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Emergenza coronavirus: parchi e foreste vietati
In Polonia ristoranti e aziende donano oltre 44.353 pasti al personale sanitario impegnato nella lotta al COVID-19.
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Esclamazioni, insulti ed epiteti: le espressioni volgari regionali
In Italia, per via della presenza storica dei dialetti, ogni regione ha una sua specificità linguistica. Molte parole ed espressioni vengono automaticamente associate ad una particolare regione o città e sono fortemente legate agli stereotipi diffusi nella cultura e nei media italiani. Il cinema e la televisione, di cui si è parlato negli articoli precedenti, hanno contribuito a diffondere e rendere riconoscibili determinate forme linguistiche provenienti dai diversi dialetti.
Gli stereotipi regionali, naturalmente, traspaiono maggiormente nella commedia: nei film i personaggi romani, ad esempio, vengono generalmente mostrati come rozzi, chiassosi e irruenti, spesso inclini a deridere o insultare gli altri. Proprio grazie al cinema e alla televisione, gli insulti e le parolacce tipici della Capitale sono oggi conosciuti e capiti praticamente in tutta Italia. Tra le espressioni romane più note cʼè ad esempio lʼesclamazione ahó, generalmente usata per esprimere rabbia o disappunto verso unʼaltra persona, o li mortacci tua (“i tuoi parenti morti” in dialetto romano). Questʼultima forma, originariamente un insulto, si può oggi usare anche per esprimere sorpresa o addirittura rispetto e ammirazione nei confronti di una persona. Unʼespressione simile, a chi tʼè muort (“a chi ti è morto”) è comune in dialetto napoletano, ma in questo caso si è conservata la funzione di puro insulto. Forme simili a quella napoletana esistono anche in altri dialetti del Sud, ad esempio in Puglia o in Basilicata. In tutta Italia, ma in particolare al Centro-Sud, è diffusa la parola mannaggia (dal napoletano mal nʼaggia, cioè “male ne abbia”), originariamente usata come insulto e maledizione, e oggi soprattutto per esprimere ira o delusione.
Oltre alle imprecazioni contro i defunti, in varie regioni italiane (ad esempio in Veneto, in Piemonte o in Toscana) esistono le bestemmie, ovvero gli improperi legati alla religione cristiana. Molto spesso queste espressioni vengono censurate con eufemismi e usate come esclamazioni “normali”: in Toscana è comune, in molte imprecazioni, usare la parola Maremma (da una delle regioni storiche locali) al posto di Madonna; similmente, in Veneto lʼesclamazione òstrega (“ostrica”) è una forma attenuata per dire ostia. In Piemonte è comune lʼespressione bòja fàuss (“boia falso” in dialetto), usata come imprecazione o anche solo come esclamazione di sorpresa o di rabbia. La teoria più conosciuta sullʼorigine di questa espressione è che i torinesi insultassero il mestiere del boia, una professione particolarmente disonesta visto che il carnefice veniva pagato per la morte di altre persone. Esiste anche la variante Giuda fàuss (ovviamente “Giuda falso”), ma entrambe le espressioni rimangono comunque eufemismi: si dice bòja o Giuda per evitare di dire Dio.
Anche gli insulti usati rivolgendosi ad altre persone variano da regione a regione: in Toscana sono molto comuni parole come bischero o grullo (“stupido”), sentite come arcaiche in altre regioni. Le espressioni per chiamare una persona stupida sono molto diversificate: in Lombardia si dirà pirla, in Veneto mona, mentre la parola minchione, di origine siciliana, è usata sia al Sud che al Nord. A Milano, oltre a pirla, per dire “stupido” si usa anche lʼespressione testina. Lʼetimologia di queste parole regionali è generalmente volgare, ma molte di esse sono ormai talmente diffuse nella lingua di tutti i giorni da aver perso buona parte della loro connotazione scurrile originaria. Alcune espressioni offensive hanno unʼorigine meno volgare e più pittoresca, per esempio il termine romano cafone (“rozzo, ignorante, maleducato”). Questa parola, entrata ormai da tempo nellʼitaliano standard, potrebbe provenire da cʼa fune (cioè “con la fune”): secondo una delle teorie, lʼespressione veniva usata per deridere i contadini che, per non perdersi nelle grandi città, si legavano lʼuno con lʼaltro con una corda. Anche sullʼorigine della parola romana mignotta (“prostituta”) esiste una teoria piuttosto curiosa: a parere di molti essa deriverebbe da m. ignota, abbreviazione di madre ignota, usato un tempo nei documenti dellʼanagrafe quando venivano registrati i neonati abbandonati dalla madre. Da lì deriverebbe lʼespressione offensiva fijo de mignotta (“figlio di p…na”), che a sua volta avrebbe causato la diffusione della sola parola mignotta. A meno che, come sostenuto da altri, il termine non derivi dal francese mignonne (“bella, attraente”).
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Neve primaverile a Varsavia
Una mattina del febbraio 2009 mi affaccio dalla finestra di un appartamento al quarto piano di un condominio popolare nel quartiere Ursus. Il panorama è grigio, edifici grigi, strade grigie, cielo grigio e in basso le persone sono puntini grigi in movimento. “Potrei mai vivere a Varsavia? No, mai!”
Passo quasi mezz’ora nel bus. Dentro incrocio sguardi evasivi di varsaviani diretti al lavoro. Fuori dal finestrino si susseguono architetture socialiste che danno al quartiere un’atmosfera compassata ma che nel loro ostinato rispetto degli standard urbanistici “condominio-spazio verde-area giochi-locale rifiuti-vialetto, e via a ripetere la sequenza” trasmettono senza dubbio una sensazione di rasserenante solidità.
Arrivo al centro, o almeno a quello che io presumo sia il centro essendoci il Castello Reale e il Rynek, la piazza della città vecchia. Per i varsaviani il centro anzi i centri della città sono altrove.
Nel Castello Reale scopro la sala Canaletto, realizzata appositamente per valorizzare la ventina di vedute di Varsavia dipinte da Bernardo Bellotto (qui chiamato il Canaletto) nei suoi ultimi anni di vita passati alla corte di Stanislao Poniatowski. Alcuni di questi quadri li troviamo riprodotti in poster fissati su appositi trespoli lungo il “trakt krolewski”, la via reale che porta dal Castello al Parco Lazienki. Quadri posizionati in modo da consentire ai passanti di paragonare idealmente le vedute del Bellotto con le ricostruzioni degli edifici settecenteschi fatte negli anni Cinquanta, quando Varsavia iniziava a ricucire la sua identità violata.
Una meritoria azione di restituzione alla città e ai varsaviani di parte dei palazzi e delle chiese dei tempi dell’ancien regime, architetture regali che poi ad inizio Novecento, contaminate dal modernismo di tram e luci elettriche, spinsero a chiamare Varsavia “la Parigi del Nord”.
Ora non so se succede solo a me ma ogni volta che mi imbatto nei trespoli con le vedute cado in un vortice di riflessioni che restano puntualmente senza risposta. A colpirmi è la ricerca del “vero” tra veduta pittorica e edificio realizzato. Penso al “vero architettonico” settecentesco che un eccezionale vedutista ha dipinto fedelmente, ma pur sempre artisticamente, su tela. Il “vero artistico” è poi stato la base per una ricostruzione inevitabilmente artificiale. Oggi il “vero artificiale” è però l’unico “vero tangibile” del primigenio “vero architettonico”. A questo punto come non porsi la domanda di cosa sia da considerarsi “vero”? Per fortuna il passo marziale di una aitante studentessa mi riporta al “vero contemporaneo”. La seguo per qualche metro lungo il “trakt krolewski” fino alla statua di Niccolò Copernico.
Dal 2010 lì vicino c’è una delle panchine musicali messe lungo la via reale in occasione dell’anniversario dei 200 anni della nascita di Frederyk Chopin. Basta schiacciare il pulsantino d’acciaio ed ecco che dalle casse acustiche nascoste nella panchina di pietra nera si sprigiona una polonaise o un notturno. Un’idea geniale!
Proseguo in direzione Parco Lazienki. Con sorpresa mi imbatto nelle statue di De Gaulle, cui è dedicata anche una rotonda, e di Ronald Regan e mi vien da pensare che anni di guerra fredda hanno un po’ sfuocato la percezione dei politici oltrecortina. Poco più avanti ecco il Parco Lazienki. L’imponente statua di Chopin che si riflette su uno specchio d’acqua domina l’entrata. Ai piedi di quel monumento ogni domenica d’estate, alle 12 e alle 16, virtuosi del pianoforte si esibiscono open air suonando Chopin. Concerti offerti gratuitamente dalla città di Varsavia. Migliaia di persone ascoltano assiepate e silenti. Famiglie con bambini, studenti, eleganti coppie di anziani varsaviani, turisti rispettosi, tutti civilmente seduti tra panchine e fazzoletti di erba. L’atmosfera è magica, un alternarsi di sonate e misurati applausi. Solo questa esperienza vale un viaggio a Varsavia.
Anche la forma del Parco Lazienki è plasmata da quel dolce pendio, digradante verso la Vistola, che caratterizza l’intera sponda occidentale di Varsavia. Ed è passeggiando tra vialetti, ponti e giardini, tra scoiattoli e pavoni, tra anfiteatri romantici, pagode orientaleggianti, specchi d’acqua e il bianco delle eleganti architetture disseminate nel Parco che mi riconcilio con questa città. La mia disposizione d’animo è improvvisamente cambiata. Coraggiosi raggi di sole bucano la plumbea atmosfera ridando colore a quello che mi circonda. Noto l’algida bellezza di una ragazza che passeggia. Piccoli edifici bianchi sbucano sommessamente dalla vegetazione, testimoni orgogliosi di una remota stagione del classicismo polacco che, esteticamente, sfida quarant’anni di rigori politici dell’urbanistica socialista.
L’anima della città si svela: il contrasto. L’eterna rinascita a dispetto di qualsiasi catastrofe sia essa fisica: come la sadica distruzione della città da parte di un esercito nazista che, in rotta dal fronte russo, avrebbe avuto ben altre priorità che radere al suolo la capitale polacca; che morale: come la lunga stagione vissuta sotto un potere estraneo, uno dei tanti governi che nel secolo scorso ammantati di filosofie politiche che celebravano il popolo in concreto privilegiavano un circolo ristretto di persone povere di ideali.
Il contrasto toglie certezze ma crea energie e così l’anima di Varsavia ribolle carica di aspettative. Costruire e ricostruire, abbattere per trasformare. La città pulsa, è una amante inquieta e ingestibile, ti allontani un mese e la ritrovi cambiata.
Il Palazzo della Cultura, ingombrante eredità in stile gotico staliniano, è anch’esso emblema di irrisolta contrapposizione. Un’imponente costruzione nel cuore della città che i polacchi non volevano e tuttora non amano ma che inevitabilmente accettano e guardano forse come il segno indelebile di una ferita rimarginata, materica rappresentazione di un passato da elaborare che oggi si cerca di sminuire accerchiandolo di arditi grattacieli espressione di una nuova Polonia in cerca di conferme.
Più o meno un anno dopo, nel maggio 2010, mi sveglio in un villino del quartiere Praga, ovvero nel lato orientale di Varsavia. La città è attraversata dalla Vistola e queste acque che scorrono incessanti da sud a nord in mezzo alla capitale sono un magnifico punto di riferimento geografico. La sponda occidentale ha sempre ospitato il potere politico ed economico con i relativi edifici di rappresentanza. A est, al di là dell’acqua, c’è l’altra faccia della capitale. Quartieri popolari che a volte diventano ricettacolo modaiolo di artisti e gallerie alternative. È un susseguirsi di isolati che raccontano l’evoluzione architettonica della città. È un piacere girare tra queste strade alla ricerca dei dignitosi e sempre attuali esempi di architettura funzionale-modernista degli anni Trenta del secolo scorso e delle fabbriche in mattoni, figlie della rivoluzione industriale ottocentesca, che oggi ospitano ristoranti, centri commerciali e curiosi musei come quello della Vodka o delle insegne neon. Tralascio invece le zone infestate dai condomini degli anni Sessanta e Settanta del Novecento e soprattutto i nuovi alveari del finto benessere contemporaneo. Palazzoni tirati su in fretta e furia per dare risposta ai desiderata di una nuova borghesia che accorre dai soporiferi paesini limitrofi per realizzare il sogno di lavorare nella capitale.
Quella mattina del 2010 attraverso il quartiere Praga e poi la Vistola in tram per raggiungere il vero centro della città: l’incrocio tra la via Jerozolimskie (la via di Gerusalemme) e la Marszalkowska (la via del Maresciallo). Arterie che si intersecano a cavallo di una trafficata rotonda sotto la quale si snoda un reticolo di sottopassi che connette i flussi umani varsaviani tra bus, metro, tram e la vicina stazione ferroviaria. Prima d’uscire di casa il cielo era azzurro poi, durante il tragitto in tram, è piovuto. Sceso alla fermata Krucza il vento tiepido aveva spazzato via le nuvole uggiose annunciando l’arrivo del sole. Dopo un centinaio di metri a piedi scendo nel reticolo di sottopassi.
Ho fame. Se voglio mangiare qualcosa posso scegliere tra due spuntini cult dei polacchi la parowka (hot dog) e la zapiekanka, un per me inguardabile mezzo sfilatino lasciato aperto a metà su cui prima depositano a casaccio varie verdure e salumi e poi riversano sopra ingenti quantità di ketchup. Sono tuttora allibito ogni volta che vedo sciccose ragazze agghindate di abiti firmati che colte da una puntina d’appetito si infilano la lunga zapiekanka in bocca. Senza sporcarsi e senza alcuna remora riguardo i microbi che potrebbero essersi depositati su quello sfilatino, da ore aperto a metà in attesa d’essere ingoiato. Io chiaramente preferisco la parowka inserita in un panino pre-bucato appositamente per ospitare il cilindro di carne. Il venditore su richiesta dà due spruzzate di senape nel foro del pane prima di affondarci la parowka. Pago e quindi avanzo nel sottopasso fino a sbucare sul piazzale della metro. Nevica. È maggio ma sta nevicando a grossi fiocchi. In un’ora ho visto cielo azzurro, pioggia, vento, e poi una luce che faceva presagire il trionfo del sole salvo essere invece preludio di una intensa nevicata.
A Varsavia anche il clima è inquieto. Ho letto che il 93% della Polonia si trova al di sotto dei 300 metri sul livello del mare. Per centinaia di chilometri in qualsiasi direzione ci si allontani dalla capitale non si trovano rilievi, nulla che possa riparare questi territori che sono perciò esposti a qualsiasi bizza climatica. Faccio questa riflessione rimanendo al coperto nel sottopasso a guardare la neve primaverile che cade su un signore che nel piazzale scoperto di Metro Centrum tamburella freneticamente con due bacchette su una batteria formata da schienali di vecchie sedie in legno. Dietro di lui un murales politico e la scalinata che sale ai giardini che circondano il Palazzo della Cultura.
Circa 11 anni dopo quel grigio risveglio in un qualche condominio di Ursus, mi trovo a gironzolare attorno allo Zamek Ujazdowski. È una antica residenza reale, per secoli utilizzata come ospedale, che dal 1985 è sede del Centrum Sztuki Wspolczesnej, l’omonimo museo d’arte moderna. Un luogo cui ritorno spesso, ne sono attratto fin da quando abitavo a Bielany prima e Zoliborz poi, ovvero nella parte opposta della città. Quando sentivo che i contrasti varsaviani cominciavano a pesarmi e a disorientarmi venivo qui perché mi sembrava di ritrovare le coordinate mentali. Camminando tra questi giardini, visitando qualche mostra d’avanguardia o frugando nel bookstore del museo calmavo le inquietudini e rimettevo le cose al loro posto seguendo razionalmente la sequenza: chi sono, dove sono, cosa voglio, ecc.
Solo oggi noto che il viale d’accesso è delimitato ai lati da panchine parlanti. Bianche sedute incise di sentenze in polacco e inglese tipo “The idea of revolution in an adolescent fantasy”, “Sometimes science advance faster than it should”, “Use what is dominant in a culture to change it quickly”. Le panchine sono una performance, temporanea ma ormai stabile, di Jenny Holzer, artista americana “truista” premiata alla 44^ Biennale di Venezia.
Truista? Cioè? Il “truismo” è un’affermazione vera (truth) ma banale, un concetto di “vero” di dominio pubblico e proprio per questo inutile da dire o scrivere. Jenny Holzer valorizza il “vero banale” trasformandolo in espressione artistica e in appunti di cose note che comunque nella nostra vita dobbiamo ricordare. Testi che mescola con versi di grandi autori tra cui quelli della premio Nobel polacca Wislawa Szymborska. Ad illuminarmi su quest’arte è l’amica filosofa Sofia, “filosofa-Sofia” che detto così sembra un involontario truismo.
Cammino verso casa e penso se dietro ad un truismo possa celarsi anche qualcosa di non scontato, se tra le virgole di una frase di banale senso comune si possano scovare nuovi concetti illuminanti. Per esempio: se sotto la superficiale coltre di una frase vera e banale come “mai dire mai” – che spesso pronunciamo ritualmente, senza pensare, a chiusura di un discorso – scoprissimo una smisurata, inesplorata, contraddittoria autenticità che ci sta aspettando?
Mi siedo su una panchina. Una normale panchina in legno che non suona e non parla. Ad alta voce dico: “Mai dire mai, chi ha il coraggio di lasciare aperte le porte allo stupore e all’inatteso non smetterà di restare sorpreso dalla vita.” Ho fatto il mio truismo! Ma immediatamente mi chiedo: se uno afferma che mai vivrebbe a Varsavia e poi dopo 11 anni si accorge di vivere a Varsavia, sarebbe da considerare come la “vera rappresentazione” del truismo “mai dire mai”?
Autrice della foto in evidenza: Witek Art
” Time of working is the time of travelling deep into yourself”
http://annazuzannawitek.wixsite.com/witekart2017
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Olga Tokarczuk: dopo la pandemia giungeranno tempi nuovi
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Nuovo attacco di Gazeta Wyborcza agli italiani, l’ambasciatore Amati esige ed ottiene le scuse
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Gowin: l’anno accademico sarà prolungato
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Millefoglie alle fragole
Ingredienti:
- 3 confezioni di pasta sfoglia già stesa, tonda o quadrata
- 500 ml di latte
- 200 gr di zucchero semolato
- 5 tuorli d’uovo
- 50 gr di farina 00
- 10 gr di fecola di patate o amido di mais
- Vaniglia, buccia di limone
- 250 gr di panna fresca da montare
- 150 gr di fragole fresche
Preparazione:
Punzecchiate con i rebbi di una forchetta le sfoglie e disponetele su 3 diverse teglie da forno. Più punzecchiate la sfoglia, più cuocerà regolare. Cuocetela a 150° c. per circa 40 minuti, quando sarà brunita togliete le sfoglie dal forno, alzate la temperatura a 200° c. Cospargete con zucchero a velo le sfoglie e rimettetele in forno finché lo zucchero non sarà caramellizzato e leggermente scuro. Togliete le sfoglie dal forno e fatele raffreddare.
Intanto preparate la crema: in un pentolino mescolate i tuorli con lo zucchero, aggiungete gli aromi e le farine. Scaldate il latte e versatelo sui tuorli, portate tutto sul fuoco e cuocete mescolando sempre con una frusta finché la crema si addensa. Coprite con pellicola trasparente a contatto con la crema, che avrete trasferito in un contenitore adatto al calore, e fatela raffreddare bene, prima a temperatura ambiente e poi in frigorifero. Montate la panna con 2 cucchiai di zucchero semolato. Mescolate con delicatezza la crema con la panna, con una spatola gommata o in silicone, dal basso verso l’alto per non smontare la crema: avrete così ottenuto una chantilly.
Disponete il primo disco di sfoglia su un piatto o un vassoio e, se lo avete, cingetelo con un anello da torta. Aiutandovi con un mestolo o una spatola, versatevi sopra uno strato di crema e le fragole tagliate a pezzetti, sovrapponete il secondo disco di pasta sfoglia e poi un altro strato di crema e fragole.
Terminate con l’ultimo strato di sfoglia, rivestite con pellicola e mettete in freezer. Al momento di servire la torta, fatela decongelare in frigorifero per qualche ora, e, se vi piace, decoratela con panna e fragole sulla superficie.
Buon appetito!