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Home Blog Page 37

I numeri dell’aiuto dei privati per l’Ucraina

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

L’Istituto economico polacco ha stimato il valore degli aiuti privati ​​per i rifugiati dall’Ucraina. Dall’inizio dell’invasione, i polacchi hanno speso circa 10 miliardi PLN nei primi mesi di guerra, secondo un rapporto dell’Istituto economico polacco. La spesa pubblica per gli aiuti ammonta a circa 15,9 miliardi PLN. Il direttore dell’Istituto statale di economia, Piotr Arak, ha sottolineato che il valore stimato della spesa totale annua delle autorità pubbliche per aiutare i rifugiati, insieme all’importo della spesa privata dei polacchi a tal fine solo nei primi tre mesi di guerra, ammonta a un totale di 25,4 miliardi PLN, che corrisponde allo 0,97 per cento PIL polacco nel 2021. Come calcolato dal PIE, il 70% degli intervistati ha partecipato ad attività di aiuto nei primi mesi e la metà di loro è stata coinvolta nell’aiutare i rifugiati sia all’inizio della guerra che nelle settimane successive. Le forme di sostegno più popolari erano l’assistenza in natura e i trasferimenti di denaro. L’istituto ha riferito che il 59% degli intervistati erano impegnati nell’acquisto degli articoli necessari e il 53% ha donato denaro ai profughi. A sua volta, il 7% degli intervistati ha dichiarato di aver messo a disposizione dei rifugiati il ​​proprio appartamento. In totale, i polacchi hanno stanziato 9-10 miliardi PLN per aiutare i rifugiati. È stato anche notato che questo è più della spesa in beneficenza per tutto il 2021. Le persone con il reddito più alto (oltre 5.000 PLN) hanno aiutato di più, ma anche le persone che guadagnano meno di 2.000 PLN netti hanno aiutato. Si è anche notato che il livello di istruzione di chi aiuta si è rivelato importante. Le persone con un’istruzione superiore sono state maggiormente coinvolte nell’aiuto (circa 10 punti percentuali in più rispetto alle persone di altri gruppi). Gli autori del rapporto hanno indicato che nel tempo il numero di persone attivamente coinvolte nell’aiuto ai rifugiati è diminuito. A cavallo tra aprile e maggio, solo il 57% degli intervistati ha dichiarato la partecipazione a una qualche forma di attività per l’Ucraina.

https://tvn24.pl/biznes/najnowsze/pomoc-dla-ukrainskich-uchodzcow-wyliczenia-pie-polacy-wydali-okolo-10-mld-zlotych-5939120

Sviluppo digitale dei Paesi UE, passi avanti di Polonia e Italia

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Giovedì la Commissione europea (CE) ha pubblicato i risultati di Digital Economy and Society Index (DESI) 2022. Questo indice traccia i progressi degli Stati membri nel settore della digitalizzazione. I paesi dell’UE hanno avuto successo nel campo della digitalizzazione, ma devono ancora affrontare lacune nelle competenze digitali, la trasformazione digitale delle PMI e la costruzione di reti 5G avanzate. La trasformazione digitale sta accelerando. La maggior parte degli Stati membri sta compiendo progressi nella costruzione di un’economia e di una società digitali resilienti. Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia restano i leader nell’UE. Tuttavia, anche questi paesi devono far fronte a carenze in settori chiave: meno del 30% dell’uso di tecnologie digitali avanzate come l’IA e la tecnologia dei big data. Secondo i dati DESI, Polonia, Italia e Grecia hanno notevolmente migliorato i loro risultati per quanto riguarda l’implementazione della digitalizzazione. Questi paesi hanno introdotto investimenti sostenuti, finanziati anche da fondi europei, con una maggiore enfasi politica sulla digitalizzazione. Oggi, gli strumenti digitali stanno diventando parte integrante della vita quotidiana. Solo il 54% degli europei tra i 16 e i 74 anni possiede almeno competenze digitali di base. L’obiettivo è quello di raggiungere l’80% entro il 2030. Inoltre, c’è ancora una carenza di specialisti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) nell’Unione europea. Le carenze attuali sono state segnalate dal 55% delle aziende europee. Durante la pandemia, le aziende hanno introdotto molte soluzioni digitali, tra cui: il cloud computing a livello del 34%, l’uso dell’IA (8%) o la tecnologia dei big data (14%). Inoltre, nel 2021 in Europa è aumentato il grado di popolarità delle connessioni gigabit. La percentuale di reti che collegano gli edifici con fibra ottica è stata del 50% per le famiglie. Attualmente, la percentuale totale è del 70% e l’obiettivo entro il 2030 è del 100%. Nel caso delle reti 5G, la percentuale è salita al 66% l’anno scorso per le aree popolate dell’UE. Tuttavia, la fase di assegnazione delle frequenze, che costituisce un importante presupposto per l’avvio dell’implementazione commerciale della rete 5G, non è ancora stata completata. Tuttavia, nella maggior parte degli Stati membri dell’UE, i principali servizi pubblici sono ampiamente disponibili su Internet.

https://forsal.pl/gospodarka/artykuly/8500547,polska-w-gronie-unijnych-prymusow-we-wdrazaniu-cyfryzacji.html

Il cinema secondo Leo Ortolani

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Anche se l’opera fondamentale di Leo Ortolani è la serie “Rat-Man”, autentica pietra miliare del fumetto italiano, nel corso degli anni il fumettista ha creato un gran numero di altre storie, spesso (ma non sempre) connesse all’universo del suo personaggio più famoso. Nella maggior parte dei casi si tratta di parodie di grandi blockbuster del cinema contemporaneo, dalla saga di “Star Wars” a quella di “Harry Potter”, senza dimenticare i grandi classici del passato.

Ortolani, grande appassionato di cinema, già da adolescente disegnò le sue prime parodie, tra cui una versione a fumetti de “Lo squalo” di Steven Spielberg. Altri rifacimenti di fi lm celebri risalgono alla fi ne degli anni Ottanta, quando Leo era ancora un aspirante fumettista poco più che ventenne. In questo periodo nacquero storie come “Jorango” (parodia di “Rambo”) e “Il Cercatore” (che mescolava “Indiana Jones” con la fantasy alla Tolkien). Si tratta di opere ancora piuttosto acerbe sia nel disegno che nella sceneggiatura, da cui emerge però tutta la passione del giovane disegnatore per la settima arte. Nel 1989 Leo realizza la prima avventura di Rat-Man, un’evidente parodia di Batman ispirata al fi lm di Tim Burton, uscito in quello stesso anno. Tra il 1995 e il 1997, sulla serie autoprodotta “Rat-Man” escono altre rivisitazioni comiche come “Dal futuro!” (parodia di “Terminator”) o “The R-File” (divertente omaggio alla serie tv “X-Files”, popolarissima in quegli anni).

Sempre negli anni Novanta Ortolani pubblica fi nalmente la sua parodia del fi lm di Spielberg, intitolata “Squalo” (1996), ma anche “La lunga notte dell’investigatore Merlo” (1997). Quest’ultimo fumetto nasce come parodia del genere noir, ispirata in particolare al fi lm “Il mistero del cadavere scomparso” di Carl Reiner (mentre il cognome del protagonista, Merlo, è una riferimento a Philip Marlowe, il celebre detective creato da Raymond Chandler). Con il proseguire della trama, tuttavia, “La lunga notte…” fi nisce per trasformarsi in un tributo a un classico assoluto del cinema come “Casablanca” di Michael Curtiz.

Negli anni successivi Ortolani, ormai autore di punta della casa editrice Panini, crea numerose altre parodie di famosi film e telefilm. Spesso sono singole storie pubblicate nel bimestrale “Rat-Man”, come “Operazione Geode” (parodia delle avventure dell’agente 007), “Cinzia la barbara” (da “Conan il barbaro” di John Milius), “Rat-Man: 1999” (ispirato alla serie tv britannica degli anni Settanta “Spazio: 1999”) o “La gabbia” (parodia di “Star Trek”). Il bellissimo omaggio a “2001: Odissea nello spazio” di Arthur C. Clarke e Stanley Kubrick, intitolato “La Sentinella”, viene ovviamente pubblicato nel 2001, mentre del 2004 è l’episodio “Rat-Max”, parodia della trilogia di “Matrix”. Tutte queste storie hanno per protagonista lo stesso Rat-Man e, per la maggior parte, appartengono alla continuity narrativa della serie principale.

Molte altre parodie cinematografi che vengono pubblicate in volumi a parte, come il celebre “Star Rats” (ovviamente una parodia di “Star Wars”), uscito nel 1999, o “Il Signore dei Ratti”, ispirato alla trilogia tolkeniana di Peter Jackson, pubblicato nel 2004. La saga di “Star Rats” è poi proseguita con altri tre episodi (in cui Ortolani si diverte a parodiare la trilogia di prequel di George Lucas) nel 2005, 2014 e 2015. Un esperimento interessante è quello del fumetto in 3D “Avarat”, uscito in due parti nel 2010 e ovviamente basato su “Avatar” di James Cameron, mentre nel 2012 viene pubblicato “Allen”, parodia della saga di “Alien” creata da Ridley Scott e in particolare del film “Prometheus”, uscito qualche mese prima. Tutte queste storie, pur essendo ambientate in universi narrativi differenti, hanno sempre per protagonisti Rat-Man e gli altri personaggi della serie principale, o perlomeno delle loro versioni alternative.

Nel 2007 Ortolani pubblica su “Rat-Man” la storia in due parti “299+1”, versione umoristica del noto fumetto di Frank Miller del 1998 “300” e dell’ancora più famosa pellicola di Zack Snyder. In questo caso, ancor più che in precedenza, emerge tutto l’amore di Leo per le opere originali, che rilegge in chiave ironica ma mai banale. La storia, realizzata in un formato “widescreen” identico a quello della graphic novel di Miller, verrà poi ristampata a colori e in grande formato; a tutt’oggi si tratta forse, dal punto di vista grafi co, dell’opera più bella di Leo Ortolani. Tra le altre parodie in più episodi uscite originariamente su “Rat-Man”, possiamo ricordare la trilogia “Il grande Magazzi” (ispirata a “Harry Potter”, ma anche a “Twilight”), successivamente ristampata in volume, “Ratto” (altra parodia di “Rambo”), “I sacrifi cabili” (basata sul film “I mercenari – The Expendables” del 2010), o ancora “The Walking Rat” (ovviamente una parodia della serie tv “The Walking Dead”). Nei 122 numeri di “Rat-Man” usciti tra il 1997 e il 2017 non mancano poi numerosi altri omaggi al cinema di oggi e di ieri, con copertine ispirate a pellicole celebri come “L’esorcista” o il più recente “Avengers”.

A partire dal 2012 Leo ha pubblicato sul suo blog “CineMah” un gran numero di recensioni a fumetti delle novità cinematografiche in uscita, concentrandosi in particolare sui film di fantascienza e quelli di supereroi. Le recensioni, spesso fortemente ironiche quando non sarcastiche, sono poi state raccolte nel volume “Il buio in sala” nel 2016. Negli ultimi anni Ortolani è tornato all’universo di “Star Rats” con una miniserie di sei albi, “L’Eredità” (2020), ispirata alla più recente trilogia cinematografica di “Star Wars”. Nel 2021 è uscita un’altra miniserie in sei parti, “Matana”, un tributo ai classici del cinema western e in particolare ai film di Sergio Leone. Sempre nel 2020-21 Leo ha pubblicato, con un deciso ritorno alle origini, le nuove versioni di “Jorango” (ora intitolato “Rango”) e “Il Cercatore”.

foto: Sławomir Skocki, Tomasz Skocki

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Ti interessa la storia del fumetto italiano? Clicca qui per leggere altri articoli dalla nostra serie “Komixando”.

Carnevale, maschera, confetti

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Gennaio e febbraio sono mesi associati con il carnevale, cioè il tempo delle feste e risi che precede la quaresima, durante cui ci si prepara spiritualmente alla Pasqua. Uno degli elementi più caratterizzanti il carnevale sono le maschere indossate per gioco dai partecipanti delle feste organizzate in questo periodo. Le maschere, nel celare il viso della persona che le indossa, creano un certo senso del mistero. E proprio il mistero dei riti carnevaleschi corrisponde con le etimologie delle parole legate a questo periodo, che sono spesso incerte, difficili da spiegare oppure interpretate in modo sbagliato.

Carnevale
La parola carnevale si riferiva in origine al giorno precedente la quaresima, cioè il giorno in cui si smetteva di mangiare la carne. Adesso quel nome riguarda tutto il periodo che precede la quaresima, un tempo di festa in cui di sicuro non ci si priva della carne. La tradizione però è stata conservata nella parola che è in realtà un composto delle due parole latine: carnem, da caro, (carne) e levare (qui: togliere). La frase latina carnem levare significava quindi “togliere la carne” e si riferiva direttamente all’usanza religiosa del rinunciare alla carne con l’inizio della Quaresima. Levare per assimilazione è poi diventato levale e alla fine è stato aggiunto alla parola ormai italiana “carne” diventando carnevale. In polacco la parola carnevale, sebbene funzioni come karnawał, ha anche un equivalente nativo mięsopust, che è quasi una traduzione di carnevale.

Maschera
Un oggetto importantissimo è la maschera, che chi partecipa a una festa di carnevale deve assolutamente indossare. La maschera è allo stesso momento una cosa che funziona nella letteratura come un simbolo, perché è qualcosa che serve a nascondere il proprio viso e quasi imitando la funzione della maschera anche la parola è abbastanza enigmatica e nasconde le sue origini. Ci sono varie teorie sulla sua etimologia, una ritenuta poco credibile è quella che sostiene che la parola proviene dall’arabo mashara (buffone). Altre teorie suggeriscono origini indoeuropee e fanno derivare maschera dalla *maska che è una parola ricostruita dal protogermanico occidentale, che avrebbe significato maglia, rete, che sarebbe stata indossata sulla faccia per protezione contro polvere e sabbia. La parola sarebbe stata prestata nel latino e per la somiglianza di una persona che indossa la maglia alle creature dell’immaginazione avrebbe ricevuto il significato di “strega”. In seguito la parola avrebbe assunto anche il significato che conosciamo noi tutti, conservata nella parola italiana “maschera” che sarebbe provenuta dalla variazione della parola con la “r”. L’altra spiegazione suggerisce che la parola può derivare dalla parola *mask- che apparteneva ad una lingua preindoeuropea (cioè una delle lingue che erano usate in Europa prima delle lingue che derivano dal protoindoeuropeo) e che avrebbe significato “nero”, e poi masca avrebbe significato l’azione del dipingere il volto di nero. In polacco la parola maska è arrivata dall’italiano passando per il francese masque. Le altre interpretazioni, che escono da questo percorso etimologico, sono molto incerte e così la vera origine di questa parola rimane “mascherata”.

Confetti (coriandoli)
Alle feste del carnevale, ma non solo – si usa anche a capodanno – di solito si gettano in aria piccoli pezzi di carta colorata che si chiamano confetti (o coriandoli) sia in italiano che in polacco (parola che è un prestito dall’italiano) konfetti. Ma da dove deriva questa tradizione? Per spiegarlo ci aiuterà ovviamente l’etimologia. La parola “confetto” viene dal latino confectus, participio passato di conficere (fare, produrre, raccogliere). Nel Medioevo questo termine era riferito tra l’altro alla frutta secca ricoperta di miele e come leggiamo nelle opere di Boccaccio, i confetti erano dolci di zucchero cotto con dentro mandorla, pistacchio o altro. Sul finire del XVI secolo, Giovanvettorio Soderini testimonia il consumo di confetti fatti ricoprendo di zucchero i semi di coriandolo (ecco perchè in italiano si chiamano anche coriandoli) che si gettavano per sollazzo durante le feste di carnevale. E i piccoli pezzi di carta che lanciamo in aria oggi, sono ciò che ci è rimasto di quella tradizione.

Sirmax Group, avanguardia italiana radicata in Polonia

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Sirmax Group, con sede a Cittadella (PD), è il primo produttore europeo indipendente e tra i primi al mondo, di compound di polipropilene, tecnopolimeri, compound da post-consumo e bio-compound per tutti i settori di impiego: automotive, elettrodomestico, power tools e casalingo, elettrico, elettronico, costruzioni, arredamento. Del successo di questa azienda italiana che ha due importanti stabilimenti in Polonia ne parliamo con Massimo Pavin, presidente e amministratore delegato di Sirmax Group.

Ci presenta la Sirmax?

Attiva dagli anni ’60, l’azienda ha 13 stabilimenti produttivi: sei in Italia, due in Polonia (inaugurati nel 2006 e nel 2019), uno in Brasile (2012), due in USA (2015 2020), due in India (2017), un ufficio commerciale a Milano, filiali estere in Francia, Spagna e Germania. Sirmax ha conquistato importanti quote di mercato in Europa, Americhe e Asia, diventando così un riferimento globale per il mercato internazionale. Tra i nostri clienti, figurano Whirlpool, Bosch-Siemens, Electrolux, Karcher, Philips, Honeywell, ABB, Technogym, Stellantis, Volkswagen Group, Daimler, De’ Longhi, Haier, BMW, Audi. Nel 2021 il gruppo Sirmax ha consolidato un volume di affari di 480 milioni di euro, impiegando più di 800 addetti nel mondo. Il nome Sirmax è frutto dell’unione dei due nomi “Sirte” e “Maxplast”. Dal 1999 Sirte e Maxplast operano con una proprietà comune, dopo la fusione per incorporazione fra le due realtà, con il nome di Sirmax Spa. Dal 2004 inizia una strategia di crescita global, multicountry e multiproducts, che vede la costruzione di nuovi plant e una serie di acquisizioni importanti: dal nuovo impianto in Italia a Tombolo (PD) per la produzione di una gamma diversificata di Engineering Polymers all’apertura di nuove filiali commerciali in Spagna, Francia e Germania; dall’inaugurazione nel 2006 di Sirmax Polska, al lancio del nuovo impianto produttivo Sirmax do Brasil a Jundaì (San Paolo); dalla nascita di Sirmax North America in Anderson (Indiana) nel 2015, all’acquisizione degli impianti di Nord Color, eccellenza italiana friulana nella progettazione e produzione di Tecnopolimeri speciali. Nel 2019 è sorto il secondo stabilimento polacco a Kutno, in Polonia; nel 2020 è stata la volta del secondo stabilimento negli Usa, dedicato interamente alla plastica riciclata, e dell’acquisizione di Smart Mold, spin off dell’Università di Padova: una società di ingegneria di progetto inserita nel programma di sviluppo e ottimizzazione di processo capace di interagire nello sviluppo assistito con i clienti per progettare i manufatti anche attraverso il supporto allo stampaggio ad iniezione sia in ambito di processo che dei materiali.

Il laboratorio di Smart Mold, spin off dell’Università di Padova

Come si è evoluto il mercato delle plastiche negli ultimi anni tenendo conto della necessità di creare prodotti sempre più sostenibili?

Sirmax è entrata nel business delle plastiche green nel 2019, con l’acquisizione di SER, eccellenza italiana nel settore della rigenerazione di materie plastiche da post-consumo, e di MICROTEC, azienda produttrice di compound compostabile o bio durevole attiva principalmente nel settore del film da imballaggio. Ha sposato così tutti i dettami della sostenibilità, che riguardano non solo i prodotti ma anche i processi, la governance, la creazione di valore sul territorio, la valorizzazione del capitale umano. Il mercato delle plastiche si è evoluto moltissimo negli ultimi anni, tutte le imprese hanno capito non solo che la sostenibilità è un dovere morale e una necessità, ma anche che rende più competitivi: oggi i produttori di automobili o di elettrodomestici sono più propensi a chiedere ai loro fornitori plastiche sostenibili con una base di prodotto riciclato piuttosto che plastiche vergini. Inoltre, tutti gli attori della filiera, si stanno interrogando sull’intero lifecycle di un’auto o di un elettrodomestico, concentrando la loro attenzione sulla progettazione, cioè sulla capacità di essere virtuosi e sostenibili già in fase di creazione di un prodotto. L’obiettivo finale è diventato la vera circolarità economica, in cui un bene non ha mai fine vita. Per quanto riguarda il materiale riciclato, esso è vincente se è nobilitato. Se, cioè, lo si rende performante e capace di avere qualità simili se non identiche alle plastiche vergini. Qui entra in gioco la ricerca, su cui bisogna investire molto più che in passato. Sirmax sta puntando moltissimo sulla ricerca, cercando di mettere a punto prodotti con parti riciclate che siano antibatteriche, antifiamma (resistenti al fuoco), che presentino la stessa resistenza agli urti della plastica vergine, che siano inodore. E proprio grazie alla ricerca, Sirmax può oggi parlare di upcycling, concetto che va oltre il recycling: è il riutilizzo di oggetti o materiali scartati in modo tale da creare un prodotto di qualità o valore superiore all’originale.

Massimo Pavin, presidente e CEO di Sirmax Group

Come saranno le plastiche del futuro?

La produzione dello stabilimento polacco Kutno 2

Saranno riciclate e a loro volta riciclabili. Contribuiranno alla riduzione della produzione di CO2 e alla realizzazione di componenti sempre più leggeri per l’automotive o per l’elettrodomestico. Sirmax ha già, nel suo portafoglio prodotti, alcuni compound che contribuiscono alla riduzione della CO2. Abbiamo commissionato a Spinlife, spin-off dell’Università di Padova, uno studio sulla valutazione del ciclo di vita (Life Cycle Assessment) di due compound di polipropilene destinati ai settori auto ed elettrodomestico, ovvero l’Isofil, prodotto a partire da polipropilene vergine, e il Green Isofil, contenente del  polipropilene riciclato “Serplene”. Entrambi i prodotti sono additivati con cariche minerali, coloranti e altri additivi in diverse percentuali. Utilizzando il polipropilene riciclato da post consumo, in parziale sostituzione del vergine, si arriva a una riduzione significativa in quasi tutte le categorie di impatto ambientale prese in considerazione. In particolare, a seconda del contenuto della frazione riciclata sul Green Isofil si può arrivare a dimezzare le emissioni di anidride carbonica rispetto ad un prodotto vergine. È anche in base a queste considerazioni che le proposte di materiali per i clienti possono essere indirizzate verso una maggiore sostenibilità.

Una fase di produzione del bio-compound in Microtec

Che ruolo svolgono le aziende italiane e polacche del settore sul panorama internazionale?

Posso parlare del ruolo di Sirmax. Siamo diventati il più grande compoundatore indipendente di polipropilene in Europa e quinto nel mondo. Abbiamo investito moltissimo in internazionalizzazione per accorciare le filiere e avere una supply chain regionalizzata e fidata. Questo ci ha permesso, in particolare in questi anni di pandemia e di crisi di materie prime, di essere più flessibili dei grandi gruppi e più affidabili dei piccoli fornitori. Credo che solo con una struttura medio grande ma al contempo flessibile, veloce e molto vicina al cliente, si possa giocare un ruolo di prim’ordine nel panorama mondiale del settore.

Quanto sono importanti gli investimenti Sirmax in Polonia?

La Polonia è sempre stata strategica per Sirmax, fin dal 2006, anno in cui abbiamo costruito greenfield il nostro primo impianto, Sirmax Polska, uno stabilimento produttivo tecnologicamente avanzato nella zona economica speciale di Kutno (Łodz) per la produzione di polipropilene compound. Nel 2019 è sorto il secondo stabilimento polacco, sempre a Kutno, accanto al primo, dedicato alla produzione degli elastomeri termoplastici della linea Xelter, ai compound tecnici con autoestinguenti e tecnopolimeri speciali. Il primo impianto è di 52 mila metri quadrati (20 mila di superficie produttiva), il più grande dell’intero gruppo e in grado di produrre 85 mila tonnellate all’anno di materie plastiche per i settori automobilistici e home appliance. Il secondo stabilimento, il dodicesimo del gruppo, dalla superfi cie produttiva di 12.500 metri quadrati, è interamente dedicato ai nuovi prodotti della famiglia Xelter. In totale, nei due stabilimenti polacchi, sono impiegati 130 lavoratori. Ci teniamo molto alla Polonia, per la sua centralità logistica e perché è il nostro avamposto verso l’Est Europa.

Il granulo Sirmax

Due anni di Covid e ora la guerra hanno causato ricadute negative in tanti settori industriali, nel campo della plastica qual è la situazione?

Non posso dire che il mondo della plastica non ne abbia sofferto. Noi davanti al Covid ci siamo chiesti se fermarci o proseguire negli investimenti già avviati e abbiamo deciso di proseguire, forti di una serie di analisi di mercato e di indicatori confortanti e grazie ad una solidità finanziaria di gruppo che incarna anch’essa i concetti di sostenibilità e trasparenza. E tutto ciò ci ha premiati. Il 2020 si è rivelato in crescita nonostante il Covid, grazie ad una forte ripresa degli ordini nel secondo semestre; poi abbiamo avuto un 2021 oltre ogni aspettativa, passando dai 300 milioni di ricavi del 2019 ai 480 del 2021. Complessivamente, gli investimenti effettuati da Sirmax Group nel 2021 sono stati di circa 24 milioni di euro: 12 di questi hanno interessato il potenziamento nell’ambito della green economy. Gli altri 12 sono stati destinati al nuovo sito produttivo degli Stati Uniti, a completamento dell’investimento complessivo che dal 2020 ad oggi è stato di circa 30 milioni. Nel 2021 sono state fatte anche 100 nuove assunzioni, numero che ha portato il totale dei dipendenti da 700 a 800 in tutto il mondo. I nostri investimenti e l’aver privilegiato catene di approvvigionamento regionalizzate e fi delizzate ci hanno fatto guadagnare quote di mercato. Siamo stati vicini al cliente con le forniture, con prodotti ad hoc e con servizi tecnologicamente avanzati, guardando sempre al medio-lungo termine e costruendo tutto con prudenza e raziocinio. Restano i timori per il futuro: lo scenario geopolitico, i costi dell’energia e delle materie prime rischiano di ridurre la domanda. Non c’è preoccupazione per l’impatto diretto su Sirmax: le nostre catene di fornitura sono diversifi cate e ci permettono di fare scorte. Siamo preoccupati, invece, per gli effetti indiretti sui nostri clienti finali, in particolare dell’automotive, settore particolarmente esposto e già provato dalla carenza di microchip.

Lamborghini Diablo 6.0 arrivata in ritardo per Diabolik

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Non auguro a nessuno la sensazione che sto provando io in questo momento. Succede a chi aspetta troppo tempo per realizzare un’idea, nel mio caso l’idea per il testo che segue. È nata alcuni anni fa con l’acquisto del modellino Lamborghini Diablo. Quella mia è stata un’associazione immediata [qui mi devo scusare con Tomasz Skocki per essere entrato nelle sue competenze di esperto di fumetti] è, dopo tutto, l’auto perfetta per un criminale così straordinario come Diabolik. Dopo aver visto la versione cinematografi ca di quel fumetto del 1968, ”Danger: Diabolik”, diretta da Mario Bava, ho riflettuto a lungo su chi dovesse interpretare il ruolo del protagonista in un possibile remake [prima John Phillip Law], e quale attrice potesse eguagliare la fenomenale Marisa Mell nel ruolo di Eva Kant. Queste considerazioni erano originariamente destinate a concludere il nostro incontro qui, ma di punto in bianco avevo appreso che a dicembre 2021 è uscita una nuova produzione di ”Diabolik” con Luca Marinelli e la ”Miss Italia 2008”, Miriam Leone. Non ci resta che andare al cinema e scoprire con quanta precisione e adeguatezza i registi Manetti Bros. hanno scelto gli attori come protagonisti. [Tra l’altro, Diablo ha interpretato un piccolo ruolo in un fi lm sull’agente 007, ”Die another day”.]

Il personaggio di Diabolik non è molto conosciuto in Polonia. Fu creato da Angela e Luciana Giussani, due donne che anticiparono i tempi: negli anni Cinquanta, quando una donna al volante per le strade di Milano era una rarità e suscitava scalpore, Angela aveva già le qualifiche di una pilota di aviazione! Le sorelle dedicarono gran parte della loro vita lavorativa dirigendo la casa editrice Astorina che pubblicava le storie su Diabolik. Quanta ispirazione per le autrici sia stato il “Fantomas” francese* [in stampa dal 1911] è difficile da dire, perché entrambi i personaggi sono ladri geniali che usano dei gadget sofi sticati; sono anche beh, bisogna ammetterlo, assassini spietati. Diabolik non ha mai usato un’arma da fuoco, era capace però di abbattere o di sopraffare la sua vittima con un trucco o con un colpo proveniente direttamente dall’Estremo Oriente; non disdegnava lame e tutti i tipi di veleni e prodotti chimici. Dopo ogni azione si nascondeva in una delle tante residenze camuffate, sparse per tutto il mondo.

Il primo fumetto con testo di Angela e disegni di Angelo Zarcone, ”Il Re del Terrore”, fu messo in vendita nel novembre 1962 e costava 150 lire [oggi una copia ben conservata del fumetto costa fi no a 8.000 euro]. Pochi mesi dopo uscì un altro numero interamente creato e pubblicato dalle due donne. In questo contesto sorprende che abbiano scelto l’auto, che d’ora in poi sarà indissolubilmente legata al nostro eroe, ovvero la più bella coupé inglese: la Jaguar E-Type, di cui lo stesso Enzo Ferrari avrebbe detto: ”Questa è la più bella macchina che sia mai stata creata”. Ammettete che è diffi cile trovare una raccomandazione migliore. Tuttavia, se la Lamborghini Diablo, la quale deve il suo nome al toro (ovviamente), che l’11 luglio 1869 a Madrid, grazie alla sua aggressività e coraggio, fece il mitico combattimento con il torero El Chicorro, fosse stata creata 30 anni prima, penso che sarebbe diventata uno strumento ideale nelle mani di Diabolik.

Tuttavia, il progetto P132, come veniva chiamato il successore del vecchio modello Countach, iniziò a germogliare solo alla fine del 1984 ed era un’idea di Patrick Mimran, il quale finanziava l’azienda dal 1980. Il nuovo proprietario, dopo i duri anni ’70 per le super macchine, modernizzò lo stabilimento di Sant’Agata affidando la sua gestione a Emile Navaro. La qualità delle auto migliorò notevolmente e si trovarono i fondi per l’introduzione di un nuovo modello Jalpa 350 (sebbene fosse piuttosto un’altra versione di Urraco). Il compito principale della P132 era quello di raggiungere il ”200 Mph Club”, ovvero trovarsi tra le vetture che superano i 315 km/h [200 miglia all’ora].

Sandro Munari sulla pista di Nardò, con quella vettura leggermente truccata, correva a 340 km/h, quindi la P132 ha soddisfatto le aspettative dei suoi costruttori. Prima che questo succedesse i lavori durarono oltre 5 anni e consumarono ben 6 miliardi di lire, andando purtroppo ben oltre le capacità di Mimran, che decise alla fi ne di vendere la Nuova Automobili Ferruccio Lamborghini SpA alla Chrysler, nel 1987. Gli americani, con Tom Gale della Chrysler Styling Center a capo, decisero di “civilizzare” e ammorbidire la versione originale della carrozzeria, disegnata da M. Gandini, che fu alla fi ne accolta dallo stilista italiano.

Con spese così enormi, sorprende che la nuova vettura presentata nel 1990 a Montecarlo abbia ricevuto il motore Countach, praticamente invariato. Non era solo un V12, ma uno dei migliori progetti che Giotto Bizzarrini avesse mai creato, fatto che il marketing dell’azienda sottolineava discretamente apponendo una fi la di numeri sul coperchio del motore che indicava l’ordine di accensione di tutti i 12 cilindri.

Per i 10 anni di produzione, la Diablo è stata modernizzata, sono apparse le sue versioni successive, inclusa una VTR [3 esemplari] davvero unica, che costituiva “un’incollatura” costruita delle parti staccate, con le quali, tra l’altro, si faceva l’assemblaggio di tutte le versioni precedenti. Nel 1993 il modello VT fu dotato di trazione 4×4, che ne fece una delle prime supercar a utilizzare tale soluzione: la prima fu la Porsche 959 del 1986 e la Bugatti EB110 [cfr. Gazzetta Italia n. 74]. Sebbene J. Clarkson abbia commentato, nel suo stile tipico, che ”Diablo ha l’accelerazione fi no a cento… una volta sola”, l’auto ha trovato molti acquirenti volenterosi.

Si è scoperto rapidamente che la Chrysler non capiva il concetto dell’esistenza di questo produttore italiano, a loro avviso, troppo esotico. Nel 1998 Lamborghini passa nelle mani dell’Audi, che pensa subito al successore della Diablo, ma fi no al 2001 le versioni di Diablo ’99, GT, GTR e Diablo 6.0 vengono aggiornate da Luc Donckerwolke. 800 esemplari in totale, compreso “l’unicorno”, Diablo Classico Italia, realizzato in collaborazione con 23 aziende italiane. Le versioni dell’era Audi erano tecnicamente più avanzate delle precedenti, avevano l’ABS, con una nuova  elettronica, il sistema di gestione del motore e la carrozzeria in fibra di carbonio. Tuttavia, l’inevitabile fine della produzione della Diablo spinse il costruttore a cercare risparmi: ad esempio le luci anteriori dopo il face lifting provenivano dalla Nissan 300ZX (Z32). Ciò contrasta fortemente con la prima produzione di questo modello, quando venivano offerti optional come: spoiler posteriore [$ 4500], un set di valigie [$ 2600] o un orologio della rinomata azienda svizzera Breguet [$ 10.500], che è stato scelto da circa 50 clienti.

Negli ultimi 20 anni, il mondo è cambiato incredibilmente, e un gran numero di aziende italiane, nonostante la loro reputazione, prestigio e livello di riconoscimento, sono ora di proprietà di investitori stranieri. Dispiace davvero vedere come il Paese della creatività, pieno di idee innovative e originali, leader nel design e nella moda, famoso per la sua cucina e i suoi prodotti, abbia permesso che l’elenco di tutte quelle aziende multinazionali diventasse così lungo. Faccio solo alcuni esempi: Pirelli [Cina], Magneti Marelli [Giappone], Pininfarina [India], Barilla [USA], Baci Perugina e San Pellegrino [Svizzera], Algida [Paesi Bassi], Parmalat [Francia]. Anche le icone della moda sono sparse per tutto il mondo: Bulgari, Fendi, Gucci sono tutti di proprietà francese, Lumberjack [Turchia] e La Perla, come Ducati, è controllata dai tedeschi. A seguire: Indesit [USA] e anche ENEL [49% Russia] e Telecom Italia [USA]. Spero solo che tutti questi investitori non dimentichino cosa significa ”Made in Italy”, come non lo ha dimenticato il Gruppo Volkswagen [Audi], creando le condizioni per uno sviluppo di Lamborghini che gli italiani di Sant’Agata Bolognese non avevano mai avuto prima.

Gli appassionati di fumetti e di automobili possono scegliere tra diversi titoli, come ”Grand Prix”, ”The Art of War: Five Years in Formula One” o ”Hot Rods and Racing Cars”, ma imperdibile è la serie francese ”Michel Vaillant”, dove dal 1959 sulle pagine di 80 fumetti possiamo seguire le avventure del pilota da corsa, il protagonista M. Vaillant. Se cercate un po’ più da vicino, rimarrete sorpresi di quanto sia tangibile l’influenza che abbia avuto questo personaggio sul ”Mondo delle quattro ruote”.

Il modello è realizzato con precisione tedesca da AUTOart, in un colore sgargiante, tipico della Lamborghini e, soprattutto, si dice che le auto gialle siano… le più veloci!

* Fantomas guidava l’ancora deliziosa Citroen DS. Se la mia collezione non fosse limitata soltanto alle automobili italiane, la déesse [fr. dea] ci sarebbe sicuramente, sto solo cercando una scusa.

Anni di produzione: 2000-2001
Esemplari prodotti: 338 + 45 [6.0 SE]
Motore: V-12 60°
Cilindrata: 5992 cm3
Potenza/RPM: 542 KM / 7100
Velocità massima: 330 km/h
Accelerazione: 0-100 km/h: 3,9
Numero di cambi: 5
Peso: 1625 kg
Lunghezza: 4470 mm
Larghezza: 2040 mm
Altezza: 1105 mm
Distanza interasse: 2650 mm

Alessandro Parrello: “il cinema è l’evasione più spettacolare della vita”

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Attore, regista e produttore cinematografico italiano, abita in un trullo in Puglia e divide la vita professionale tra l’Italia e gli Stati Uniti. Il suo ultimo cortometraggio “Nikola Tesla, the Man from the Future”, ambientato a New York il 16 maggio 1888, racconta la storia dell’inventore serbo Nikola Tesla. Lo scorso dicembre il fi lm è stato presentato a Varsavia all’interno del 15° Grand Off Witold Kon, Festival Internazionale di Cortometraggi Indipendenti.

Incontriamo Tesla nel momento in cui sta per presentare un innovativo motore asincrono a corrente alternata che cambierà per sempre il mondo e il progresso tecnologico. Il fi lm è un progetto internazionale multi piattaforma girato tra cinema e VR 3D. La versione in realtà virtuale è stata girata con un sistema di ripresa in soggettiva 3D grazie a cui è possibile catapultarsi dentro la storia e dentro il corpo di Tesla, vivendo i suoi esperimenti in prima persona.

Il cortometraggio ha debuttato ad Alice nella Città, durante la Festa del Cinema di Roma, nel 2020 nella Selezione Ufficiale e, dopo un anno e qualche mese, sta ancora girando per i festival di tutto il mondo. Finora ha vinto un totale di 22 premi tra cui miglior cortometraggio a Hollywood Gold Awards, 2 premi al Digital Media Fest 2021 con la versione VR e delle menzioni speciali a Praga e in Russia. La versione VR del fi lm è uscita nel 2020, mentre da marzo la versione cinematografi ca sarà su Rai Play, così potrà essere apprezzato da un pubblico più ampio, non solo quello che frequenta i festival.

La regia non è stata la tua prima scelta, qual è stato il tuo percorso formativo?

In realtà ho fatto tanti lavori diversi nella vita. Nel mondo dello spettacolo ho iniziato facendo il fi gurante in qualche programma televisivo, prima di diventare attore. Solo dopo mi sono iscritto ad una scuola di teatro segnalatami da un collega. Ho studiato anche con Michael Margotta, un coach di New York, che lavora tanto in Italia. Devo dire che lui mi ha formato molto e tante cose mi tornano molto utili oggi quando lavoro con gli attori. Ho esordito giovanissimo come stuntman nel fi lm „Gangs of New York” che hanno girato in Italia e poi come controfi gura in „The Sin Eater” con Heath Ledger. Se penso che sono stato in auto con lui mi vengono i brividi. Poco dopo ho esordito come attore con un piccolo ruolo nella serie televisiva Elisa di Rivombrosa. Il primo lavoro come protagonista è stato nel 2004, nella serie Rai „Sweet India” di Riccardo Donna e da lì sono arrivate altre opportunità che nel 2007 mi hanno portato negli Stati Uniti. Era una cosa che volevo fare sin da bambino, ero affascinato dall’idea di partire e andare dall’altra parte del mondo. In più in quel periodo non stavo lavorando molto perciò ho deciso di dare una svolta alla mia vita e inseguire il sogno americano.

Perché hai scelto proprio New York?

In realtà volevo andare a Los Angeles, ma uscì un’intervista su in settimanale fatta in occasione della serie „Sweet India” e la giornalista invece di scrivere che volevo partire per Los Angeles, ha scritto per New York. L’ho preso come un segno e ho cambiato la destinazione del viaggio.

Il sogno americano si è rivelato come lo avevi immaginato?

All’inizio ho fatto il cameriere in un ristorante italiano sulla West 46 a Manhattan e grazie a quel lavoro sono riuscito a pagarmi la scuola d’inglese e il corso di recitazione. Poi ho fatto il modello per un grosso brand italiano. Comunque non sono rimasto fisso negli Stati Uniti, facevo avanti e indietro perché non avevo ancora il visto idoneo. Un pomeriggio, mentre ero a Roma, mi è arrivata una mail con la proposta di fare un provino per un cortometraggio a New York il giorno stesso! Non volevo rinunciare quindi ho scritto al regista inventando che ero impegnato fuori New York e gli ho chiesto se fosse stato possibile spostare l’incontro per il giorno dopo. Ci sono riuscito! Grazie a questa mossa mi sono imbarcato su un volo last minute, ho vinto il provino e mi hanno preso come protagonista per quel cortometraggio e subito dopo ho fatto il protagonista in un piccolo fi lm indipendente francese. È stata una svolta che mi ha permesso di prendere il visto come attore e ho cominciato a costruire il mio percorso.

E quando hai capito che alla carriera d’attore preferisci quella da regista?

Non c’è stato un momento preciso. Facevo video già a 16 anni con la super 8. Al liceo stavo sempre con la telecamera e giravo sketch divertenti con i miei compagni. Poi nel 2008 ho scritto e diretto il mio primo cortometraggio „Troppo d’azzardo”, in cui il protagonista doveva recuperare una Dune Buggy che il padre aveva perso a poker anni prima. È stato il primo progetto di finzione in Italia ad essere girato in 4K ed è uscito sulla Tv privata italiana Coming Soon Television. Poi però non ho voluto fare altre regie. Temevo di dare l’idea agli addetti ai lavori di voler fare troppe cose e mi ero auto convinto di fare solo l’attore. Stavo riflettendo su cosa volevo veramente fare nella vita e questo mi ha portato però ad aprire la mia casa di produzione. Alla fine del 2015 mi affidarono la realizzazione di un video per l’allestimento di un museo in Basilicata, sulla storia di un famoso brigante italiano dell’800. Mi è venuta l’idea di trasformare quel video in un cortometraggio cinematografico a cui diedi il titolo „Il lupo del Pollino”. L’idea piacque ai miei committenti, tanto che poi il corto ha vinto dei premi ed è stato distribuito da Rai Cinema. Dopo aver visto questo lavoro alcuni amici e la mia agente mi hanno esortato a dedicarmi nuovamente alla regia. Ero un po’ indeciso, ma poi si è aggiunta anche una produttrice e alla fine mi hanno convinto a lanciarmi in modo serio. Così ho cominciato a dirigere altre ricostruzioni storiche e una serie di video multimediali, incluso qualche spot di moda. Da lì mi sono specializzato nella regia Virtual Reality. Tra il 2019 e il 2020 ho fatto Nikola Tesla. Il film è stato prodotto dalla mia società WEST 46TH FILMS in coproduzione con la società inglese Casting The Bridge e con il sostegno di Nuovo Imaie. Questo progetto si è rivelato catartico sotto molti aspetti.

Perché volevi raccontare un personaggio come Tesla?

È stato un caso, anche se non credo al caso! Un pomeriggio, parlando di fisica quantistica con la casting director Teresa Razzauti, a un certo punto è uscito fuori il nome Tesla, di cui allora sapevo poco rispetto ad oggi. Il nome è soprattutto associato alle auto elettriche. Giorni dopo lei mi chiama e mi fa notare la mia somiglianza con questo grande scienziato. I suoi brevetti e il suo lavoro teorico formano, in particolare, la base del sistema elettrico a corrente alternata, della distribuzione elettrica polifase e dei motori elettrici a corrente alternata, con i quali Tesla ha contribuito alla nascita della seconda rivoluzione industriale. Così ho comprato subito le biografie e ho cominciato a studiare il personaggio. Mi sono innamorato di questa idea perché ho scoperto che Tesla ha avuto una parabola pazzesca che mi ha conquistato. Ho dovuto meditare un po’ su cosa raccontare perché non volevo fare un documentario. Mi interessava raccontare una storia basata su eventi reali ma romanzata, per far conoscere quest’uomo incredibile a chi non lo conosceva. Dovevo trovare l’idea giusta. Poi all’improvviso, mentre ero a New York, scrissi di getto la sceneggiatura in una notte, direttamente in inglese, et voilà!

Nel film ci sono elementi della vita reale di Tesla?

L’ultima scena del film è stata girata a New York da Delmonico’s, la storica steakhouse statunitense, dove Nikola Tesla andava spesso a cena con Mark Twain. La facciata del palazzo in cui si trova il locale è uguale a com’era a fine ‘800. Nel nostro progetto abbiamo ricostruito solo gli edifici che c’erano attorno. Siamo riusciti a girare lì senza pagare la location perché tre settimane prima scrissi una email romantica al marketing di questo ristorante, chiedendo se potevano aiutarmi a realizzare il sogno di girare lì dentro la scena finale del film. Hanno acconsentito mettendomi a disposizione l’interno e l’esterno. Il manager è un fan di Tesla! Sedermi sul posto dove veramente si sedeva Nikola Tesla è stata una grande emozione. Inoltre tutti gli effetti in scena sono stati realizzati usando una vera bobina di Tesla fatta arrivare sul set per ricreare la stessa magia che ha creato lo scienziato attraverso il suo campo elettromagnetico.

I prossimi progetti?

Sto preparando un nuovo cortometraggio perché amo questo genere. Secondo me, raccontare una storia in 15 minuti è un esercizio dell’anima che ti obbliga a concentrare la narrazione e far arrivare al pubblico il messaggio che vuoi trasmettere in un lasso di tempo molto limitato. Questo nuovo progetto si chiamerà „Lo zio di Venezia” e avrà come protagonista Giorgio Tirabassi, un attore italiano straordinario che ammiro molto. La storia si svolge interamente a Venezia e racconta un confronto generazionale tra uno zio romano e un nipote trentenne che dà tutto per scontato nella vita. Voglio raccontare come spesso noi diamo priorità alle cose superflue, un po’ per vana gloria, tralasciando i veri valori che ci rendono umani, tra cui l’amore. Tutto questo viene raccontato in una pungente chiave ironica, dove si sorride ma ci si emoziona, con un grande colpo di scena. Non vedo l’ora che il pubblico lo veda. Finito questo progetto mi dedicherò appunto al mio primo lungometraggio che avrà un bellissimo cast e sarà ambientato nel Sud Italia tra presente e passato, ma per ora lasciamo un po’ di mistero. In programma c’è anche un film di animazione in 3D, su cui sto già lavorando dallo scorso anno assieme a un gruppo di professionisti e avrà come protagonista un bambino speciale.

Stai sperimentando generi diversi?
Il bello di questo lavoro è che ci permette di dare sfogo alla fantasia e non essere fossilizzati con un solo genere. Mi sono imposto di fare solamente le cose che veramente mi va di raccontare o che sento debbano essere raccontate, a prescindere se le scrivo io o altri. Questa è una cosa che ho imparato anche dagli americani. Ci sono tanti registi che fanno film di generi diversi dove in ciascun lavoro mettono sempre un po’ di loro stessi. Una storia può essere raccontata con colori assai diversi, basta scegliere quali. A me stanno a cuore le tematiche come il confronto umano o immergere i personaggi in avventure fantastiche, raccontare di eroi positivi o negativi che ritrovano loro stessi. Mi piace esplorare le dinamiche dell’amore, dell’amicizia e il lato oscuro di ognuno di noi. Mi piace dar voce ai vinti che vogliono riscattarsi e non far mancare mai un colpo di scena che sorprenda o spiazzi il pubblico. Alla base di tutto questo però ci sono sempre i rapporti umani. Il cinema per me è l’evasione più spettacolare della nostra vita.

Monika Bułaj: la fotografia come strumento antropologico

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Photoreporter e scrittrice, laureata in filologia polacca, ha studiato anche teatro d’avanguardia e danza. Gira documentari, organizza laboratori teatrali e fotografici. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti in tutto il mondo.

Lei fotografa e descrive la cultura e i popoli delle zone di confine dell’Asia, dell’Africa e dell’Est Europa. Perché ha scelto questo tema come motivo predominante delle sue opere?

Sono polacca di Varsavia ma parte della mia famiglia viene da un paesino che, prima della seconda guerra mondiale, era considerato dagli ebrei come uno dei più importanti centri chassidici in Polonia. La questione degli ebrei mi ha sempre interessato. Quando ero giovane non se ne parlava perciò ho letto tutto quello che potevo, ma non è stato facile perché tanti libri si dovevano cercare da fonti all’epoca illegali oppure in altre lingue. Nel 1988 sono andata ad Anversa. A quel tempo, mi occupavo della cultura e della storia della minoranza dei Lemchi, i cristiani ortodossi perseguitati dal governo comunista polacco, e raccoglievo storie anche dei loro vicini ebrei del periodo prebellico. Un giorno ho saputo che il più anziano ebreo di Grybów, Dawid Riegelhaupt, viveva ad Anversa. Nato nel 1906, una rarità! Dovevo conoscerlo. Dopo il nostro incontro Dawid mi ha portato a Diamantskrieg, dove lavoravano molti ebrei di origine polacca e la notizia del mio arrivo si è diffusa rapidamente. Ero per loro un pezzo d’infanzia, una cittadina del paese che amavano e da cui sono dovuti scappare dopo la guerra, come poi mi hanno raccontato. Non riuscivo a capire come potessero dire cose così negative sull’antisemitismo in Polonia. Io sono cresciuta con una narrazione diversa, in cui gli approfittatori erano un fenomeno marginale, e la generazione dei nostri nonni patrioti ed eroi era piena di compassione per il destino degli ebrei. Questi ultimi ebrei, di Łódź, di Varsavia, della Precarpazia, della Podlachia, mi hanno svelato i loro ricordi delle persecuzioni che hanno patito non solo per mano dei tedeschi ma anche da parte dei polacchi, prima, durante e dopo la guerra. Ricordavano con più dolore i torti subiti per mano dei loro compaesani che la crudeltà del genocidio nazista.

Invece gli anziani Lemchi mi hanno mostrato le loro spalle con segni di ferite, risalenti ai tempi della barbara azione di deportazione ”Vistola” nel 1947. Alcuni di loro furono poi detenuti nel campo post-tedesco, cioè nel campo di concentramento e di transito a Jaworzno. I prigionieri di guerra tedeschi furono imprigionati nel campo vicino. I soldati della Wehrmacht, trattati meglio, guardavano i Lemchi che morivano di fame e non riuscivano a capire perché i polacchi torturavano altri polacchi. Quel silenzio e la quantità del male subito dalle minoranze etniche e religiose che vivevano in Polonia hanno rotto qualcosa in me. Il confronto con questa verità è stata un’esperienza molto dolorosa.

Questa esperienza ha portato allo sviluppo dell’argomento e all’ulteriore ricerca…

Ne ho già scritto diverse volte: viviamo in un grande cimitero, dove l’alternativa al tacere su certi argomenti è una brutta parola, dove le vittime diventano criminali e i criminali vittime, giustificando in questa maniera le loro azioni. La Polonia non ha rielaborato il tema ebraico, come se la misura dei crimini tedeschi ci esentasse da esso, ma fortunatamente da almeno 20 anni grandi scrittori e ricercatori polacchi ci stanno lavorando. La mia generazione non conosce l’esperienza della guerra, ma conosce il silenzio dopo che le persone erano state assassinate, non compiante e dimenticate, un silenzio insopportabile che deve essere riempito.

Il mio fascino per le religioni e le culture deriva anche da un senso di ingiustizia nei confronti delle minoranze. Molti di loro scompaiono davanti ai nostri occhi, per questo bisogna essere svelti in questo lavoro. Ho iniziato la ricerca sulle terre di confine sud-orientali e orientali della Polonia. Ero anche molto curiosa del modo in cui le culture delle zone di confine si influenzano a vicenda. In periferia ci sono a volte i fenomeni più interessanti di spiritualità e saggezza di persone di fedi diverse. In Bielorussia ho incontrato tatari che praticavano certe usanze della fede ebraica, consapevoli di essere diventati memoria dei morti, e di quella ortodossa. Gli ortodossi invece, come i tatari musulmani, usavano preghiere e tradizioni cattoliche. Più andavo verso est più scoprivo minoranze culturali. Questo ha suscitato il desiderio di imparare e registrare le loro storie. Questi percorsi mi hanno portato in Asia e in Africa.

Possiamo dire, allora, che si tratta di un lavoro con una dimensione antropologica?

Si può dire che si tratta di una sorta di reportage antropologico. Per fare questo lavoro bisogna costantemente studiare la storia, l’antropologia, la letteratura, la poesia e le lingue. Il punto di partenza è la storia, sia quella ufficiale, che spesso è la narrazione dei vincitori, sia quella trasmessa oralmente ovvero la storia sugli inizi, gli antenati e il dolore dell’esilio, trasformata in mito e sublimata in rituali.

Le persone hanno sempre migrato, spesso contro la loro volontà, come ad esempio i popoli dell’Africa. Si è poi ritrovata in comunità composte come patchwork di diverse tribù e tradizioni, ha preso ciò che era utile dalle culture locali, proteggendo i suoi canti e i suoi ritmi, spesso creando nuovi culti, grazie ai quali ha cercato di sopportare il dolore cercando di mantenere vivo il ricordo del paese d’infanzia. Tutto questo è legato agli eventi di oggi, alla migrazione, alla fuga di persone o di intere generazioni, che sono costrette ad una pericolosa ricerca di una nuova patria.

Vivo a Trieste, a 10 km dal confine sloveno. Documento i giovani in fuga dal Kashmir o dall’Afghanistan nei Balcani. In Afghanistan mi sono occupata di minoranze per molti anni. E poi in Europa e negli Stati Uniti ho cercato di mostrare con il mio lavoro – mostre, urban art, libri, reportage, teatro – quanto i nostri destini siano legati. È necessario raccontare questa storia. La migrazione afghana, la seconda al mondo secondo l’UNHCR, non è qualcosa di nuovo, le sue origini risalgono all’invasione sovietica del dicembre 1979 e dal 2001 si sta dirigendo verso l’Europa. Fa quindi parte anche della nostra storia e della nostra responsabilità perché è conseguenza delle azioni militari compiute dall’Occidente in Afghanistan. L’esilio è un’esperienza molto difficile. Le famiglie afghane mandano i loro figli maggiori non solo perché sono più forti e saranno meno esposti a stupri e violenze rispetto alle ragazze, ma anche perché, secondo la loro tradizione, sono i figli primogeniti ad essere responsabili di tutta la famiglia. A questo si aggiunge il controllo sociale delle ”virtù delle donne” nella cultura afghana, ed è per questo che le ragazze afghane che camminano da sole – un caso molto raro – di solito hanno una guardia, a volte si parla di un finto cugino. Vorrei ricordare che si tratta di giovani in fuga dall’estremismo ideologico e terroristico. Purtroppo, questa fazione marginale più radicale ha dominato il nostro immaginario collettivo sull’Islam, anche grazie alla collaborazione dei media occidentali.

In effetti è terribile come i media creino stereotipi e quanto facilmente ci crediamo. Essendo consapevoli che il mondo li rappresenta con un’immagine negativa, si fidano degli estranei? Ogni cultura l’ha accolta allo stesso modo?

A Gerusalemme, nell’ambiente maschile degli ebrei haredim, mi hanno accolta con molta difficoltà. Questo è comprensibile, perché hanno un’infinità di regole riguardanti la segregazione di genere. Non potevo entrare nella parte maschile delle sinagoghe e delle yeshives, anche se volevo davvero scattare foto lì. Ho rispettato il mio posto. Mi vesto sempre nel rispetto delle tradizioni locali, tra i musulmani, ad esempio, sono coperta fino alla punta delle dita, facendo in modo che non si veda neanche una ciocca di capelli. Nei circoli sufi afghani sono sempre stata accolta calorosamente, anche se ero l’unica donna tra gli uomini e sapevo benissimo che questi onori erano riservati a me come ospite e non come donna. Si vede che le regole sacre dell’ospitalità sono più forti di alcuni modelli culturali patriarcali secondo cui una donna è un po’ meno umana di un uomo.

Lei li accoglierebbe nello stesso modo a casa sua?

Vale la pena di mettere giù la macchina fotografica e la penna per aiutare davvero. Non voglio parlare di me stessa, ci sono già abbastanza auto-narrazioni eroiche su novelli Schindler che facevano uscire la gente dopo l’occupazione dell’Afghanistan da parte dei talebani. È interessante notare che le stesse persone che l’Europa ha salvato, facendogli abbandonare i loro figli all’Abbey Gate dell’aeroporto di Kabul, le stesse persone a cui i nostri ministeri della Difesa e degli Interni hanno garantito un volo e un visto in Europa in agosto, diventeranno molto rapidamente di nuovo illegali alle nostre frontiere. Aiutare loro o quei bambini abbandonati è un lavoro enorme.

Molte persone aiutano ogni giorno da anni, in silenzio, perché è una questione di decenza e non di eroismo. Quando il mondo intero è malato, il sogno di viaggi turistici in paesi lontani non è osceno? Potrebbe essere invece una buona occasione per dare una mano a coloro che non hanno scelta e devono migrare. Anche questo è conoscere e, vi assicuro, è molto più profondo di un safari fotografico tra le tribù dell’Etiopia distrutte dai turisti o nelle baraccopoli dell’India.

Nel nostro piccolo possiamo aiutare in molti modi diversi creando dei meravigliosi legami di solidarietà. Nel mio caso è anche una questione di ricambio dell’ospitalità, che ho vissuto, anche se probabilmente in misura diversa. Non mi fido per esempio dell’ospitalità afghana perché a volte è esagerata. Un autista è in grado di mettere i propri figli in macchina per far sembrare che una donna estranea sia sua moglie così entrambi prendono meno rischi. Preferisco andare da sola, a piedi. Ecco perché sto sempre attenta a quello che chiedo agli afghani.

Finché non si incontra un rifugiato è difficile essere sensibili alla sua situazione. Lo vedo ovunque, tra amici nella mia città di confine. La situazione può cambiare quando ci troviamo di fronte ad una persona, ad esempio ad una ragazza di nome Fatima con un bambino che zoppica a causa delle profonde ferite ai piedi e che, per la prima volta da due anni, passa la notte in una vera casa, si siede a un tavolo ben preparato, mangia un pasto caldo afghano, dorme in lenzuola stirate e allo stesso tempo blocca la porta con un armadio perché ha ancora paura della foresta e di uomini armati e mascherati. Allora cominci a capire lentamente la sua storia e la sua paura.

Come sono stati i suoi primi incontri con i musulmani? Quanto tempo ci è voluto per fare amicizia e per guadagnare la loro fiducia?

I primi musulmani in carne e ossa che ho incontrato erano i tatari polacchi. Ci hanno messo sotto il piumino, perché faceva freddo. Stavo camminando con un’amica nella foresta vicino al confine bielorusso e si sprofondava nella neve fino alle ginocchia.

In Afghanistan ho incontrato tanti limiti: sono una donna, cammino da sola, a volte zoppico o sono malata, ma comunque mi accolgono con emozione e ospitalità che per loro è sacra, come in tutto l’Oriente. L’ospitalità è indipendente dalla religione.

Dai Lemchi, che erano tornati dalla deportazione alle terre occidentali nei loro nativi Monti Beschidi, all’inizio bussavo, con il pretesto di comprare il latte, per poter fare amicizia. Ero molto timida. Ho capito subito che la fiducia viene solo dalla gentilezza e dal rispetto. Ho fatto molte amicizie durevoli. Ovviamente in tutte le culture la gente si comporta diversamente. A volte sembra che un sorriso apra il mondo e poi si scopre che in alcune tribù dell’Africa mostrare i denti è una dimostrazione di virilità, salute e potere. Così si creano situazioni divertenti.

Nell’Europa dell’Est mi è capitato che la fiducia di chi accoglie in casa un ospite fosse così grande che per la prima volta hanno raccontato storie che avevano sempre taciuto. Cioè hanno affidato la memoria a una sconosciuta. Molti di loro sono morti, per me è stata l’ultima possibilità di incontrare persone anziane che ricordavano ancora i tempi della prima guerra mondiale. Quel mondo se n’è andato con loro perciò è necessario scrivere queste storie.

 

Quando penso, ad esempio, all’Afghanistan o all’Iraq mi vengono in mente le immagini che ci presentano i mezzi di comunicazione: povertà, miseria, guerra, rabbia. Queste immagini sembrano urlare, nelle sue foto invece c’è un punto di vista completamente diverso. È un tentativo di rendere autentico quel mondo?

In un certo senso sì. La fotografia è sempre un’interpretazione. Non si tratta di istruire, ma sensibilizzare le persone. È importante mostrare la verità. E cos’è la verità nella fotografia? Un attimo in cui qualcosa viene rivelato, qualcosa di reale ma non del tutto definito lasciando così allo spettatore un’opportunità di completarlo con l’immaginazione.

Mi infastidisce quando sento dire che le mie foto sono belle. Non voglio deliziare nessuno. Mi sento meglio quando questa bellezza diventa inquietante. Vorrei che le mie foto entrassero nella cultura e nella coscienza pubblica, se lo meritano, e che fossero un ponte tra le persone. Probabilmente solo l’arte è un mezzo abbastanza forte per far aprire una persona agli altri.

Tuttavia, queste storie sulle persone e sulla loro cultura, anche se molto interessanti ed estremamente preziose per il mondo, si perdono tra le notizie di facile sensazionalismo…

Sì, gli stereotipi diffusi dai media sono a favore dei fondamentalisti o dei terroristi. Vogliono che il loro ”bell’attacco” sia sulla prima pagina dei giornali. Vogliono essere al centro dell’attenzione dell’informazione, sono soddisfatti che qualcuno noti i loro crimini, perché è solo grazie a questo che esistono. Bisogna anche ricordare che la maggior parte dei fotogiornalisti di guerra si muovono con un contingente di soldati, perché è per questo che sono stati inviati. Gli hanno pagato il volo, vitto e alloggio e hanno ricevuto i termini del contratto e dell’assicurazione, in cui era chiaramente specificato dove e come potevano muoversi. Non possono uscire da soli, quindi non hanno idea della vita reale della popolazione civile. Ed è il loro lavoro che crea l’immaginario collettivo sull’Afghanistan. Io non vado lì per confermare ciò che già sappiamo o per garantire ai giornali una specifica foto. Vado lì per imparare e scoprire qualcosa che non sappiamo. Sfortunatamente non c’è richiesta per tali materiali. Ho scelto questa strada consapevolmente e, anche se ho ricevuto molti premi per le mie foto, i giornali non hanno pubblicato molto. Le redazioni non volevano ascoltare storie sugli afghani, ma piuttosto erano curiosi di sapere come mai ero ancora viva. In risposta ho scritto un reportage, o meglio un trattato antropologico, sul teatro della quotidianità degli afghani, sui loro travestimenti e trucchi per sopravvivere. Perché un ostacolo può sempre essere trasformato in un vantaggio e un problema in un’opportunità per un altro incontro. L’ho imparato in viaggio.

Le persone spesso non si rendono conto di quanta energia un fotografo mette nella creazione di una serie di foto o reportage. Come si prepara per questi viaggi?

Prima di tutto viaggio da sola e a mie spese. Lavoro tanto per permettermelo. Non sono un’inviata, mi auto invio. Mi piace viaggiare senza biglietto di ritorno, così non devo spostarlo all’infinito. Questo lavoro richiede anche molta forza fisica. Non si sa mai quanto si dovrà camminare, in quali condizioni vivere. Sono sportiva e me la cavo, è la mia grande risorsa. Un problema a parte è lo sforzo psicologico. Le persone mi affidano le loro storie, mi danno una parte di sé stessi. Mi sembra che la fotografia sia una questione di responsabilità. È importante costruire una buona storia che aiuti queste persone e sensibilizzi gli altri.

Ho davanti a me le foto della serie ”Africas”. Le ritengo stupende perché, oltre l’estetica del gioco di luci e ombre, raccontano anche una storia, la definirei una sorta di profondità bidimensionale. Le sagome delle persone sono scure e non si vedono i volti, perciò si legge di più dall’ambiente in cui si trovano. Qual è il ruolo dello sfondo nelle sue fotografie?

Per me non esiste uno sfondo nella fotografia, la fotografia è tutto, anche il più piccolo punto, ombra, segno su quello che comunemente chiamiamo lo sfondo. Per mostrare ciò che è importante, è necessario condurre a questo punto attraverso varie forme geometriche, a volte linee quasi invisibili, macchie, chiaroscuri, segni e vari percorsi, che a volte portano anche oltre l’inquadratura. Questo ”background” è importante per me tanto quanto il primo piano. Succede che il soggetto principale della foto è nascosto, devi trovarlo.

Che cos’è la fotografia per lei?

È una sorta di meditazione, richiede di essere in anticipo sui tempi, di avere un intuito su ciò che può accadere e questo è possibile solo nella massima concentrazione. Si tratta di frazioni di secondi, momenti che non possono essere ripetuti o riprodotti. Bisogna essere pronti e avere una perfetta padronanza della tecnica, la macchina fotografica deve avere tempo, profondità e luce ben impostati. Sembra molto semplice ma non lo è affatto. Sono importanti la concentrazione, la capacità di aspettare e la calma. La fotografia è anche reciprocità, è un incontro. Per me non è un fine, ma un mezzo, non devo avere una foto, posso parlare. Non mi piace essere fotografata, quindi capisco le persone che non vogliono apparire in foto. Purtroppo la fotografia è onnipresente e spesso viola la privacy.

Credo che nei luoghi più calmi si possa avere più controllo dell’inquadratura rispetto a quando si è in una grande città? È possibile fotografare nel trambusto della metropoli?

Una città europea è un grande soggetto, si possono osservare molti fenomeni interessanti legati alla luce, ma ovviamente è più difficile fotografare le persone. Tutti sono consapevoli dell’invasione dei social media, quindi la sfiducia è comprensibile. È importante non fotografare le persone contro la loro volontà.

Esiste la convinzione che per scattare foto bisogna andare in un posto lontano, estraniarsi dal mondo di tutti i giorni e guardare gli ”altri”. Questa ovviamente è un’illusione perché le foto scattate in questa maniera sono spesso molto brutte, non hanno profondità, c’è solo esoticità superficiale. Penso anche che sia importante vivere la quotidianità nella fotografia, come diceva Czesław Miłosz, ”partendo dalle mie strade”. A volte insegno fotografia a bambini provenienti dai ghetti poveri da cui non possono uscire, come le enclave serbe del Kosovo. Gli insegno a guardare questi luoghi con ”occhi diversi” in modo che cambino la loro prospettiva sul mondo che conoscono, giochino con le proporzioni e attivino la loro immaginazione. Per fargli vedere macchie solari, lampi, insetti, luce che brilla attraverso le foglie degli alberi.

A proposito come guarda le sue foto? Le tratta come una sorta di ricordo? Si siede con una tazza di tè, tira fuori un album e lo mostra agli amici o ricorda da sola i viaggi?

No. Creare sequenze che si trasformano in una storia è un lavoro. Metto da sola le foto negli album, le associo al testo, ma sono stanca delle mie foto e non mi piace guardarle. A casa voglio riposare, ho bisogno di spazio vuoto. Preparo mostre, monto, controllo se tutto è in ordine e questo mi basta.

Penso che nel corso degli anni guardiamo le nostre fotografie in modo diverso.

Sì, una tale distanza aiuta sicuramente, quindi è importante conservare l’archivio e fare una riselezione. Sia quando fotografi che quando fai editing, devi essere come una pagina bianca e non lasciare che altre immagini o teorie prendano il sopravvento sul tuo modo di percepire. Bisogna entrare nelle immagini, abbinarle le une con le altre, e poi la partitura narrativa – due, tre, sette foto, o un libro intero – crea a volte
una nuova storia, rafforzando le singole fotografie e facendo emergere un significato ancora più profondo sulle persone e sulle situazioni che vogliamo raccontare. Lavorare sulla sequenza è molto importante. Lo insegno ai miei studenti. Quando invece si lavora sul campo ogni giorno è nuovo, facciamo nuove esperienze, cerchiamo nuove persone, luoghi, partendo da zero. Certo siamo già in grado di prevedere alcune cose, ma bisogna essere sorpresi ogni volta…

Avere la freschezza dello sguardo?

Esattamente! Ho 55 anni, quindi ho già molta esperienza. Ho visto tante cose, innumerevoli situazioni e posso prevedere alcune cose. Osservo il teatro della vita che si ripete, il dolore che ritorna, le separazioni, la sofferenza e la gioia. Comunque
cerco di mantenere attenzione ed empatia.

Ha visitato molti paesi ma ha deciso di vivere in Italia. Come mai ha scelto proprio Trieste?

In parte per una situazione familiare, in parte per caso. All’inizio non pensavo che l’Italia sarebbe stata il posto dove avrei voluto trascorrere il resto della mia vita. Immaginavo che sarei venuta per un po’, ma questo momento dura già da 28 anni e sono molto grata al destino per questo. Ma anche la lingua e la letteratura polacca, con cui sono cresciuta, sono la mia casa. A causa della distanza e del fatto che non la uso tutti i giorni, trovo forza nelle parole polacche. È incredibile quante dimensioni possa avere una parola polacca! Presto anche molta attenzione al suono e all’etimologia. L’Italia è un paese molto interessante, probabilmente il più bello al mondo, lo amo molto. Torno a casa e dagli amici con una sensazione di gratitudine.

Ogni regione ha qualcosa di unico, che la distingue dalle altre, e che costantemente ci sorprende e ci attira. Che cos’è che le piace di più dell’Italia?

Amo l’Italia per l’operaio che legge Rilke e organizza un festival di musica, per le persone che da molti anni portano nella piazza di fronte alla stazione ferroviaria di Trieste il riso con verdure, scarpe morbide, vestiti e medicine per i rifugiati feriti e congelati, per i calabresi e la loro ospitalità quasi afgana, cioè orientale, sacra, per l’umorismo diabolico dei toscani, per il fatto che esista una città come Napoli, per il dialetto romano e la luce dell’Umbria, per la bora, ovvero il più forte vento mediterraneo… I motivi sono infiniti e non faccio complimenti di routine. Non c’è snobismo e necessità di giudicare. Quando mi esibisco nei teatri italiani, sento l’attenzione e la tenerezza del pubblico che ascolta la storia. Sono contenta di aver cresciuto i miei figli qui. In Italia ho tanti impegni, faccio workshop e lezioni, pubblico libri. Ultimamente lavoro molto in Calabria dove da un po’ di tempo sto girando un film documentario. Esploro ogni angolo delle montagne dell’Aspromonte, perché anche lì ci sono fenomeni legati ai luoghi di confine. Con mio figlio, che fa il regista, giro una storia sulle persone che vivono in città completamente deserte, spesso sono figli di migranti.

La ammiro per il suo coraggio e la sua determinazione e per l’aiuto che porta a chi ne ha bisogno in modo diretto e attraverso il suo lavoro.

L’aiuto è un dono non solo per chi lo riceve, ma anche per chi lo offre. Come possiamo essere certi che non diventeremo di nuovo dei rifugiati?

Affidarsi alla follia

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Dopo aver esordito come narratore nel 2008 con la raccolta di racconti Spirale (Città Nuova, Roma), a cui ha fatto seguito tre anni dopo il romanzo Chilometrotrenta (San Paolo, Milano), Stefano Redaelli, che vive e insegna a Varsavia da diversi anni, giunge ora con Beati gli inquieti, pubblicato nel 2021 presso la casa editrice abruzzese Neo Edizioni, a un libro straordinariamente denso, sentito e meditato, che è stato candidato, subito dopo la sua uscita, al Premio Strega, nonché successivamente rientrato, fra gli altri riconoscimenti, nella selezione ufficiale del Premio Campiello.

Questo romanzo però non ha unicamente incontrato un immediato consenso di critica ma anche un notevole riscontro fra i lettori, arrivando ormai, in pochi mesi, alla sua terza ristampa. Felice e tutt’altro che scontata accoglienza, è il caso di sottolineare, per un’opera che mette al centro della narrazione la sofferenza psichica, dandole direttamente la parola, spostando coraggiosamente, e convintamente, l’orizzonte del proprio discorso dal patologico all’epifanico, dal documento alla fiction, dal quadro clinico a una ricerca spirituale o ancor meglio religiosa del senso. In Beati gli inquieti Redaelli si affida alla follia, con un atteggiamento di radicale pietas, in forza di una esigenza di complicità che lo porta a scrivere non tanto per circoscrivere una esperienza limite, quanto per esserne circondato.

In questo romanzo la finzione permette di dare voce a ciò che sfugge al referto medico e rimane nel silenzio. Affidarsi alla follia significa allora, in Beati gli inquieti, ricercare rivelazioni dove ci aspetteremmo di incontrare solo il disgregarsi della ragione o il ritratto senza anima di una cartella clinica. Redaelli non scrive, dunque, sulla follia, ma con la follia, le si pone accanto, la ingloba, con rispetto, tramite una scrittura ispirata e al contempo cristallina, leggera e lacerata, invasa dal mistero e dalle ragioni di una alterità, di uno smarrimento che si rivolge a tutti e riguarda tutti.

La trama prende avvio a partire dalla decisione di Angelo, ricercatore universitario e scrittore, di comporre un libro sulla follia, e, per tale motivo, di studiarla sul campo, dal vivo, dall’interno di un centro di salute mentale. Angelo vuole ossessivamente toccare con mano questo tema che lo assilla, e come San Tommaso sente la febbrile, quasi sacrilega, necessità di immergere il suo dito nelle piaghe di una misteriosa verità che lo coinvolge e lo interroga. Con il procedere della narrazione il protagonista entra sempre più in un rapporto simpatetico con i pazienti, che dovrebbe osservare dall’esterno, e in confl itto con la psichiatra. La narrazione si fa così, man mano che si procede nella lettura, più concitata e spiazzante, con un susseguirsi di epifanie e sofferenze in cui urla il “troppo umano” di ogni esperienza limite. Una particolare inquietudine, quasi da racconto di spettri, sembra in defi nitiva impossessarsi del motore stesso del discorso, catturando fi gure e storie, grazie a un immaginario capace di covare (e scovare) la beatitudine dentro l’inquietudine.

Beati gli inquieti è in definitiva un libro che accoglie la dignità del vissuto della pazzia,vi si relaziona empaticamente, mostrando come per avvicinarsi alla rappresentazione del disturbo mentale l’unica strada sia quella di un’autentica stretta di mano, di un riconoscimento e un incontro che rifiuta paratie protettive e muri mentali. Redaelli, per far ciò, parte dal contributo più fertile dell’antipsichiatria di Franco Basaglia, che riconosceva nella follia una esperienza costitutiva della condizione umana, aggiungendo: “In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragionequanto la follia”. Ai limiti operativi cui è però poi andata incontro la pratica basagliana, Redaelli risponde dando forma, tramite la finzione, a una “comunità della cura”, per usare le parole dello psichiatra e saggista Eugenio Borgna, nonché invitandoci, nel suo romanzo, ad aprirci alla follia, ad accoglierla per celebrare la dignità della creatura sofferente, la sua prossimità al sacro. Fra interrogazione spirituale ed esistenziale, epifanie e crisi interiori, grumi di tenebra e rivendicazioni ostinate di gioia, Redaelli dà vita ad una narrazione a più voci in cui risuonano le parole del Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry così come il discorso della montagna di Gesù, l’Horla di Guy de Maupassant e la Terra Santa di Alda Merini. In Beati gli inquieti, in definitiva, la follia non rappresenta uno specchio deformato della cosiddetta ‘normalità’, ma un perturbante avvicinamento alle proprie zone d’ombra e di abbacinante luce, una vera e propria catabasis alle radici dell’identità. Il romanzo intreccia così maschere e confessioni, individuando come “apriti sesamo” un patto di fiducia con la follia, una complicità che fi nisce per riconoscerle il valore di peculiarissima e inattesa maestra di vita.

1522-2022: Anno Giubilare Mariano alla Madonna della Corona

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Ogni qual volta mi trovo in una libreria in Polonia, non posso fare a meno di curiosare nei volumi dedicati, pur a volte solo in parte, all’Italia, per vedere a quali luoghi è dato spazio. Di tutti i testi consultati, ne ricordo bene uno, poiché la copertina di addirittura tutta l’Europa presentava il Santuario della Madonna della Corona, sito a Ferrara di Monte Baldo in provincia di Verona. Non essendoci mai stato prima e vista la speciale ricorrenza del 2022, ecco che l’1gennaio, in compagnia della mia ragazza Karolina, ho inaugurato il “peregrinare” turistico-culturale del nuovo anno proprio con il Santuario più “ardito” d’Italia.

Un soprannome non casuale, ma ottenuto letteralmente sul campo, in virtù della sua incastonatura nella roccia, esposta verso il sole che la illumina. Il momento dell’alba è suggestivo, come nella mattinata dell’Epifania, durante la quale ho avuto modo di dialogare a distanza con il Rettore, Monsignor Martino Signoretto.

L’inizio del confronto verte proprio sull’unicità del luogo e sulle tappe che ne hanno scandito la storia. Si tratta di un luogo abitato da almeno un millennio, con l’arrivo degli eremiti intorno all’anno 1000, e che dopo 500 anni lasciano spazio ai Cavalieri di Malta. «L’epoca di fondazione del 1522 è dovuta a un racconto leggendario che mescola aspetti storici e coreografici”, spiega il Rettore. Arriva infatti la Madonna da Rodi, questa Pietà speciale e taumaturgica, e come segno che è un luogo santo dedicato a Maria, già venerate dai monaci eremiti, crescono i pellegrinaggi; allora i Cavalieri allargano il sentiero, soprattutto quello della Speranza, 1760 gradini, 600 metri di dislivello, che ha segnato per secoli il culto e la sensibilità religiosa di molti che arrivano ancora oggi fin qua. Nel 1822 per i 300 anni si racconta di numeri importanti, mentre nel 1922 per i 400 è stata scavata la galleria».

Il 2022 non è soltanto l’anniversario dei 500 anni dell’incantevole Santuario, ma un concetto superiore, sintetizzato così dal Monsignore: «Si vuole dare un significato a questo per fare memoria, ma non è nostalgia di qualcosa che è successo, ma un riattivare delle forze spirituali, e si tratta di perdono, accoglienza, giubilo: si apre quindi la nostra Porta Santa, e noi proponiamo questo cammino giubilare in chiesa, per l’indulgenza plenaria, e lo si può fare anche per i defunti, quindi allargando questo rito, momento potente, interiore, di rinnovo, anche a chi ci ha lasciati».

Oggi questo si prefigura come luogo di accoglienza assoluta, e per farlo è stata creata una squadra di volontari che segue una formazione mirata, così che i visitatori sappiano di essere accolti per come sono. Il manto di Maria avvolge ed abbraccia chiunque, da chi giunge mosso da spinta spirituale, per la perdita di un figlio, di una persona cara o anche di un animale, o per qualsiasi forma di voto o forte devozione, affrontando alle volte addirittura il cammino scalzo o la scalinata in ginocchio, fino invece a chi arriva qui in modo più disinteressato o per motivi sportivi.

«Per noi è importante che qui la gente trovi un sorriso – dice Signoretto – una forma di attenzione ad personam con queste pietre vive, e non solo con quelle della memoria. Poi se qualcuno vuole di più lo trova, c’è tutto: visite accompagnate, approfondimenti, momenti di preghiera e servizi anche più semplici. Dà soddisfazione vedere turisti che rimangono toccati anche nel cuore, non solo negli occhi, perché il luogo trasuda un’esperienza precedente ancor oggi percepibile».

Il respiro internazionale è concreto: sono ben 60 le valute contate dal Rettore nelle offerte,provenienti anche dall’Oceania e da tutto il continente americano, Nord e Sud. Non mancano Stati africani ed asiatici, con gruppi di musulmani e buddhisti interessati al luogo, a Maria ed alla sua suggestione. Significativa è stata la visita nel 1988 di Papa Wojtyła, che Mons. Signoretto ha vissuto in prima persona: «Quando San Giovanni Paolo II è venuto a Verona e ha incontrato varie realtà, una delle sue tappe è stata proprio il Santuario. Io avevo 18 anni ed ero in chiesa, lo avevamo atteso a lungo ed è arrivato con l’elicottero, e c’era la montagna piena di gente che lo accoglieva. Abbiamo qui una sua gigantografia che lo ricorda, esprimeva una statura umana e spirituale incredibile, facendo sempre trasparire quella sensibilità Mariana, ben nota anche con la “M” nel suo stemma. Ha pregato con noi, lasciando un segnale, e questo è anche il motivo del perché abbiamo una forte presenza del mondo polacco che qui viene molto volentieri».

Il lavoro del Rettore e dei suoi confratelli. Appassionato di pellegrinaggi, anche estremi, è tra gli artefici della “Santiago veronese”, un cammino di 54 km che parte da Verona e giunge alla Madonna della Corona, con tanto di documenti e servizi ad hoc per i pellegrini. Ed in cantiere vi sono anche altre novità; il modo migliore di operare per chi crede che «la scommessa dell’evangelizzazione del futuro passa anche attraverso il Santuario».