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‘’Giuditta con la testa di Oloferne’’ dalla collezione di Stanislao Augusto Poniatowski

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“Giuditta con la testa di Oloferne”, copia sul modello di Cristofano Allori, olio su tela, dimensioni 141,3 x 118,5 cm, Palazzo sull’acqua, Parco Łazienki di Varsavia

Traduzione it: Aleksandra Pasoń

Nel XVIII secolo, quando il re Stanislao Augusto Poniatowski desiderava trasformare Varsavia in un centro di cultura e di scienza, le sue collezioni artistiche erano seconde solo a quelle della zarina Caterina. Il problema della sopravvivenza delle collezioni polacche risiedeva nel fatto che facevano parte di proprietà privata dei sovrani eletti e non del patrimonio della Corona. Ciò significava che spesso venivano ereditate da chi abitava al di fuori dei confini nazionali che poi talvolta le vendeva oppure le lasciava in eredità ai propri discendenti.

Ecco perché, ad esempio, le pinacoteche dei sovrani della dinastia sassone dei Wettin (ricordiamo che Augusto II “il Forte” e Augusto III “il Sassone” furono re di Polonia) si trovano oggi a Dresda. Purtroppo, la vasta collezione del re Stanislao Augusto Poniatowski si disperse in tutta Europa. Tanti capolavori acquistati da lui in passato, oggi fanno parte di eccellenti gallerie d’arte disseminate in tutto il mondo. Uno degli esempi è “Il cavaliere polacco” di Rembrandt che potemmo per fortuna ospitare nel nostro paese durante una mostra temporanea nel Palazzo sull’Isola di Łazienki Królewskie, ovvero il luogo dove era un tempo esposto. Attualmente è di proprietà della Frick Collection di New York.

Siamo più fortunati con una copia del dipinto “Giuditta con la testa di Oloferne” di Cristofano Allori, maestro italiano del XVI secolo. In Italia il soggetto godeva di popolarità fin dal XV secolo, mentre Giuditta stessa era la patrona di Firenze. Giuditta, una vedova della città di Betulia assediata dall’esercito del re Nabucodonosor comandato da Oloferne, divenne l’eroina che salvò il popolo grazie alla sua astuzia. Con l’aiuto e in compagnia della serva Abra, si recò nella tenda del comandante nemico. Sedusse Oloferne, lo ubriacò e, quando l’uomo si addormentò, Giuditta gli tagliò la testa con una spada, la nascose in un cesto e lasciò l’accampamento insieme ad Abra. All’alba le truppe di Nabucodonosor videro la testa del loro comandante infilzata sulle mura di Betulia, il che scatenò il panico e fece disperdere l’esercito. Giuditta, una donna bellissima, riuscì a sconfiggere il potente Oloferne e a salvare la città. Perché sono appunto gli artisti italiani ad essere così appassionati di questa tematica? Giuditta fu dipinta e scolpita da Donatello, Verrocchio, Botticelli, Mantegna, Caravaggio, Artemisia Gentileschi e Cristofano Allori. Era un manifesto di fede in Dio che sostiene la lotta per la libertà contro l’oppressore, ma rappresentava anche astuzia, saggezza e coraggio di agire. Firenze, che lottava contro la dominazione politica di Roma, non sottoponendosi alle sue richieste, identificava allegoricamente Oloferne con la Santa Sede, mentre lei stessa si raffigurava come Giuditta: astuta, composta e intelligente.

Nelle diverse epoche, sebbene l’opera trasmettesse simbolicamente un’idea di lotta e vittoria contro l’oppressore stilisticamente poteva variare. Donatello creò una scultura statica, in stile antichizzato, ma la sua Giuditta ha un’espressione determinata e uno sguardo freddo con gli occhi spalancati. Botticelli e Mantegna raffiguravano la vedova di Betulia con abiti e capelli scompigliati, mentre cammina come se ballasse; giovane, bella, quasi seducente. Gli artisti barocchi, come Caravaggio e Artemisia Gentileschi, erano maestri del dramma e dei contrasti netti: il sangue e le lenzuola immacolate, la determinazione sul viso della donna contro gli occhi annebbiati dell’uomo morente. Alcuni temi pittorici erano più popolari di altri. È il caso di varie versioni di Venere che emerge dal mare, Danae su cui cade una pioggia dorata, innumerevoli composizioni della Madonna col Bambino, ma anche della biblica Susanna, del giovane Davide con la fionda o, appunto, di Giuditta con la testa di Oloferne. Per quanto riguardava la bella vedova di Betulia, un ventaglio di possibilità era molto ampio visto che, mentre il Rinascimento vedeva in lei grazia, leggerezza e armonia, il Barocco puntava sul momento dell’omicidio in cui il sangue scorre drammaticamente e le espressioni del viso sono a volte feroci.

Allori dipinse tre o quattro versioni del quadro, che si differenziano poco una dall’altra. La prima, creata tra il 1610 e il 1612, si trova nella Galleria Palatina di Firenze. La seconda, datata dall’artista al 1613, è esposta a Edimburgo e fa parte della Collezione Reale di Buckingham Palace. Dalla documentazione emerge che versioni successive, oggi sconosciute, potrebbero essere state realizzate fino al 1621. La composizione, che già ai tempi dell’artista mieteva tanti successi, sarebbe stata spesso copiata anche nel XVIII e XIX secolo. In che cosa consisteva l’eccezionalità della raffigurazione biblica di Allori da renderla così desiderata dai collezionisti? Innanzitutto, secondo gli studiosi italiani che analizzano il dipinto, il pittore rese una sorta di omaggio all’industria tessile fiorentina del XVI secolo. L’abito di Giuditta è molto elaborato e i tessuti con cui è cucito mostrano la ricchezza delle più pregiate sete e di lane finissime. La versione di Varsavia è una copia dell’originale presente nella Galleria Palatina. Non è una riproduzione fedele in quanto il copista decise di alterare alcuni dettagli dell’abbigliamento della donna. Mentre nell’opera di Cristoforo Allori la fusciacca legata intorno alla vita di Giuditta è liscia, in quella del copista è a strisce, ma dipinta in modo tale da poter notare la struttura della stoffa. Nella versione fiorentina è difficile individuare tale particolarità perché il materiale è spesso e leggermente luccicante. Non è facile notare questi dettagli anche perché il quadro nella Galleria Palatina è appeso in un angolo della sala, piuttosto in alto rispetto all’occhio umano. Inoltre, la vernice riflette la luce impedendo una visione precisa. Nell’originale manca anche il cordino rosso che tiene il mantello sulle spalle della donna. Il copista l’ha dipinto in modo che scorra diagonalmente dalla spalla sinistra a quella destra. Si dice che la versione fiorentina sia incompleta, però se analizziamo la maestria pittorica con cui fu creato l’abito dorato con motivi floreali o il frammento del cuscino verde di velluto, ciò sembra poco probabile. Il pittore non solo manipolò magistralmente i colori e la luce, ma trasmise perfettamente la profondità del dipinto.

La scena è molto teatrale. Si tratta di un omicidio. Una giovane donna dal volto pallido e delicato stringe tra le mani i capelli aggrovigliati del persecutore del suo popolo. Più precisamente, tiene solo la sua testa mozzata. Teatralmente illuminata, Giuditta emerge dallo sfondo nero che sottolinea il candore del suo viso e la delicatezza delle mani curate. Sembra che stia posando per una scena. Sul suo volto non c’è paura né sorpresa. Non ci sono neanche le emozioni tipicamente barocche che vediamo in Caravaggio o Artemisia Gentileschi, dove Giuditta ha un’espressione feroce ed è così determinata che la luce drammatica, i contrasti cromatici, i forti contorni e l’accento sul sangue sembrano far parte di un’immagine fissa, una rappresentazione straordinariamente espressiva. Nella composizione di Cristofano Allori, come nel caso della copia nostrana, il carattere teatrale non risiede nell’espressione, ma nella posa dei modelli e nel loro emergere dall’oscurità. Forse fu quello che influiva sulla popolarità del dipinto già ai tempi della sua creazione.

L’opera è quindi una delle rappresentazioni più teatrali di Giuditta con la testa di Oloferne. Abbiamo a che fare con un’improvvisa uscita dall’oscurità verso tonalità di luce vivide e brillanti che, attraverso il contrasto, rivelano l’atto la cui drammaticità è indiscutibile. Al tempo stesso, la composizione offre una miriade di opportunità per la percezione estetica dell’opera.

Filippo Baldinucci, biografo e disegnatore del XVII secolo, scrisse che per la figura di Giuditta posò Mazzafirra, l’amante del pittore, e per quella di Abra la madre dell’artista mentre fu lui stesso che diede le sue fattezze al volto di Oloferne, il che non era niente di particolare nell’epoca barocca in cui gli artisti solevano intrecciare elementi autobiografici nei loro dipinti. Lo fecero Caravaggio e Gentileschi, pittori la cui creatività ispirò Cristofano Allori. Si suppone che Caravaggio abbia dato a Oloferne i suoi lineamenti. Non c’è dubbio che nelle diverse versioni dell’opera dipinte da Gentileschi, Giuditta abbia sia il volto che il corpo dell’artista italiana. Per di più, esse appartengono ad un insieme di composizioni che costituiscono un resoconto drammatico del difficile passato della pittrice. Allori era quindi un uomo del suo tempo inserito in una viva tradizione in cui le proprie esperienze si intrecciavano con le narrazioni apocrife e bibliche. Uno dei ricercatori, osservando una copia parigina della “Giuditta”, arrivò alla conclusione che il pittore si credeva colpito dalla freccia di Cupido. Forse il suo amore per la bella Mazzafirra era infelice.

Nell’inventario del re Stanislao Augusto, il dipinto fu inizialmente registrato senza il nome dell’autore. Nel 1795 fu erroneamente catalogato come opera di Franciszek Smuglewicz, un pittore che lavorò per il re a Roma e a Varsavia.

Polifonia – la mostra di Tomasz Mrozowski

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Tomasz Mrozowski è nato il 3 marzo 1973 a Mielec. Si è laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Scienze Biologiche di Breslavia e in pittura presso l’Accademia di Belle Arti intitolata a Prof. Eugeniusz Geppert di Breslavia. Vive e lavora nei pressi di Mielec, nella parte sud-est della Polonia. Nascosto dal mondo nel suo studio, si dedica alla sua passione – la pittura e la ceramica. Le sue opere si ispirano alla mitologia e alla musica classica. Cerca di sintetizzare questi due concetti per creare una propria etimologia e morfologia dell’immagine dell’universo, ponendo al contempo una distanza tra questi e cercando di scoprire il senso dell’esistenza.Le opere presentate nella mostra Polifonia hanno lo scopo di mostrare la polifonia pittorica, il cui progetto principale è l’idea di molteplicità nell’unità.

Sulla base di questa polifonia imitativa, ho sviluppato trattamenti che fanno sì che la ripetizione della stessa serie di elementi figurativi o cromatici possa essere realizzata in una sorprendente molteplicità di varianti. Trasformo i temi e i contrappunti in vari modi, affinché il messaggio pittorico diventi polifonico, mentre i singoli livelli della struttura sfaccettata sono omogenei e mostrano un alto grado di adattamento. Un elemento del dipinto fa riferimento ad un altro, mentre le singole parti si riferiscono all’insieme. Questo modo di organizzare lo spazio pittorico é la perfezione ideale delle mie ricerche artistiche. Il risultato finale di queste ricerche esprime una polifonizzazione della pittura, in cui mostro le relazioni polifoniche dell’infinito con il finito, utilizzando tecniche originali che combinano la pittura a olio su tela con la ceramica e l’acquerello con l’inchiostro su carta. Il titolo Polifonia è il mio commento alle due regole che governano l’esistenza umana – la necessità e il caso, al loro influenzarsi a vicenda e alla loro provenienza.

La pittura ci chiede come vedere ciò che l’occhio non è in grado di sopportare, così come non può sopportare lo sguardo mortale di Medusa. Perseo si protegge con il suo scudo e lo sguardo della Gorgone che vi si riflette, lauccide. Tuttavia, ciò che la uccide è davvero la sua stessa immagine vista nello specchio? …. o magari qualcosa di peggiore, forse il suo anonimato – perché cosa ci mostra uno specchio – solo un riflesso, la realtà più brutale. Per dipingere, bisogna uccidere ciò che è visibile, il proprio anonimato. Solo dopo il suo annientamento ci si può immergere nella sensualità visiva.

Nella sua raccolta di saggi “Profanazioni”, Giorgio Agamben ha scritto:

“Che cosa dobbiamo fare con le nostre immaginazioni? Amarle, crederci a tal punto da doverle distruggere, falsificare. Ma quando, alla fine, esse si rivelano vuote, inesaudite, quando mostrano il nulla di cui sono fatte, soltanto allora scontare il prezzo della loro verità, capire che Dulcinea — che abbiamo salvato — non può amarci”.

Che cos’è dunque la Polifonia? È l’immagine di un uomo, un Don Chisciotte dei giorni nostri che si trova alle Zattere a Venezia, ossia le Fondamenta degli Incurabili di Iosif Brodskij, sulla riva degli incurabili – perché mortali.

Italia alla Fiera Internazionale del Libro di Varsavia, attesa per l’intervento di Alessandro Barbero

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Il giorno 24 aprile nell’Ambasciata Italiana di Varsavia si è svolta la presentazione della Fiera Internazionale del Libro che si svolgerà dal 23 al 26 maggio 2024 al Palazzo della Cultura e della Scienza della capitale polacca, evento che richiamerà autori, scrittori, editori, traduttori oltre ad un vasto pubblico di appassionati di libri, di letteratura ma possiamo dire di cultura ampiamente intesa. L’ambasciatore d’Italia a Varsavia Luca Franchetti Pardo, ha espresso la sua felicità per il ruolo che quest’anno avrà l’Italia, sottolineando il prestigio di questa partecipazione da ospite d’onore. Franchetti Pardo ha poi spiegato il motto della partecipazione italiana: “Ci vuole un fiore”, frase tratta dall’album di Sergio Endrigo i cui testi sono stati scritti da Gianni Rodari, paragonando la letteratura italiana a un fiore che cambia e sviluppa nuovi valori, così come si sviluppa la letteratura italiana. I visitatori della Fiera potranno partecipare anche ai vari eventi programmati dall’Istituito Italiano di Cultura di Varsavia tra cui: il concerto “Italia FOLKSONGS” con Daniele di Bonaventura Band’Union & Pilar Patassini nel giorno di apertura, incontri e panel con circa 20 autori e autrici italiane e con la partecipazione di 12 case editrici. Fabio Troisi, direttore dell’Istituto, ha parlato del percorso della preparazione di programma italiano specificando cinque linee guida, ovvero: letteratura per l’infanzia; aspetti tecnici come la traduzione e l’edizione dedicati principalmente agli operatori; saggistica, con la presenza del grande storico Alessandro Barbero; narrativa; poesia.

Troisi ha poi sottolineato che, come dice il motto “Ci vuole un fiore” bisogna coltivare la cultura come si fa con un fiore che è organismo vivente come lo è la cultura che si rinnova e cresce. Tutto questo non sarebbe possibile senza l’organizzazione tecnica del padiglione italiano a cura dell’Italian Trade Agency che era rappresentata da Paolo Lemma, direttore di ICE Varsavia. Nel suo intervento Lemma ha citato numeri che dimostrano i profondi contatti commerciali tra Italia e Polonia: 33 miliardi di interscambio. L’evento e stato moderato dal direttore della Fiera Internazionale del Libro Jacek Oryl che ha annunciato la partecipazione di altri 13 paesi: Austria, China, Francia, Spania, Giappone, Corea del Sud, Germania, Norvegia, Romania, Slovacchia, Ucraina, Regno Unito e Bielorussia Libera. Inoltre ha menzionato che durante Fiera conosceremo i vincitori dei vari concorsi laterali come: Premio IKAR dalla Società Polacca degli Editori di Libri e della Fiera Internazionale del Libro Varsavia, del 64° Concorso per i Libri più Belli dell’anno 2024 del PTKW e del 15° Premio di Ryszard Kapuściński per i miglior reportage.

 

Programma completo della partecipazione italiana:

23 maggio 2024 

14:00-14:50 “Ci vuole un fiore” – Case editrici della letteratura per bambini con la partecipazione di Carla Gallucci e Gaia Stock da AIE (Associazione Italiana Editori), in una conversazione con Ewa Nicewicz – Sala Goethe

15:00-15:50 A proposito. Il viaggio tra storia e letteratura – incontro con Helena Janeczek – Sala Goethe

16:00-16:50  Sulla pietà. Pietro Luca Azzaro e Massimo Borghesi in una conversazione con Luciano Lana su Papa Giovanni Paolo II, Papa Francesco e sul rapporto della Chiesa con la comunità – Sala Goethe

17:00-17:50 Attorno ad un granello di sabbia. La poetessa e scrittrice Laura Pugna conversa con Małgorzata Ślarzyńska – Sala Goethe

24 maggio 2024

12:00-12:50 Con le vostre parole. Gioia e dolore del processo della crescita in un’intervista con lo scrittore e psicologo Luigi Ballerini. Conduce Natalia Mętrak-Ruda – Sala Goethe

13:00-13:50 Le statistiche del mercato editoriale italiano. Una presentazione completa dei generi del modo editoriale italiano con la partecipazione di Bruno Giancarlo – Sala Goethe

14:00-14:50 Nella foresta dove cantiamo. Il professore Alessandro Baldacci interviene sul suo variegato universo poetico in una conversazione con Julia Okołowicz-Szumowska – Sala Goethe

15:00-15:50 Dare voce alla pazzia. Nel centenario della nascita di Franco Basaglia, lo scrittore Stefano Redaelli interviene sul rapporto tra letteratura, follia e psichiatria – Sala Kisielewski

16:00-16:50 Passare al lato oscuro del potere. L’autore di thriller storici Matteo Strukul in una conversazione con Marek Zonch – Palco principale, tenda F, Plac Defilad davanti alla Kinoteka

25 maggio 2024

12:00-12:50 “Ad esempio, fare la guerra” Michele Marchitto ricorda Gianni Rodari e il linguaggio dei miracoli nei libri per bambini – Palco principale, tenda F, Plac Defilad davanti alla Kinoteka

13:00-13:50 Nella gioia e nel lavoro. Filosofi esplorano le idee antiche e attuali sul lavoro – Sala Kijów

14:00-14:50 Tradire e tradurre. Luigi Marinelli, Leonardo Massi e Mateusz Salwa in una conversazione sulla traduzione italo-polacca – Sala Kijów

15:00-15:50 Creare la storia. Il celebre storico Alessandro Barbero promuove una lezione di storia affascinante in una conversazione con Sebastiano Giorgi – Palco principale, tenda F, Plac Defilad davanti alla Kinoteka

17:00-17:50 Poesia e… Il poeta Davide Rondoni esplora il processo creativo della scrittura poetica. Estratti dell’opera dell’autore letti da Karolina Porcari – Sala Kisielewski

26 maggio 2024

12:00-12:50 Per creare un principe. I professori Alessandro Campi, Bogumiła Bielańska e Stefan Bielański ricordano “Il Principe” di Machiavelli e la sua eredità nel 500° anniversario della pubblicazione dell’opera – Palco Principale, tenda F, Plac Defilad davanti alla Kinoteka.

13:00-13:50 Nessuno e un’isola. L’autore Mattia Corrente presenta il suo ultimo libro “La fuga di Anna”, un’avventura “on the road” tra il passato e il presente, in una conversazione con Apolonia Filonik – Sala Goethe

14:00-14:50 All’estero, a Est. Perdere il paese. Federica Manzan dialoga con Raoul Bruni del suo ultimo libro “Alma” – Sala Goethe

15:00-15:50 “La vita desiderata brilla”. Il poeta Antonio Riccardi parla con Alessandro Baldacci sulla sua poesia e vita – Sala Goethe.

Vercelli, una città fra le risaie

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fot. Angelomalvasia, CC BY-SA 3.0

Una città che è una perla di storia e monumenti, situata tra le risaie ai piedi delle Alpi. Quando la nebbia copre i paesi e i campi circostanti sembra, soprattutto all’alba, una sorta di visione con le incombenti torri della Basilica di Sant‘Andrea e della Cattedrale di Sant‘Eusebio.

La città si trova sulla Via Francigena, quel pellegrinaggio che parte dal Nord della Francia e arriva a Roma. Una via tuttora percorsa dai viaggiatori contemporanei che camminano raccogliendo i timbri delle loro tappe. Il sentiero è curato dall’Associazione Internazionale Via Francigena fondata nel 1997 che si prende cura dei pellegrini e dei turisti.

Sulla strada per Vercelli i pellegrini possono ammirare le meravigliose e vaste aree di risaie che quando sono allagate dopo la semina, sembrano un vasto lago. Le spighe pesanti di grano ondeggiano leggermente al vento. Poi si scarica l’acqua, arrivano le mietitrebbie e inizia la raccolta del riso. La varietà più famosa e apprezzata è il riso Arborio, così diverso dal riso cinese. I chicchi grossi dopo la cottura si gonfiano magnificamente e sono perfetti per preparare la panissa vercellese. Questo piatto viene preparato in un pentolone con vino rosso Barbera e fagioli rossi. I residui bruciati sul fondo della pentola sono i più desiderati dai buongustai.

fot. Guido Come

La coltivazione del riso in Piemonte fu introdotta nel Medioevo dai monaci cistercensi di Borgogni. Le prime risaie furono quelle nei pressi dell’Abbazia di Lucedio, a 20 km da Vercelli, a nord del Monferrato. Inizialmente il riso veniva coltivato come medicinale in piccole aree. Fu solo sotto l’influenza dei lavori di ingegneria di Leonardo da Vinci alla corte di Lodovico Moro, nel XV secolo, che la produzione del riso cominciò a diffondersi in Italia. Questa attività è testimoniata dalle lettere del principe di Galeazzo Maria Sforza che dà il permesso di esportare 12 sacchi di riso. Lo sviluppo della produzione del riso ha acquisito slancio con la graduale introduzione delle macchine per la pulitura del riso. Lentamente anche le zone attorno a Cigliano, Tronzano e Santhià videro aumentare l’importanza di questo settore produttivo. I documenti di questo periodo menzionano che il riso veniva coltivato nei campi “intorno al Po e da San Germano sino alla Sesia”.

La coltivazione del riso, anche se talvolta incontra opposizione – come fu da parte del Principe di Savoia in quanto potenziale fonte di infezione malarica – attirò sempre più lavoratori, soprattutto dalle regioni montane che qui trovarono lavoro e condizioni di vita sempre più dignitose. Il riso non rappresentava per loro solo una fonte di reddito, ma anche, e forse soprattutto, nutriva loro e le loro famiglie.

Murales commemorativo del film “Riso amaro” nel comune piemontese di Legro / fot. Blusea2001, CC BY-SA 3.0

Una significativa accelerazione nello sviluppo della produzione è legata a Camillo Benso conte di Cavour.

Dapprima divenne il capo del Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna dal 1852 al 1861. E poi con la fondazione dello Stato italiano unificato, il Regno d’Italia nel 1861, Cavour assunse la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri. Cavour promosse molto la coltivazione del riso e non solo, ma anche quella del latte, dell’allevamento del bestiame nei propri poderi. Fu lui il padre dei canali che irrigano la pianura vercellese. A lui è stato intitolato il canale più esteso, costruito dopo la sua morte. Fu lui anche a fondare nel 1843 l’Associazione Agraria di Torino il cui compito era migliorare le condizioni di lavoro nelle risaie e le tecniche di coltivazione. I canali d’irrigazione venivano utilizzati anche per difendersi dagli attacchi austriaci durante la lotta per l’Unità d’Italia. L’ingegnere Carlo Noé sfruttando la rete di irrigazione delle risaie esistente, allagò gran parte del territorio, respingendo l’attacco delle truppe austriache e costringendole a spostarsi e ritirarsi fino a Torino. Cavour rimane un simbolo del lavoro e dell’intensa attività non solo per il Risorgimento, ma anche per lo sviluppo del Piemonte. Nella piazza centrale di Vercelli si trova un grande monumento dedicato al Conte di Cavour che guarda con occhio attento gli abitanti e i turisti in arrivo.

Sembra tenere d’occhio la Borsa del Riso più grande d’Europa con la sede a Vercelli. È qui che si effettuano le transazioni maggiori, il prezzo del riso aumenta e si decide il volume della coltivazione e della vendita.

Un elemento importante per lo sviluppo della coltivazione del riso in Piemonte furono le mondine – nome che deriva dal verbo mondare che significa togliere le erbacce – donne che venivano a lavorare nelle risaie da Venezia e da tutto il Veneto, ma anche dal Piemonte, dall’Emilia Romagna e dalla Lombardia. Nel momento di maggiore attività erano 300, provenienti anche dal Sud, dal salernitano in particolare. Provenivano da classi sociali modeste e lavoravano nelle fabbriche durante la bassa stagione. Arrivavano in gran numero nelle zone di Vercelli e Novara, nella Pianura Padana, in cerca di lavoro. In tempi in cui i raccolti non erano meccanizzati, ogni paio di mani era importante. Tuttavia, le loro condizioni di lavoro erano difficili, spesso lavoravano dall’alba al tramonto, dalle 10 alle 12 ore al giorno. Soprattutto nel periodo da maggio a luglio. Il loro lavoro consisteva nel sostituire nuove piante al posto di quelle malate e nell’eliminare le erbacce. Lavoravano tutto il giorno in acqua, cosa che le esponeva a malattie endemiche come la malaria e la tubercolosi. Le mondine vivevano in condizioni miserabili, spesso dormivano nelle fattorie o nei dormitori su letti di paglia e avevano poco tempo per riposare. Per questo motivo cercavano di rendere più piacevole il loro lavoro cantando in coro. Cantavano le loro preoccupazioni e le difficoltà del duro lavoro, ma il canto era anche un’espressione di ribellione contro lo sfruttamento cui erano sottoposte. Portavano un cappello di paglia che le proteggeva dal sole e dalle punture di zanzara. Il loro cibo consisteva in una manciata di riso e spesso in rane, di cui abbondavano le acque delle risaie e che preparavano per il pasto serale. Le rane sono ancora oggi un piatto servito nei ristoranti di Vercelli e dintorni.

Il loro destino fu raccontato nel film Il Riso Amaro del 1949 con Silvana Mangano e Vittorio Gassman, diretto da Giuseppe de Santis. Un film, considerato un’opera di punta del neorealismo italiano, che combina gli elementi commerciali con l’osservazione quotidiana della vita. Presenta la vita reale con una storia romantica sullo sfondo.

Vale sicuramente la pena visitare questa regione così poco conosciuta dai turisti, ma ricca di tradizione e storia. Una pianura con alle spalle le Alpi.

23a EDIZIONE DI EXPOSANITÀ a Bologna all’insegna del motto “Ci sta a cuore chi cura”

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La 23a edizione di EXPOSANITÀ, la fiera bolognese del settore sanitario, si terrà dal 17 al 19 aprile in concomitanza con Cosmofarma (dal 19 al 21 aprile). L’edizione precedente ha riunito più di 500 espositori e 45.000 visitatori. L’organizzatore ha inoltre organizzato più di 200 conferenze e incontri.

La campagna di comunicazione che accompagnerà Exposanità 2024 mette al centro l’attenzione dovuta a coloro che curano e al ruolo fondamentale che ricoprono. Exposanità intende fare per la prossima edizione: supportare i professionisti nella ricerca di nuove soluzioni, nuove competenze e nuovi entusiasmi per riprendere a crescere.

Appuntamento a Exposanità, dal 17 al 19 aprile 2024, a BolognaFiere.

Il motto dell’edizione di quest’anno – “Ci sta a cuore chi cura” – riflette l’impegno per la sanità italiana che caratterizza la manifestazione da oltre 40 anni. Questo slogan riflette anche il senso di urgenza di tutelare chi lavora nella sanità italiana: i suoi professionisti. La fiera prevede una serie di incontri sulla riforma sanitaria, sul rafforzamento delle reti assistenziali, sul processo di digitalizzazione e sull’innovazione tecnologica.

In occasione della conferenza stampa di presentazione della fiera, Antonio Bruzzone, Amministratore Delegato del Gruppo BolognaFiere, ha dichiarato:

– Cosmofarma ed Exposanità sono manifestazioni molto importanti per il Gruppo BolognaFiere e possiamo affermare con certezza di essere il leader nazionale delle manifestazioni fieristiche dedicate al mondo della sanità integrale. Il settore dei dispositivi medici, dei prodotti e delle tecnologie al servizio degli ospedali, delle RSA e dell’assistenza domiciliare continua a crescere perché, dopo la pandemia, abbiamo ben compreso quanto sia importante e prezioso non solo per la prevenzione ma anche per il sostegno alle persone fragili, anziane e disabili. Per questo voglio ringraziare le oltre 75 associazioni di categoria che fanno della manifestazione biennale Exposanità un riferimento nazionale e internazionale.

Ha quindi preso la parola Andrea Fortuna, Partner PwC Italia, Healthcare Pharmaceuticals & Life Sciences Leader, che ha presentato una sintesi dei risultati dell’indagine Hopes and Fears Global Workforce condotta da PwC per analizzare le opinioni di quasi 54.000 professionisti in 46 Paesi:

Di questi, più di 5.000 professionisti del settore sanitario sembrano avvertire una maggiore pressione in quanto sottoposti a carichi di lavoro più elevati, un fenomeno attribuito principalmente alla mancanza di risorse. Sorprendentemente, i professionisti del settore, soprattutto gli italiani, sono meno preparati ad affrontare le innovazioni tecnologiche e il loro impatto sul lavoro. Emerge la necessità di nuove competenze tecniche, anche se le soft skills sono considerate più rilevanti per il loro sviluppo professionale. L’indagine mostra che per rispondere alle mutate esigenze del settore sanitario è necessario investire nel capitale umano, in particolare nelle competenze tecnologiche e digitali.

Tra gli oltre 520 espositori ci saranno anche Comarch Italia, con la sua tecnologia a supporto della telemedicina. Tra i rappresentanti polacchi presenti alla fiera biennale EXPOSANITÀ ci sarà ANTAR, noto produttore e distributore di apparecchiature mediche sul mercato polacco. L’offerta dell’azienda comprende stabilizzatori, ortesi, cinture lombari, cuscini ortopedici, deambulatori, balconi, sedie a rotelle.

Andiamo alla fiera di Bologna con la convinzione che i nostri prodotti siano molto competitivi, sia in termini di qualità che di prezzi. Questa fiera ci permetterà di incontrare i nostri partner attuali, ma naturalmente contiamo di conquistare altri mercati esteri” –  ha detto Iga Czyżakowska, export manager di ANTAR, due giorni prima della fiera.

L’offerta dell’azienda, che partecipa per la prima volta alla fiera di Bologna, comprende anche prodotti della linea BIANCO e ROSSO. Si tratta di una serie di prodotti moderni di produzione polacca.

Il nostro vantaggio rispetto ai concorrenti è sicuramente la qualità dei prodotti, il loro design moderno, l’ampiezza della gamma, ma anche l’esperienza nel lavoro sui mercati nazionali ed esteri. Una risorsa molto importante è rappresentata dai molti anni di lavoro in un ambiente internazionale. Oltre alla vasta gamma di prodotti venduti con il marchio ANTAR, la nostra azienda è anche importatrice esclusiva di prodotti di produttori di fama mondiale, come l’azienda americana OPPO Medical Corp. (stabilizzatori medici) e Karma (sedie a rotelle) –  ha aggiunto il titolare dell’azienda, Andrzej Tarnkowski.

Appuntamento a Exposanità, dal 17 al 19 aprile 2024, a BolognaFiere. ANTAR invita gli interessati allo stand C45 del padiglione 21.

L’Emilia Romagna punta sul mercato polacco, il secondo per presenze nella regione

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10 aprile mattina, nella sede dell’Ambasciata d’Italia a Varsavia si è svolta la conferenza stampa di presentazione della straordinaria, variegata, offerta turistica dell’Emilia Romagna che nel 2023 ha aumentato del 30% le presenze turistiche. “È una regione meravigliosa che unisce la bellezza naturale a quella artistica e architettonica, così come i sapori dei prodotti e dell’eccezionale cucina insieme al grande sapere scientifico che fa sì che in Emilia Romagna vengano prodotte macchine e moto invidiate in tutto il mondo”, ha dichiarato l’Ambasciatore Luca Franchetti Pardo. Poi Piero Cannas, presidente della Camera di Commercio Italiana, ha sottolineato l’importanza per lo sviluppo del turismo dei collegamenti aerei, e l’auspicio di creare una più stretta relazione con le compagnie aeree low cost.

Presente alla conferenza stampa anche il grande ciclista e già commissario tecnico della nazionale italiana ciclismo Davide Cassani che è presidente dell’APT dell’Emilia Romagna. Cassani, nel sottolineare la grande importanza degli eventi sportivi nella regione, ha presentato le tappe di apertura del Tour de France che si svolgeranno tra Firenze, Rimini, Bologna, Piacenza, Torino, manifestazione che per la prima volta partirà dall’Italia il 29 giugno.

L’attenzione dell’Emila Romagna per la Polonia è data dal fatto che nel 2023 il mercato turistico polacco è stato il secondo dopo quello tedesco. Nella conferenza stampa, organizzata da Apt Servizi Emilia-Romagna, presente anche l’Assessore Regionale al Turismo Andrea Corsini che ha illustrato le novità della vacanza 2024 nella regione di fronte a una platea di giornalisti delle principali testate nazionali e tour operator.

“Il mercato polacco si sta rivelando promettente per il nostro turismo – sottolinea l’assessore Regionale al Turismo Andrea Corsini – come confermano anche i dati relativi al 2023 che indicano un incremento del +28,8% nelle presenze e +32% degli arrivi dalla Polonia rispetto all’anno precedente”. Tra gli intervenuti Agata Lang, figlia di Czesław Lang, ciclista e presidente del Tour de Pologne che ha donato all’Ambasciatore Luca Franchetti Pardo e a Davide Cassani una maglia del leader del Tour de Pologne.

A seguire c’è stata una degustazione enogastronomica con prodotti tipici regionali, in collaborazione con l’Assessorato all’Agricoltura e ai vari Consorzi: Consorzio Tutela Aceto Balsamico Igp di Modena, Consorzio del Prosciutto di Parma Dop, Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano Dop, Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola Igp.

Gazzetta Italia 104 (aprile-maggio 2024)

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Il numero 104 di Gazzetta Italia celebra, fin dalla copertina, l’Italia ospite d’onore alla Fiera Internazionale del Libro di Varsavia, un evento imperdibile che dal 23 al 26 maggio porterà in Polonia uno spaccato di rilievo della letteratura italiana. Del numero 104 segnaliamo innanzitutto la bella intervista al famoso giornalista-scrittore Bartek Kieżun – “Krakowsko-Włoski Makaroniarz”, viaggiatore, fotografo ed esperto di cucina mediterranea; poi lo splendido approfondimento per cinefili, ma non solo, dal titolo “La ciociara, l’ultimo film neorealista”; poi ancora articoli di viaggio sulla Sicilia araba e su Ravenna. Interessanti anche i numerosi articoli di arte e storia tra cui quello sulla battaglia di Montecassino di cui quest’anno si festeggia l’80° anniversario. Naturalmente troverete tutte le nostre rubriche di cucina, motori, salute, lingua, musica, moda, comics. Insomma se amate le relazioni italo-polacche precipitatevi (in alcuni Empik la esauriscono presto) a prendere la vostra copia di Gazzetta Italia!

Turisti o viaggiatori?

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In un qualche giorno del lontano gennaio del 1996 presi un treno dall’enclave cattolica di Goa. Colonia portoghese fino al 1961 e poi negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso meta cult dei viaggiatori europei alternativi, Goa è un piccolo stato indiano dalle bellissime spiagge che si affacciano dolcemente sul Mar Arabico. 

Proprio in quei giorni Bombay, nome portoghese che significa “buona baia”, stava diventando Mumbai, scelta politica per allontanare ulteriormente il retaggio coloniale. Il viaggio in treno, con quattro classi di posti, che mi portava da Goa a Mumbai durò 22 ore, oggi ne dura 11 e 10 minuti.

Alla ventesima ora, esaurita ogni lettura, cartacea ovviamente, ma anche ogni più recondito slancio di scrittura sul taccuino nero Moleskine e consumata perfino la mia instancabile curiosità applicata sia nel guardare i paesaggi che scorrevano lenti fuori dal finestrino, sia nell’analizzare sociologicamente l’incessante mutare della fauna che viaggiava con me, entra nel mio scompartimento un ragazzo magrissimo, con una tunica bianca ed una valigetta. Mi si siede di fronte, nonostante ci sia il posto libero lasciato dalla molto più interessante giovane coppia di Sikh che avevo avuto come compagni di viaggio per le precedenti 20 ore. Lui alto e forte con un bellissimo turbante dalle calde tonalità gialle e rosse, con cui avvolgeva un misto di capelli e peli che secondo il sikhismo non vanno tagliati ma accettati quale espressione della volontà del Creatore. Lei una giovane, affascinante, madre dagli occhi blu che alternava l’allattamento al seno del pargolo ad affettuosi gesti di dolcezza verso il marito che ricambiava. Una visione che era un tale mix di bellezza estetica e forza della natura che l’avrei potuta seguire in loop per altre 20 ore.

Il ragazzo incurante della mia palese, ruvida, indifferenza, in parte giustificata dalla stanchezza, vuole a tutti i costi familiarizzare snocciolando una sequenza infinita di domande che mostrano uno spiccato interesse materiale nei miei confronti. Per capirci mi chiede anche quanto guadagno, oltre a quanti figli ho, quante stanze ha la mia casa ed altre amenità quantitative che mi fanno riflettere sui certi banali discorsi europei sulla spiritualità indiana. Di tanti paesi visitati sicuramente l’India mi è parso quello più materico.

La faccio breve. Mentre il treno lentamente scivola fino a fermarsi sui binari dell’imponente stazione Chhatrapati Shivaji, un tempo Victoria Terminus, diventata nel 2004 patrimonio dell’Unesco, tiro fuori la Lonely Planet, Bibbia dei viaggiatori pre-internet, dove ho già segnato sulla mappa alcuni alberghetti economici. Gesto che per il mio pedante compagno di viaggio è un invito a nozze, così attacca: “Ti porto nell’albergo di un amico?”

“No!”

“Magari ti consiglio tra quelli della guida?”

“No!”

Il ragazzo non si perde d’animo e quando il treno si ferma completamente prende il mio zaino sorridente: “Te lo porto io”.

“Assolutamente no!” ribatto caricandomelo in spalla e cercando a passo veloce di seminarlo prima nel corridoio del vagone e poi in stazione.

Uscito sul piazzale cerco un taxi, il ragazzo mi precede ne ferma uno e mi dice eccolo qui.

“No! Me lo trovo io!”, ribatto con tutta l’esperienza che si accumula viaggiando soli, per settimane, in India dove spesso i consigli ricevuti su alberghi, ristoranti, negozi sono interessati. Chi porta un cliente ottiene una mancia.

Trovato il taxi mi volto e lo saluto bruscamente, lui con sguardo triste chiede:

“Potrei almeno salire in taxi con te e poi io proseguo?”

Uno slancio di empatia inavvertitamente squarcia la mia corazza umorale sviluppatasi tra stanchezza di viaggio e di relazioni: “va bene”.

Do le indicazioni al taxi. Quando arriviamo sotto l’alberghetto lo saluto in macchina tarpando il suo slancio nel volermi accompagnare in albergo per, secondo lui, aiutarmi a trattare sul prezzo.

“Ma ci possiamo vedere più tardi?”

La domanda mi coglie di sorpresa, in pochi secondi realizzo che ho una fame bestiale accumulata in 22 ore di insufficienti spuntini.

“Ci vediamo lì tra un’ora”, indico con la mano un negozietto di cianfrusaglie.

“Bene a dopo!”, risponde felice il ragazzo tunicato.

Fatta la doccia, riprese un po’ di forze, scendo 15 minuti prima dell’appuntamento e mi piazzo all’angolo della strada da dove posso seguire l’arrivo del ragazzo senza essere visto. Può sembrare una eccessiva precauzione ma – come raccontato nell’ottimo serial “The Serpent” basato sui crimini di Charles Sobhraj a danno di sprovveduti viaggiatori – in questi casi è meglio tenere la situazione sotto controllo e assicurarsi che il ragazzo sia solo.

Scelgo il primo ristorante che trovo, ovviamente è vegetariano. A tavola il ragazzo, che ordina solo un the, continua per tutta la cena a parlare tra domande – cui non rispondo perché intento a rimpinzarmi di cibi buonissimi, piccantissimi e coloratissimi – e racconti, che ascolto distrattamente, sulla sua famiglia.

Finalmente satollo gli dico: “grazie della compagnia ma ora sono stanco davvero e torno in albergo”, lui sorride felice, ci scambiamo i contatti e chiedo il conto al cameriere che risponde: “ha già pagato il suo amico”.

“In che senso?”

“Per me è un gran piacere parlare e imparare cose da un occidentale”.

“Ma scusa tu non hai mangiato nulla! No, no lascia che ti dia i soldi della cena.”

“No assolutamente, faccio parte di quelli che qui chiamiamo bramini, siamo il vertice della società indiana e per noi è importante imparare dagli stranieri”.

Sono basito e travolto dal senso di colpa per aver mangiato come un leone a spese di questo ragazzo, dalla vergogna per averlo trattato prima con ruvida freddezza e poi con distaccata superiorità e dal pensiero d’esser stato un pessimo esempio di straniero da cui non c’era nulla da imparare. Il mio pregiudizio era sbagliato, ho ricevuto una lezione di vita che oggi, 28 anni dopo, sento ancora con bruciante attualità.

Questo è uno degli aneddoti vissuti in anni di viaggi in solitaria, partendo con biglietto d’aereo con ritorno aperto, uno zaino, con sacco a pelo per le emergenze, un Moleskine e la Lonely Planet. Ritagliando dalla quotidianità almeno un paio di settimane, possibilmente un mese, per scoprire paesi e culture che visitavo e visito immaginando ogni volta come sarebbe viverci, provando la cucina locale, rifuggendo proposte culinarie globali e aprendomi a nuove amicizie verso i locali o gli altri viaggiatori. Una filosofia di viaggio che si fonda sul desiderio di imparare per tornare arricchiti non solo di oggetti esotici ma, soprattutto, di esperienze e ricordi che rimangono indelebili.

Spesso durante il viaggio regalo le magliette che mi porto da casa per far posto ai nuovi acquisti – tovaglie guatemalteche, sciarpe di cachemire nepalesi, elefantini ferma libri indiani, braccialetti masai – con il piacere di pensare che quei miei indumenti chissà per quanto vengono poi usati da qualcuno sul lago Titicaca o sull’isola di Sulawesi.

Non sempre si ha la fortuna di avere il tempo e le risorse per viaggiare a lungo in paesi lontani, si ha però sempre – anche passando un weekend in qualche città europea, tornando in un luogo già visto, o perfino visitando un posto a due passi da casa – la possibilità di scegliere che tipo di approccio vogliamo avere verso il mondo.

Quando girando per la mia città, Venezia – cui non mancano certo le attrazioni culturali e gastronomiche – vedo turisti (non viaggiatori) sostare per più di mezz’ora per prendere due palline di gelato in una determinata gelateria mi chiedo quale sia la loro scala di priorità visto che spesso hanno solo un giorno (!) per visitare Venezia.

Lo so, lo so, nell’era internet tutti guardano prima online i luoghi dove andranno e leggono le recensioni di locali, alberghi, negozi. Ma proprio per questo perché non evitare i luoghi “must”? Perché invece di accodarsi alla massa non distinguersi scoprendo qualcosa di nuovo? Avendo così poi ricordi inediti da raccontare? E se si ha poco tempo è mai possibile sprecarlo in coda di qualche locale consigliato da chissà quale sedicente esperto invece di sfruttare ogni minuto per fare esperienze autentiche? Le buone gelaterie non mancano in Italia, manca invece il tempo per vedere l’infinità di bellezze che il paese offre.

Per secoli le famiglie benestanti mandarono i loro figli a fare il Grand Tour in Italia, e in altri paesi europei, quale forma di investimento culturale e sociale. L’esperienza di viaggio era elemento educativo essenziale per la crescita individuale. Il fatto che oggi possiamo muoverci più facilmente e vedere virtualmente online il mondo non deve farci perdere il senso ed il piacere del viaggiare, né tantomeno l’individualità della nostra esperienza, che se non è personale e vera non è esperienza ma semplice replica d’esperienza altrui.

Il significato della parola esperienza: conoscenza pratica della vita o di una determinata sfera della realtà, acquistata con il tempo e l’esercizio; ci dà le coordinate su cui allineare il nostro viaggio: tempo ed esercizio pratico.

Prima di quel viaggio in India, come d’abitudine, avevo letto un po’ su quell’enorme incredibile paese e praticamente studiato la Lonely Planet. Ma non sono mai partito per un viaggio per trovare quello che avevo immaginato seduto sul divano di casa. Se il viaggio non ci sorprende e non ci arricchisce, cambiandoci, non è un viaggio. Se si parte per avere la conferma del nostro pregiudizio, ovvero di quello che si crede di sapere su un paese, non si è viaggiatori ma turisti che seguono percorsi confortevoli quanto banali.

Nell’anno delle celebrazioni di Marco Polo lasciatemi dire che rischiare d’essere turisti invece che viaggiatori è ancora più grave!

Giacomo Casanova. I Piombi e la fuga

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Avevamo lasciato Giacomo Casanova in una calda giornata di luglio del 1755 con la porta del camerotto dei Piombi che pesantemente si richiudeva alle sue spalle, l’inizio di una detenzione che sarebbe stata costellata di episodi e personaggi curiosi da lui descritti magistralmente nella sua “l’Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu’on appelle les Plombs”, tramandato oralmente nei salotti di tutta Europa e pubblicato solamente nel 1788 a Lipsia, ben trentadue anni dopo la sua fuga.

I Piombi non sono i Pozzi con celle umide, fredde d’inverno e asfissianti d’estate, ricavate al livello del rio di Palazzo sormontato da quel ponte dei Sospiri che nulla ha a che fare con gli innamorati come molti credono visto che i sospiri erano quelli dei carcerati che attraverso la sua finestrella vedevano per l’ultima volta la luce del sole, ai Piombi i reclusi avevano la possibilità di portarsi sia parte del mobilio che molti effetti personali ed erano ricavati nel sottotetto di Palazzo Ducale dalle cui lastre, appunto di piombo, prendevano il nome.

Giacomo Casanova adesso è solo, in attesa di processo, senza sapere quanto dovrà rimanere ai Piombi e affidato alle cure del suo carceriere, Lorenzo Basadonna, che deve provvedere sia alla sorveglianza che alle necessità del recluso ma la reciproca antipatia fa in modo che il rapporto non parta sotto i migliori auspici.

Nell’iter giudiziario e detentivo di Casanova emerge subito un’incongruenza abbastanza macroscopica ovvero il fatto che non esiste traccia del processo che porta alla sentenza del 21 agosto 1755: “Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. (riferito ai tre Inquisitori di stato) lo fecero arrestare e passar sotto li piombi”.

Rinaldo Fulin, scrittore ottocentesco, sostiene che le carte del processo a Giacomo Casanova furono perse durante la dominazione austriaca per un temporaneo spostamento degli archivi ma viene smentito dal fatto che tutte le riferte (verbali di sorveglianza degli Inquisitori ndr) sono tuttora presenti in archivio di Stato, sono infatti in molti a pensare che il processo non venne mai celebrato per evitare di scomodare molti membri di famiglie patrizie in vista quali i Memmo, i Morosini ed altre oltre ad alcuni dignitari esteri allora residenti a Venezia.

Anche le relazioni amorose con due monache sarebbero state abbastanza difficili da giustificare oltre all’appartenenza alla setta massonica dei “Liberi Muratori”, cosa alquanto mal vista dalle istituzioni della Repubblica di Venezia.

In sintesi si parla di “riflessibili colpe” e di  “disprezzo pubblico della Santa Religione”, entrambi capi d’accusa troppo generici per giustificare l’intervento degli Inquisitori dì Stato come magistratura, tanto che sono in molti tra i commentatori a pensare che i motivi fossero altri, in primis la scandalosa liaison con la monaca M.M. e la frequentazione contemporanea di dignitari esteri e di membri del patriziato veneziano, la Repubblica infatti proibiva ai patrizi la frequentazione di residenti esteri per la paura che venissero divulgati segreti di Stato.

La cella è scomoda, dotata solo di una mensola e di un bugliolo (secchio ndr) per i bisogni corporali, il caldo di luglio è opprimente, il libertino chiederà di avere alcuni mobili ed alcuni effetti personali che gli verranno accordati eccetto il rasoio che non era consentito, Matteo Zuanne Bragadin provvede a fargli avere danaro e si informa costantemente delle sue condizioni di salute.

Durante la detenzione, oltre al carceriere Basadonna, Casanova verrà in contatto con altri personaggi tra i quali lo strano barbiere Soradaci, il conte Asquini di Udine e quel Marin Balbi, monasco Somasco che nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre 1756 sarà il suo ingombrante compagno di fuga e complice nell’attuazione del piano.

Il primo tentativo viene scoperto e Giacomo Casanova viene trasferito di cella passando da una che si affacciava sul cortile di Palazzo Ducale ad una affacciata a levante sul Bacino di San Marco, più ampia e luminosa, dalla cui finestrella si poteva vedere il Lido e una piccola parte di Venezia.

Il fallimento non fa desistere Giacomo Casanova che assieme a Marin Balbi continua nel tentativo di fuga che vede il successo nella notte di Ognissanti.

La data della fuga non è casuale ma il risultato di una strana, quanto opportuna, interrogazione cabalistica dell’anima di Ludovico Ariosto che gli risponde con tre numeri: 9-7-1.

Il perspicace, e furbo, libertino interpreta i tre numeri come il primo verso della settima strofa del nono canto de “L’Orlando furioso” che recita esattamente “Tra il fin d’ottobre ed il capo di novembre”

Una fuga rocambolesca attraverso le stanze di Palazzo Ducale fatta di porte forzate con attrezzi di fortuna fino ad imboccare la Scala d’Oro la cui porta però risulta chiusa e difficilmente forzabile ma quando tutto sembrava perduto uno dei custodi, un certo Andreoli, li nota e pensando di che fossero rimasti chiusi all’interno per errore apre l’ultima cancellata che divideva il libertino ed il monaco dal mondo libero.

I due, felici ed increduli, percorrono velocemente la Scala dei Giganti e guadagnano la libertà attraverso la Porta della Carta, attraversano di gran carriera la piazzetta e passando vicini alle colonne di Marco e Todaro arrivando all’imbarco del Traghetto della Zecca ai cui gondolieri Casanova chiede di essere portato a Fusina ma alla fine del Canal de la Giudecca chiede di cambiare destinazione e di essere portato a Mestre, forse per depistare eventuali inseguitori.

Sono stati in molti a mettere in dubbio la veridicità del racconto di Giacomo Casanova, il primo a farlo fu Francesco Zanotto, dando apertamente del bugiardo al libertino, seguito da Ugo Foscolo che definì la fuga “Romanzo né più, né meno” ma verranno entrambi categoricamente smentiti da prove inconfutabili tra le quali le ricevute dei lavori necessari alla riparazione della cella i cui danni corrispondono esattamente al racconto fatto dal libertino.

E mentre sono in molti a chiedersi come sia riuscito a fuggire Giacomo Casanova dai Piombi il libertino a bordo della gondola che lo porta verso Mestre in una fredda alba veneziana di novembre scoppia in un pianto dirotto “elevando l’anima a Dio”.