Negli ultimi giorni in Polonia si sono registrati ancora numeri record per nuovi casi di COVID-19.
Il numero complessivo dei malati attivi è salito a 282.156,di cui in gravi condizioni 1.615,ovvero circa l’1% del totale. Gli ultimi dati mostrano 27.143 nuovi contagi, con 367 morti.
Il Voivodato della Grande Polonia (3.888), la Slesia (3.850), la Masovia (2.932), la Bassa Slesia (2.451) e la Piccola Polonia (2.342), sono i Voivodati maggiormente interessati dai nuovi casi.
I numeri dell’epidemia destano preoccupazione vista la pressione in salita sulle strutture sanitarie polacche, la crescita dei casi ed il numero di posti letto disponibili. Attualmente sono stati predisposti 28.010 posti letto per pazienti COVID-19, di cui occupati 19.114, mentre le terapie intensive con respiratori sono 2.144, di cui occupate 1.615. Continua il lavoro nei nuovi ospedali provvisori per poter garantire ad ogni malato le cure necessarie.
Tutto il territorio polacco è zona rossa con chiusura di bar, ristoranti, palestre, cinema, tatari, centri commerciali, con alcune eccezioni e la presenza di diverse restrizioni sul numero di persone consentite e l’esercizio degli hotel. Bar e ristoranti possono effettuare il solo servizio di asporto.
Si raccomanda di limitare gli spostamenti e monitorare i dati epidemiologici nel caso di viaggi programmati da e verso la Polonia, per il rischio di possibili nuove restrizioni sui voli e gli spostamenti.
Il 5 novembre 1985 il professor Zbigniew Religa ha eseguito il primo trapianto cardiaco di successo in Polonia. La sua foto più celebre è stata scattata da James L. Stanfield tra il 4 e il 5 agosto 1987 al Centro cardiologico slesiano di Zabrze ed è stata scelta da National Geographic come miglior foto dell’anno. In essa appare un paziente che, dopo il trapianto eseguito dal prof. Religa, è vissuto fino a 91 anni. Religa è stato due volte ministro della salute (2005-2007). È morto a Varsavia l’8 marzo 2009. La sua biografia professionale è stata raccontata nel 2014 dal film “Bogowie” di Łukasz Palkowski. Nella pellicola, che ha vinto il Leone d’Oro al 39mo Festival di Gdynia come migliore film polacco, il ruolo dell’illustre chirurgo è interpretato con grande bravura da Tomasz Kot.
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La Commissione europea esamina il caso dei pazienti del dottore Włodzimierz Bodnar nella città di Przemyśl. Il dottore ha usato un farmaco antivirale, registrato tanto tempo fa, per curare i suoi pazienti malati di coronavirus e dice che grazie al farmaco li ha guariti. Si tratta dell’amantadina, un farmaco usato per prevenire alcuni tipi di influenza. Finora la medicina non è stata raccomandata per curare il Covid-19, le analisi sulla sua efficacia erano state condotte in Messico con pochi pazienti. Il dottor Bodnar ha 59 anni, lavora in un ambulatorio di Przemyśl ed è specializzato nelle malattie polmonari e nella pediatria. Una settimana fa ha descritto che aveva cominciato a trattare i pazienti con un farmaco che si chiama Viregyt K e contiene l’amantadina. Aveva provato ad incuriosire il Ministero della Salute, ma visto che non hanno reagito, ha pubblicato la sua ricerca sul suo sito web con il titolo “Si può curare il Covid-19 in 48 ore”. La pubblicazione ha sconvolto i medici che dicevano che l’amantadina era un farmaco antiquato che non sarebbe mai in grado di curare il coronavirus. Il farmaco è diventato uno dei prodotti più ricercati nelle farmacie polacche, anche se i farmacisti avvertono di non prenderlo senza una consultazione medica, visto che i suoi effetti collaterali sono molto pericolosi. Il dottor Bodnar ha dovuto smettere di curare i pazienti con il farmaco perché l’amantadina non è ufficialmente un metodo del trattamento del Covid-19. “Nonostante questo io continuerò a curare con il farmaco i 60 pazienti che hanno già cominciato a prenderlo. Loro guariscono molto presto, non posso lasciarli da soli. Ma visto che c’è un procedimento disciplinare aperto nei miei confronti, posso perdere la mia licenza medica se uno dei pazienti soffrirà di qualsiasi complicazione. Ho fatto tutto questo con la convinzione di usare una medicina che non è ancora ufficialmente usata per curare il Covid-19 ma che può salvare la vita e la salute della gente”, ha detto il dottor Bodnar.
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Con la seconda ondata della pandemia del coronavirus nell’Europa tanti paesi hanno ripristinato le limitazioni per le persone che attraversano loro confini. Chi va in Gran Bretagna dalla Polonia è obbligato a sottoporsi alla quarantena di 14 giorni e deve preventivamente compilare un modulo comunicando dove risiede. In Irlanda invece, la quarantena non è obbligatoria però il modulo c’è. Per i polacchi che entrano in Olanda la quarantena di 10 giorni è obbligatoria anche se risultano negativi al coronavirus. I viaggiatori aerei devono in anticipo fornire le informazioni sulla salute. In Belgio questa regolamentazione si riferisce anche alle persone che attraversano la confine per via terrestre. Oltre alla quarantena i passeggeri devono sottoporsi ad un test. La Germania riconosce la Polonia come una zona di rischio però ogni land ha una propria regolamentazione d’ingresso. Sono esenti dalla quarantena le persone che forniscono il risultato negativo del test di covid. Le frontiere di Francia, Spagna e Italia restano aperte per i polacchi ma bisogna compilare una dichiarazione relativa allo stato di salute. Si può senza problemi andare in Lussemburgo e Portogallo però le isole portoghesi nell’Atlantico richiedono il risultato negativo del test da coronavirus. La Grecia ha classificato la Polonia come una zona di rischio perciò i polacchi devono presentare un documento in inglese del risultato negativo del test effettuato al massimo 72 ore prima di venirci. Una dichiarazione sulla salute e sul luogo in cui si va a risiedere vengono richieste in Malta. Chi entra in Slovenia dalla Polonia deve fornire un risultato negativo o sottoporsi alla quarantena di 10 giorni. L’arrivo in Ungheria è vietato con qualche eccezione. Dal punto di vista epidemico la Polonia è riconosciuta dall’Austria come un paese sicuro quindi si può viaggiarci liberamente a condizione che non si sia stati nelle zone di rischio entro gli ultimi 10 giorni. Non ci sono delle restrizioni per i turisti nella Cechia però quasi tutti alberghi sono chiusi. Le persone che entrano in Slovacchia devono avere un documento che conferma risultato negativo del test incluse le persone che viaggiano in transito. Nella Lituania la quarantena è obbligatoria tranne i casi nei quali un turista fornisce un risultato negativo del test. L’Unione Europea ha lanciato un sito reopen.europa.com su cui si possono trovare le informazioni attuali sulle limitazioni dei viaggi.
Ferzan Özpetek, Kasia Smutniak - Biennale di Venezia, fot. Andrea Pattaro/Vision
“La dea fortuna” il nuovo film di Ferzan Özpetek, regista di origini turche ma ormai da anni italianizzato e residente a Roma, a luglio approda nelle sale cinematografiche polacche grazie al distributore Aurora Films. La pellicola ha avuto l’anteprima al Festival Wiosna Filmów che quest’anno, a causa della pandemia, si è svolto interamente online. Il film racconta una storia intensa e sincera e ci riporta nell’atmosfera dei vecchi film del regista quali “Le fate ignoranti” o “La finestra di fronte”.
Il film racconta la storia di Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo), una coppia in crisi la cui stanca routine viene all’improvviso travolta dall’arrivo dei due bambini: Martina (Sara Ciocca) e Sandro (Edoardo Brandi) che Annamaria (Jasmine Trinca), la migliore amica di Alessandro, lascia loro in custodia per qualche giorno.
È un film pieno di emozioni che sembrano guidare i personaggi nelle loro scelte, com’è nata l’idea di “La dea fortuna”?
Circa due anni fa mio fratello si era ammalato di cancro, si sapeva che le sue condizioni erano gravi. In un momento del genere ipotizzi diversi scenari. Visto che lui e mia cognata hanno due gemelli, ad un certo punto lei mi aveva chiamato per farmi promettere di prendere cura dei bambini nel caso in cui fosse successo qualcosa anche a lei. Gliel’avevo promesso ma subito dopo aver riattaccato il telefono ho cominciato ad avere dei dubbi. Mi sono chiesto come i bambini si sarebbero trovati con me e il mio compagno Simone. Stiamo insieme ormai da diciotto anni, abbiamo le nostre abitudini, la nostra casa è sempre piena di amici e di confusione. I bambini avrebbero messo la nostra quotidianità sottosopra. Non ero sicuro di essere pronto a una rivoluzione del genere. Quindi da una parte mi erano venuti mille dubbi dall’altra invece avevo subito pensato che questa storia avrebbe potuto essere un buon film e così, insieme al co-sceneggiatore Gianni Romoli, ci siamo messi a scrivere una sceneggiatura.
Nel momento dell’ideazione della storia aveva già in mente le location? Mi interessa soprattutto il Santuario della Fortuna Primigenia che in qualche modo lega tutta la storia.
La sceneggiatura e le location sono nate insieme. Simone è di Palestrina, vicino a Roma, dove si trova il Santuario della Fortuna Primigenia, il complesso sacro dedicato alla Dea Fortuna della città di Praeneste, che mi ha sempre attratto. Il santuario fu costruito verso il II secolo a.C. ed era molto famoso nell’antichità poiché vi si poteva consultare l’oracolo per farsi predire il futuro o interrogarlo su una questione importante. Leggendo le sorti, piccoli oggetti in legno di ulivo, il fedele riceveva il responso. Quindi la fortuna intesa come un momento giusto che ti possa portare delle cose che non si misurano con denaro. La storia e la filosofia di quel posto mi hanno affascinato molto ed ho subito pensato che sarebbe stato il titolo perfetto del film.
E le altre location invece che sono sempre molto suggestive?
Con “La dea fortuna” volevo richiamare la stessa atmosfera de “Le fati ignoranti” che è ambientato nel quartiere dove abito ora. Dopo il successo del film il quartiere è diventato un posto di moda con locali eleganti e dove gli attori comprano le case. L’atmosfera è cambiata molto ed è sparito quel sapore che io avevo raccontato. Ho detto quindi a Giulia Busnengo, la mia scenografa che ha collaborato anche con Sorrentino, di trovarmi un quartiere popolare ma con anche una giusta dose di buon gusto. Abbiamo trovato un palazzo popolare spettacolare nel quartiere Nomentano in via della Lega Lombarda 43. Un palazzo storico con un cortile interno ed un terrazzo che comunica con gli altri attorno. Era perfetto. Giulia voleva vedere altri posti ma io mi sono deciso subito. Dopo ho collegato alla storia altri posti che si trovavano attorno quali un bar o un negozio di idraulica.
Io seguo sempre la sceneggiatura ma mi piace anche seguire l’istinto. La famosa scena del ballo sotto la pioggia in terrazza inizialmente era scritta solo per due persone, per Martina e per Mina, un personaggio trans. Ballano loro due, poi li raggiunge Annamaria, comincia la pioggia, la bambina e Mina si riparano sotto un tetto e Annamaria rimane sola a ballare. Mi sono detto che sarebbe stato impossibile che gli altri avessero resistito dal lanciarsi a ballare con lei sotto la pioggia. Così ho cambiato la scena all’istante nonostante le voci contrarie del mio staff. Abbiamo girato una volta sola e la scena è venuta perfetta. La canzone che l’accompagna è un regalo di mia cara amica Sezen Aksu. Quella scena è diventata una scena molto importante del film. È ispirata ad una frase di Gandhi che dice: “quando arriva la tempesta tu non devi avere paura e pensare come affrontarla ma devi saper ballare sotto la pioggia.” Questa è la filosofia poi di tutti i personaggi.
Come mai la scelta di “Luna diamante” di Mina come canzone principale?
Con Mina siamo legati da un rapporto di amicizia, confidenza e stima reciproca, oltre che ovviamente da un rapporto professionale. Le ho mandato la sceneggiatura appena era pronta e le ho detto che le ho dedicato in omaggio un personaggio trans con il suo nome. Poi le ho chiesto una canzone del suo nuovo disco e lei mi ha mandato “Luna diamante” che fa da cornice ai sentimenti contrastanti che animano difficile rapporto tra i due protagonisti Arturo e Alessandro, fatto di tante incomprensioni, mancanze e rimorsi, ma al centro del quale rimane un forte e ingombrante sentimento di amore.
Quali sono i suoi maestri del cinema?
Amo moltissimo Vittorio De Sica e Kieślowski. Mi piace soprattutto il loro modo di rapportarsi con gli attori. Poi ci sono ovviamente dei film che hanno fatto una grande impressione su di me, come “Narciso nero” di Michael Powell o alcuni film di Sorrentino o di Mario Martone. Un altro mio regista preferito e fonte d’ispirazione è Paweł Pawlikowski. Ci siamo incontrati ad uno dei festival e da lì lo ammiro molto come regista e come persona. Secondo me “Cold war” è un film eccezionale.
Com’è nata l’idea di lavorare con Kasia Smutniak nel video realizzato per la Biennale di Venezia?
Quando mi aveva chiamato la curatrice del Padiglione di Venezia stavo preparando l’opera “La Madama Butterfly” al San Carlo di Napoli quindi non avevo proprio tempo di occuparmi d’altro. Stavano cercando un regista internazionale che avrebbe raccontato la sua Venezia. Le avevo detto che l’unica idea che mi veniva in mente era una ragazza immersa nell’acqua con dietro le immagini di Venezia che scorrono. Per loro era perfetto perché il padiglione Venezia doveva essere immerso nell’acqua e quindi ho pensato che fosse un destino e ho accettato la proposta. Ho subito pensato a Kasia Smutniak che è una mia cara amica, lei era entusiasta dell’idea. Mentre lo giravamo ci siamo accorti che veniva fuori una cosa molto forte perché non è un video artificiale girato con gli effetti speciali. “Venetika” ha avuto un successo enorme e adesso è pronto ad andare in cinque paesi diversi tra cui Parigi, Tokyo, Milano, New York e vari altri posti dove si terrà la proiezione del video e la mostra di sette fotogrammi sul lastre.
Programmi per il futuro?
Scriviamo un grande progetto per la Disney, otto puntate de “Le fate ignoranti” fatte in un modo completamente diverso dal film. A parte questo sto scrivendo una sitcom che tratta il tema del coronavirus e poi sto scrivendo anche un soggetto sempre sul tema del coronavirus ma concentrato più su tutto quello che ha circondato la malattia. Adesso non si riesce a fare altro, non si riesce a raccontare una vita normale senza questa malattia. Non credo che uno spettatore che vada al cinema dopo tutto questo vorrà vedere un film normale.
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Solo il 36% delle piccole e medie imprese polacche è favorevole all’entrata nell’euro. E’ il risultato più basso da 10 anni, nel 2010 c’è stato il record positivo (85%) di favorevoli all’adesione alla zona euro. Inoltre il 23% degli imprenditori afferma che la Polonia non adotterà mai l’eurovaluta. Il calo del sostegno dell’ingresso della Polonia nella zona euro è dovuto al successo dello zloty come valuta stabile. Come risulta dal rapporto della Commissione europea pubblicato a giugno, la Polonia ha quasi soddisfatto i requisiti per entrare nell’Eurozona, ma dopo la pandemia e le spese ad essa correlate, il rapporto può cambiare.
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Sabato ha avuto luogo un incontro consultivo tra il primo ministro, Mateusz Morawiecki, il viceministro degli affari interni e amministrazione, Paweł Szefernaker, e i rappresentanti della Commissione dell’amministrazione territoriale. “In seguito al pertinente e costruttivo dibattito, si è stabilito che la regolazione a proposito dell’amministrazione locale entra in vigore martedì”, hanno informato i copresidenti della Commissione, Paweł Szefernaker e Jacek Karnowski. Il decreto introduce il telelavoro degli uffici tranne quesiti importanti impossibili da realizzare non in presenza. Considerato il bisogno di mantenere le attività economiche la Commissione ha deciso di inviare la richiesta al Senato e di rendere più flessibili le scadenze delle procedure difficili o impossibili da rispettare vista la modalità nuova del lavoro. La regolazione è valida nel corso delle due settimane con un’eventuale proroga.
Nel 1975, quando a Varsavia si organizza una corposa retrospettiva sul grande regista Michelangelo Antonioni, Leszek Kazana è un liceale innamorato dell’Italia, tifoso del Legia e del Milan e appassionato di storia antica. Stravede per il cinema e viene a sapere di poter essere utile ad un’icona della storia del cinema italiano.
Leszek Kazana: Per fortuna rispose al telefono mio padre! Se avesse alzato la cornetta mia madre avrebbe detto di no perché dovevo andare a scuola. Conoscere Antonioni fu un’esperienza indimenticabile che si aprì con il mio imbarazzo al primo incontro che il regista capì al volo e disse “tu mi ammiri molto vero?”. Risposi “sì” e lui “capisco, ora però traduci!”. In quei giorni mi sembrò di aver familiarizzato al punto di arrischiarmi a chiedergli come si fa a lasciare una donna come Monica Vitti. “Non sono cose che ti riguardano!”, ribatté Antonioni. Ma a parte questo episodio il regista di “Professione reporter” con me non fu affatto gelido come lo descrivevano tanto che l’ultimo giorno si rese conto della mia infinita tristezza per la sua partenza. Non nascondo che mi scendeva qualche lacrima. Antonioni si sciolse il nodo della cravatta e me la regalò dicendo “però usala ogni tanto”.
Monica Vitti e Michelangelo Antonioni
Riavvolgiamo il nastro, l’Italia com’era entrata nella tua vita?
Stavo per andare in prima elementare quando mio padre assunse un incarico diplomatico nella bella sede dell’Ambasciata di Polonia a Roma in via Rubens ai Parioli. Nella città eterna restammo dal 1965 al 1969, quattro anni di scuole elementari da cui uscii col diploma perché l’ultimo anno feci quarta e quinta insieme con, il per me indimenticabile, maestro Arduino Cappelloni, poliglotta, appassionato di storia e laureato in giurisprudenza, cui devo un sacco di meravigliosi e formativi ricordi.
Ma perché un bambino polacco che ama il calcio arrivato a Roma si mette a tifare Milan?
Eravamo appena arrivati a Roma. Non avevamo ancora la televisione e quando i nostri vicini Roberto e Marisa Mignani, che sarebbero diventati i nostri migliori amici per sempre, aprono la porta, sento provenire dall’interno della casa una voce tipica da telecronaca di una partita i calcio. Senza badare a timidezze mi precipito davanti alla tv. Dopo un po’ pur non parlando italiano mi faccio capire e chiedo chi è quel giocatore col numero 10? “Gianni Rivera” mi risponde Roberto. Fu amore a prima vista per Rivera e di conseguenza per il Milan che quell’anno, allenato da Silvestri, fece un campionato mediocre. Poi arrivò Nereo Rocco in panchina e potei gioire per scudetto, Coppa delle Coppe e soprattutto Coppa Campioni, vinta 4-1 sull’Ajax del giovane Johan Cruijff. A raccontare le gesta in tv di quel Milan era Nicolò Carosio che fondamentalmente rimase sempre un radiocronista e per quello gli si concedeva di dire “quasi-gol” anche quando la palla passava ben lontana dalla porta, oppure “bolide di Rivera”, ossimoro dato che la potenza del tiro non era certo una qualità del grande genio del calcio italiano.
Tempi in cui la nazionale polacca stava scaldando i motori per esplodere qualche anno dopo?
La Polonia non riuscì a qualificarsi ai Mondiali del 1970, quelli che l’Italia doveva vincere ma che perse in finale forse per l’incapacità di Valcareggi, peraltro straordinario allenatore, di far coesistere Rivera e Mazzola. Nel 1972 vincemmo però le Olimpiadi che in pratica erano i mondiali dei paesi dell’area comunista e nel 1974 eliminammo l’Italia ai Mondiali in Germania, una squadra azzurra con fuoriclasse ormai d’annata mentre la Polonia se avesse avuto Lubanski stravedevo per lui come per Rivera a mio avviso li avrebbe vinti quei Campionati.
Finito l’incarico diplomatico di tuo padre tornate a Varsavia e tu continui a studiare l’italiano?
La mia passione era la storia antica e, come si usava a quei tempi, per essere un buono storico bisognava studiare prima le relazioni del potere, ovvero giurisprudenza, e poi storia e così feci laureandomi in legge con uno dei più grandi antichisti polacchi: Henryk Kupiszewski. Poi tornai a Roma per la specializzazione alla Sapienza. Nel frattempo l’Italia e l’italiano erano rimasti parte della nostra vita familiare e ricordo con quanta bramosia attendevo i quotidiani italiani, peraltro vecchi di almeno un mese, che papà portava ogni tanto a casa, mentre le domeniche scappavo dai nonni a Góra Kalwaria dove avevo scoperto che si ricevevano meglio le onde medie della radio e potevo ascoltare le voci di Ciotti, Ameri e degli altri mitici radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto”. L’Italia mi mancava, per sette anni non potei tornarci fino al 1976 quando grazie ad una borsa di studio dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia andai nel Bel Paese. Mi resi conto di conoscere il cinema mondiale non peggio dei miei coetanei cinefili italiani. Negli anni ’70 i film d’oltrecortina arrivavano in Polonia spesso con molto ritardo ma senza tantissime eccezioni. Ironia della sorte l’unico film di Fellini che non è stato distribuito nelle sale polacche è stato “La voce della Luna”, perché, caduto il comunismo, i distributori privati non si arrischiarono di comprarne i diritti.
Tornato dalla specialistica alla Sapienza hai iniziato a insegnare?
Erano anni tumultuosi. Dopo l’89 lavorai per un periodo all’italian desk del Ministero degli Affari Esteri ma poi, piano piano, mi sono dedicato integralmente all’insegnamento della storia e dell’italiano oltreché alle traduzioni.
In tanti anni di frequentazioni delle istituzioni italiane in Polonia c’è qualcuno che ricordi con particolare piacere?
Da Mario Mondello (anni ‘70) in poi ho conosciuto tutti gli ambasciatori e parallelamente anche i direttori dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia succedutisi negli anni, tra questi Teresa Triscari Ilardo, Pier Angelo Cappello, Giulio Molisani, Paola Ciccolella, Roberto Cincotta. Ho ottimi ricordi di tutti. Degli ambasciatori italiani ricordo in particolare Luca Biolato che era stato in precedenza a Varsavia come segretario e che, quando alla fine della sua carriera gli lasciarono scegliere la destinazione, volle essere ambasciatore in Polonia. Una persona, sepolta nel cimitero varsaviano Powazki, cui dobbiamo la scelta felice dell’acquisto della splendida sede attuale dell’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia. Fu proprio Luca Biolato a dirmi che capitava anche a italiani intelligenti di lamentare la destinazione in Polonia, ma solo gli stupidi potevano lasciarla senza rimpianti. La Polonia ti resta dentro. Si racconta che il grande traduttore della Szymborska, Pietro Marchesani, durante le sue lezioni alla facoltà di polonistica di Genova a volte mentre parlava si fermava e taceva per qualche minuto, poi riprendeva dicendo agli studenti “scusatemi, per un momento mi sembrava d’essere a Cracovia o forse a Varsavia.“
Italia-Polonia nel tuo caso si declina Roma-Varsavia?
Non nascondo che è solo in queste due città che mi sento a casa. Se sono a Bologna o a Cracovia, a Venezia o a Breslavia, sto bene ma non a casa mia. Di Varsavia amo molto l’energia e l’offerta culturale che mediamente è più alta di tante capitali europee e poi ritengo sia anche bella con tanto verde tra cui il più bel parco urbano d’Europa: Łazienki.
Se ti chiedessi di suggerirci alcuni nomi di scrittori e registi italiani?
Quest’estate paerto per le vacanze portandomi “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese e “Il cavaliere e la morte” di Leonardo Sciascia, libri di autori straordinari che rileggo regolarmente. Nel cinema oltre ad Antonioni voglio citare Federico Fellini, soprattutto quello di “Roma”, “Amarcord” e “8 e mezzo”, Luchino Visconti e Mario Monicelli, che ebbe il particolare merito di far uscire Monica Vitti dai ruoli in cui l’aveva inquadrata Antonioni. Poi amando i film di taglio politico non posso non ricordare Francesco Rosi. Nella musica Paolo Conte, che sogno di vedere un giorno in concerto in Polonia e Gianmaria Testa che nel 2007 Pier Angelo Cappello riuscì a portare a Varsavia.
E polacchi?
Nel cinema i grandi della scuola polacca: Wajda, Munk, Kawalerowicz, i capolavori di Roman Polański da “Il coltello nell’acqua” all’ultimo film sull’affaire Dreyfus che ho già visto tre olte, i trattati morali di Krzysztof Zanussi: “Le montagne al tramonto”, “La struttura del cristallo”; e da ultimo Paweł Pawlikowski. Leggo sempre Jarosław Iwaszkiewicz: immensi i suoi versi, immensi i suoi racconti. Buona parte di quelli un po’ solari fu scritta a Roma, in Sicilia o, al limite, a Sandomierz, la più italiana delle piccole città polacche. Zamość è un altro discorso.
Tra Italia e Polonia c’è un intreccio secolare continuo e profondo che forse nella società odierna andrebbe un po’ più valorizzato?
Nel 1945, dopo sei anni di tragedie e distruzioni, al grande Jan Parandowski, scrittore tra l’altro di una “Mitologia antica” che è tuttora un manuale delle medie, l’Università Cattolica di Lublino chiede di tenere un corso. Parandowski sceglie di parlare di Francesco Petrarca. A Parandowski si deve anche una magnifica definizione del nostro paese: la Polonia culturalmente si affaccia sul Mediterraneo. Una frase che sintetizza secoli di relazioni. Pensiamo alla corte reale polacca di Sigismondo il Vecchio a Cracovia, frequentata da tanti italiani. Oltre duecento anni dopo, presso la corte reale di Stanislao Augusto, a Varsavia, la situazione si ripete, il re era attorniato da artisti provenienti dal Bel Paese con cui parlava in italiano e poiché alcuni venivano dalla Repubblica Serenissima a volte parlava in veneziano, e pensare che Stanislao Augusto non mise mai piede in Italia! E poi dovremmo parlare di Padova che, accademicamente parlando, è la più polacca delle città italiane, e quindi di Copernico che studia tra Padova, Bologna e Ferrara dove si laurea in diritto canonico. Insomma la Polonia ha preso tanto dall’Italia ma ha anche dato tanto all’Italia e all’Europa la cui cultura, senza l’apporto polacco, sarebbe monca. La musica da Chopin a Penderecki, il teatro di Kantor e Grotowski, il cinema, la letteratura. Provate a chiedere a qualsiasi libraio italiano della poesia e vi risponderà che senza la Szymborska gli unici libri di poesia che vende sono quelli obbligatori a scuola. Lo scambio antico, ininterrotto e fecondo tra questi due paesi che amo è la cornice culturale cui mi sento di appartenere e quando mi chiedono se l’Italia è una scelta rispondo che lo sarebbe potuto essere ma, nel mio caso, la definirei più una storia di vita.
Ogni vino ha la sua bottiglia. Le bottiglie di vino sono generalmente di vetro, normalmente di colore scuro, per proteggere il contenuto dall’esposizione alla luce. La capacità è nella maggior parte dei casi di 750 ml, anche se tale misura può essere a volte differente.
Le prime tracce storiche sulle origini della bottiglia in vetro risalgono al I secolo d.C., quando nei territori siriani vennero realizzati piccoli contenitori di vetro tramite la tecnica del soffio nella pasta semi-liquida, che divergevano dai prodotti precedenti a forma di anfore aventi pareti notevolmente più spesse a causa del procedimento tecnico tradizionale della colata del vetro in stampi.
Se nei primi tempi si produssero più che altro fiale con il perfezionamento della tecnica e dell’abilità da parte dei soffiatori, già nei primi secoli dopo Cristo si realizzarono bottiglie vere e proprie.
L’utilizzo pratico e comune della bottiglia però rimase piuttosto raro, anche a causa della difficoltà di produzione dell’oggetto rispetto ad altri contenitori aventi lo stesso utilizzo. La sua diffusione europea avvenne solamente intorno alla metà del XV secolo. L’isola di Murano fu il primo centro di produzione, agevolato dai numerosi contatti commerciali e culturali tenuti da Venezia con il Medio Oriente, dove era già sviluppata l’arte vetraria.
Le bottiglie di vino prendono quasi sempre il nome dalla zona in cui si è diffuso il loro uso. Ecco un breve elenco delle bottiglie più comuni che possiamo trovare ormai ovunque:
Bordolese: originaria della zona di Bordeaux, è forse la più utilizzata tra le bottiglie destinate alla produzione di vino. Si distingue per la forma cilindrica con spalla pronunciata e collo non molto lungo.
Bordolese a spalla alta: deriva dalla Bordolese standard ed è un’evoluzione estetica. Questa forma dona un’eleganza maggiore e quindi viene usata per vini particolari, soprattutto passiti.
Borgognona: di origine francese come la bordolese, è caratterizzata da spalla praticamente assente. È usata sia per i vini bianchi che per quelli rossi.
Albeisa: la bottiglia tradizionale della zona di Alba in Piemonte, usata per imbottigliare i vini rossi delle Langhe. Simile alla Borgognona, si distingue per la scritta “Albeisa” incisa sulla bottiglia, la spalla poco pronunciata e il collo corto.
Champagnotta: è la bottiglia tradizionalmente usata per contenere lo Champagne (e in epoca recente i vini spumanti più in generale). Viene prodotta con vetro di spessore maggiore per sostenere la pressione dell’anidride carbonica contenuta nel vino e per lo stesso motivo sul collo è presente una sporgenza dove si può fissare la gabbietta metallica che trattiene il tipico tappo a fungo.
Bottiglia Champagne Cuvée: è’ una variante della precedente, con la base più allargata e il collo più lungo.
Renana: originaria della zona del Reno, in Germania, si usa per i vini bianchi e si distingue per la forma oblunga e affusolata.
Alsaziana: viene dall’Alsazia e si utilizza per i vini bianchi. Si distingue per l’assenza di spalla e la forma allungata.
Bottiglia da Porto: Usata generalmente per vini liquorosi iberici come il Porto o lo Sherry, si presenta spesso con diverse tonalità di verde o marrone.
Bottiglia Marsalese: la bottiglia Marsalese è la bottiglia utilizzata per la conservazione del Marsala. Il vetro è marrone scuro o nero e la forma ricorda quella tradizionale dei vini fortificati.
Anfora: tra le bottiglie usate nella produzione di vino, è una delle più particolari. Di origine provenzale, è diventata famosa in Italia grazie al Verdicchio, un vino bianco delle Marche.
Negli ultimi giorni in Polonia si sono registrati ancora numeri record per nuovi casi di COVID-19 e per la prima volta sono stati superati i 20.000 casi giornalieri, con circa 67.800 tamponi.
Il numero complessivo dei malati attivi è salito a 184.789,di cui in gravi condizioni 1.203,ovvero circa l’1% del totale. Gli ultimi dati mostrano 20.156 nuovi contagi, con 301 morti.
Il Voivodato della Grande Polonia (2.633), la Masovia (2.255), la Slesia (1.994) e la Piccola Polonia (1.927), sono i Voivodati maggiormente interessati dai nuovi casi.
I numeri dell’epidemia destano preoccupazione vista la pressione in salita sulle strutture sanitarie polacche ed il numero di posti letto disponibili. L’impennata dei casi ha costretto il governo a dichiarare dal 24 ottobre tutta la Polonia zona rossa e in tutto il paese prosegue l’allestimento di ospedali provvisori per aumentare il numero di posti letto pronti ad accogliere i malati di COVID-19.
Tutto il territorio polacco è zona rossa con la conseguente imposizione della chiusura di bar, ristoranti, palestre, cinema e la presenza di diverse restrizioni per eventi culturali e religiosi, nonché per gli assembramenti. Bar e ristoranti possono effettuare il solo servizio di asporto.
Sono state annunciate misure di sostegno per i settori colpiti dalla nuova ondata di contagi, che potranno beneficiare della Tarcza Branżowa.
Da segnalare questa settimana le proteste di migliaia di persone contro sentenza della Corte Costituzionale, che limita il diritto all’aborto in Polonia, già uno dei paesi europei più restrittivi in materia. La decisione vieta l’aborto anche per gravi malformazioni del feto.
Si raccomanda di limitare gli spostamenti e monitorare i dati epidemiologici nel caso di viaggi programmati da e verso la Polonia, per il rischio di possibili nuove restrizioni sui voli e gli spostamenti.