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La Corte d’Appello di Varsavia ha emesso una dichiarazione storica nella causa di Krzysztof Czabański contro Facebook. Secondo la Corte, nel trattamento di una causa contro Facebook l’utente non è obbligato alla traduzione in inglese dei documenti processuali. La denuncia intentata da Krzysztof Czabański è stata depositata nel 2019 presso la Corte Distrettuale di Varsavia e riguardava la violazione dei diritti personali attraverso la censura dei contenuti condivisi dalla piattaforma. La controversia sulla traduzione è stata posta per la prima volta a settembre 2021, quando il Tribunale Distrettuale ha sospeso tutto il procedimento della causa, per un mancato pagamento dell’anticipo per la traduzione della denuncia legale in inglese (dell’importo di 2 000 zloty) che dovrebbe essere a carico di Czabański. In seguito alla decisione della Corte, Facebook ha rifiutato di accettare la denuncia (per il fatto che il documento non è stato presentato nella lingua ufficiale dello stato del destinatario della controversia) e tutto è avvenuto in conformità del diritto dell’UE. Nel dicembre 2021 l’avvocato di Czabański ha presentato un reclamo alla Corte d’Appello, contro la decisione di settembre, e la Corte facendo il riferimento alla decisione della Corte Regionale Superiore di Düsseldorf (del 18 dicembre 2019: che annullava l’obbligo dell’utente tedesco di Facebook di tradurre i documenti processuali in inglese) ha deciso di accogliere il reclamo. Secondo la Corte di Varsavia, pur essendo un’entità straniera, Facebook Irleand Ltd a Dublino, crea i documenti in polacco (regolamenti d’uso, politiche sulla privacy, accordi con gli utenti), dunque ha accesso al personale qualificato che capisce il polacco. La sentenza della Corte d’Appello di Varsavia apre le porte alle possibili future controversie con gli utenti, essendo un atto simbolico di uguaglianza davanti alla legge sia dei cittadini comuni che delle grandi corporazioni. Nel risultato della recente dichiarazione della Corte d’Appello, il caso di Czabański sarà riaperto e Facebook durante il procedimento dovrà spiegare le sue azioni di censura contro gli account degli utenti nei social media.
Antiche carte indiane (Ganjifa) e africane dall'Archivo del Museo
L’Emilia-Romagna è uno scrigno non solo di bellezze e luoghi interessanti da visitare, ma anche di misteri. Il solo capoluogo, Bologna, ne ha da scoprire ben sette. I turisti, infatti, vanno alla ricerca dei segreti della città che vengono promossi sia su internet che sulle guide locali. Tuttavia, quando si visita questa zona vale la pena cercare anche altre attrazioni, magari meno conosciute. Un’autentica chicca da scoprire è il Museo dei Tarocchi nella frazione di Riola, un’esposizione ideata da Morena Poltronieri ed Ernesto Fazioli che in quasi trent’anni di attività hanno accumulato un’impressionante collezione di opere d’arte, manufatti e mazzi di carte provenienti da tutto il mondo. Conviene davvero vedere tutto ciò con i propri occhi, soprattutto perché i tarocchi hanno origine italiana. A Riola, quindi, li andiamo a trovare, per così dire, a casa e l’atmosfera unica del Museo insieme all’ospitalità dei proprietari non fanno che intensificare questa sensazione.
Come è nata l’idea di creare il Museo dei Tarocchi in un luogo lontano dalle grandi città?
Ernesto Fazioli: L’incontro con Morena risale al 1992, in seguito al quale abbiamo creato un’associazione culturale con l’intento di approfondire lo studio sui tarocchi. Dopo vari anni di collaborazione abbiamo sentito l’esigenza di dare vita a un vero centro che potesse riunire gli studi sulle tematiche di nostro interesse. La ricerca di un luogo adatto a ospitare le nostre attività ci ha portato a trovare questo casale del 1600 che ha immediatamente incontrato il nostro apprezzamento.
Come è nata in voi la passione per i tarocchi?
Per quanto mi riguarda, l’incontro con i tarocchi è avvenuto casualmente quando avevo 10 o 11 anni. Un mazzo di tarocchi era il gadget di una bottiglia di liquore acquistata dai miei genitori. Avere tra le mani quelle carte instillò in me una grande curiosità che, poi, non mi ha più abbandonato. In seguito divenne motivo di studio e approfondimento.
La storia di Morena invece?
Anche per lei è stato un incontro antico. Attraverso un mazzo di tarocchi che casualmente ha avuto tra le mani, ha cominciato a leggere le carte come se le conoscesse da sempre. Probabilmente si trattava di un canale che era già ricettivo in questo senso.
Tarocchi in esposizione dall’Archivo del Museo
L’interno del museo
Quindi leggete le carte?
Certo. Tutti e due.
Avete più la passione per la storia dei tarocchi o per la divinazione?
Sono due aspetti imprescindibili dello studio dei tarocchi. Dedicarsi ai tarocchi significa approfondire l’epoca storica in cui sono nati, densa di significati che comprendono alchimia, ermetismo, ecc., e di conseguenza il mondo del simbolismo; questo porta con sé anche la ricerca di una chiave per la loro interpretazione.
Tarocchi in esposizione dall’Archivo del Museo
Allora, secondo lei, è possibile conciliare il mondo esoterico con quello scientifico?
Quella che oggi è magia una volta era scienza. Sono due cose che si possono conciliare e sostenere. Analizzando la vita dei grandi scienziati, non è difficile imbattersi in personaggi come Newton che comprendeva nei suoi studi anche l’alchimia, oppure scoprire che l’astrologia era una materia studiata all’interno della Facoltà di Medicina nelle università.
Tornando al Museo quali sono state le prime opere raccolte?
Le prime opere sono giunte dalla Nuova Zelanda, consegnateci da Fern Mercier del centro studi Tarot Aotearoa, divenuta poi la corrispondente del Museo per l’Oceania.
E come avete pubblicizzato quell’evento?
Prima del Museo abbiamo creato un sito web. Morena si è occupata delle relazioni pubbliche, divulgando la notizia dell’imminente apertura del Museo. Molti artisti, soprattutto da paesi esteri, hanno accolto con favore l’iniziativa. Tra questi, dobbiamo annoverare l’incontro con Arnell Ando, che è diventata nostra collaboratrice, oltreché amica e corrispondente per gli Stati Uniti. Arnell ha anche organizzato dei tour in Italia nei luoghi legati ai tarocchi. Questi incontri hanno riunito persone provenienti da tutto il mondo.
Com’è stata la risposta del pubblico?
I tarocchi sono un argomento di nicchia, ma i visitatori restano incantati per la varietà di argomenti che possono lambire: storia, arte e cultura. Inoltre ci viene spesso comunicato che in questo luogo si percepisce la passione con la quale portiamo avanti questo progetto.
Tarocchi Fine dalla Torre (XVII sec.)
Qual è per lei l’oggetto più prezioso del Museo?
Sicuramente le opere più particolari come i Tarocchi da Pranzo e da Colazione [tarocchi a forma di biscotto – N.d.R], le tisane ispirate agli Arcani, e i mazzi che abbiamo restaurato: i Tarocchi Francesi e i Tarocchi Fine dalla Torre (XVII secolo). Questi ultimi contengono l’anima del nostro lavoro e hanno richiesto una lunga elaborazione. Per il mazzo Fine dalla Torre è occorso un anno e mezzo di lavoro. L’opera di “restauro” ha comportato l’esigenza di ridare vita ai colori sbiaditi delle carte nel rispetto degli originali e l’inserimento delle carte mancanti per creare un mazzo completo. Il nome Fine dalla Torre deriva dalla stamperia che realizzò per la prima volta il mazzo di carte.
Quali sono gli eventi più importanti a cui avete partecipato?
Come Museo in passato abbiamo avuto delle esperienze davvero importanti. Una di queste è stata organizzata presso la prestigiosa Biblioteca Universitaria di Bologna (BUB), dove è stato esposto il foglio più antico al mondo che descrive la divinazione: è datato alla prima metà del ‘700 e riporta 35 significati del tarocchino bolognese. Abbiamo spesso collaborato con il comune di Bologna, e ora anche con quello di Vergato.
E adesso che progetti avete?
Siamo stati fermi molto tempo a causa della pandemia. Però ora abbiamo ripreso le nostre attività, riaperto il Museo (su prenotazione) e stiamo promuovendo i nostri due ultimi testi: i Segreti dell’Appennino e Bologna e i Tarocchi – Un patrimonio italiano del Rinascimento – Storia Arte Simbologia Letteratura curato dal prof. Andrea Vitali. Dall’ultima pubblicazione, attraverso la presentazione di fonti documentali reperite con severi criteri storico-filologici, risulta evidente che l’invenzione dei tarocchi è avvenuta nella città felsinea. Il libro ha visto la partecipazione di storici ritenuti a livello accademico tra i maggiori esperti internazionali sull’argomento. Presto vedrà la luce la versione in lingua inglese.
Prima dell’intervista ha menzionato la vostra casa editrice…
Si, Mutus Liber. Prima di dedicarci a testi sui tarocchi, sull’astrologia o comunque relativi ad argomenti connessi all’ermetismo e al simbolismo, il nostro obiettivo era creare guide di viaggio da un punto di vista magico. Abbiamo iniziato con Bologna e poi siamo passati a Ferrara, Modena, Parigi, Londra, Santiago de Compostela, Praga, Budapest, ecc.
Varsavia no?
Non ancora.
Come invitare i polacchi a Riola?
Innanzitutto penso che il Museo possa interessare gli appassionati di tarocchi perché prevede un percorso tra opere d’arte che, partendo dal passato, arrivano a raccontare la contemporaneità. Si possono ammirare le opere in originale che artisti di tutto il mondo hanno voluto donare al Museo ed entrare così in un mondo senza confini, dove l’unico denominatore comune è la passione per i simboli arcani contenuti nei tarocchi. Poi nella zona circostante il Museo è possibile trovare dei luoghi unici poco conosciuti, oltre che una natura ancora intatta. Tutto ciò permette un soggiorno dove è possibile scoprire tante meraviglie naturali, artistiche o storiche. Riola si trova a metà strada tra Bologna e Pistoia. La dimora storica dove si trova il Museo sorgeva su un tracciato viario che era una deviazione dal cammino del pellegrinaggio verso Santiago de Compostela. Ed era la locanda
che ospitava i viandanti.
Non lo trova un po’ un destino visto che arrivano ancora tante persone a visitarlo?
Sì. Credo che questa casa ci abbia cercato e chiamato. Infatti, l’acquisto è stato denso di peripezie, ma alla fine siamo riusciti nell’impresa.
Małgosia e Marcello gestiscono quotidianamente un profilo Instagram dedicato ai tarocchi, @radiant_traveling_tarot
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L’organizzazione umanitaria internazionale ha deciso dopo tre mesi di lasciare la frontiera polacco-bielorussa, dove contribuiva a salvare la vita e la salute dei migranti che la attraversavano. “Da ottobre abbiamo costantemente cercato di accedere alla zona proibita e ai posti di guardia di frontiera polacchi, ma senza successo”, scrivono Medici senza frontiere. Fanno notare che il loro team che stazionava finora vicino al confine polacco-bielorusso ha sentito molte testimonianze di prima mano di violenze, furti, distruzione di oggetti e umiliazioni dei migranti su entrambi i lati del confine. Anche i medici hanno visto lesioni che confermano questi racconti. L’organizzazione sottolinea che ha chiesto ripetutamente alle autorità polacche, lituane e bielorusse di accedere alla zona di confine, ma non ha ricevuto il permesso da nessuno di questi tre paesi. Da settembre a dicembre 2021, in Polonia è entrato in vigore lo stato di emergenza in una striscia di terra larga diversi chilometri vicino al confine con la Bielorussia, entro la quale il governo ha vietato l’ingresso, tra gli altri, alle organizzazioni umanitarie e giornalisti. Dall’inizio di dicembre, questo divieto è stato mantenuto da una nuova legge. Nonostante l’ostruzione da parte dei servizi statali, le organizzazioni umanitarie e i media hanno documentato negli ultimi mesi numerosi casi di cosiddetti pushback, cioè persone che volevano presentare domande di protezione internazionale in Polonia sono state portate al confine con la Bielorussia. Questa pratica è illegale secondo il diritto internazionale.
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Giorni intensi per la Federcalcio Polacca (PZPN) dopo la rottura con Paulo Sousa. I candidati per diventare allenatore della nazionale polacca sono tanti. Secondo la maggior parte degli giornalisti sportivi ed commentatori che sono vicini al PZPN la Federcalcio Polacca sta valutando seriamente l’opzione di scegliere un allenatore polacco. In pole position potrebbe esserci Adam Nawałka, ex ct dei biancorossi negli anni 2013-2018. Questa sarebbe una scelta logica e prudente in vista degli spareggi per i mondiali di marzo contro la Russia. Però se fosse Nawałka il nuovo allenatore forse sarebbe già stato annunciato. Il problema, oltre alla questione della tempistica del contratto è che PZPN teme il fatto che finora il ritorno di un ex sulla panchina nazionale non si è mai rivelata una scelta giusta (è successo con Antoni Piechniczek che nel 1996/97 per la seconda volta è tornato sulla panchina biancorossa). Bisogna essere sinceri e oggettivi, oggi come oggi tra i candidati polacchi Nawałka è l’unico con una certa esperienza che svolgere questo ruolo. PZPN lo sa e per questo deve valutare in maniera seria una candidatura straniera. Tra i nomi di potenziali allenatori stranieri girano quelli famosi come Jurgen Klinsmann (al presidente della PZPN Kulesza però non piace), lo svizzero Marcel Koller (dal 2011 al 2017 allenatore della Austria), o il croato Slaven Bilić dal 2006 al 2012 allenatore della Croazia.
Tra i candidati stranieri non mancano gli italiani tra questi Fabio Cannavaro, Roberto Donadoni e Andrea Pirlo. Di questo terzetto Fabio Cannavaro è il candidato più vicino alla nazionale polacca. Sabato scorso Cannavaro era a Varsavia per presentare la sua candidatura. Il colloquio con Cezary Kulesza, presidente di PZPN, è durato un’ora e mezzo e secondo voci il presidente era sorpreso dalla preparazione di Cannavaro. ” Abbiamo parlato della visione e del sistema del gioco” ha detto Kulesza davanti a Viaplay (una piattaforma video streaming). In un’altra intervista alla TVP Sport Kulesza ha detto che le decisioni non sono ancora state prese e che Cannavaro è uno dei candidati. Secondo la stampa italiana, ovvero secondo la Gazzetta dello Sport, Cannavaro dovrebbe firmare un contratto per tre anni (fino a Euro 2024) con un stipendio mensile di 167 mila euro. Secondo Wirtualna Polska PZPN presenterà il nuovo allenatore il 19 gennaio.
Tessa Capponi-Borawska, personaggio simbolo che unisce due paesi così diversi: Polonia e Italia. Per più di vent’anni ha lavorato presso il Dipartimento di Italianistica all’Università di Varsavia. Ha pubblicato i suoi testi in “Twój Styl”, “Gazeta Wyborcza” o “Elle”. Autrice di libri e pubblicazioni sulla storia della cucina e sulla cultura del cibo. Vincitrice del Premio Gazzetta Italia nel 2019. Parliamo del sapore del passato e del sapore di oggi. Del sapore d’Italia.
Come la pandemia ha influenzato il sapore degli italiani?
Durante la pandemia ho passato una delle giornate più deprimenti della mia vita. Con Cosima, la mia figlia maggiore, sono andata a Firenze. Erano i primi giorni di dicembre dell’anno scorso, proprio quel weekend, quando la città di Firenze cambiava dalla zona rossa, con divieto di uscire di casa, alla zona arancione. Non sapevamo che il divieto fosse ancora in vigore, allora siamo andate a fare due passi, fino alla Piazza della Signoria. Era una giornata molto triste, pioveva. Davanti a noi è apparsa la piazza vuota, quella che era sempre piena di vita.
Tutti i bar erano chiusi. Ponte Vecchio era deserto. Ed è allora che mi sono resa conto che ci voleva ancora tanto tempo per ritornare alla normalità. Oggi, dopo alcuni mesi, vedo che tanti posti che abbiamo frequentato in passato ora sono chiusi. Rispondendo alla domanda: il sapore cambia in modo molto reale e spesso diventa solo una memoria o una nuova esperienza. Non ritornerò mai al mio bar preferito, dove ogni giorno bevevo un cappuccino, al bar che era famoso per la sua pasticceria. Per la mia famiglia era una tradizione cominciare una giornata lì, ma oggi questo sapore è impossibile da ripetere.
Nel periodo della crisi pandemica è nato qualche nuovo piatto come quando il fiume Arno straripò coprendo la città con fango e i cittadini cucinavano tonno con piselli al pomodoro in scatola?
fot. Antonina Samecka
Sono passati cinquant’anni da quell’evento, evidentemente ora gli italiani si sono sviluppati per quanto riguarda la consegna a domicilio. Molti di loro, invece di preparare un piatto da soli, fanno una chiamata veloce per ordinare qualcosa. Fortunatamente tanti ristoranti in Italia, dando la priorità al sapore e alla qualità del cibo, non offrono cibo da asporto. Un piatto fresco, servito in un ristorante ha un sapore completamente diverso da quello consegnato a casa. Un’altra idea è quella introdotta da Fabio Picchi, lo chef del ristorante Cibreo Firenze, che ha aperto CiBio, cioè un qualcosa che è a metà tra un negozio con prodotti alimentari e una rosticceria tradizionale che offre piatti pronti di alta qualità. Il cibo ha in Italia una dimensione molto conviviale, adoriamo celebrare i pasti insieme. In estate, insieme a tutta la mia famiglia, siamo andati ad uno dei nostri ristoranti preferiti, ma sul posto abbiamo scoperto che non c’erano più tavoli liberi. Mi ha colpito molto il fatto che il proprietario del locale si è avvicinato e ci ha detto che non c’era problema e che avrebbe preparato un’altro tavolo per dieci persone più in là. Questo tipo di intraprendenza, questa abitudine italiana di invitare tutti a tavola è molto toccante. Non è possibile che non ci sia posto per un altro ospite. Penso che per tanti italiani chiusi in casa durante la pandemia mangiare in solitudine, senza parlare, sia stato un problema.
Ma c’erano incontri al computer?
Durante il primo lockdown abbiamo organizzato una sorta di festa davanti allo schermo. Non sapevamo come ritrovarci in questa nuova situazione, ma ci mancava questa “religione italiana” di mangiare insieme. Abbiamo deciso di vederci via internet, con qualcosa da mangiare e un bicchiere di vino in mano.
Qual è la filosofia del celebrare la vita all’italiana?
Ingredienti importanti sono il clima e la possibilità di celebrare cibo all’aperto. Inoltre c’è il bisogno di stare insieme, così tipico per i paesi meridionali. È molto importante anche il nostro senso di libertà. Qui, in Polonia, l’invito a cena è spesso molto formale, fatto in anticipo, programmato giorni prima. Quando sono a Firenze basta che chiamo i miei amici alle sette di sera, invitandoli spontaneamente a mangiare una pasta e loro vengono immediatamente. Non c’è niente di speciale si mangia una pasta. Si tratta di stare insieme, di parlare, anche se sul tavolo c’è solo pane secco. La nostra identità, la nostra educazione sono basate su una regola, secondo la quale mangiare insieme è uno degli elementi cruciali della vita. Insieme al calcio, ovviamente!
Com’è con lo spreco di cibo in Italia? Piotr Kępiński nel suo libro “Szczury z via Veneto” parla di cibo che marcisce e ratti che si riproducono per le strade di Roma.
Il problema dello spreco del cibo è un fenomeno che risale a prima della pandemia. Da un lato c’è prosperità in Italia e, in conseguenza, un mancato rispetto verso il cibo che finisce sulle strade, ma dall’altro vediamo sempre più segni di povertà di persone che non riescono a integrarsi nei ritmi del mondo di oggi. Sono spesso le persone del nord dell’Italia, che magari hanno lavorato tutta la vita e ora ricevono una pensione molto bassa. Ecco le conseguenze del grande boom economico, che più di 60 anni fa cambiò in meglio la vita di italiani, ma gli avvenimenti dei decenni successivi (spreco, corruzione della élite politica ecc.) sono la causa della crisi di oggi. Per queste persone il cibo è caro. Dall’altra parte c’è Roma, l’ho visitata per un giorno quest’estate, un giorno solo e basa. È una città sempre più sporca, piena di spazzatura, nella quale ogni giorno si sprecano tonnellate di cibo. Devo sottolineare però che non è un problema presente solo a Roma e in Italia.
L’Italia, fino a poco tempo fa, era uno dei pochi paesi dove si faticava a trovare ristoranti con cucina straniera. Varsavia, Londra, ma anche Parigi sono città piene di fast-food, cucina asiatica, o dell’est. Le nuove generazioni e la migrazione di massa stanno cambiando la cucina italiana?
Prima di tutto la nuova generazione di italiani vive in fretta e non ha tempo per cucinare. Nelle grandi città il modello della famiglia gestita da una mamma italiana che serve piatti buonissimi sta sparendo. Tutti vogliono realizzarsi professionalmente, passano sempre più tempo al lavoro. Per pranzo scelgono piatti pronti, vanno al ristorante o ai fast-food. La conseguenza è che si aggrava un problema che prima non c’era ovvero l’obesità tra i giovani italiani. In più si vede l’impatto sul nostro sapore degli immigrati da paesi del Maghreb o dell’Estremo Oriente. Però ci sono ancora posti, soprattutto in campagna, dove non c’è nessun ristorante che serva piatti non appartenenti alla cucina tradizionale italiana.
La nuova generazione italiana sembra scappare dalla sua identità e dalla memoria del passato. Una generazione che sostituisce la cucina con il fast-food, imbratta i muri di Roma e quando gli si chiede di Fellini, come successo in occasione del centesimo anniversario della sua nascita, cala il silenzio.
Abbiamo a che fare con una generazione che vive con le immagini e non con le parole, una generazione che non legge, che comunica con immagini e slogan, invece di parlare. È una generazione che mette in dubbio le autorità e la ricchezza della cultura e dell’arte italiana. I loro modelli di comportamento, a volte anche di pensiero, sono gli influencer tipo Fedez. Sono loro a dire ai giovani ciò che è giusto e ciò che non lo è. Mi spaventa il fatto che quello che è più importante per questa generazione sono cose che hanno un breve periodo di vita. Oggi siamo ossessionati da una sensazione, tra qualche settimana se ne scordano tutti. Chi ricorda oggi gli incendi in Australia, dei quali parlava tutto il mondo prima della pandemia? O dell’auto-immolazione di Piotr Szczęsny in Plac Defilad a Varsavia in segno di protesta contro il governo attuale in Polonia? La nuova generazione vive qui e ora, vive nel mondo dei social media e per loro nomi come Federico Fellini o Dante Aligheri non significano nulla. È un tragico pianto di dolore e di disperazione del nuovo mondo.
Quanto è rimasto dell’Italia della Sua infanzia?
Sempre di meno. Lo vedo ad esempio a Firenze, dalla quale ogni tanto scompare un altro negozio o un altro ristorante che era gestito da generazioni dalla stessa famiglia. Mi manca una sorta di eleganza che non c’è più, che una volta c’era anche al meridione, eleganza in tutti i sensi. Mi manca la dignità, il rispetto per una città che sopravvive da più di mille anni. Non riesco a capire come si fa a andare in giro per questi siti storici (a volte anche sacri) seminudi, mangiando, bevendo, ascoltando la musica a tutto volume, gridando. Questa eleganza, dignità, il sapore della vecchia Italia non ritornerà.
L’estate scorsa ho trascorso qualche giorno a Pesaro durante i giorni del ROF (Rossini Opera Festival). La grande manifestazione, giunta ormai alla 42^ edizione, ha mantenuto come sempre le promesse in fatto di qualità delle opere proposte, scelte registiche, allestimenti ed eventi collaterali.
Visitando la casa di Gioachino Rossini e il Museo Nazionale Rossini, non ho potuto non lasciarmi trascinare dalle atmosfere degli ultimi decenni del XVIII secolo e dai primi decenni del XIX, seguendo la vicenda umana e artistica del grande compositore pesarese attraverso i cimeli, la quotidianità, i documenti e gli aneddoti che ne hanno contrassegnato la vita e l’arte durante quel periodo storico tanto importante per l’Europa intera, e che ho approfondito leggendo in quei giorni una bella biografia a cura di Gaia Servadio.
Scorrendo più in generale le vicende legate all’opera lirica, mi ha incuriosito il legame che il vino, simbolo di gioia, ebbrezza, convivialità e seduzione, ha con questa forma d’arte e quante volte venga utilizzato e menzionato dai vari compositori nelle diverse epoche proprio per la sua forza simbolica ed evocatrice, che riesce a risuonare in molti sentimenti umani accompagnando le vicende di personaggi ormai classici e immortali sia maschili che femminili.
Con il “Barbiere di Siviglia” andata in scena il 20 febbraio 1820, Gioachino Rossini celebra anche la tradizione enogastronomica italiana, con frequenti riferimenti a cibi e vini che accompagnano e arricchiscono l’andamento e le dinamiche di quest’opera buffa famosissima. Come del resto erano celeberrime la passione di Rossini per le specialità dei vari paesi che visitò durante la sua vita, e le sue qualità di attento gourmet.
Prima di lui W.A. Mozart nel “Don Giovanni” del 1787 cita espressamente (rendendolo in tal modo eterno) il vino Marzemino, in un momento dell’opera in cui occorre qualcosa con cui festeggiare e che sia maliziosamente connesso con l’amore e la conquista. Inoltre, al termine, Don Giovanni sfida il Commendatore e la Morte stessa con un bicchiere di vino in mano, quasi che quel calice e il suo contenuto lo rendesse immortale.
Il 1833, oltre a vedere i primi moti mazziniani in Savoia e Piemonte nei mesi di maggio e giugno, è l’anno che vede la prima rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano, il 26 dicembre, della “Lucrezia Borgia” del bergamasco Gaetano Donizetti. In quest’opera il vino compare come veicolo atto a portare mischiato un veleno; a portare la morte dunque non la gioia… Ma non andrà così e Gennaro non berrà il veleno ma un antidoto che Lucrezia gli porgerà prima di farlo fuggire, avendo scoperto il tranello teso dal marito per assassinare il rivale.
Nel 1853 “La traviata” di Giuseppe Verdi porta in scena e nel mondo, nel frangente del celeberrimo “libiamo nei lieti calici” la gioia per la vita, il vino e l’amore, invitando chiunque all’inebriante valzer dell’esistenza che, ahimè, volteggerà verso il dramma.
Nel 1890 Pietro Mascagni in “Cavalleria Rusticana” fa cantare “Viva il vino spumeggiante, nel bicchiere scintillante”. Un brindisi corale che inneggia all’amore ma che ben presto si carica di tensione, presagendo la catastrofe finale che si sta preparando. Oltre a queste sono altre le opere e i capolavori che recano riferimenti a calici, brindisi e libagioni (“Otello” e “Falstaff” di Verdi, “L’elisir d’amore” di Donizetti, “Il ratto del serraglio” di Mozart, “Faust” di Gounod per dirne alcune) meravigliosi capolavori creati dall’ingegno umano e dal talento, dalla fatica e dalla passione. Ma, un momento… Non sono forse queste le stesse dinamiche che muovono e conducono coloro che creano il vino? Opere d’arte che possiamo gustare ogni giorno e ovunque e che, prese nella giusta misura e situazione, rendono onore alla vita e danno un gusto nuovo al desiderio e alla ricerca della pace.
In Polonia questa settimana, con forti preoccupazioni per possibili aumenti dei casi della nuova variante omicron che si sta diffondendo molto velocemente in Europa, la situazione risulta in leggera crescita (casi attivi +3%, mentre i morti sono aumentati del +3%). Sono state registrate ancora nuove infezioni da COVID-19, il numero complessivo dei casi attivi è 396.410 (settimana precedente 381.875), di cui in gravi condizioni 1.836, ovvero circa lo 0,5% del totale. Gli ultimi dati mostrano 16.576 nuove infezioni registrate (su 105.400 test effettuati), con 646morti da coronavirus nelle ultime 24 ore.
Il numero delle vittime nell’ultima settimana è stato di 2.896 morti (settimana scorsa 2.970) e la situazione nelle strutture sanitarie polacche risulta al momento stabile, con diminuzione delle terapie intensive occupate. Sono 18.748 i malati di COVID-19 ospedalizzati (scorsa settimana 20.433), con 1.836 terapie intensive occupate (scorsa settimana 1.930).
Attualmente sono state effettuate 47.740.564vaccinazioni per COVID-19. La copertura sul totale della popolazione è di circa il 55,7%, inferiore alla media UE 68,6%. L’Italia ha copertura sul totale della popolazione pari al 74,3% (https://vaccinetracker.ecdc.europa.eu).
Resta in vigore l’obbligo di indossare la mascherina nei luoghi pubblici al chiuso. Sono aperti bar e ristoranti con capienza massima ridotta al 30% di non vaccinati fino al 9 gennaio e sono consentite riunioni fino a 100 persone. Sono aperti hotel, centri commerciali, negozi, saloni di bellezza, parrucchieri, musei e gli impianti sportivi, anche al chiuso, ma con capienza massima ridotta al 30%, limite in cui non sono calcolate le persone vaccinate. Sono chiuse, discoteche e sale da ballo. Ogni attività è sottoposta a regime sanitario e sono previste limitazioni sul numero massimo di persone consentite, in linea generale è consentita 1 persona ogni 15 m2, a capacità 30% con norme di distanziamento per limitare le occasioni di contagio. La capienza dei mezzi di trasporto pubblica sarà ridotta al 75% fino al 9 gennaio. Nei prossimi giorni sono possibili nuove restrizioni in base all’andamento della pandemia.
Per quanto riguarda gli sposamenti, salvo per vaccinati o ingressi con presentazione di test COVDI-19 negativo PCR molecolare o test antigenico effettuato nelle 48 ore precedenti, resta in vigore l’obbligo di quarantena di 10 giorni.
Per gli ingressi in Polonia da paesi al di fuori dell’area Schengen è prevista quarantena automatica obbligatoria di 14 giorni, fino alla presentazione di un test negativo effettuato in Polonia successivamente all’ingresso, ma non prima di 7 giorni dal momento dell’ingresso nel paese. Sono escluse dall’obbligo di quarantena le persone vaccinate per COVID-19 con vaccini approvati dall’EMA, ma è necessario anche per i vaccinati sottoporsi a un test covid prima dell’ingresso in Polonia da paesi al di fuori dell’area Schengen.
ATTENZIONE: per i rientri in Italia da paesi area Schengen è necessario la presentazione di un test covid negativo, anche per i vaccinati, fino al 31 gennaio
Si raccomanda di limitare gli spostamenti e monitorare i dati epidemiologici nel caso di viaggi programmati da e verso la Polonia.
Per spostamenti all’interno dell’UE, si raccomanda di verificare le restrizioni nei singoli paesi sul portale: https://reopen.europa.eu
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Ilmercato della produzionedi vino in Polonia è cresciuto nell’ultimo decennio di oltre 35volte, fa notare Adrian Pizon, sommelier e manager F&B dell’hotel Crowne Plaza Warsaw the Hub. La produzionediviniregionalidi alta qualità sta gradualmente raggiungendo la produzionedi vodka e i polacchi cercano sempre più spesso i vini che provengono dalle coltivazioni autoctone. Sebbene la pandemia non abbia lasciato indenne alcun ramo dell’economia, molti imprenditori del settore vinicolo hanno approfittato della stagnazione per proporre nuove iniziative. Le enoteche hanno introdotto un abbonamento online per i vini che consistente nella spedizione ciclica al cliente deivini con un tema selezionato come una determinata stagione, oppure a scelta del sommelier. Tra i consumatori, la popolarità delle varietà di vino è in continua evoluzione: un tempo era Beaujolais Nouveau o Chianti, oggi piuttosto Sauvignon Blanc di Marlborough, oppure Primitivo e Prosecco. Il settore della ristorazione polacca predilige i vini statunitensi o dell’Italia. I più richiesti sono i cosiddetti vini gastronomici: Chardonnay, Riesling, Cabernet Sauvignon, Tempranillo. Sempre più spesso i ristoranti decidono di formare giovani sommelier per poter fornire ai clienti un’esperienza completa, in modo che attraverso il gusto del vino si abbinino adeguatamente gli ingredienti del piatto. D’ultima tendenza sono i vini vegani, analcolici, biologici, biodinamici. Le novità non riguardano solo le proposte enologiche emergenti, ma anche l’alternativa allo champagne: Chardonnay spumante biologico 0,0%.
Adorato da tutti, lodato e sopraffatto dagli ordini il geniale Raffaello dovette aprire un grande studio e assumere molti pittori, fra loro ci fu Giovanni Francesco Penni, detto il Fattore. L’apertura del laboratorio ebbe luogo negli anni 1514-1515 con un gruppo numeroso di artisti visto che in quel periodo Raffaello diresse i lavori di costruzione della Basilica di San Pietro, coprì la carica del conservatore delle antichità romane e decorò le stanze vaticane.
Gli apprendisti che aveva scelto furono pagati modestamente. Secondo Giorgio Vasari, l’autore delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori la maggior parte dei cartoni, cioè i disegni preparatori per gli arazzi per la Cappella Sistina, fu preparata da Giovanni Penni. Nelle botteghe rinascimentali e delle epoche successive funzionarono le condivisioni specifiche e i pittori spesso “si furono specializzati” in un dato campo. A volte succedeva che durante i lavori sugli affreschi uno era responsabile di dipingere gli elementi dell’architettura, un’altro le piante e qualcun altro i paesaggi sullo sfondo. Il concetto complessivo apparteneva invece al maestro. Oggi però i ricercatori non hanno dubbi quanto alla partecipazione degli apprendisti e degli assistenti assunti dal maestro. Nel caso delle opere di Raffaello, il gruppo dei suoi dipendenti fu completamente dominato e sottoposto al concetto principale. Secondo la narrazione di Vasari, Raffaello non ebbe nessun problema con la gestione dello studio e seppe instillare nei suoi apprendisti il principio di cooperazione armoniosa. Le parole di Vasari furono attestate anche dal testamento di Raffaello che morì giovane, a 37 anni, e che nominò Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni come suoi successori e gli ordinò di completare i lavori iniziati in Vaticano. L’attaccamento al maestro si comprende dal fatto che nonostante la decorazione della Sala di Costantino commissionata a Raffaello non fosse stata completata, Giulio Romano e Giovanni Penni avviarono le discussioni preliminari e il papa Leone X diede loro l’incarico dei lavori che si svolsero negli anni 1520-1521. Dopo la morte improvvisa del papa, la decorazione della sala fu sospesa, ma dopo l’ascesa al trono di Clemente VII nel 1524, i due artisti portarono a termine l’opera secondo il disegno di Raffaello. In quel modo anche molti anni dopo la sua morte la bottega di Raffaello continuava a funzionare. Tuttavia, realizzare gli affreschi secondo il concetto di Raffaello fu un compito completamente diverso dal lavorare autonomamente. Giovanni Francesco Penni sviluppò il proprio stile di pittura e cominciò a creare dei dipinti che stilisticamente sono leggermente diversi da quelli di Raffaello, come le opere di Giulio Romano che però sono caratterizzate da una maggiore espressione dei personaggi e da una dinamica della composizione. Penni adottò l’aspetto statico delle Madonne di Raffaello e la mitezza dei gesti. Inoltre usò contorni dolci e colori chiari e luminosi. Rispetto ad alcune composizioni complesse di Raffaello o costruite su una figura triangolare, nei dipinti di Penni i personaggi sono posizionati in modo da riempire tutto il dipinto. Prese molto dal modo e dalle idee del suo maestro ma utilizzò il proprio concetto di colore, trasse ispirazione anche dagli altri artisti. I frammenti dell’architettura antica o lo sfondo scuro nella Sacra Famiglia con san Giovanni Battista (prima metà del secolo XVI, collezioni della galleria Borghese a Roma) fanno riferimento all’opera La Perla di Raffaello (circa 1518-1520, collezioni del Museo del Prado a Madrid).
Giovanni Francesco Penni “Sacra Famiglia con san Giovannino e santa Caterina d’Alessadria”, dopo il 1527, dipinto a olio sulla tavola di pioppo, dimensioni: 115×95 centimetri, collezioni del Museo Nazionale di Varsavia
I paesaggi sullo sfondo dei dipinti di Giovanni Penni rappresentano una chiara ispirazione dalla pittura dei grandi veneziani, con il cielo azzurro molto spesso coperto dalle nuvole, con le foglie degli alberi chiare e finemente dipinte, con le viste nebbiose delle città in lontananza. Nel dipinto delle collezioni polacche Sacra Famiglia con san Giovannino e santa Caterina d’Alessandria Giovanni Penni usò parzialmente l’idea del suo maestro. La Madonna col Bambino e san Giuseppe seduto sullo sfondo riproducono la composizione del dipinto Sacra Famiglia (1518, collezioni del museo del Louvre a Parigi). Le loro pose sono pressoché identiche. Il piccolo Gesù viene tirato fuori da Maria dalla culla che nel dipinto è rappresentata da un coperchio rovesciato di un sarcofago romano. Questo è un tema poco frequente nell’iconografia che però fu presente anche nelle opere di Raffaello. Il motivo dovrebbe essere spiegato come un rapporto simbolico fra l’antichità e il cristianesimo. I ricercatori spiegano che il sarcofago come un segno di morte diventa qui una culla della Nuova Vita. In aggiunta, il sarcofago fu decorato sul davanti con una vite che nel cristianesimo è stata letta come un simbolo del martirio di Cristo. Per terra, vicino alla culla c’è una stola che prevede un futuro lavoro di Gesù come insegnante e sacerdote. Nel dipinto c’è più simbolismo, perché anche i santi presentati sul lato sinistro, Caterina e il piccolo Giovanni Battista, fanno riferimento alla cristianità. Caterina, visto che era di discendenza reale, ha una corona sulla testa il cui aspetto può fare riferimento al martirio di Cristo, ma dietro lei si trova una ruota ovvero l’attributo del suo martirio. Il piccolo Giovanni Battista è stato presentato con una croce e fascetta con l’iscrizione “Ecce Magnus Domini” (Ecco l’Agnello di Dio) che prefigura la morte per martirio e la Redenzione. Ai piedi di Maria e Santa Caterina, tra le pietre, ci sono le conchiglie che indicano la purezza visto che nel Medioevo si credeva che fossero fecondate da rugiada, e questo fu identificato con l’immacolata concezione di Maria. Una conchiglia nel Medioevo significava anche una tomba nella quale i morti attendono la rinascita, come se fossero le perle. Tra le erbe verdi spuntano composizioni di foglie di color verde scuro a forma di cuore, probabilmente di violette che appartengono al simbolismo mariano nel contesto di umiltà della Vergine Maria.
La composizione che rappresenta la Madonna con Bambino accompagnata dai santi era molto comune, sia per quando riguarda la Sacra conversazione che le mistiche nozze. È interessante notare che Caterina d’Alessandria morì circa nel 300, cioè molti anni dopo la morte di Gesù. Nel Rinascimento, fu una santa cristiana eccezionalmente popolare. Secondo una leggenda la condanna a morte emessa dall’imperatore ebbe luogo dopo una disputa religiosa nella quale Caterina si mostrò più esperta di dozzine di saggi. Alcuni di loro furono convertiti al cristianesimo e l’imperatore la condannò a morte dopo tortura. La vita di Santa Caterina è documentata abbastanza modestamente. Secondo Jacopo da Varagine che fu il primo a menzionare le mistiche nozze, Caterina come una figlia reale d’Alessandria, il grande centro scientifico dell’antichità, diventò la sposa di Gesù in un monastero nel deserto dove l’aveva guidata un monaco. Prima fu battezzata e ad essere la madrina fu la Vergine Maria, e poi la futura santa ricevette un annello prezioso da Gesù. Tornò dal deserto ad Alessandria e cominciò a convertire la gente al cristianesimo. Morì martire, prima affamata, poi massacrata sulla ruota con le punte di ferro e alla fine fu decapitata. Fu nominata la patrona dei filosofi e degli scienziati e la “Leggenda d’Oro” di da Varagine è diventata un’ispirazione per gli artisti.
Le discussioni filosofiche guadagnarono popolarità nel Rinascimento quando furono tradotti gli antichi trattati e furono ascoltati i discorsi, tra l’altro durante il concilio di Firenze dal 1439.
Il filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone tenne allora una serie di discorsi riguardanti Platone che interessarono Cosimo de’ Medici al punto tale che diventò un mecenate di Marsilio Ficino per gli studi sul filosofo. Alcuni anni dopo fu fondata l’Accademia neoplatonica che doveva continuare la tradizione dell’Accademia di Platone. Le idee della filosofi a antica furono quindi diffuse a Firenze e in tutta l’Italia e poi in quasi tutta l’Europa.
Il dipinto è un’opera interessante dal punto di vista della storia del collezionismo. Faceva parte di alcune delle più importanti collezioni principesche italiane, all’inizio dei Gonzaga da Mantova, poi acquistato dal re d’Inghilterra e Scozia Carlo I Stuart, uno dei più grandi collezionisti d’arte europei. Dopo il rovesciamento e la decapitazione del re nel XVII secolo un’enorme parte delle sue collezioni fu venduta. Il dipinto di Giovanni Penni passò all’arciduca austriaco Leopoldo Guglielmo. Dalle collezioni del cancelliere dell’imperatrice incoronata Maria Teresa, Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg, lo acquistò la famiglia Potocki. In tal modo, il dipinto arrivò in terra polacca e oggi è esposto nella Galleria d’Arte Antica del Museo Nazionale di Varsavia.
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Giovedì 30 dicembre a Jelenia Góra (Voivodato della Bassa Slesia) è stato organizzato al Cafe Szept un incontro di appassionati dell’Italia. Izabela Zobel Ferrari che ha organizzato il meeting, è la Preside del Club di Cultura Italiana: un movimento che promuove la cultura italiana in Bassa Slesia. L’appuntamento è stato una festa per tutti i sensi. Si è partiti con il concerto di Gianni Iannoni, musicista e cantante napoletano che ha eseguito piacevoli brani tradizionali. Poi c’è stata l’inaugurazione della mostra di fotografie di Kazimierz Pichlak e quindi le leggendarie prelibatezze della cucina italiana hanno deliziato il palato. Tutto immerso nella cultura italiana e circondato da un’atmosfera amichevole. La comunità è aperta ai nuovi membri e con piacere accoglierà tra le sue fila i nuovi estimatori della cultura italiana, che condividono gli ideali del reciproco rispetto e amicizia.