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Raffineria di Danzica venduta a Saudi Aramco, per Tusk è uno scandalo

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl.

L’azienda araba Saudi Aramco ha rilevato una parte delle azioni della raffineria a Danzica. L’ex primo ministro si è riferito a questo caso su Twitter scrivendo: “Il costo dell’investimento sarà recuperato dalla società araba in meno di un anno, la vendita è un regalo agli arabi fatto dal PiS ed è il maggiore scandalo nel 21° secolo in Polonia”. Tusk ha fatto notare, che durante il proprio governo la Polonia ha investito nella raffineria 10 miliardi di złoty e grazie a questo è diventata una delle raffinerie più moderne l mondo. “Io oggi dichiaro che questo affare è stato una sciocchezza o una grande corruzione, e potete essere sicuri che non starò a guardare”, ha dichiarato l’ex primo ministro. Al post ha risposto il vice primo ministro Jacek Sasin, raccontando che tutti hanno visto i documenti che dimostrano che Tusk voleva vendere l’azienda Lotos ai Russi.

https://forsal.pl/gospodarka/polityka/artykuly/8618572,tusk-sprzedaz-rafinerii-gdanskiej-to-najwieksza-afera-xxi-wieku-w-polsce.html?fbclid=IwAR0vqCgLGUn_PDBi3g7xjcLEEg6JJGxEsYy-MSTamiTs2RvAvLseq2NABJo

Enzo Favata Musica sconfinata

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fot. Fiorella Sanna

“La mia musica è contaminazione, sperimentazione, innovazione nella tradizione”. Così Enzo Favata, noto compositore polistrumentista sardo, definisce oltre trent’anni di produzione musicale. Una carriera iniziata da ragazzino, suonando per passione nei garage con le band di amici, ed arrivata ai vertici del jazz italiano ed europeo.

Cominciamo dall’inizio, come hai scoperto la tua vena artistica?

“Per caso. Quando ero ragazzo mia madre mi regalò una chitarra. Cominciai a strimpellare per gioco e imparai da autodidatta, all’epoca non c’era certo l’offerta di studi musicali che c’è oggi. Ad Alghero abitavo in un quartiere popolare e si usava andare in spiaggia al mattino e poi al pomeriggio ci chiudevamo in qualche garage ad ascoltar musica e suonare. Già allora capii che non mi accontentavo di suonare pezzi famosi ma volevo inventare. Tra i nostri amici ce n’era uno che faceva il cameriere a Londra ed ogni volta che rientrava dalla allora Swinging London – che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, stava però entrando in una nuova fase musicale – riempiva la valigia di vinili acquistati a pochi soldi a Portobello. All’epoca senza youtube e spotify si sceglievano i dischi guardando le copertine. E così ogni volta che aprivamo quella valigia, come fosse uno scrigno, uscivano le tendenze della capitale mondiale della musica. Erano i tempi del Rock Progressive psichedelico, dell’Heavy Metal, i miei gruppi preferiti erano Genesis, Deep Purple e soprattutto Pink Floyd. La svolta avvenne un giorno in cui chiesi a questo amico perché non ascoltavamo mai un certo disco che lasciava sempre da parte, un LP, come dicevamo allora, con in copertina un afroamericano che suonava la tromba su uno fondo blu. “No questo disco non è un granché”, disse l’amico. Io insistetti e lo mise su. La prima traccia era “My favourite things”… avevo quindici anni… John Coltrane mi cambiò la vita. “Questa è la musica che voglio fare!”, dissi e da allora la direzione della mia strada musicale era segnata.

In quel momento hai deciso che da grande volevi fare il musicista?

No, cioè adoravo suonare, ma ero giovane ed avevo anche altre passioni come la vela e il windsurf, in cui vincevo tante regate. Però non provenivo da una famiglia così benestante da potermi dedicarmi solo allo sport, né potevo accedere agli studi musicali jazzistici all’estero (allora c’era solo Berkley negli Stati Uniti). Nel frattempo sognavo di imparare a suonare il sassofono e ne comprai uno usato, un po’ malandato, con cui cominciai a spernacchiare sulla base dei dischi di Coltrane, ma non solo. L’anno seguente guadagnai qualche soldo andando a vendemmiare e potei comprarmi un sassofono nuovo. Così mi misi a studiare seriamente musica ed ero sempre più coinvolto in vari gruppi musicali. E poi giravo per i festival in Sardegna. La seconda svolta avvenne con l’arrivo del digitale e del mondo dei filtri elettronici a basso costo, dei registratori multi traccia economici, questo mi permise di iniziare a sperimentare, di mescolare diverse sonorità. E mentre da un lato ero riuscito a frequentare i corsi estivi della scuola di jazz di Siena, dall’altro studiavo da autodidatta etnomusicologia e giravo la Sardegna per conoscere e raccogliere suoni e musiche della tradizione.

Si può dire che la contaminazione, tra cui quella etnica, è diventato il tuo cosiddetto “marchio di fabbrica”?

“Sì. Forse perché abitando sin dalla nascita ad Alghero sono stato influenzato dalla città che è protesa sul mare, verso le culture diverse che arrivavano attraverso i giovani turisti appassionati di musica, ma dall’altro lato era una città che non guardava alle sue spalle, ovvero verso l’interno della Sardegna, dove invece avrei scoperto un bel mix tra differenti tradizioni musicali. Così è iniziato il mio viaggio di scoperta della mia terra e delle sue tradizioni musicali che, come quelle linguistiche, sono il frutto di diverse secolari stratificazioni culturali. Sono stati anni di grande ricerca ed entusiasmo, giravo con un registratore e prendevo appunti, conoscevo persone nuove, tutto era potenziale materiale da studiare ed utilizzare nelle mie composizioni. Questa esperienza ha avuto grande importanza nella musica che poi ho fatto nel tempo, un modello di lavoro che poi ho applicato verso altre culture come quelle del Sud America, dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente. Per quanto riguarda i miei lavori sulla Sardegna, a me è sempre piaciuto sposare i generi, il jazz con la musica etnica, il canto a “tenores”, le benas (strumento di origine primitiva ricavato dalla canna palustre), la launeddas (strumento musicale a fiato), le musiche argentine, il Coro a Cuncordu di Castelsardo, la “New Thing” americana degli anni Settanta, fino a mescolare musica classica con quella elettronica, e poi ancora ho collaborato con un grande virtuoso del bandoneon come Dino Saluzzi. In questo avventuroso percorso artistico il disco boa, ovvero quello che ha rappresentato un punto preciso della mia carriera è “Voyage en Sardegne” che rappresenta una sintesi degli strumenti e delle sonorità che ho sperimentato tra cui incroci coraggiosi tra jazz e musica etnica.

In questo approccio di contaminazioni nei tuoi concerti qual è il confine tra rispetto di una partitura e l’improvvisazione?

Il grado di improvvisazione dipende dal gruppo con cui mi esibisco. È chiaro che quando suono con i 40 musicisti della Metropole Orkestra della radio nazionale olandese l’improvvisazione si limita ad alcuni momenti di progressione di accordi. Mentre se suono con ensemble più ridotte allora c’è più spazio per l’improvvisazione. Seguiamo un canovaccio al cui interno divaghiamo spesso, ad esempio nell’introduzione o negli assoli. La simbiosi massima e quindi la maggior possibilità di improvvisare la raggiungo suonando con il gruppo The Crossing che è quello che mi accompagnerà nei due concerti in Polonia in ottobre.

Ci presenti i The Crossing?

È la band che cercavo da tempo, quella con cui ho sempre sognato di lavorare. È un laboratorio di idee in continuo divenire. A farne parte sono il pianista e compositore Simone Graziano, che si esibisce in una veste originale di bass synth keyboard, pianoforte Rhodes (quello famoso degli anni 70) tastiere e live elettronics. Al

fot. Rosi Giua

vibrafono e marimba midi c’è Pasquale Mirra, considerato uno dei maestri di questo strumento. Completa la band Marco Frattini alla batteria e samplers drum. A livello internazionale ormai mi definiscono “il Maverick (ovvero il battitore libero) del jazz Italiano”, The Crossing è un mix musicale fresco, con vibrazioni ed elettronica, sintetizzatori di basso elettrico e live electronics e batteria che creano atmosfere stratificate e poliritmiche, ma meravigliosamente leggere ed elastiche. Per interpretare nuove suggestioni e nuovi colori sonori ho riunito gli autentici fuoriclasse di The Crossing. Dopo un tour nel 2019 con loro la stampa giapponese scrisse: “una musica visionaria dal gusto selvaggio mediterraneo, rock cosmico, musica elettronica che si fonde con i ritmi ipnotici dell’Etiopia e le atmosfere balinesi, mescolati con la musica jazz con un uso sapiente dell’elettronica e dell’improvvisazione. Una potenza sonora poetica ed unica, il jazz italiano ci riserva sempre delle grandi sorprese, ma questa band è davvero brillante”.

fot. Giulio Capobianco

Ed ora i concerti in Polonia.
Il mio sarà un ritorno in Polonia, dove anni fa, con un progetto diversissimo: Voyage en Sardaigne per orchestra d’archi, coro a tenores e quintetto jazz, ho partecipato alla famosa Settimana Mozartiana a Gdansk. Poi, per quanto riguarda il mio legame con i musicisti polacchi, voglio ricordare che al Festival Jazz Musica sulle Bocche, di cui sono direttore, abbiamo ospitato due grandi musicisti polacchi: lo scomparso Tomasz Stanko e il trio del pianista jazz Marcin Wasilewski.

I vostri concerti saranno un’occasione anche per mostrare che la musica italiana non è confinata tra opera, cantautori e disco.

Bè la cosa non può che farmi piacere, in questo senso credo che sia importante che i mezzi di comunicazione non si limitino a parlare solo degli aspetti più stereotipati dell’italianità nella musica. Per esempio abbiamo una grande tradizione di jazz, con molti musicisti e tanti Festival, e in Sardegna siamo in tanti a sperimentare un jazz non convenzionale in cui emerge una sorta di codice genetico musicale sardo.

La cosa che mi fa più piacere è quella di venire a suonare in una nazione dove il Jazz ed i jazzisti stanno dando molto alla scena mondiale, spero che il mio “Maverick“ – The Crossing potrà soddisfare molto gli appassionati, noi ce la metteremo tutta.

Enzo Favata and The Crossing si esibiranno a Cracovia il 26 ottobre (19.30), in un appuntamento organizzato dall’associazione Shardana (Facebook: @ShardanaPL) e dall’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia in collaborazione con l’Akademia Muzyczna Krzystof Penderecki e la Szkola Muzyczna Bronislaw Rutkowski, nella cui sede si svolgerà il concerto con ingresso gratuito; e poi il 28 ottobre a Varsavia in occasione del famoso Jazz Jamboree Festival al club Stodola (alle 19.00) in una serata organizzata dall’associazione Shardana e dall’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia.

MICA PIZZA E FICHI!

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L’autunno è alle porte, ma anche ad ottobre siamo ancora in tempo per i frutti estivi più dolci: stiamo parlando dei fichi!

Se volessimo raccontare la storia e la mitologia del fico, potremmo riempire diverse pagine. Testimonianze della sua coltivazione si hanno già nelle prime civiltà agricole di Mesopotamia, Palestina ed Egitto, da cui si diffuse successivamente in tutto il bacino del Mediterraneo. Dai greci era ritenuto un frutto degli dei, poi donato agli uomini. Nella Bibbia è citato 34 volte: l’albero dell’Eden, proibito da Dio all’uomo nel Vecchio Testamento, non sarebbe un melo, bensì un fico. È con le sue foglie, infatti, che Adamo ed Eva. dopo averne mangiato il frutto, coprono la propria nudità. Il Ficus sycomorus era un albero sacro della mitologia egizia, mentre sotto a un Ficus religiosa Siddharta Gautama raggiunse l’illuminazione, divenendo Buddha: chiamato per questo anche albero della Bodhi, è venerato da buddisti, giainisti e induisti.

I motivi che hanno reso il fico fin dall’antichità una pianta così preziosa vanno forse ricercati nella fruttificazione abbondante, nella facilità di coltivazione, nella dolcezza dei frutti. O forse nel mistero dei suoi fiori, chiusi in sé stessi e nascosti alla vista, da cui il modo di dire bengalese: «Diventare [invisibile come] il fiore del dumur».

Ciò che noi chiamiamo comunemente frutto, infatti, è in realtà un’infiorescenza detta anche siconio: al suo interno sono racchiusi moltissimi piccoli fiori. L’impollinazione avviene grazie all’apertura presente all’estremità inferiore ed è un processo molto particolare: ciascuna specie di Ficus ha sviluppato uno stretto rapporto di simbiosi e reciproca dipendenza con un diverso insetto impollinatore.

La specie a noi più familiare, quello che comunemente chiamiamo fico e di cui mangiamo i frutti (o ciò che consideriamo tale!) è il Ficus carica, impollinato dalla vespa Blastophaga psenes: ben 3 generazioni di vespe, nell’arco di un anno solare, sono necessarie per la produzione dei frutti di una stagione!

La specie è presente in due forme botaniche che in modo riduttivo sono definite come piante maschio e piante femmina, dato che le prime (dette caprifico) producono il polline con frutti non commestibili, mentre le seconde (dette appunto fico vero) producono i semi contenuti nei frutti che tanto apprezziamo. Per questo motivo l’impollinazione nel linguaggio comune è detta anche “caprificazione”.

Fioritura e fruttificazione possono avvenire più volte nel corso della stagione. I fioroni, o fichi primaticci, si formano in autunno ma maturano nella tarda primavera dell’anno successivo. I fichi veri invece si formano in primavera e maturano a fine estate dello stesso anno, e sono molto dolci e saporiti. Alcune varietà, dove il clima è più mite, riescono a fruttificare una terza volta con i fichi “cimaruoli”, poiché si formano sulle cime dei rami.

Il frutto fresco del fico contiene zuccheri facilmente assimilabili (circa 11 grammi su 100), una buona quantità di minerali (soprattutto potassio, calcio e ferro), vitamine del gruppo B, vitamina A e tracce di vitamina C. Nutrienti e facilmente digeribili, sono consigliati in tutte le occasioni in cui è necessaria una fonte di energia rapidamente utilizzabile (ad esempio in gravidanza, durante l’attività sportiva o la convalescenza). Grazie alla presenza di circa il 2% di fibre, hanno anche una buona capacità di stimolare l’attività intestinale. L’indice glicemico del fico fresco (cioè la sua capacità di far variare la glicemia dopo il consumo) è solamente di 35 (il pane bianco ha un indice glicemico di 100), consentendone un consumo moderato anche a chi desidera perdere peso.

In Italia sono soprattutto le aree interne del sud (Cilento, Cosentino e Sicilia) a essere protagoniste nella coltivazione di fichi, dato l’interesse economico per la produzione di frutti essiccati.

Tuttavia in Toscana, nella provincia di Prato, cresce una varietà di fico pregiata: il Dottato, da cui si ottiene il fico essiccato di Carmignano. I frutti vengono raccolti, tagliati a metà in senso longitudinale, posti su delle stuoie e sottoposti al fumo di zolfo che ne schiarisce la buccia. Dopo 4 o 5 giorni di trattamento, sono trasferiti in un luogo fresco e asciutto per almeno un mese. Durante questo periodo si forma la patina zuccherina esterna. Raggiunta la completa essiccazione, i fichi sono sovrapposti e aromatizzati con semi di anice, che rendono il loro gusto inconfondibile al palato. E proprio l’autunno è il periodo ideale per assaggiare il fi co essiccato di Carmignano, che non può essere messo in commercio prima del 29 settembre.

In cucina i fichi sia freschi che essiccati si prestano a moltissime preparazioni dolci e salate, e persino piccanti: la classica confettura può essere arricchita con peperoncino o con sciroppo di senape, da gustare in abbinamento a formaggi saporiti. Per una versione agrodolce, servite i fi chi freschi ripieni di formaggio spalmabile oppure tofu vellutato, pinoli e aceto balsamico. Insomma, come si suol dire in italiano: mica pizza e fichi!

Domande o curiosità inerenti l’alimentazione?
Scrivete a info@tizianacremesini.it e cercherò
di rispondere attraverso questa rubrica!
www.tizianacremesini.it

Andrzej Dera: la crescita della Polonia continuerà supportata dall’energia nucleare e senza entrare nell’euro

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Il 2023 sarà un anno probabilmente decisivo sia per l’auspicata fine del conflitto in Ucraina, sia per capire quali saranno le conseguenze geopolitiche, a livello europeo, dell’aggressione russa all’Ucraina. In questo clima un ruolo da protagonista lo giocherà sicuramente la Polonia accreditata a diventare, per ragioni geografiche, logistiche ma anche di vicinanza socio-culturale, il paese cruciale nei nuovi rapporti tra Europa e Ucraina. Su questi argomenti e sullo stato attuale dello sviluppo economico della Polonia ne parliamo con Andrzej Dera, Segretario di Stato presso la Cancelleria del Presidente della Polonia, in una intervista esclusiva che il politico ha rilasciato a Gazzetta Italia.

Quanto il conflitto Russia-Ucraina ha spostato geopoliticamente l’Ucraina verso l’Unione Europea?

Andrzej Dera: La guerra ha cambiato completamente le relazioni tra l’Ucraina e l’UE. In Ucraina è in corso una guerra che contrappone valori europei a valori antidemocratici, rappresentati dalla dittatura di Putin. L’Ucraina è schierata con l’Occidente. L’atteggiamento dell’Ucraina è cambiato radicalmente, oggi ambisce di far parte dell’UE e della NATO. Putin voleva ricostruire l’impero sovietico ma gli ucraini hanno dimostrato di voler difendere il loro Stato e l’osservanza delle norme del diritto internazionale. A mio avviso, in prospettiva, non c’è altra possibilità che l’entrata dell’Ucraina nell’UE e nella NATO, ma ci vorrà sicuramente del tempo. Anche la Polonia ha dovuto fare delle riforme negli anni Novanta, ed oggi penso che l’Ucraina sia convinta e consapevole di dover cambiare praticamente tutto in termini di legalità, mentalità e istituzioni statali. Questo processo è già iniziato e secondo me non si può tornare indietro. L’unica domanda è quando accadrà, secondo noi prima succede meglio è.

Come immagina la fine della guerra e a quali condizioni? Intendo il futuro della Crimea e del Donbass?

AD: Non ci sarà mai pace fino a quando tutti i territori occupati illegalmente dalla Russia non verranno restituiti. Ci sarà pace quando l’integrità territoriale sarà rispettata. La pace deve essere costruita su solide fondamenta. Oggi le fondamenta sono il diritto internazionale. Se qualcuno viola questi standard, deve aspettarsi una reazione decisa. È difficile immaginare di cercare una pace a tutti i costi in una situazione in cui l’aggressore ne esce con dei vantaggi e lo Stato attaccato con degli svantaggi.

La Polonia avrà un ruolo da protagonista nella ricostruzione dell’Ucraina? Sappiamo che ci sono programmi governativi che stanno verificando quali aziende polacche potrebbero lavorare alla ricostruzione dell’Ucraina, a che punto siamo?

AD: Al momento sono in corso colloqui sulla ricostruzione dell’Ucraina dopo la fine della guerra. Saranno gli ucraini a decidere come ricostruire il loro Paese. L’Ucraina deve decidere da sola chi farà cosa e dove. Al momento tutto l’Occidente ha interesse alla ricostruzione dell’Ucraina, perché da un lato la guerra significa distruzione, tragedia, enormi perdite, dall’altro, dopo la fine della guerra, c’è la ricostruzione, ci sono i profitti e lo sviluppo di economie. Anche la Polonia ha interesse in questa prospettiva, ma tutto sarà legato agli accordi tra Polonia e Ucraina e saranno gli ucraini a decidere come e con chi ricostruire il Paese.

I rapporti UE-Polonia sono complessi in particolare per la questione dello Stato di Diritto, pensa che alla fine la Polonia accoglierà le richieste dell’UE? E così riceverà i Fondi del Recovery Fund?

AD: La Polonia è un paese che rispetta le leggi. In Polonia non abbiamo problemi con il rispetto degli accordi, ma la valutazione della Commissione europea è diversa. Questo è un gioco politico. L’opposizione politica in Polonia ha la maggioranza nel Parlamento europeo, quindi dalla Polonia arrivano informazioni false, che qui qualcosa non va, che non rispettiamo le leggi. Ma non facciamo niente di diverso rispetto agli altri paesi europei. Vogliamo essere trattati alle stesse condizioni degli altri Stati membri. La migliore prova della riluttanza dell’Unione Europea è stato l’accordo tra il presidente Andrzej Duda e la presidente della Commissione, Ursula Von Der Leyen, sulla legge della Corte Suprema. Abbiamo seguito le istruzioni della Commissione. Ma dopo la liquidazione della Camera disciplinare, è emerso che non era abbastanza. Il punto è semplicemente che la Polonia non deve ricevere fondi dal Recovery Fund e questo perché si spera che questo braccio di ferro con l’Europa abbia un impatto sul cambio di governo in Polonia.

Il rapporto debito-PIL in Polonia è peggiorato, c’è da preoccuparsi?

AD: Gli investimenti di miliardi di zloty da parte di tante aziende in Polonia dimostrano che il Paese è attraente e in via di sviluppo dal punto di vista economico. Questa è una prova concreto che economicamente il Paese sta bene. Certo, viviamo in tempi difficili. Prima c’è stata la pandemia, poi si è aggiunta la crisi determinata dalla guerra, perché anche se oggi la guerra è ancora un fenomeno locale, gli effetti sono globali. Oltre allo scontro militare, la battaglia principale è nel settore energetico. L’aumento dei prezzi dell’energia ha avuto un impatto negativo sui costi di produzione e operativi delle imprese. Ciò ha portato a un’inflazione più elevata, contro la quale stiamo attualmente combattendo tutti nel mondo. I paesi hanno scelto modelli diversi per affrontare questa crisi. Quelli con un’inflazione più bassa hanno una disoccupazione più alta. La Polonia ha adottato una strategia diversa. Secondo noi, il lavoro è la cosa più importante, con uno stipendio stabile, ma questo ci è costato un’inflazione leggermente più alta. Siamo ottimisti, il mercato si sta lentamente stabilizzando, il prossimo anno sarà ancora difficile, ma tutto indica che questa situazione migliorerà in futuro.

L’inflazione è molto forte pensa che si fermerà nel 2023?

AD: Così dicono le previsioni. Tutto dipende ancora dalla situazione in Ucraina, perché sicuramente avrà un impatto sull’economia europea e mondiale.

C’è la possibilità che si apra una riflessione sull’entrata della Polonia nell’Euro?

AD: Per ora, questo tema è fuori agenda. Il mondo politico polacco non è entusiasta dell’introduzione della valuta comune europea in Polonia. Possiamo vedere quali effetti ha causato la sua introduzione in altri paesi. Adottare l’euro provoca un aumento dei costi per i cittadini.

C’è stato recentemente un forte aumento del costo del lavoro, c’è il rischio che la Polonia perda il suo appeal di paese business friendly (ovvero che attira investimenti stranieri) a favore di altri paesi dell’area?

AD: Penso che lo stesso fenomeno stia accadendo ovunque. L’aumento del costo del lavoro nei paesi più ricchi è un dato di fatto. Noi pure ci stiamo rapidamente avvicinando a questi paesi in termini economici. Certo, il costo del lavoro in Polonia crescerà, attualmente è ancora inferiore a quello dei vecchi paesi dell’UE, ma il tasso di crescita del nostro Paese è così alto che presto non ci saranno grandi differenze nel costo del lavoro tra gli altri paesi europei. Ne siamo contenti, perché se fossimo ancora una terra di manodopera a basso costo, significherebbe che lo sviluppo economico del nostro Paese non è dei migliori. Vogliamo la ricchezza dei polacchi.

La Polonia è indietro sulla riconversione energetica sostenibile, pensa che riuscirà a mantenere gli impegni internazionali sull’abbandono del carbone?

AD: L’energia convenzionale non può essere sostituita solo con energia verde. L’energia deve essere basata su una fonte stabile. La Francia, ad esempio, fa affidamento sull’energia nucleare e sull’energia verde. La Germania ha voluto basarsi sulla energia data dal gas russo. La Polonia ha sempre sottolineato che era una strategia disastrosa, perché la Russia utilizza l’energia come uno degli elementi per fare una guerra ibrida. I tedeschi se ne sono accorti solo adesso e ora si ritrovano in una situazione problematica. Il governo polacco ha già preso le sue decisioni: costruiremo centrali nucleari, che saranno la base del nostro sistema energetico. Nella prospettiva di 10-15 anni si passerà dall’energia basata sul carbone a quella basata sull’energia nucleare. Anche l’energia verde in Polonia sta andando molto bene, se il ritmo di sviluppo del fotovoltaico e di altre fonti energetiche è impressionante e notevole in Europa anche la Polonia mostra di non essere indietro in questo campo.

L’elezione di Giorgia Meloni a premier italiano apre nuove prospettive nelle relazioni italo-polacche? E nella collaborazione tra i due paesi all’interno dell’UE?

AD: Rispettiamo le scelte di tutti i Paesi. Ogni stato è sovrano e ha il diritto di eleggere i rappresentanti dei partiti politici che soddisfino al meglio le loro aspettative. Siamo lieti che il Primo Ministro d’Italia abbia un quadro di valori simile a quello delle autorità polacche. Certamente questo sistema di valori spingerà ad una maggiore comprensione e ad un avvicinamento tra i due paesi. Tuttavia ribadisco che il governo polacco non ha problemi a rapportarsi anche con i rappresentanti di altri paesi che sono portatori di valori diversi. Certo è sempre più facile comunicare con un amico.

Secondo il Warsaw Enterprise Institute nel 2043 la Polonia entrerà nel G20 e nel 2050 sarà al livello della Germania, quanto sono affidabili queste previsioni?

AD: Si tratta di previsioni basate sul ritmo di sviluppo della Polonia. La Polonia vanta uno dei tassi più alti di sviluppo come paese. I polacchi hanno potenzialità tali che se vengono create le giuste condizioni, si dimostrano laboriosi, parsimoniosi e innovativi. Non abbiamo problemi di questo tipo. Se qualcuno non blocca il nostro sviluppo, penso che queste previsioni potrebbero avverarsi anche prima di quanto pensano molti esperti, perché la Polonia è un grande Paese con grandi potenzialità, e se non ci sono freni esterni, possiamo davvero fare molto, quindi condivido appieno questo ottimismo.

MILANO TRA SHOPPING E CULTURA

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Il ritorno a Milano, dopo le vacanze, è sempre un bel colpo: in vacanza ci si ferma, a Milano si corre!

Ho scelto di venire a vivere a Milano, dalla mia Venezia, proprio per l’energia che si respira nell’aria, sempre ed ovunque.

Quest’anno, per diversi motivi, sono tornata a Milano l’11 agosto e devo dire che, anche ad agosto, Milano non è niente male: quasi tutto aperto e zero code. Settembre è il mese in cui fi niscono di tornare un po’ tutti dalle vacanze, iniziano le scuole e tutto riparte.

Ma ora parliamo dei prossimi mesi ricchi di eventi ed iniziamo dal teatro, una delle mie più grandi passioni.

Se pensate di venire a Milano tra ottobre e novembre vi consiglio di non perdervi, al “TAM Teatro Arciboldi”, “Rocky horror show”, dall’11 al 23 ottobre, e “Parsons Dance”, dal 24 al 27 novembre. Per informazioni ed acquisto biglietti trovate tutto nel sito www.teatroarciboldi.it

Se invece avete la passione dell’antiquariato vi consiglio un giro in Via Pisacane, dove, tra le varie gallerie, al civico 40 c’è la “Galleria Brun Fine Art”, uno dei miei posticini preferiti, dove potrete trovare dal piccolo capolavoro di una veduta di Venezia ad una grande opera moderna di Lucio Fontana.

Guardando tanta bellezza vi è venuta voglia di un pit stop e volete rimanere in zona? Fate un salto lì vicino alla pasticceria da Sissi per un dolcetto o per una mini brioche salata, oppure andate al Pandenus, per un pranzetto veloce o per un aperitivo.

E se Via Pisacane non vi è bastata per soddisfare la vostra sete d’arte, andate a farvi una bella passeggiata in Via Borgospesso, Via della Spiga e Via del Gesù, storiche Vie di Milano, dove potrete trovare “Carlo Orsi”, “Tullio Silva”, “Altomani”, “Padovani”, un’altra galeria “Brun fine art” e tanti altri splendidi negozi di antiquariato e non solo, come “Il Trovatore”, del mio simpaticissimo amico Emanuele Belotti, in Via Ansperto 7.

Appassionati di design!? Via Maroncelli è il posto giusto per voi, perché assieme alle vicine Via Carlo Farini, Via Pasubio, Via Tito Speri e Via Quadrio, fa parte di un’area definita un po’ come la nuova Chelsea Milanese Sarà facile perdersi tra palazzi ottocenteschi, piccole botteghe artigianali, le gallerie contemporanee e atelier di gioielli e di moda.

Vi siete sfamati di arte e vi è venuta fame di cibo?! Siete nella zona giusta, perché sempre in Via Maroncelli c’è lo storico “Bistrot della Pesa” e a due passi da lì il famoso Corso Como, dove potete mangiare una delle più buone pizze al taglio di Milano alla “Pizzeria di Porta Garibaldi”, in una delle strade pedonali più frequentate di Milano, dove ci sono anche diversi negozi carini dove fare shopping, tra cui il famoso negozio multibrand “Corso como 10”, che al suo interno ha anche un bellissimo bar-ristorante.

Dalla storica Corso Como alla moderna Piazza Gae Aulenti i passi sono davvero pochi, e lì lo sguardo non potrà che andare verso l’alto, per ammirare gli “ultimi” grattacieli della city e il famoso “Bosco verticale”, per poi riabbassarli in direzione dei numerosi negozi che troverete anche lì, intorno alla Piazza.

Lo shopping a Milano è sicuramente un must, e se siete appassionati di shopping le zone sono davvero tante: di sicuro una capatina nella “lussuosa” Via Montenapoleone e nei suoi dintorni non può mancare.

Una volta arrivati in zona, nel vero centro di Milano, fate due passi nel pedonale Corso Vittorio Emanuele, che da Piazza San Babila porta in Piazza Duomo ed entrate a fare un giro alla Rinascente, arrivando fino in alto, nella sua terrazza con vista sulle
guglie del Duomo.

A proposito di Guglie del Duomo, vi consiglio di salire a vederle da vicino e di farlo a piedi, e non con l’ascensore (sono “solo” 251 gradini).

Siete riscesi in Piazza e vi scappa il primo sbadiglio di stanchezza? Che fortuna! Proprio a pochi passi da Piazza Duomo, in Piazza Cordusio, c’è un bellissimo “Starbucks” che è da pochi anni stato ricavato nel bellissimo ex palazzo delle poste (Diciamo che il caffè buono, quello vero, magari ve lo bevete un po’ più tardi).

Se avete delle scarpe comode, cosa che consiglio sempre agli amici “turisti” che vengono a trovarmi a Milano, dallo Starbucks, dopo un giretto da Uniqlo che è proprio lì di fronte, mi incamminerei verso Via Torino, anche lei piena di negozi di tutti i tipi, per arrivare fino alle storiche Colonne di San Lorenzo.

Vi fermate a bere un buon caffè in uno dei tanti bar che affacciano sulle colonne, e poi riprendete la vostra passeggiata proseguendo in Corso di Porta Ticinese, dove troverete diversi negozi vintage e un po’ diversi dai soliti, diciamo “un po’ più all’avanguardia”.

In fondo a Corso di Porta Ticinese c’è la Darsena di Milano, da cui partono i famosi Navigli, e anche lì, lungo i navigli, potete trovare un sacco di posticini carini per mangiare, per bere, e per fare ancora shopping, sempre se non avete esaurito il massimale della vostra carta.

Se per caso capitate a Milano l’ultima domenica del mese, sui navigli c’è il “Mercatone dell’antiquariato” dove potete trovare di tutto e di più, dal mobile antico, alla tovaglia di pizzo, passando per un vecchio telefono da muro.

Un posticino che mi sento di raccomandarvi lì in zona, per un aperitivo diverso dal solito, è il “Doping club” in Piazza XXIV maggio 8, proprio sulla Darsena. Gli arredamenti sono molto particolari e i drink ottimi. Non vi dico niente di più così andate a vederlo dal vivo.

Restando in tema di aperitivi e cene, un posto che amo, e che consiglio sempre per cena, è il Moebius. Vi dico solo che all’interno c’è un ulivo secolare, che le luci sono basse, il cibo ottimo e che può capitare anche che la sera ci sia qualche interessante gruppetto che suona live jazz e non solo: molto bello!

Se invece vi piace il genere trattoria allora non potete perdervi una cena tipica romana da “Un sacco bello”, in Via Muratori: da Davidino “se magna bene” e si canta. L’importante è prenotare molto prima perché è sempre molto pieno.

Un pochino più lontano dal centro, in Via Corelli 31, sempre nella categoria “trattorie”, c’è la mitica “Sidreria” della signora Cinzia. Il menù è fisso e cambia ogni mese. Compreso nel prezzo, visto il nome del ristorante, c’è ovviamente una selezione di sidri che i clienti possono prendere direttamente da una grande botte, in quantità illimitata. E se un piatto del menù vi dovesse piacere molto? Potete ordinare il bis e il tris, senza pagare alcun extra. Ovviamente la signora Cinzia usa solo ingredienti super freschi e super selezionati, e il tutto è preparato da lei.

Di posticini per aperitivi, cene e dopocena a Milano ce ne sono davvero tanti, ma come al solito sto per finire lo spazio, quindi vi butto lì un ultimo nome al volo: Yokohama!

A pochi passi dal Duomo, in Via Pantano 8, potete trovare Rosy Chin (su instagram thequeenofsushiyokohama). Eh sì, perché Yokohama non è un semplice ristorante giapponese: Yokohama è Rosy Chin, Rosy e la sua fantasia, la sua genialità, la sua simpatia travolgente, la sua energia.

Se a fine giornata avete ancora un po’ di forza per ballare contattate sui social il pr Giulio Calvi, prenotate un tavolo, tornate in hotel, lasciate lì i sacchetti dello shopping, vi fate una doccia veloce, vi vestite bellini e andate a ballare al “L’Armani Privè” in Via Manzoni, a due passi da Via Montenapoleone (è aperto il mercoledì, il venerdì e sabato dalle 23.30 alle 4)

Direi che anche per questa volta qualche suggerimento ve l’ho dato, quindi passo e chiudo. Ci si “rivede” alla prossima puntata!

Settembrini

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Ingredienti:
Per la frolla:
250 g di farina di frumento 00 80 g di zucchero a velo
2 tuorli d’uovo
20 g di zucchero di canna grezzo 150 g di burro
Scorza grattugiata di limone

Per il ripieno:
300 g di confettura di fichi 40 g di mandorle
Scorza grattugiata di limone

Procedimento:

Innanzitutto dedicatevi al ripieno: in una capiente ciotola mettete la confettura di fichi (potete farla in casa facendo cuocere per 2 ore i fichi sbucciati con zucchero e scorza di limone, oppure acquistarla già pronta), le mandorle ridotte in polvere e la scorza di limone grattugiata e riponetela in frigorifero a riposare per almeno 1 ora.

Intanto preparate la frolla grezza per l’involucro: su un piano di lavoro ben pulito (o, se la avete, in planetaria) impastate velocemente la farina con lo zucchero a velo, lo zucchero di canna e il burro morbido e a pezzetti: intridete bene l’impasto con la punta delle dita fino ad ottenere un composto quasi “sabbioso”, poi aggiungete la scorza di limone grattugiata e i tuorli e lavorate per pochi minuti fino ad ottenere una frolla compatta ma non troppo liscia.

Avvolgete in pellicola trasparente, appiattendo il panetto con le mani, e mettetelo a riposare in frigorifero per almeno mezz’ora.

Riprendete quindi l’impasto e stendetelo con un matterello su un foglio ampio di carta forno, fino ad uno spessore di circa 3-4 mm, dandogli una forma rettangolare. Stendete sopra la farcitura ai fichi, disponendolo al centro e lasciando mezzo centimetro ai bordi. Ripiegate i lembi della pasta richiudendo bene, aiutandovi con un po’ di tuorlo d’uovo o uovo intero spennellato.

Disponete il rotolo in freezer per circa 30-60 minuti finché non sarà ben freddo. Tagliatelo quindi a fette di circa 3 cm di spessore, disponeteli un po’ distanziati sulla carta forno e fateli cuocere in forno già caldo a 180° per circa per circa 15-20 minuti, finché i vostri settembrini non saranno ben dorati.

Fateli raffreddare e disponeteli su un piatto da portata o conservateli  in una scatola di latta per circa 5-6 giorni.

IL “TEXONE” DI MAGNUS

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Tex Willer, l’indomito ranger del Texas creato nel 1948 da Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini, è uno dei personaggi più importanti e iconici della storia del fumetto italiano. Tra le centinaia di episodi pubblicati nel corso dei decenni, realizzate da innumerevoli scrittori e disegnatori, quello più cult rimane a tutt’oggi “La valle del terrore”, una storia di oltre 200 pagine scritta da Claudio Nizzi e disegnata da Roberto Raviola, meglio noto come Magnus.

Il grande fumettista italiano nacque a Bologna nel 1939. Dopo gli studi all’Accademia delle Belle Arti bolognese lavorò come illustratore e grafi co; proprio in quegli anni iniziò a usare lo pseudonimo “Magnus Pictor”, abbreviato poi in “Magnus”. Tra il 1964 e il 1975 collaborò con lo sceneggiatore Luciano Secchi, alias Max Bunker, realizzando con lui alcune delle più importanti serie a fumetti italiane: “Kriminal”, “Satanik” e “Alan Ford”. La seconda fase della carriera di Magnus iniziò a metà anni Settanta, quando decise di scrivere lui stesso le proprie storie. Nacquero così fumetti, spesso rivolti a un pubblico adulto, in cui Roberto Raviola esplorava i generi più disparati, come thriller, horror, erotismo, grottesco, fantasy e fantascienza. Mancava solo un genere, forse quello più radicato nella tradizione del fumetto popolare italiano: il western.

Nel 1989 l’editore Sergio Bonelli affidò all’artista la realizzazione di un episodio delle avventure di Tex, da pubblicare nella serie “Tex Albo Speciale”, nata l’anno prima: si tratta di volumi speciali, pubblicati a cadenza annuale, comunemente chiamati “Texoni” per via del grande formato e del numero di pagine più ampio rispetto alla serie mensile. Magnus, disegnatore da sempre estremamente preciso e certosino, vedeva il lavoro su “La valle del terrore” come una grande sfi da, dato lo status leggendario del personaggio di Tex. I tempi di realizzazione del volume, inizialmente fissati a tre anni, si allungarono sempre di più e il “Texone” di Magnus fi nì per diventare la sua ultima opera e il suo testamento artistico. Nel 1991 il disegnatore si ritirò nel comune appenninico di Castel del Rio, dove lavorò al suo ultimo fumetto per altri cinque anni, mentre le sue condizioni di salute peggioravano sempre di più. Magnus morì di cancro il 5 febbraio 1996, pochi giorni dopo aver completato le ultime pagine della storia.

Fin dalle prime pagine de “La valle del terrore” è evidente l’incredibile mole di lavoro del disegnatore (coadiuvato dal suo assistente e allievo, Giovanni Romanini). Lo scenario del West viene ricreato da Magnus nei minimi dettagli: i paesaggi e la natura (come affermava lo stesso artista, ogni foglia e ogni goccia di pioggia da lui disegnate sono frutto di un attento studio), così come gli edifi ci, le armi, i cavalli e gli stessi personaggi sono raffi gurati con una precisione e un realismo senza pari, spesso sulla base di fotografi e e disegni dell’epoca. Il tratto di Raviola rimane sempre arrotondato, pulito e ricchissimo di dettagli, con un sapiente contrasto tra bianco e nero. Benché non manchino piccoli spunti umoristici, vicini all’estetica di “Alan Ford” e di altre opere di Magnus, i toni della storia sono seri e particolarmente oscuri, talvolta sconfi nando quasi nell’horror.

La trama, ideata da Claudio Nizzi (tra i più importanti sceneggiatori di “Tex”), riguarda una serie di omicidi che avvengono in California, perpetrati da una setta di assassini noti come i Vendicatori. Nel fumetto compare un personaggio storico, l’imprenditore americano di origine svizzera John Sutter, e tutta la vicenda ruota intorno alle conseguenze della febbre dell’oro che colpì la California a metà Ottocento. Quando Tex Willer viene chiamato, insieme all’amico Kit Carson, a investigare sui delitti, ha inizio un’avventura che durerà 224 pagine. La storia stessa è coinvolgente e mantiene a tutt’oggi una notevole freschezza, con personaggi interessanti e ben tratteggiati (nonostante la presenza di alcuni stereotipi etnici che possono risultare lontani dalla sensibilità odierna).

“La valle del terrore”, uscita originariamente nel 1996 sul nono numero speciale di “Tex”, è stata ristampata molte volte negli anni. Vale la pena di menzionare una versione a colori del 2011 e un’edizione in formato gigante, uscita nel 2020, che permette di apprezzare fi no in fondo la ricchezza stilistica e il livello di dettaglio delle tavole realizzate dal maestro Magnus.

Beppe Fenoglio partigiano di un’altra Italia

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Avrebbe cento anni oggi Beppe Fenoglio, nato ad Alba nel 1922 e morto per un tumore ai polmoni nel 1963, a Torino, prima ancora di compiere quarantuno anni. Nonostante un’esistenza così breve, e tre soli libri pubblicati in vita, oggi Fenoglio è uno degli autori più studiati e considerati dagli studiosi di letteratura italiana, un vero e proprio classico novecentesco, per quanto il valore della sua scrittura non sia stato immediatamente riconosciuto in modo unanime dalla critica.

Quando esordì, settant’anni fa, nel 1952, con il libro I ventitré giorni della città di Alba, molti restarono spiazzati dalla sua rappresentazione tragico-grottesca della Resistenza. Fenoglio mostrava un taglio antiretorico che coglieva, senza ideologie, nell’esperienza partigiana l’indispensabile riconquista di dignità di un popolo e di una nazione. Egli rappresenta per questo uno dei più autorevoli testimoni di una giovane generazione chiamata, come mai nella storia, a farsi carico delle colpe di chi l’aveva preceduta, e a riscattare, mettendo in gioco la propria vita, il disastro militare e morale in cui il regime aveva precipitato l’Italia. Per questo i protagonisti di Fenoglio risultano eroici, “titanici”, proprio nelle loro umane contraddizioni, nelle loro fragilità e nei loro smarrimenti, nella forza, in defi nitiva, con cui si fanno carico della loro inadeguatezza di ventenni posti di fronte a una colossale impresa: ridare rispettabilità a un popolo e a un paese che l’aveva smarrita nei lunghi, pesantissimi anni della dittatura.

Anche la seconda opera di Fenoglio, uscita nel 1954, si muove nel segno dell’incomprensione. Nel romanzo breve La malora l’autore poneva al centro il destino di privazioni e sconfitte di un giovane mezzadro delle Langhe, esemplare portavoce di una vita di miseria, senza riscatto, ma piena di dignità. Sorprendentemente, lo stesso direttore della collana che aveva deciso di pubblicare il testo, Elio Vittorini, nella quarta di copertina fi niva praticamente per stroncare il libro fenogliano, riconducendolo ad una attardata ripresa del verismo ottocentesco. Fu questo uno smacco e una ferita molto dolorosa per Fenoglio, che poi portò dentro di sé per tutta la vita. La malora, però, diversamente da quanto pensava Vittorini, era un libro di grande modernità, pienamente novecentesco, in cui ritroviamo tutti gli elementi del secondo polo della scrittura di Fenoglio, cioè il mondo contadino e le Langhe, con i suoi personaggi bruschi e solitari, segnati da una realtà crudele, cruenta, da un destino spietato. Anche l’ultimo libro stampato in vita da Fenoglio non è stato esente da una nuova, decisiva incomprensione. L’opera, intitolata Primavera di bellezza, del 1959, racconta la storia di un giovane soldato italiano, anglofilo, soprannominato da tutti Johnny, chiamato a fare i conti con la disfatta dell’esercito italiano dell’8 settembre 1943, dopo l’armistizio con gli anglo-americani. Il romanzo ci porta dentro una pesante e generale atmosfera di pre-catastrofe, di tracollo militare e morale di un’intera nazione, dove la gran parte dei generali, ancor prima che dei soldati, abbandona le caserme cercando una via di fuga verso casa. Johnny, per converso, decide di prendere parte alle iniziali forme di Resistenza che si organizzarono nel Nord per trovare la morte in uno dei primi scontri a fuoco con i fascisti. In realtà il progetto di Fenoglio era quello di scrivere un grande romanzo epico, in cui accompagnare il suo protagonista nel fi tto della storia italiana dal 1939 al 1945. Davanti alle perplessità del suo nuovo editore verso questo imponente e strabordante progetto, che Fenoglio intendeva pubblicare in due volumi, l’autore decide di troncare di netto la seconda parte, interamente dedicata alla lotta partigiana, per consegnare alle stampe un volume più breve che ponesse termine alla vita del suo protagonista durante la primissima fase della guerra di liberazione, nel dicembre del 1943. La parte che Fenoglio decide di sacrifi care è in realtà un enorme progetto di epos novecentesco, rimasto incompiuto, trovato fra le sue carte e dato alle stampe nel 1968, a cura di Lorenzo Mondo, con il titolo redazionale Il partigiano Johnny. Questo testo, nonostante non rappresenti ovviamente la versione finale voluta dall’autore, e nonostante permanga un work in progress, complicato ulteriormente da diverse stesure (su cui la critica fenogliana sino ad oggi discute), rappresenta uno dei più importanti romanzi europei sulla Seconda Guerra Mondiale. La lingua è ricchissima, vertiginosa, incandescente come la lava, sospesa fra inglese e italiano, costantemente tesa verso una sorta di fl uviale e inarrestabile moderno poema epico. Al suo interno troviamo la descrizione, come dal vivo, quasi in presa diretta, delle sorti di un soldato, reduce dall’8 settembre, che decide di entrare nel “regno arcangelico dei partigiani” per scivolare nel fango delle battaglie, affrontare il gelo e la neve di un inverno infinito. Johnny incarna quella che un altro grande testimone anti-retorico della Resistenza quale Luigi Meneghello definiva come la “piega eroica del pensiero”, propria dello scrittore di Alba. Il protagonista del romanzo di Fenoglio sente che fare il proprio dovere difficilmente gli permetterà di uscire vivo dalla guerra, ed è costantemente accompagnato da un presentimento di morte imminente: di qui una tensione al sublime, drammatica, perturbante ed esplosiva delle frasi, un’aggettivazione spasmodica, tale da creare e plasmare una nuova lingua che non ha precedenti nella tradizione letteraria italiana. Libro monumentale e di intramontabile attualità, carico di angosce, speranze e dilemmi, Il partigiano Johnny ci restituisce, come ha sottolineato Gabriele Pedullà, uno dei suoi massimi interpreti contemporanei, “i principi ideali e le paure e le ragioni e i sogni di un’intera generazione come nessun libro è riuscito a fare”. In questa opera le Langhe si animano, il vento, il cielo, le acque e la terra urlano la loro presenza e la loro potenza arcaica, minacciosa e simbolica. In una realtà prossima ad un caos originario Johnny ci appare, di volta in volta, come scolpito dal genio omerico, o provenire direttamente dalle pagine della Bibbia o dell’Eneide, così come dalla scena del teatro elisabettiano.

La grandezza di Fenoglio, emersa come detto in modo perentorio dopo la sua morte, oltre all’epica in progress del Partigiano Johnny, si lega a un altro testo incompiuto, il romanzo breve intitolato (a posteriori) Una questione privata, uscito per la prima volta nell’anno della morte dell’autore, all’interno della raccolta Un giorno di fuoco. Il protagonista di questa opera è un giovane appassionato di letteratura (in primo luogo inglese), di nome Milton (come l’autore del poema epico del XVII secolo Il paradiso perduto), il quale nel bel mezzo della guerra partigiana perde ogni contatto con la realtà che lo circonda, impazzendo come un novello Orlando di fronte al terrore che la ragazza che aveva corteggiato prima della guerra, Silvia, lo abbia tradito con il suo migliore amico, Giorgio, compagno di lotta partigiana, attraverso le Langhe, abbandona il suo dovere di partigiano, per cercare di liberare Giorgio al fine di scoprire la verità, una verità più importante (e più devastante per Milton) della guerra stessa, una verità “privata”, sentimentale e assoluta, talmente sconvolgente da accecarlo e da spingerlo, inesorabilmente, verso la follia e incontro alla morte.

È il caso di ricordare, in conclusione, che Beppe Fenoglio nasce nell’anno della marcia su Roma e della presa del potere di Mussolini. Aspetto da non trascurare per intendere il rigore etico, lo sprezzo per la retorica della lingua e della cultura del Ventennio così come l’anglofilia di un autore che, sin dal liceo aveva preso l’impegno, in primis con se stesso, come ricordava Pietro Chiodi, suo professore e grande studioso di Kierkegaard, di dire di no al fascismo. Per portare avanti, nella scrittura, i suoi ideali, Fenoglio spaziava dall’epos antico a Shakespeare, dalla poesia romantica a Hemingway e Sartre, aperto al meglio della cultura europea, alla ricerca di una Italia diversa. Johnny e Milton, così prossimi a Fenoglio da nascere più che dalla sua penna dal suo midollo spinale, ostinatamente e romanticamente votati a restare fedeli ai propri valori e alle proprie passioni liceali, continuano a portare avanti, anche nel XXI secolo, la lezione di libertà e di riscatto di un autore per il quale le parole “scrittore” e “partigiano” erano parole assolute, a cui dedicare tutte le energie creative e umane di una vita.

Pasta e fagioli

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Un grande piatto della tradizione veneta

Ingredienti per 4 persone:
500 g di fagioli rossi o borlotti secchi
80 g di lasagna o pappardelle all’uovo
70/80 g di pancetta tagliata sottilissima
1 cipolla gialla grande
1 spicchio d’aglio
2 cucchiai di pomodoro
1 rametto di rosmarino
1 ciuffo di prezzemolo
2 cucchiai di olio evo
2/3 cucchiai di vino bianco
1 punta di cucchiaio di bicarbonato di sodio
Pepe e sale q.b.

Procedimento:
Lavare bene i fagioli in acqua corrente e metterli a bagno con il bicarbonato per tutta la notte. Il giorno dopo iniziate la cottura dei fagioli per un tempo non inferiore a 3 1⁄2, 4 ore. Quando saranno quasi pronti i fagioli, tagliate la cipolla e l’aglio julienne e cuocili delicatamente con un po’ d’olio evo e sfumate con il vino bianco. Quando sarà trasparente e leggermente ambrata, aggiungi un trito di rosmarino e prezzemolo, spegni il fuoco. In una padella antiaderente rosolate delicatamente le fettine di pancetta senza aggiunta d’olio e metti da parte.

Una volta cotti i fagioli il composto risulterà abbastanza denso, prendete metà dei fagioli e frullateli fino ad ottenere un crema. Nel frattempo cuoci la pasta in acqua e metti da parte. Nella pentola dove hai i fagioli interi unisci quelli passati, quasi tutta la cipolla cotta e condita, metà della pancetta e la pasta precedentemente scolata. Regola la densità con un po’ d’acqua e aggiusta di sale, cuoci per altri 2/3 minuti. La pasta e fagioli alla veneta è abbastanza densa, servila nei piatti, decora con un po’ di pancetta e la cipolla rimasta, qualche goccia di olio evo e un po’ di pepe nero.

Buon Appetito!

6^ edizione del Premio Gazzetta Italia, 25.11.2022, Varsavia

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FOTO: MARIANO CALDARELLA

È stato emozionate incontrare di nuovo di persona, dopo tre anni, lo splendido spaccato del mondo italo-polacco che segue Gazzetta Italia. Da quel lontano 12 aprile 2019, ultima edizione in presenza del Premio Gazzetta Italia, è successo di tutto: due anni di pandemia e poi questa assurda guerra. Anni in cui la redazione di Gazzetta Italia, nonostante il mondo ad un certo punto si fosse praticamente fermato e quasi non si usciva più di casa, ha coraggiosamente e ostinatamente continuato a fare quello che sa fare meglio ovvero continuare a lavorare nell’interscambio culturale tra Italia e Polonia pubblicando la rivista e inviando il notiziario quotidiano Polonia Oggi.

Siamo riusciti perfino a organizzare una edizione in stile “restrizioni Covid”, del Premio Gazzetta Italia, sfruttando l’unica manifestazione di massa svoltasi in presenza nel 2020: la Mostra del Cinema di Venezia, occasione in cui abbiamo consegnato, al Lido durante il Festival, la Menzione Speciale per il Cinema ad alcuni protagonisti del film “Non odiare” tra cui Alessandro Gassman.

Il piacere di rivedersi tutti insieme lo si leggeva negli occhi dei tanti ospiti della serata di gala – svoltasi al Messalka, a Varsavia, lo scorso 25 novembre – organizzata da Gazzetta Italia in collaborazione con Mystyle Events di Kasia Stefanow, e con il patrocinio dell’Ambasciata, dell’Agenzia ICE-ITA e degli Istituti Italiani di Cultura di Varsavia e Cracovia. Una serata intensa tra premiazioni, sfilate di moda, performance musicali, cibo squisito e buon vino, condotta con professionalità e leggerezza da Matteo Mazzucca e Barbara Dziedzic affiancati sul palco dalla docente dell’Università Jagellonica Magda Wrana, in veste di impeccabile traduttrice e dalla responsabile della redazione di Gazzetta Italia Agata Pachucy e dalla collaboratrice Judyta Marat.

Il Premio Gazzetta Italia è un riconoscimento d’amicizia, teso a valorizzare le persone che professionalmente o socialmente si sono distinte nello sviluppo delle relazioni italo-polacche e, visti i tempi in cui viviamo, l’applauso d’apertura è stato dedicato a due imprenditori italiani, Umberto Magrini e Riccardo Caruso, che stanno dando un futuro, ovvero alloggio, lavoro e istruzione, ad oltre 300 ucraini, soprattutto madri e bambini. Invece ad essere premiata per prima è stata la grande attrice Kasia Smutniak ben nota anche per il suo impegno nel sociale concretizzatosi nella scuola aperta nel Mustang con l’associazione Pietro Taricone. Smutniak bloccata a Roma da una influenza è apparsa in diretta video sul maxischermo allestito al gala mentre il padre Zenon ritirava fisicamente la statuetta, il piatto in vetro artistico di Yalos Murano e un ritratto opera dell’artista Fedou. “Se sono la donna che sono, libera di scegliere e di osare, lo devo a mio padre per questo sono felice che sia lui stasera a ritirare questo graditissimo riconoscimento”, ha dichiarato Smutniak. Il saluto ufficiale delle istituzioni italiane è stato dato da Laura Ranalli, che in questo periodo di temporanea assenza dell’ambasciatore, ha assunto il ruolo di Incaricato d’Affari dell’Ambasciata come ha spiegato lei stessa dal palco. “Oltre a portare il saluto istituzionale ho anche il piacere di premiare l’unica persona che stasera non sa di ricevere il Premio Gazzetta Italia, un imprenditore di successo ben noto nella comunità italiana anche per il suo grande impegno nel sociale”, ha detto Ranalli chiamando sul palco un emozionatissimo Giorgio Pezzolato.

Poi c’è stata la apprezzata sfilata dello stilista Robert Czerwik, presentato da Grazyna Wolszczak, che ha ricevuto la Menzione Speciale per la Moda, cui sono seguite le premiazioni dell’attrice-regista italo-polacca Karolina Porcari, del diplomatico ed ex ambasciatore in Italia Wojciech Ponikiewski, della docente, traduttrice, esperta di cinema italiano Anna Osmólska-Mętrak e del celebre violinista Vadim Brodski che accompagnato al flauto traverso dalla figlia Margherita e al piano da Kamila Sacharzewska ha deliziato il pubblico suonando il tema, di Nicola Piovani, del film di Roberto Benigni “La vita è bella”. Dopo Brodski c’è stata la prima incursione musicale della brava e divertente cantante Natalia Moskal con una rivisitazione di “Mambo italiano”. A chiudere la parte ufficiale della serata è stata la sfilata dell’artistica collezione dello stilista Emilio Bonadio che ha ricevuto la Menzione Speciale per la Moda. Poi il “liberi tutti” con gli ospiti scatenati tra le perfomance canore della Moskal, le melodiei suoni del flauto digitale re.corder, la selezione di musica italiana da ballare, le squisite lasagne di Spaccanapoli, i salumi Villani, i cioccolatini Ferrero e i panettoni di Wloski Maz. Il tutto aggirandosi tra gli stand di profumi di The Merchant of Venice, gli abiti di Via Roma e Boskata, i cosmetici di Batiste, aziende che hanno supportato il Premio insieme a Banca Santander, IC&Partners, Horizon Consulting, Food and Law 365, Aldestine, Royal Academy od Make Up, Salon Fryzur Piotr Knapik.

Galleria: 

Luca Del Sole:

Monika Mraczek:

Mariano Caldarella:

Guido Parodi: