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Nestor Grojewski: “Scorsese? Persona straordinaria e fenomenale”

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Chi è Nestor? È il cuoco polacco delle stelle straniere: così lo descrive la stampa e la televisione. Nel 2008 apre il suo ristorante Cru.dop In via Tuscolana, vicino a Cinecittà, celeberrimo quartiere del cinema a Roma. Si può dire che così viene automaticamente inserito nel mondo del cinema. Lavorando sui set dei film americani arriva attraverso lo stomaco ai cuori delle stelle di Hollywood e del famoso Martin Scorsese. La sua avvertura con la cucina dura per sempre. È specializzato nei cibi freschi, pesci crudi e frutti di mare preparati davanti agli ospiti (il suo ristorante è sempre pieno di gente). Abbiamo una buona informazione per gli abitanti di Wroc?aw: forse tra poco Grojewski sposterà il suo ristorante proprio lì, nella sua città natale cui anela tornare.

Da quanto tempo gestisci il tuo ristorante?

Da cinque anni. Sì… sono già passati cinque anni. L’ho aperto nel 2008.

Perchè aprire in via Tuscolana a Roma?

Non esiste niente di simile. A Roma non c’è un posto dove si possono mangiare cibi crudi. Per questo ho deciso di fare qualcosa totalmente diverso da tutti gli altri. Volevo stare fuori dal solito mercato.

Ce l’hai fatta! Quali sono le tue specialità?

La mia specialità è il pesce crudo, frutti di mare, carne cruda, tartara e carpaccio. Faccio tutto quello che si può inventare con carne cruda e condimenti.

E per quanto riguarda il vino?

Dipende dalla provenienza della persona, dalle sue preferenze personali. I vini verdicchio e sauvignon sono ordinati più spesso.

E tu dove vai a mangiare? Quali sono i ristoranti italiani che consiglieresti ai nostri lettori?

È una domanda difficile. Mangio soprattutto nei ristoranti dei miei amici, che mi conoscono e sanno che preferisco i cibi freschi. Sono allergico a alcuni conservanti presenti in certi piatti pronti. I nomi dei ristoranti? Tutto dipende dal gusto. Fuori Roma amo mangiare a Ischia, in Sardegna, in Sicilia.

Non hai pensato di aprire un tuo ristorante in Polonia?

Sì, e lo penso sempre più spesso. Ci sto lavorando e se o farò sarà a Wroclaw!

Perché a Wroc?aw, non invece a Varsavia?

Sono nato a Varsavia, ma ho la famiglia a Wroc?aw.

È vero che hai cucinato per Scorsese?

Vero. Sono stato il suo cuoco privato per 9 mesi quando girava il film “Gangs of New York”.

Come vi siete conosciuti?

Ho lavorato sui set dei film precedenti come “Il talento di Mr. Ripley” (dir. Anthony Minghella”), “Sogno di una notte di mezza estate” (dir. Gabriele Salvatore) etc. Sono abbastanza conosciuto e mi hanno consigliato a Scorsese. Sono andato a casa sua per un mese di prova, dove ho incontrato sua moglie e il bambino di 18 mesi. Dopo aver superato la prova, il regista mi ha invitato allo studio cinematografico.

Che cosa gli hai cucinato?

Tutte le specialità non contenenti farina; aveva tale dieta.

Come è privatamente? Cosa diresti di lui?

Una persona unica e fenomenale. È garbato, ma come la maggior parte dei grandi registi ha suoi vantaggi e svantaggi.

Quale altre persone note e meno note hai avuto l’opportunità di ospitare a casa?

Sui set dei film ho preparato piatti per Daniel Day-Lewis, Leonardo Di Caprio, Cameron Diaz. Facendo il film “Talent di Mr. Ripley” ho anche incontrato Matt Damon. A Roma ho anche preparato i cibi per tanti capi di stato.

Anche per il Papa?

No, purtroppo no.

Conosci tante stelle. Perché non ti trasferisci a Holywood?

La risposta è banale. Hollywood è troppo lontano da casa, dall’Europa, dalla Polonia. Adesso per tornare da Roma al paese mi basta una macchina o un volo di un ora e mezzo.

Ti manca la Polonia?

Devo ammetterlo: sì! Mi manca l’inverno, la neve (se c’ è)… mi manca…

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Diana Tejera

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Diana Tejera è cantante e compositrice italiana di origini andaluse molto talentuosa. A Gazzetta Italia racconta del suo passato con I Plastico, delle sue canzoni e collaborazioni musicali,  soprattutto di quella speciale con Tiziano Ferro. Cresciuta a Keith Jarrett, Joni Mitchell, Carole King, oggi canta le poesie di Patrizia Cavalli nell’album “Al cuore fa bene far le scale” e nello stesso tempo sta lavorando al suo prossimo disco: “Sarà un album diverso, in cui cerco di raccontare con uno sguardo non ottimista, ma sicuramente più positivo le esperienze della vita. Un distacco, la fine di un amore, un momento di solitudine, l’emozione per una scoperta non sono mai esperienze a sé, ma diventano un pezzo di storia, una tessera del mosaico che mi ha resa quella che sono, di cui sono felice. È un disco in cui, di fondo, si respira un senso di “gratitudine” per le cose, il mondo, tutto quello che si muove nelle mie giornate”. Prima che Diana parta per l’India “meta ideale per riflettere meglio sui suoi lavori”, ascoltate il suo hit primaverile “Amore semplicissimo” – ideato e diretto da un bravissimo regista e fotografo romano, Mario Parruccini – non resterete delusi!

Oggi ti conosciamo come cantautrice solista ma non sempre è stato così. Prima di cominciare la tua carriera facevi parte di un gruppo chiamato I Plastico. Come ricordi questi anni insieme, i vostri successi?

Con I Plastico mi sono fatta le ossa e mi sono divertita moltissimo. Eravamo molto giovani e le esperienze che avevamo la possibilità di vivere ci sembravano un sogno. Ricordo quegli anni con molta tenerezza perché eravamo ingenui e puri all’interno di un mercato discografico spudorato. Abbiamo avuto molte soddisfazioni: la vittoria al festival di San Marino, la partecipazione a Sanremo nel 2002, e i concerti sui palcoscenici più ambiti come il Fila Forum di Assago.

Hai affiancato vari musicisti romani tra cui Marco Fabi, Barbara Eramo, Andrea Di Cesare, Alessandro Orlando Graziano, Nathalie e soprattutto Tiziano Ferro, col quale hai firmato “E fuori è buio” (pubblicato nell’album “Nessuno è solo” del 2006) e “Scivoli di nuovo” (presente nel disco Alla mia età del 2008). Come è stato lavorare con questa star internazionale della musica italiana? Che emozioni ti ha trasmesso?

Tiziano era principalmente un amico, quindi è stato naturale collaborare con lui. Di certo è stato molto emozionante sentire le canzoni scritte insieme cantate da lui, scoprire le sfumature diverse che poteva dare la sua voce. È stato bellissimo poi salire sul palco del Palalottomatica di Roma per suonare con lui “E fuori è buio”, mentre migliaia di persone la intonavano.

La tua ultima canzone “Amore semplicissimo” è davvero stupenda. La trovo incantevole, magica. Anche il video girato da Mario Parruccini è un capolavoro. Ci racconti come si sono svolte le riprese, di chi è stata l’idea o forse ci racconti qualche aneddoto?

Amore semplicissimo è una delle mie canzoni preferite dell’album “Al cuore fa bene far la scale”. Il testo, assolutamente meraviglioso, è della grande poetessa Patrizia Cavalli con la quale ho avuto il privilegio di collaborare. Il video è stato scritto e diretto da Mario Parruccini, che aveva bene in mente la fotografia, la delicatezza delle immagini che è riuscito a rendere oniriche, simboliche. Posso raccontare che la temperatura era veramente fredda e resistere tante ore con un vestito leggero non era certo facile…mi si congelavano le mani mentre suonavo, e infatti alla fine di ogni playback venivo subito ricoperta di cappotti, maglioni e piumini!

Sei italiana ma di padre andaluso. Come ti hanno influenzato i tuoi origini spagnoli? Torni spesso in Andalusia? Canti anche in spagnolo?

Si, canto anche in spagnolo…mi piace molto anche se ora scrivo sempre in italiano. Le mie origini mi hanno influenzato soprattutto nel modo di suonare la chitarra: con un piglio deciso, intenso, caldo. Purtroppo vado poco in Andalusia, ma porto sempre con me i suoi colori, impressioni, la forza e anche l’allegria della terra dove affondano le mie radici.

Suoni e canti da quanto eri una bambina. Chi è stato il tuo maestro, l’esempio da seguire nel mondo di musica, qualcuno che ti ha segnato per sempre come cantante?
Ho avuto tanti modelli di riferimento. Sono molto cambiati nel corso degli anni. Da bambina ascoltavo estasiata Keith Jarrett, ma poi mi sono appassionata alle cantautrici: prima con Joni Mitchell, Carole King e poi, da più grande, Ani di Franco.
Il mio grande maestro è stato Antonio Sardi De Letto, con il quale ho iniziato il mio percorso musicale, e che purtroppo è mancato ancora giovane nel 2011.

L’album, canzone o collaborazione di cui vai più fiera?
L’incontro con Patrizia Cavalli, grandissima poetessa, è stato per me determinante. Mi ha profondamente ispirata e l’esperienza insieme è stata fonte di un cammino di crescita artistica e anche umana.

Si dice spesso che le poesie più belle nascono dalla sofferenza. Come funziona con te? In quale situazione o momento della giornata crei i tuoi testi? Cosa ti ispira particolarmente? Di che scrivi?
Da più giovane scrivevo spesso per una sorta di “necessità terapeutica”: mettevo nelle mie creazioni il mio dolore per trasformarlo in qualcosa di creativo. Questa dimensione ad oggi rimane, ma è divenuta molto più complessa. Al racconto del mio passato, delle esperienze, dei pensieri sulla realtà che mi circonda si è aggiunto uno sguardo più ironico, leggero, ma nel senso calviniano della “levità”, grazie alla collaborazione con la giovane e talentuosa Sara De Simone con cui sto scrivendo i brani del mio nuovo disco.

Secondo Virgilio anima era un soffio che usciva dal corpo subito dopo la morte, per Platone e Socrate anima è diventata il simbolo di purezza e spiritualità del mondo delle idee, invece per te  – che tramite le tue canzoni e poesie tocchi le anime umane – cosa vuol dire l’anima?
Difficile rispondere a questa domanda, confrontandosi con i più grandi filosofi e pensatori della storia. Nel mio piccolo, dico la mia: per me l’anima non è disgiunta dal corpo, anzi è “corpo”. Non credo, purtroppo, in un altro mondo ma penso che dobbiamo vivere il tempo a nostra disposizione perseguendo fino in fondo i nostri desideri, le inclinazioni e soprattutto la verità.

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Televisione: usarla o farci usare?

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Alzi la mano chi ha voglia di criticare la televisione italiana. Siete troppi, non c’è tempo per tutti, allora parlo io. Tutta Europa, e non solo, ci ride dietro quando pensa a quello che passa sulle reti nostrane; per la maggior parte delle occasioni, in verità, potremmo avvalerci dell’arma verbale “senti da quale pulpito viene la predica” ma proviamo a lasciare da parte l’orgoglio, siamo superiori alle polemiche e cerchiamo di analizzare la situazione da un punto di vista obiettivo.

Molto spesso avrei voglia di prendere il televisore e scaraventarlo fuori dalla finestra, la qualità della nostra programmazione televisiva è davvero infima. Si assiste a telegiornali che cominciano con tragiche notizie di cronaca, presentate da una giornalista con faccia cadaverica e coinvolta che, un nanosecondo dopo è capace di mettere la maschera da perfetta idiota al pic nic e cominciare a lanciare servizi di gossip con musica commerciale e soubrette in topless. Sì, avete capito bene, nello stesso telegiornale che cerca di occuparsi di guerre, economia, politica, cronaca ecc… (Per informazioni più dettagliate, per fatti, link e nomi precisi di questi “geni della lampada” avete sempre il mio indirizzo e-mail: lingua@gazzettaitalia.pl). Per non parlare dei reality e talent show dove sembra che l’Italia abbia fatto a meno per 20 anni del Di Caprio o Pavarotti di turno o di un format nel quale un palestrato belloccio senza lingua si siede su un trono pronto a scegliere giovani oche o insoddisfatte signore di mezza età che gli sbavano dietro. Orrore! Perché siamo arrivati a tanto? Una questione politicamente delicata. Cercherò di darvi la mia spiegazione in uno dei prossimi articoli.

Nonostante tutta questa tv spazzatura che ci circonda non sono d’accordo con chi afferma che sarebbe meglio non avere affatto un televisore in casa. Molti sostengono che la televisione sia un mezzo di comunicazione superato, che ora si dovrebbe usare solo internet, l’unico strumento davvero libero e democratico. Siamo sicuri di questo? Non è forse vero che in internet possiamo cadere in una bufala in ogni momento? Senza contare che è pieno di criminali in cerca di facili prede ingenue. La rete è uno strumento delicato che va maneggiato con molta attenzione. Sono, quindi, dell’opinione che non dovremmo, comunque, rinunciare ad accendere il televisore per rilassarci un po’ o informarci su quello che succede nel mondo che ci circonda; la vera preparazione sta nell’essere abbastanza abili da riuscire a scegliere bene quello che vale la pena guardare, mantenendo sempre una nostra opinione, non influenzata, dei fatti che ci vengono presentati.

Cominciamo con il dire che non si può non guardare un programma di tribuna politica, almeno una volta alla settimana. I vari “Ballarò, Servizio Pubblico, Piazza Pulita” ecc… (tutti programmi che possono essere anche guardati in internet con calma) servono per tenerci informati su quello che, dal punto di vista politico-sociale-economico e culturale, accade nel nostro Paese. Magari, voi che seguite queste vicende potreste dire che anche qui, i politici, ospiti di turno, ripetono la stessa storiella da vent’anni, ed è vero, avete ragione. Questo, comunque, non giustificherebbe il fatto di ignorare i vari punti di vista, giusti o sbagliati che siano. In Italia, attualmente, c’è la moda, soprattutto fra i giovani, di dire che la politica non interessi. Per me è solo un modo di giustificare l’ignoranza in materia. I giovani, proprio quelli che devono capire gli attuali limiti politici per cercare di far ripartire il Paese. Del resto, molti di loro sono solo il prodotto della sottocultura televisiva; proprio questo è l’obiettivo di quella parte di programmazione spazzatura, far addormentare le menti e, a giudicare dal livello di cultura media del Paese, sembra che ci stia riuscendo.

Continuando nella sfera di ciò che si può salvare, ci sono delle trasmissioni, molto interessanti, che ripercorrono con un occhio obiettivo i fatti della storia. Cose accadute molto tempo fa e, che ora, possono essere guardate con maggiore serenità e meno coinvolgimento. Format che parlano di viaggi, documentari che ci fanno conoscere le diverse culture presenti nel mondo, la geografia, le abitudini di specie animali (che noi stiamo mettendo a rischio, spesso solo a causa della nostra vanità), come funzionano la Terra e l’Universo, tutti programmi che possono essere considerati positivamente e che non mettono in pericolo la nostra intelligenza.

Molti di voi conosceranno il termine “Velina”, un modo per indicare una bella ragazza presente in una trasmissione e che non deve far altro che ballare e mettere in mostra il proprio corpo, alimentando le ire delle femministe. Eppure questa figura nasce in uno dei programmi, secondo me, più interessanti del palinsesto italiano: “Striscia la Notizia”. Un telegiornale molto particolare, che dura solo una ventina di minuti, che dà notizie importanti commentate con vena satirica. Molto spesso i suoi inviati fanno dei servizi in cui smascherano persone poco oneste che cercano di truffare i cittadini. Cosa che, del resto, viene fatta anche nel mio programma preferito. Quello che non perdo per nessuna ragione, anche perché può essere comodamente riguardato in internet. Si chiama “Le Iene”. Potrebbe essere definito un varietà, un programma in cui si parla di tutto ma in modo molto intelligente. Ed è bello proprio per questo, ha un ritmo incalzante che presenta servizi di elevata portata sociale alternati a momenti più leggeri, quasi di gossip, ma sempre affrontati con la giusta dose di ironia. Gli inviati di questo programma fanno dei reportage spesso anche molto pericolosi attraverso i quali mettono in guardia da tutte le cose brutte che succedono nel mondo, offrendo dei momenti di buona informazione. Insomma, è uno dei pochi programmi per i quali si possa dimenticare dove abbiamo lasciato il telecomando.

Tirando le somme, reputo che un’eventuale campagna volta a distruggere completamente il mezzo televisivo fallirebbe senza alcuna ombra di dubbio; la televisione è uno strumento troppo importante per chi detiene il potere e, attraverso essa, manipola le menti, crea tendenze, mode da seguire, miti, ci coccola rendendoci persone che obbediscono alla pubblicità, veri animali da consumo. Il ruolo che la scatoletta magica ha assunto nella nostra società e troppo radicato per pensare di poterla eliminare. Quindi, visto che ci dobbiamo convivere, l’unico modo per uscire vincitori da questa battaglia è quello di sfruttare intelligentemente, solo a giovamento della nostra esistenza, le poche cose positive che in essa possiamo scovare.

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Firenze città dell’eleganza

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Da una parte strade affollate piene di artisti, pittori e visitatori di tutto il mondo seduti sulle scalinate delle chiese con la mappa pronti a scoprire la città, dall’altra negli spazi ristretti delle vie e viuzze il flusso interminabile di auto, motorini, scooter. Un suono caratteristico dominato però dal rumore delle campane delle chiese, dove racchiuse ci sono opere d’arte uniche. La Cattedrale con la sua cupola architettata da Brunelleschi e con il Battistero, Santa Maria del Fiore, Orsanmichele con la sua Madonna di Bernardo Daddi, Santa Maria Novella, Santo Spirito e tanti altri tesori d’arte di Firenze. Non è difficile smarrirsi nell’intrigo di una città come Firenze magnifica e stupefacente con le persone che sfilano eleganti davanti a noi, con il suo fiume Arno che si snoda lungo la città circondata dalle colline eleganti ed accoglienti. Le case medievali che sovrastano le colline e con  il belvedere da San Miniato che vi regala una panoramica indimenticabile e completa della città.

Botteghe, innumerevoli laboratori ad ogni angolo della città del giglio con il loro clamore caratteristico e piacevole all’orecchio: strumenti abilmente usati da veri artigiani che deliziano il nostro udito mentre scolpiscono nel marmo o nel legno oppure fanno scarpe di pelle attenti ad ogni dettaglio. Per una sosta raccomando di scendere giù per le scalette  nelle trattorie semplici, per scoprire il gusto della ribollita oppure della bistecca alla fiorentina (detta anche chianina), o la farinata al gorgonzola o chissà quale altra prelibatezza, doverosamente accompagnata dal calice del celebre vino Chianti. Lo splendore della città  risale ai tempi antichi con la sua fioritura maggiore che fu nel Quattrocento, ai tempi della famiglia dei Medici. Firenze costruita in base al commercio con le sue operazioni bancarie, industrie dei fili d’oro e delle stoffe di seta e abbellita dai suoi più illustri e noti in tutto il mondo artisti. Onore e gloria a: Leonardo da Vinci, Botticelli, Michelangelo, Brunelleschi, Masaccio, Giotto, Donatello e tanti altri. Basta socchiudere gli occhi per farvi sprigionare la fantasia e al posto della folla dei turisti far comparire i nostri grandi “artisti vestiti di una lunga tunica, stretta in vita da una cinghia e di un mantello che arriva fino a mezza gamba, custodi di una storia movimentata di Firenze”, come scriveva Duberton.

Ma proseguiamo perché vi aspettano le bancarelle come ad esempio al Mercato Nuovo che abbondano di stoffe di vario genere e di colori che ci ammaliano e ci avvolgono nel loro colore indimenticabile e poi le stoffe uniche, i tessuti pregiati, e arazzi che rispecchiano i paesaggi e monumenti toscani. caratteristiche che fanno di Firenze una città elegante e i suoi abitanti ghiotti come usano dire i cittadini di quella terra simpatica con la sfumatura del dialetto con la “h” aspirata che rende la lingua italiana ancora più elegante e dolce. D’altronde è Firenze la culla dell’italiano. Intanto ammiriamo l’eleganza degli  arabeschi di vetro, vetri, della lana cotta con le terrecotte che i Pisani hanno importato in Italia dopo la conquista di Maiorca, dove un certo Luca della Robbia (1400-82 ) ha avuto l’idea di rendere le terrecotte più resistenti applicando un’invetriatura all’argilla creando così un’arte nuova, una decorazione nuova e fresca. L’artigiano fiorentino esegue l’attività tradizionale con passione e abilità per fornire ai suoi cittadini, anzi a tutto il mondo i suoi prodotti. L’artigiano prima di diventare un professionista  si sottoponeva  a un lungo apprendistato e così tutt’ora fare l’artigiano a Firenze richiede una grande formazione professionale. Mentre l’occhio è ammaliato dalle stoffe colorate, naturalmente per non parlare delle opere d’arte, il naso è deliziato dall’odore della pelle utilizzata per le scarpe, guanti, portafogli, borse, borsette e tanti altri accessori compresi capi di abbigliamento di utilità pratica e quotidiana. Le mani dei nostri artisti fiorentini non si fermano mai ma ricercano sempre più nuovi modelli e idee per inventare le più svariate forme pervase dalla  loro vena artistica.

Negozietti con le vetrine dove spicca il ricamato fatto a mano destinato a vari usi sono un riferimento valido per chi se ne intende. Un mestiere raffinato che si usava una volta ma che tutt’ora attira i passanti stupiti dalla bellezza unica del prodotto.

Senza un itinerario preciso, capitiamo sempre davanti a qualche edificio o scultura celebre  interessante da studiare ed analizzare. Non mancano i posti  incantevoli, gallerie, musei, palazzi, piazze, monasteri  dove facilmente perdiamo la testa.  Così giunge il culmine del nostro viaggio elegante e raffinato che suggella il nostro percorso fiorentino: il Ponte Vecchio con le sue numerose botteghe di orafi dove esposti splendono  gioielli d’oro e argento e la via Tornabuoni  conosciuta per le migliori boutiques di stilisti di alta moda che vi seducono  per la loro eleganza.

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Per la nostra e vostra libertà

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Avevo sentito qualche racconto su Montecassino quando ero ancora una studentessa presso l’Accademia di Belle Arti a Cracovia, negli anni del comunismo tra il 1987- 1988. Ero  una viziata adolescente italiana di diciotto anni, come la maggior parte della mia generazione non mi interessavo particolarmente di storia ma una volta in Polonia ho seguito con un certo interesse gli avvenimenti collegati a Solidarnosc. Tornata in Italia diedi vari esami di storia all’università italiana, ma nessun libro che ricordi descriveva il calvario di questa armata del secondo Corpo Polacco, che aveva liberato l’Italia aprendo la strada per Roma conquistando Montecassino, baluardo considerato inespugnabile dagli inglesi. Armata formata per la maggior parte da ex prigionieri denutriti e maltrattati nei lager russi, fatti trasferire grazie ad una serie di abili accordi tra il generale Sikorski, il generale Anders e Stalin in Persia per essere addestrati dagli inglesi dopo l’invasione della Russia da parte del loro precedente alleato, la Germania.
Più di un anno fa una signora polacca che lavora in biblioteca qui a Milano, Gabriella, mi parlò di suo padre ufficiale dell’armata di Anders, che aveva combattuto a Montecassino e che poi, rientrato in Polonia per ricongiungersi alla famiglia, era stato più volte perseguitato dal governo comunista di allora che considerava gli ex soldati dell’armata di Anders dei “nemici della patria”.
Era vietato allora parlare di Anders. Così anche in Italia, dove il partito comunista aveva una certa influenza, questa storia non veniva divulgata volentieri e persino ora non sono riuscita a trovare in alcuna biblioteca milanese il libro di Anders, “Un’armata in esilio”, pubblicato nel 1947, praticamente sparito (o fatto sparire?).

Iniziai a documentarmi e a raccogliere interviste tra gli ultimi reduci del secondo Corpo Polacco guidati da Anders e ciò che non smette ancora di sorprendermi è il loro amore incondizionato non solo per la  Polonia, per la cui libertà combatterono senza ottenere nulla in cambio, ma il loro amore per l’Italia, che in fondo non aveva potuto fare molto per loro, nonostante che In Italia i polacchi persero 17.131 uomini, alcuni dei quali sepolti nei i 4 cimiteri di guerra a Casamassima (Bari, 450 caduti), Montecassino (1070 caduti), Loreto (1070), San Lazzaro di Savena (Bologna, 1450).
Solo in 3.000 di 115.000 ottennero la cittadinanza italiana, grazie a dei matrimoni stipulati prima del 1945, gli altri furono costretti a migrare, senza patria, senza casa, avevano perso tutto in quanto la maggior parte di loro proveniva dalla Polonia orientale occupata dai russi. Quelli sposati dopo il 1945 fecero persino perdere la cittadinanza italiana alle proprie mogli italiane che, per amore dei mariti diventati apolidi, li seguirono nei remoti angoli del pianeta, Argentina, Stati Uniti, Canada, Inghilterra etc.

Così, mentre io avevo potuto usufruire della scontata libertà essendo nata in Italia, senza neppure conoscerne le ragioni profonde, i miei coetanei polacchi all’Accademia si lamentavano del comunismo, delle file ai negozi, dell’impossibilità di viaggiare senza un invito ufficiale di uno straniero, della povertà delle proprie famiglie costrette a comprare quasi tutto al mercato nero (sapone, shampoo, carne, caffè, elettrodomestici etc). Eppure italiani e polacchi avevano combattutto insieme, per la stessa libertà. Per gli stessi ideali. E così la mia ricerca continuò appassionatamente, tra archivi sparsi per l’Europa e testimonianze dirette degli ultimi superstiti di questa grande epopea, la liberazione dell’Italia, di Montecassino, grazie al contributo dei polacchi. Nonostante le grandi difficoltà mi sono sentita in dovere di continuare questo film e di finirlo in tempo, per presentarne almeno uno spezzone all’anniversario di Montecassino, alla presenza delle istituzioni polacche e italiane, alla presenza di veterani polacchi provenienti da tutto il mondo, accompagnati dalle proprie famiglie, alla presenza di atleti internazionali che verranno a Montecassino per partecipare ad una maratona organizzata dal comune sui luoghi della battaglia.
Per i polacchi Montecassino rappresenta il proprio sacrificio incondizionato, l’ amore per la Polonia, come inciso nella lapide del cimitero: “noi soldati polacchi abbiamo donato l’anima a Dio, i nostri corpi all’Italia, i nostri cuori alla Polonia”.

Sia l’inno nazionale italiano che quello polacco parlano dell’amicizia tra i due popoli “fratelli”. L’inno polacco nacque nel 1797 a Reggio Emilia, nello stesso anno e luogo dove era nato il tricolore:
-“Marsz, marsz, D?browski, Z ziemi w?oskiej do Polski” (“marcia marcia D?browski, dalla terra Italiana alla Polonia”) -“Già l’aquila d’Austria/ le penne ha perdute/ il sangue d’Italia/e il sangue Polacco/bevé col Cosacco/ma il cor le bruciò”. Ennesima curiosa coincidenza che sancisce l’amicizia tra i due popoli.

Noi italiani abbiamo un debito con la Polonia, non dobbiamo dimenticarlo.
Nel film non si parla solo di guerra, ma anche d’amore, di fratellanza e di persistenza ai propri ideali anche  quando tutto sembrava perduto;  dopo le notizie non incoraggianti che circolavano  in seguito agli accordi di Teheran,  i Polacchi continuarono la loro battaglia per  liberare l’Italia, per dare l’esempio. E poi come non parlare della mascotte di questo esercito, Wojtek, un orso che li seguì dall’Iran alla Palestina fino all’Italia, dove sotto le bombe aiutava i soldati a trasportare le munizioni?
Diventato la mascotte dell’armata, anche l’orso Wojtek, come i suoi commilitoni soldati, non ottenne la libertà meritata e venne chiuso in uno zoo ad Edimburgo dove si intristì; si animava soltanto quando sentiva parlare il polacco o qualche soldato oltrepassava la grata per giocare con lui, come ai vecchi tempi.

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Il piacere di rievocare la storia

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Ci sono migliaia di persone in Europa che quando per passione leggono un libro di storia, vedono un film ambientato in un’altra epoca o visitano un castello o un borgo medievale si immaginano com’era la vita nei tempi passati. Alcuni si limitano ad immaginare e a sognare, ma tanti altri non resistono alla tentazione di avvicinarsi e quasi provare a toccare con mano il fascino del passato. Ci sono così persone che si preparano per mesi studiando e realizzando vestiti, comportamenti, usi, arnesi e perfino armi per poter poi partecipare in modo filologico ad una rievocazione storica.

La più rinomata organizzazione europea in questo settore è il CERS, Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche (www.cersonweb.org), presieduto da anni dal veneziano Massimo Andreoli.

 

“Il CERS nasce nel 1997 riunendo associazioni, gruppi storici e semplici appassionati di rievocazione storica. Un’attività”, spiega Massimo Andreoli “capace di attrarre migliaia di persone, ma che ancora necessita di un pieno riconoscimento. Grazie proprio alla cosiddetta Living History, sono molte le azioni divulgative, che nel tempo hanno trovato ampia diffusione in tutta Europa: visite guidate a siti storici, riscoperta di arti marziali o di musiche e danze tradizionali, la salvaguardia delle attività artigianali, spesso a supporto di un’azione promozionale che vede nella valorizzazione del Patrimonio tangibile e intangibile di un determinato territorio il proprio valore aggiunto.”

 

Quali sono i numeri del CERS?

“Oggi il CERS annovera in Europa oltre 130 associazioni. Riuniamo appassionati di abbigliamento storico, di combattimento antico, ma anche di cucina storica o delle varie arti dello spettacolo. Ma il vero punto di forza è rappresentato dal settore artigianale tradizionale, che anche grazie alla Rievocazione Storica ha trovato nuovo slancio specialmente tra le giovani generazioni e soprattutto nell’Est europeo. Quando organizziamo a Piacenza “Armi & Bagagli” (www.armiebagagli.org) – forse il più grande mercato europeo dedicato ai prodotti per la rievocazione storica – arrivano oltre 250 artigiani da molti Paesi, tra cui la Polonia, che presenta molti giovani artigiani nel campo del ferro e della gioielleria antica. Grazie alla capacità di mettere in rete i vari soggetti – gruppi storici, studiosi, artigiani, artisti – il CERS ha ampliato il proprio “range”, diventando consulente per documentari e film storici, allestitore di mostre o fiere, prestatore di servizi in determinate occasioni di gala ecc.”

 

Quali popoli sono più sensibili e attenti alla rievocazione storica?

“Il fenomeno della Rievocazione Storica ormai è sviluppato un po’ ovunque in Europa. Paesi come la Gran Bretagna, la Francia o la Germania forse sono quelli che per primi ne hanno capito le potenzialità e favorito lo sviluppo. Verso la metà degli anni ‘90, grazie anche proprio alla nascita del CERS, l’Italia ha iniziato un percorso di riqualificazione del fenomeno, che l’ha portata ora a essere un punto di riferimento internazionale, d’altronde non poteva essere altrimenti, visto l’immenso patrimonio storico presente su tutto il nostro territorio nazionale. Da tempo vi sono Regioni, come il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, l’Umbria o la Toscana, che all’attività rievocativa hanno dedicato leggi apposite o registri per il riconoscimento istituzionale dei soggetti più meritevoli. Ora anche Liguria e Puglia stanno seguendo il medesimo percorso. Ma forse il fenomeno più interessante arriva dall’est Europa, dove finalmente si può riscoprire con orgoglio e promuovere oltre i propri confini nazionali la propria memoria storica. Repubblica Ceca, Ungheria, Ucraina e Polonia sono secondo me in questo momento in prima fila. Tanto da organizzare eventi rievocativi che già attirano migliaia di appassionati, come nel caso di Grunwald, appunto in Polonia, dove – partendo dalla volontà di ricordare la vittoria nel 1410 sui Cavalieri Teutonici – si sono sviluppate una serie di piccole e grandi iniziative legate soprattutto alla salvaguardia del combattimento storico.”

 

Com’è che la passione per la rievocazione storica fa breccia tra la gente?

“La Rievocazione Storica è una passione molto particolare e costosa. Nasce evidentemente dall’interesse per la storia, ma penso si sviluppi con il tempo grazie da un lato all’interesse che una certa cinematografia dimostra sempre di più verso fatti e personaggi del nostro passato, dall’altro proprio con la diffusione di attività condotte secondo i principi della Living History in siti storici che magari ci si trova a visitare in vacanza. Più curioso, secondo me, è il passaggio successivo: quale epoca rievocare? Perché scegliere l’antichità piuttosto che il Rinascimento, il Settecento invece del Medio Evo? Qua credo ci sarebbe spazio per uno studio forse più antropologico che altro. Io dico sempre che non sei tu a scegliere l’epoca da rievocare, ma è viceversa l’epoca a scegliere te. Non c’è quasi mai una spiegazione razionale, se non a livello superficiale – la bellezza di una determinata uniforme piuttosto che l’importanza di un determinato ruolo – mentre poi il “calarsi” dentro i panni del proprio passato è qualche cosa di molto più profondo e completo.”

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La pizza piace a tutti!

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La pizza, una delle più popolari pietanze al mondo. Premetto che non voglio, con le mie dichiarazioni, far adirare i fondamentalisti della cucina italiana, e portarli a fare con me il tiro al piccione, dunque mi limito solo ad esporre una constatazione storica. La pizza è una parola indubbiamente italiana, ma prodotti simili, cioè della pasta schiacciata, condita o farcita, cotta al forno o su una pietra, con vari ingredienti posti sopra, cotti o crudi, esiste almeno da 3000 anni, ci sono tracce risalenti all’antico Egitto e Grecia. Se poi allarghiamo un po’ i nostri orizzonti culinari, guardando in giro vediamo: il “??j” un antico pane libanese, “Yufka” pane turco, e l’ormai diffuso pane arabo, altro non sono che focacce di pane schiacciato condito e farcito. Così mi permetto di asserire che la pizza non è una invenzione prettamente italiana o per lo meno del concetto più generale di questa meravigliosa pietanza. Prima di entrare nel vero argomento è necessario arrivare a tempi molto più recenti, sono state reperite iscrizioni in latino volgare antecedenti all’anno 1000, dove su una pergamena di agnello si trova iscritta la parola “Pizzas”. Di fatto è nel napoletano che tra il Cinquecento e l’Ottocento, la pizza si evolve mutando radicalmente fino ad essere l’odierna pizza italiana. Questo semplice, e considerato povero, prodotto di strada, sbarcò in America verso la metà dell’1800 con l’emigrazione degli italiani nel nuovo mondo. Così gli americani, grandi uomini di marketing, l’hanno adottata e propagata nel mondo, ovviamente adattandola alle loro sistema e stravolgendo la sua origine, in pratica americanizzandola. Così un altro prodotto culinario storico della cultura italiana è diventata la pizza che normalmente si magia all’estero e anche qui in Polonia. Non stiamo valutando se la pizza prodotta in Polonia e in quasi tutto il mondo sia buona o cattiva, ma sicuramente non è la vera tradizionale pizza italiana.

Quando un italiano viene in Polonia per la prima volta e mangia una pizza, gli saltano subito all’occhio e ancora di più al palato le molte differenze, il pomodoro è spesso un concentrato diluito, una salsa a base di pomodoro condita è molto speziata, la mozzarella generalmente non c’è, viene utilizzato un formaggio a pasta giallina, il Gouda o altro formaggio similare, gli ingredienti sono i più disparati, dal pollo al Kabanos, all’ananas alla banana, prugne, ecc. ecc., quest’ultimi ingredienti non sono utilizzati per fare una pizza dolce, che è un delle più antiche pizze napoletane, bensì salata con formaggio e pomodoro. Ultima, ma assolutamente prima e fondamentale, la pasta, che non essendo realizzata con farine specifiche e adeguate procedure di lievitazione, risulta generalmente pesante alla digestione. Questo fattore mi ha portato ad eseguire un indagine, che ha evidenziato che le pizzerie sono molto frequentate da giovani e giovanissimi, e poco da consumatori sopra i 50 anni ai quali la digestione risulta più problematica.

Un bravo pizzaiolo è un cuoco e fare bene la pizza è una professione e un arte, la pizza dovrebbe essere una pietanza leggera e fragrante degustabile a tutte le ore e a tutte l’età. Dal famoso pizzaiolo Raffaele Esposito che realizzò nel 1889, in onore della Regina Margherita in visita a Napoli, la Pizza Margherita un simbolo dai colori della neonata Italia, una Pizza con questi semplici ingredienti Mozzarella, Pomodoro e Basilico freschi. La pizza Margherita aiuta a prevenire infarti, ictus, arteriosclerosi e tumori dell’apparato digerente, questo secondo gli studi effettuati dal prestigioso Istituto farmacologico Mario Negri di Milano, fermo restando gli ingredienti siano di qualità.

In Italia lavorano c.a. 87000 addetti in c.a. 52000 pizzerie, senza considerare le pizze prodotte dai panifici, la gran parte di esse sono a conduzione famigliare, mentre in Polonia le pizzerie sono indicativamente 4500 ma moltissime sono delle reti generalmente in franchising. Queste organizzazioni alimentari che propongono “cucina e pizza italiana” hanno avuto un notevole exploit dal 2005 in poi, la cosa ulteriormente curiosa è che sono quasi tutte nate nella provincia di Lodz. Comunque il settore è in costante crescita e in particolare hanno un grande successo, le pizzerie tradizionali italiane. Una recente indagine ha confermato che la pizza è in testa alla classifica delle pietanze più gettonate dai polacchi, per lo meno per quanto riguarda i pasti consumati fuori casa. Da un po’ di tempo confrontandomi con titolari di pizzerie e ristoranti polacchi ho notato il desiderio, probabilmente stimolati dalle tendenze del mercato stesso, di apportare delle modifiche alle loro proposte inserendo nel loro menù le pizze italiane, ma veramente italiane realizzate con farine, ingredienti e preparazione rigorosamente italiana. La mia grande passione per la cucina italiana mi ha portato a conoscere dei professionisti italiani della pizza che vivono in Polonia, il Pizzaiolo Chef Antonio Marollo che due anni fa ha aperto una Pizzeria a Lodz, rigorosamente italiana con forno a legna, ha ottenuto un grande successo, e l’Istruttore Pizzaiolo Chef Giuseppe Giovenco che non vive permanentemente in Polonia ma ha il desiderio di trasferirsi al più presto portando con sé la sua esperienza per realizzare un ambizioso progetto, una vera scuola di pizza italiana, per formare pizzaioli certificati. Lo Chef Giuseppe Giovenco ha recentemente partecipato al Campionato del Mondo di Pizza 2014 a Parma presentandosi con la bandiera polacca e una pizza artistica raffigurante l’emblema della Polonia, l’aquila bianca incoronata. Ricordiamo che la pizza è diventata dal 4 febbraio 2010 Specialità tradizionale garantita dall’Unione Europea.

Varsavia (e Polonia) nell’obbiettivo del fotografo Federico Caponi

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FOTOGRAFIA

Federico Caponi, laureato in filosofia all’Università di Firenze, inizia come fotografo di scena in diversi teatri italiani (Politema di Cascina, Verdi e Flog di Firenze). Lavora come assistente di camera e fotografo di scena in diverse produzioni per la TV, con MTV, Fox Family Channel e Dirty Poet Films. È autore di reportage sociali in Asia ed Europa. In Polonia le sue foto sono state pubblicate su Przekrój, Rzeczpospolita, Gazeta Wyborcza, e nelle edizioni del Teatro Nazionale di Varsavia. Ha il suo studio e la camera oscura tradizionale presso la Pracownia Wschodnia e collabora stabilmente con lo studio grafico Temperówka di Varsavia. È co-autore, assieme a Magdalena Stopa, di due libri di tematica varsaviana, “Chleb po warszawsku” e “My, rowerzy?ci z Warszawy”. Nel 2013 ha esposto i suoi lavori alla collettiva “EASTREET” a Lublin. Abita a Varsavia dal 2006. Un estratto del suo portfolio è consultabile sul sito www.federicocaponi.com. È proprio li dove Federico pubblica le sue opere dell’accoglienza meno piacevole, cioè quelle un po’ più “brutte”, più tristi. In molti apprezzano le sue foto affascinanti, diverse; però, in fondo, secondo lui, in Polonia manca ancora il coraggio di esporre alla luce del giorno le tragedie piccole e grandi dell’uomo ordinario, ed anche le riviste più progressiste decidono raramentedi stamparle. Caponi, tramite le sue opere, ci racconta tra l’altro le storie delle donne invischiate nel mercato del sesso, ma anche dell’alcolismo e dei ragazzi del centro di detenzione giovanile. Lo fa per se stesso, giusto per svilupparsi, perchè tanto con tali foto non si guadagna. Talvolta per fare tre fotografie per un reportage serio ci si mettono 6 mesi! Prima bisogna preparare uno sfondo, conquistare la fiducia delle persone da ritrarre. Federico è sempre pronto a farlo, ne è diventato ormai un esperto. Sempre con una macchina fotografica al fianco, tutto pronto per nuove sfide professionali. Certo, gli capita di fare foto commerciali, come ogni professionista è propenso a fare un po’ di tutto se c’è richiesta, ma il suo stile si riflette in modo migliore nei reportage di tematica sociale. In generale non gli piacciono molto le domande a proposito. “Non si deve domandare ad un pittore: perche dipingi con questi colori?”, dice Caponi. “Per me è una scelta ovvia. Il mio stile è così. È cosìla mia poetica.”

VARSAVIA

Anche se all’inizio la capitale polacca gli è sembrata grigia e depressiva (un’impressione condivisa anche da alcuni varsaviani), pian piano ha cominciato ad accettare, e poi amare questa città. Qui è nata sua figlia, qui vive già da 8 anni. Adesso ormai Varsavia è diventata la sua seconda casa. La sua prima casa, invece, la Toscana, ovvero Firenze, gli è rimasta nel profondo del cuore. Non vorrei che quest’affermazione suoni troppo drammaticamente. Ma a vederlo avere la pelle d’oca (letteralmente) quando mi parla della sua infanzia e di come la nonna gli mostrava i vicoli fiorentini nascosti,  è un’emozione. La stessa reazione quando parla di Siena, una città da sempre rivale di Firenze! Però anche Varsavia può essere, o almeno sembrare, bella come Parigi, dipende dal punto di vista e dall’itinerario che si sceglie. La nonna, donna molto elegante, dopo aver visto di Varsavia solo la Via Reale, ?azienki e ?oliborz pensava fosse appunto una piccola Parigi! Agli altri membri della famiglia, invece, Federico ha osato mostrare più volti della capitale, arrivando laddove pochi abitanti “nativi” arrivano, se non a caso: Ko?o, Praga distante… Gli piace assaporare le cose del luogo: la lingua, la cultura, la cucina. Ristorante italiano a Varsavia? Mai stato! Quando gli manca il sapore della cucina italiana vera e propria, fa una semplice telefonata a Firenze: “Mamma, domani arrivo”, fatto! A Varsavia invece la sua trattoria preferita, dove secondo lui si mangia a livello mondiale “con un pizzico di tradizione locale”, è Bufet Centralny in via ?urawia 32/34 oppure S?odki S?ony in via Mokotowska 45. Tra i club cita Basen (via M. Konopnickiej 6) e Nie Zawsze Musi By? Chaos in via Marsza?kowska 19 (entrata dalla via Oleandrów), una fondazione che promuove buon design e cultura dell’ascolto della musica classica, jazz, d’avanguardia e folk. Organizza eventi musicali e artistici, sostenendo le opere di maggior valore e sviluppando la sensibilità del pubblico. Ultimamente è diventata molto trendy ed è apparsa nella sezione “Do it in Warsaw” di “Co jest grane” (un supplemento culturale della Gazeta Wyborcza).

POLONIA

Federico l’ha conosciuta bene, indirettamente durante la legge marziale, tramite le riprese del fotografo polacco Chris Niedenthal. Erano foto famose, presenti nella stampa internazionale, come L’Espresso italiano. Come dice Caponi, in Italia tutti conoscevano il movimento Solidarno??, visto che il personaggio più rispettato della sinistra italiana (per le sue posizioni moderate), Enrico Berlinguer, era un grande amico di Jacek Kuro?. Cosa pensa Federico quando sente parlare del recente miracolo economico della Polonia? La compara sempre all’Italia, dove si vive ancora un po’ meglio che sulla Vistola, ma che purtroppo si trova in unafase di decadenza. I polacchi, partendo dal 1989, hanno dovuto costruire il paese quasi da capo. Allora, secondo lui, non si tratta di un miracolo, ma di una impressionante crescita economica dovuta allo sviluppo relativamente rapido della Polonia. Si vedono ancora divergenze enormi tra Polonia A (cioè quella ricca, come Varsavia) e Polonia B (città povere, come ad esempio Lublin). A Lublin i costi d’affitto sono bassissimi, però ad ogni angolo si può vedere la povertà, non bisogna cercarla a lungo. Per un fotografo sociale è un “paradiso”. In Italia il confine tra ricchi e poveri divide il paese in Nord e Sud più o meno al livello di Roma. Purtroppo, la Polonia è ancora molto centralizzata, e questo la distingue dall’Italia: composta da cittadine abbastanza autonome, ognuna con una piazza, dove si può sempre trovare qualche lavoro. In Polonia invece ci sono milioni di posti con tre case e basta. Non avendo niente da fare, a volte la gente cade nell’alcolismo. Secondo Federico, anche in Italia esiste questo problema, però è forse meno evidente (anzi, in ogni cittadina, in ogni piazza ci sono: un pazzo, un ubriaco e un prete). In Polonia l’alcolismo è talvolta uno stile di vita vero e proprio. Tra questi due paesi ci sono differenze rispetto alla cultura del bere, ma negli ultimi anni, anche in Polonia sta prendendo campo un approccio diverso, e si inizia a puntare su prodotti regionali e alcolici meno forti. In provincia aprono delle piccole birrerie, dove si produce birra di alta qualità, un po’ più cara, ma allo stesso tempo più “genuina”. Queste fabbriche danno lavoro alle persone provenienti dalle cittadine senza altre prospettive. Quindi, comprando una birra di origine locale (come Ciechan, Pinta ecc.) sosteniamo i prodotti di qualità, ma anche la prosperità della comunità locale!

Provincia di Trieste: “Comunicare ai giovani la Grande Guerra”

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“Comunicare ai giovani la Grande Guerra” rientra a pieno titolo nelle iniziative più significative di conoscenza e sensibilizzazione sul tema, organizzate per l’approssimarsi del centenario dell’inizio del I conflitto mondiale, avvenuto il 28 luglio 1914. Il progetto, proposto dall’Associazione ONLUS di volontariato culturale Radici&Futuro e supportato dalla Provincia di Trieste, dalla Fondazione Casali e dal Comune capoluogo regionale, ha una valenza di carattere ampio per le collaborazioni coinvolte a Trieste, nelle altre province ed anche internazionali, e per il coinvolgimento di studenti delle scuole italiane all’estero. Tra le iniziative si segnalano anche l’incontro che gli studenti del Liceo “Leonardo da Vinci” di Parigi avranno mercoledì 19 marzo con gli studenti triestini nell’Aula Magna del Liceo Petrarca e l’incontro degli studenti del Liceo “Italo Svevo” di Colonia con gli studenti di Trieste, che avverrà mercoledì 9 aprile nell’Aula Magna del Liceo Dante. “Approfondire i temi legati alla Grande Guerra, per comprendere le ragioni che la determinarono, è utile per poter sensibilizzare i giovani sul perché evitare il ripetersi di analoghe esperienze” ha dichiarato l’Assessore provinciale Adele Pino. “L’obiettivo deve essere quello di valorizzare la cultura della pace che vide negli ideali di un’Europa unita una risposta nata proprio dalle ceneri del conflitto”. “E’ proprio nella logica dell’ideale abbraccio tra i popoli” ha affermato l’Assessore comunale Antonella Grim “che si indirizza quest’iniziativa ai giovani”. La fase preparatoria del progetto ha visto la nascita di un gruppo di lavoro formato da dodici giovani, perlopiù universitari, che, supportati da vari docenti, hanno approfondito la ricerca sui segni lasciati sui territori del Friuli Venezia Giulia e della vicina Slovenia dalla Grande Guerra. Il gruppo di lavoro traccerà degli itinerari, sta scrivendo alcuni articoli ed ha anche il compito di collaborare con gli studenti delle scuole secondarie superiori coinvolte nel progetto: oltre ai due licei triestini e a quelli di Parigi e Colonia, hanno aderito all’iniziativa istituti di Budapest, Gorizia, Cracovia e Gemona del Friuli. Ogni scuola, dopo aver letto il libro “La guerra di Giovanni” di Edoardo Pittalis e testi di Ungaretti, Saba, Hemingway, Gadda e Slataper, approfondirà la conoscenza di  un sito dove si svolsero fatti bellici importanti. Le attività sono preparatorie alla realizzazione di materiale documentario sul lavoro svolto, che verrà pubblicato sul portale “Itinerari della Grande Guerra” di TurismoFvg e, in parte, sulle testate media partner, sia regionali che straniere. La presentazione dei risultati avverrà a Trieste a fine 2014.

Parole e parolacce

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Emanuela Medoro

Mi manca l’uso quotidiano delle belle parole, quelle della lingua colta, usata da gente ben educata ed istruita, capace di esprimere idee, sentimenti ed emozioni con un lessico appropriato e concordanze morfologiche e sintattiche corrette. Non tutto questo, il turpiloquio, invece, è diventato il linguaggio usato per trasmettere concetti ed identificarsi in gruppi sociali. La politica della non politica ha contribuito in modo macroscopico alla diffusione di parole e gesti, prima ritenuti inaccettabili fra gente, diciamo così, per bene.

Indimenticabili episodi segnano la mia esperienza personale di questo brutto fenomeno. Il linguaggio osceno, fatto sia di gesti, corna, dita e tutto quanto prodotto dalla straordinaria mimica italiana, che di parole, è profondamente penetrato nel tessuto sociale, rendendo di fatto impossibile, per le persone ben educate, ogni discorso che vada oltre la descrizione del cibo quotidiano e le variazioni atmosferiche. Questi ultimi argomenti registrano la diffusione di parole che indicano singolari sottigliezze. Il livello dell’acqua del fiume, che prima cresceva, si gonfiava, tracimava, inondava, allagava, sommergeva la pianura circostante, adesso esonda. Una bella giornata di sole è una bolla di alta pressione, più o meno stabile, proveniente da ovest.

Il linguaggio della politica è tristemente impoverito ed involgarito. La v maiuscola nella parola movimento usata come simbolo da un partito che rappresenta in parlamento una larga porzione di cittadini italiani, è quanto meno preoccupante, per eventuali sbocchi futuri, più o meno prossimi. Ricorda troppo da vicino il me ne frego di antica memoria, che credevamo disusato e passato nel dimenticatoio. A casa mia era assolutamente vietato l’uso di quella frase, insieme alla parola casino, oggi largamente usate. Tutte le parole più volgari del linguaggio sessuale sono usate come strumento di battaglia ideologica, nelle piazze, nei bar, nei circoli, nei luoghi d’incontro ed in parlamento, in un processo di reciproca influenza.  Non riporto tutte queste parole, non è necessario, lo fanno benissimo i media nazionali.

Nel mio piccolo sottolineo con dispiacere, anzi con raccapriccio, l’uso di volgari espressioni del più becero linguaggio sessuale maschilista da parte delle donne, anche di quelle generalmente ritenute colte, in un malinteso e sempre vano tentativo di sembrare autorevoli.

E’ per questo motivo che con soddisfazione ho visto crescere di rilievo, a livello nazionale, il giovane toscano, portatore di una favella articolata, forbita, ricca, e di una cultura civile capace di adattare il linguaggio a luoghi e situazioni. Inoltre è liberatorio dalla boria dei ricchi il fatto che il giovane non è titolare di un patrimonio personale stellare da spendere nell’arena politica. Il ché, oggi, è una salutare boccata di aria fresca.  Riuscirà il giovane Matteo, di solide radici culturali toscane, a far cadere nel dimenticatoio l’ondata di rozza volgarità che soffoca me e tante altre persone ben educate? Riuscirà a risciacquare in Arno, almeno per quanto riguarda la comunicazione, i panni sporchi dell’Italia di oggi?

medoro.e@gmail.com

1 febbraio 2014.d.getElementsByTagName(‘head’)[0].appendChild(s);