena, centro quest’ultimo che si apre con il suo svettante castello a ridosso del lago di Bolsena.

Il Viterbese è infatti anche terra di laghi: Monterosi, Bracciano con Martignano, Vico e Bolsena con le sue isole Martana e Bisentina, ognuno dei quali è uno scrigno naturale sul quale si affacciano a volte graziosi borghi, a volte mantenendo le rive a verde e fornendo riparo e accoglienza a uccelli grandi e piccoli. Dall’azzurro dei laghi ci si tuffa poi nel verde dei boschi del Monte Fogliano e della Faggeta del Monte Cimino, polmone verde appena entrata, anch’essa, nella lista dei siti Unesco del Viterbese.

Non manca poi il Medioevo e l’età moderna, che hanno improntato il panorama urbanistico di tutti i paesi, arroccati su lingue e speroni di tufo, e di Viterbo stessa, prescelta come sede della curia pontificia, di conclavi e residenza stessa di Papi tra XIII e XVII, decisione alla quale non fu estranea, oltre al difficile clima politico romano, l’aria più salubre rispetto a quella di Roma e la presenza di ricche fonti termali delle quali restano ancora importanti vestigia. Per tutti valga la visita del Palazzo dei Papi, della seconda metà del XIII secolo, la cui loggia sembra ritagliata in un merletto di pietra. 

La nobiltà romana occupò questo territorio, posto in una centrale posizione strategica lungo le maggiori strade che portavano a Roma, e vi eresse palazzi – come quello Farnese a Caprarola – poi torri e castelli, le prime perlopiù dirute ma in piedi come quella di Chia, già appartenuta a Pierpaolo Pasolini, e i secondi ancora fruibili e aperti dai proprietari al pubblico, come quelli di Vignanello, Vasanello, Montecalvello, Torre Alfina e altri ancora. Tuscania poi rappresenta una vera perla di tufo, con le sue chiese che si stagliano nell’azzurro del cielo e l’abbazia cistercense di San Giusto, recentemente restaurata e resa visitabile dai proprietari.

E infine, chiudono questa rapida carrellata due luoghi visitati ogni anno da milioni di visitatori: Civita di Bagnoregio, la cosiddetta città che muore, ma che vive invece una felicissima stagione di notorietà, innalzata su uno sperone tra i calanchi, e il celeberrimo Parco dei Mostri di Bomarzo, un eccezionale complesso di magiche sculture e significati ermetico-filosofici costruito intorno al 1552 dal principe Pierfrancesco Orsini detto Vicino, che da solo vale una visita in Italia.

Se questa carrellata di luoghi e immagini susciterà in qualcuno dei nostri lettori il desiderio di visitare la provincia di Viterbo, si può assicurare che non verrà deluso nelle sue aspettative. Buon viaggio allora!

Grande ritorno do Massimiliano Caldi

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MASSIMILIANO CALDI RITORNA ALLA FILARMONICA DI SLESIA A KATOWICE ESATTAMENTE 20 ANNI DOPO LA VITTORIA NEL CONCORSO G. FITELBERG

Venerdì 6 dicembre a Katowice, il Maestro Caldi dirigerà l’Orchestra Sinfonica della Filarmonica di Slesia a nome di H.M. Górecki. Massimiliano Caldi nel Concerto-Cantata H.M. Górecki sarà accompagnato dal suo amico flautista Raffaele Trevisani. Il programma comprenderà anche la Poesia Sinfonica “Step” (it: “La steppa”) di Nowakowski e la Suite dal film “La strada” (reg. Fellini) di Nino Rota. Massimiliano Caldi dirigerà l’orchestra nel 20° anniversario del lontano dicembre 1999, quando vinse il primo premio della giuria e la medaglia d’oro dell’orchestra alla sesta edizione del Concorso Internazionale dei Direttori d’Orchestra G. Fitelberg. Il concerto rientra nell’ambito delle iniziative per celebrare il centenario delle relazioni diplomatiche polacco-italiane, nonché cade in occasione del 40° anniversario della morte di Nino Rota e delle Giornate Internazionali dedicate a H.M. Górecki.

Prima di tornare in Italia il 10 dicembre all‘Opera Baltica di Danzica, Massimiliano Caldi inizierà le prove della brillante opera comica Don Bucefalo di Antonio Cagnoni del 1847, che ha diretto e registrato su CD (Dynamic) nella sua prima esibizione moderna al Festival “Valle d’Itria” nel luglio 2008. La prima è prevista per il 31 gennaio e le prossime rappresentazioni per l’1, 2, 14, 15 e 16 febbraio 2020.

Ricciarelli di Siena

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Ingredienti:

  • 400 g di mandorle pelate intere
  • 380 g di zucchero semolato
  • 100 g di zucchero a velo
  • 50 g di farina 00
  • 2 albumi d’uovo
  • 20 g di acqua
  • mezzo rettangolo (21×30 cm) di ostia
  • 1/2 cucchiaino di lievito per dolci
  • 1 cucchiaino di estratto di mandorla amara

Procedimento:

in un cutter, tritate finemente le mandorle con 330 g di zucchero semolato, poi trasferitele in una capiente ciotola e mescolate. In un pentolino portate ad ebollizione l’acqua con i rimanenti 50 g di zucchero semolato. Quando lo sciroppo ottenuto velerà il cucchiaio, togliete dal fuoco e versate sopra il composto di mandorle tritate e zucchero. Mescolate bene, poi aggiungete 50 g di zucchero a velo, la farina e il lievito setacciati tutti assieme. Mescolate ancora il composto. Coprite il composto con un panno umido e lasciate riposare a temperatura ambiente per almeno 12 ore.

Montate a neve gli albumi aggiungendovi gradatamente i rimanenti 50 g di zucchero a velo e l’estratto di mandorla amara. “Rompete” l’impasto riposato con le mani o con una spatola fino a renderlo lavorabile. Amalgamatevi gli albumi, mescolando delicatamente dal basso verso l’alto.

Poi portate il composto sul piano di lavoro spolverizzato con zucchero a velo setacciato e lavoratelo con le mani fino a renderlo malleabile. Formate dei filoncini e con un coltello tagliate delle fettine. Date loro la forma allungata pizzicando le estremità con le punte delle dita. Ritagliate l’ostia con la sagoma del ricciarello e disponetele su una teglia rivestita di carta forno. Ponete sopra ciascuna ostia ritagliata il ricciarello. Spolverate con zucchero a velo setacciato. Cuocete in forno statico (senza ventola) a 110° per 10 minuti circa: i ricciarelli devono rimanere morbidi e chiari. 

Fate raffreddare prima di impiattare. Conservateli in una scatola di latta: saranno morbidi e fragranti per almeno 4-5 giorni.

Buon appetito!

GAZZETTA ITALIA 78 (dicembre 2019 – gennaio 2020)

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Gazzetta Italia 78: Il tratto di Beata Malinowska-Petelenz ci regala una magnifica copertina dedicata a Venezia, città dei cui problemi e prospettive si parla ampiamente nello speciale “Capire Venezia” in cui intervengono sette autori. Questo numero di Gazzetta si arricchisce della nuova rubrica “Finchè c’è cinema c’è speranza” dell’esperta Diana Dabrowska che esordisce con una splendida analisi del cinema italiano a partire dalla pellicola cult “Il Sorpasso”. Storia, mito e stereotipi machiavelliani vengono invece sviscerati dal professor Campi che ci propone una visione innovativa sulla figura del grande fiorentino. E poi ancora si parla di viaggi (Calabria e Pompei), di moda (Elisabetta Franchi), d’arte, di cucina, di lingua italiana, di Ferrari e grazie allo scrittore Alessandro Marzo Magno scoprirete le autentiche origini del panettone!

Sgombro marinato in dolce cottura

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Un gustosissimo pesce povero ricco di omega 3, ottimo come antipasto e secondo piatto leggero.

Ingredienti:

2 sgombri  (medi da ca. 250 g cad.)
Prosecco 100/150 ml
Aceto bianco (1 cucchiaio)
Zenzero q.b.
Alloro  5/6 foglie
Timo  qb.
Aglio (1 spicchio)
Zucchero (2 cucchiaini da caffè)
Sale qb.
Olio di semi di girasole 300 ml

Preparazione:

Pulite bene gli sgombri. Tagliate la testa e sfilettate. Con una pinzetta diliscate i filetti. Prendete un contenitore e ponete sul fondo i filetti con la pelle rivolta verso il basso; versate il prosecco mescolato all’aceto e spargete tutti gli ingredienti. Lasciate riposare a temperatura ambiente per 3 ore.

Trascorse le 3 ore, sciacquate leggermente i filetti con un po’ d’acqua. Versate tutto l’olio in un pentolino, mettete sul fuoco più basso possibile (se potete con un termometro misurate la temperatura che dovrebbe assestarsi a 65°). Tagliate i filetti a rombi e poneteli delicatamente nell’olio con la pelle rivolta verso l’alto. I tranci dovranno essere immersi totalmente nell’olio; cuoceteli per 5/6 minuti senza mescolare. Togliete i filetti dall’olio e poneteli su una carta assorbente e poi impiattate a piacere. Sono molto buoni sia freddi che appena tiepidi.

Buon appetito!