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Guzzisti in Polonia!
Intervista ad Andrzej Chmielecki, presidente del Moto Guzzi Klub Polska
Com’è successo che tra tanti marchi di moto al mondo, Lei sia rimasto affascinato da un marchio cosi poco conosciuto in Polonia come Moto Guzzi?
Proprio per caso, ma sappiamo che in fondo nulla succede per caso. Diversi anni fa un mio amico ha comprato una moto. Quindi anche io ho pensato di rispolverare la mia patente per le moto e alla prima occasione che ho avuto, ho comprato una Moto Guzzi V35 del 1981 con la quale ho girato per due anni. Grazie a questo caso, ho conosciuto tante persone di tutta Polonia che sono legate al marchio Guzzi. E oggi uso già il terzo modello di questo marchio.
Come è nato Moto Guzzi Club Poland?
All’inizio del 2002 si è costituito un gruppo informale di amatori e appassionati che si incontrava in un piccolo circolo nel salone Moto Guzzi. Al inizio del 2003 si sono uniti a noi i colleghi di Lublino. Il primo raduno nazionale che siamo riusciti a organizzare è stato a Muczno, nel gennaio 2003. Il 14/06/2005 il nostro Klub è stato registrato al KRS (un ufficio statale) ed è stato elevato al rango di associazione. Moto Guzzi Klub Poland, secondo le sue regole, è un club a livello nazionale al quale può appartenere chiunque adempia alle condizioni standard.
Quali sono le vostre strutture?
Per ragioni pratiche, il club è diviso in varie sezioni: Varsavia, Lublino, Kujawsko-pomorski e Śląsk. Il consiglio del club è composto da un rappresentante di ogni reparto e c’è un tesoriere del club.
Quanti siete?
Ufficialmente nel nostro club sono registrati 60 soci. Ma ai nostri eventi partecipano anche decine di persone che non sono associate e considero la loro presenza altrettanto importante.
Una delle condizioni per diventare socio del vostro club è di possedere una motocicletta di questo marchio: quanto può costare una versione economica di una Moto Guzzi?
I prezzi delle motociclette sono diversi. Chi vuole può guardare l’offerta ufficiale dell’importatore. Oltre a questo, esiste anche una vasta offerta di motociclette usate, quindi chiunque potrà trovare qualcosa di adatto a se stesso.
Partecipate a raduni in Polonia e all’estero, ma siete riusciti a organizzare in Polonia un raduno internazionale?
Da qualche anno stiamo ospitando regolarmente Guzzi dall’estero. Inizialmente dall’Italia e dalla Germania e l’anno scorso a un nostro raduno erano presenti anche numerosi rappresentanti della Finlandia.
Avete fatto conoscenze con i club italiani?
Le conoscenze ci sono soprattutto con alcuni membri dei club e questi rapporti spesso preparano la strada per future visite. Diverse volte abbiamo partecipato a eventi organizzati dagli italiani, soprattutto quelli legati al World Club Moto Guzzi. Con particolare simpatia guardiamo a quegli eventi organizzati a Madello di Lario, culla della azienda Moto Guzzi. Oltre che a questo evento, partecipiamo a eventi in Austria, Repubblica Ceca, Germania, Finlandia e Ungheria. Siamo un club giovane e abbiamo ancora molta strada davanti a noi.
Gli italiani sono famosi per i loro piloti (Valentino Rossi o Max Biaggi). Lei si interessa di corse? O magari è anche fan di uno dei due piloti?
Gli sport di moto, in particolare quelli di alto livello, come qualsiasi altra disciplina, danno una carica di forti emozioni. Inoltre, ogni serio motociclista, è anche un appassionato di questioni tecniche. Fare qualche piccolo lavoretto sulla propria moto, per esempio di manutenzione, o anche saper fare una riparazione seria, questo è un grande piacere per un motociclista. Nella storia del motociclismo, il marchio Moto Guzzi è famoso per tanti modelli di moto da corsa, ma attualmente l’azienda non è interessata alla produzione in questo settore. L’azienda punta alla produzione di moto da turismo, e questo è il tipo di moto che promuoviamo durante nostri raduni di Moto Guzzi in Polonia. I nostri contatti con le piste da corsa riguardano soltanto la pratica che ci serve per migliorare la tecnica di guida. Invece per quello che riguarda le star italiane di motociclismo naturalmente tifo per Valentino Rossi e Max Biaggi.
Moto Guzzi – Azienda italiana di motociclette fondata nel 1921 a Mandello del Lario sulle sponde del lago di Como. È una delle più antiche fabbriche di motociclette al mondo. I fondatori del marchio furono tre amici: Carlo Guzzi, Giorgio Parodi e Giovanni Ravelli, che è caduto durante una missione con il suo aereo, prima della produzione della primo moto di serie. Per rendere omaggio al loro amico, come logo dell’azienda è stata scelta l’aqulila, simbolo dei piloti dell’Aviazione Navale {oggi si chiama Aeronautica}. Dal 2004 la fabbrica è entrata in società con la Piaggio.
La questione di come Leonardo ha racchiuso il tempo nella pittura
traduzione it: Amelia Cabaj
La Dama con l’ermellino è uno dei dipinti più preziosi delle collezioni polacche. Alcuni anni fa, proprio quest’opera, fu la “perla” indiscussa della mostra Ritratto del Rinascimento svoltasi a Berlino. Sebbene l’esposizione presentasse eccezionali opere dell’arte rinascimentale italiana, è stata la Dama a primeggiare in una nicchia preparata appositamente su una parete scura, ben illuminata. Quando invece di seguito è partita per una tournée a Londra, il suo posto è rimasto vuoto e sempre illuminato. Cosa rende tanto particolare questo ritratto di una giovane donna? Il semplice fatto che lo stesso Leonardo da Vinci la guardasse, ha reso la ragazza immortale. Quel che più conta però è il modo in cui la guardava. Ha colto un momento effimero, quasi impossibile da registrare con la vista, poiché la “nostra” Dama non è solo un bellissimo ritratto di una donna affascinante con uno strano animale tra le braccia. Per noi spettatori si tratta del tempo racchiuso nel quadro, si tratta della capacità di armonizzare la bellezza della modella con il suo carattere e con il periodo in cui ha vissuto.
La Dama con una donnola o la Dama con un ermellino?
Nonostante la pittura leggermente inscurita e ingiallita, l’animale nelle mani della bella signora ha una pelliccia chiaramente bianca. Nella letteratura italiana quest’ultimo, veniva chiamato diversamente: faina, martora, ermellino, furetto. Per molti anni in Polonia, il quadro veniva prevalentemente denominato Dama con la donnola, considerando che l’ermellino è una sua specie nella veste invernale. Il ritratto non è solo la rappresentazione di una donna con un animale ma è anche un insieme di diversi simboli che costituiscono la narrazione dell’opera al di fuori del suo aspetto estetico. La donnola è un simbolo della promiscuità, mentre l’ermellino nella simbologia antica indicava la purezza. L’animale era noto per la sua avversione verso lo sporco, mentre il motto dell’Ordine dell’Ermellino era “Meglio morire che essere disonorato”. Nel 1488 Ludovico Sforza ricevette dal re di Napoli il titolo di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino. L’animale nelle mani di Cecilia può quindi rappresentare sia l’unione del principe Ludovico con la sua giovane amante, nonché il simbolo della purezza, visto che il ritratto della bella ragazza non ha sfumature d’erotismo. Come curiosità, citerò un’altra ipotesi che veniva un tempo raccontata. Secondo alcuni il ritratto doveva riferirsi a un complotto contro Galeazzo Maria Sforza (fratello di Ludovico), mentre la ragazza doveva rappresentare sua figlia Caterina. La collana di perle nere faceva riferimento al lutto dopo la morte di suo padre, mentre l’ermellino faceva riferimento allo stemma di Giovanni Andrea da Lampugnano, l’assassino di Sforza nel 1476.
La giovane amante del principe
Cecilia Gallerani (1473-1536) nacque a Siena da in una modesta famiglia. All’età di dieci anni venne fidanzata con Giovanni Stefano Visconti. Sfortunatamente, i suoi fratelli si appropriarono della sua dote e di conseguenza quattro anni dopo il fidanzamento fu interrotto. Venne alla corte di Milano da adolescente dove divenne l’amante del principe reggente, Ludovico Sforza chiamato Il Moro. Era presumibilmente una delle donne più affascinanti del castello, amata e rispettata, e oltre che per il suo fascino era conosciuta per la sua saggezza e cultura. Infatti la nobildonna conosceva il latino e il greco, scriveva poesie, veniva paragonata a Saffo poichè era capace di sostenere profonde discussioni. Nel maggio del 1491 diede alla luce il figlio Cesare. Ciò accade già dopo il matrimonio di Ludovico con Beatrice d’Este. Il principe le donò le sue terre a Pavia e Saronno e, poco dopo, nel gennaio del 1492, le procurò un marito, il conte Carminati-Bergamini. Come regalo di nozze (destinato al figlio, Cesare) le regalò il palazzo di Carmagnola.
Il percorso del quadro dopo la separazione di Cecilia dal Principe di Milano
Cecilia si trasferì al palazzo Carmagnola dove prese con sé il ritratto. Anni dopo, Izabela d’Este alla ricerca dei favori di Leonardo, le chiese in una lettera di ricevere il capolavoro. La corrispondenza tra le due donne si è conservata. La lettera del 26 aprile del 1498 contiene la richiesta:
(…) et ricordandone che’lv’ha retracto [Leonardo] voi al naturale vi preghiamo che per il presente cavallaro, quale mandiamo a posta per questo, ne vogliati mandare esso vostro retracto, perché ultra ch’el ne satisfarà al paragone [Izabela voleva confrontare la pittura di Leonardo con le altre sue opere] vedremo anche volentieri il vostro volto (…)
La signora Bergamini ha risposto che invierà il quadro aggiungendo: et più voluntiera lo manderia quando assomigliasse a me (…). Come ha spiegato più avanti nella lettera, dopo anni non assomigliava più alla ragazza del ritratto. Il dipinto fu restituito da Izabela e rimase nel palazzo di Cecilia fino alla sua morte nel 1536. Da quel momento fino alla fine del XVIII secolo, il capolavoro non appare più in nessun documento. Ritroviamo solo un breve commento nell’inventario della collezione romana della famiglia Farnese del 1644 che nomina un dipinto di Perugino (?) intitolato Purezza con un ermellino in mano.
Soltanto nel 1804, un bibliotecario del museo di Milano notò che la copia del ritratto si trova nelle collezioni del museo, mentre il suo originale cento anni fa fu visto dal Marchese Bonasan. Nel 1900 Bołoz-Antoniewicz, storico dell’arte di Leopoli, pubblicò un testo in cui affermava che il ritratto considerato scomparso dai ricercatori molto probabilmente è in possesso della famiglia Czartoryski a Cracovia. Il dipinto fu acquistato come opera originale di Leonardo da Adam Jerzy, figlio di Izabela Czartoryska. Non conosciamo le circostanze esatte dell’acquisto. La duchessa collocò l’opera a Puławy, presso la Casa gotica e ne fece una descrizione spiegando che il figlio acquistò l’opera in Italia e che si trattava di un ritratto di Leonardo da Vinci che raffigurava l’amante del re di Francia Francesco I chiamata La Belle Ferronière, la moglie di un mercante di ferramenta. Dopo l’insurrezione di novembre, quando la famiglia Czartoryski fuggì a Parigi, portò con sè il quadro all’Hotel Lambert. Nessuno dei ricercatori francesi però ha menzionato la sua presenza a Parigi ciò vuol dire che è stato tenuto nascosto. È molto probabile considerando il fatto che Parigi era allora profondamente interessata all’arte e nel 1869 fu pubblicata una grande monografia di Leonardo. La mancanza del commento riguardante la Dama con l’ermellino dimostra che i Czartoryski, sebbene attivi nella vita sociale, non hanno rivelato informazioni sull’opera da loro posseduta. Nella monografia l’autore ha citato il ritratto tra le opere scomparse. Dopo la guerra di Prussia, la Dama con l’ermellino tornò in Polonia, a Cracovia, dove il figlio di Adamo, Władysław fondò un museo.
Solo allora i ricercatori di vari paesi iniziarono ad occuparsi dell’opera. A partire dagli anni della prima guerra mondiale, quando la Dama era a Dresda per motivi di sicurezza, venne conosciuta da molti storici italiani e tedeschi, mentre tra il 1916 e il 1942 apparsero numerose pubblicazioni a favore o contro il Maestro da Vinci. Nel 1920, il dipinto tornò a Cracovia. Durante la seconda guerra mondiale, la Dama lasciò nuovamente la Polonia. Inizialmente gli oggetti più preziosi di Cracovia furono trasportati a Sieniawa, ma i nazisti scoprirono il nascondiglio e Dama …, Paesaggio con il buon samaritano di Rembrandt e Ritratto di giovane di Raffaello furono portati in Germania e subito dopo esposti al Kaiser Fredrich Museum di Berlino. Tuttavia, già nel 1940 l’opera di Leonardo fu nuovamente inviata a Cracovia, a Wawel, alla sede del governatore Hans Frank, poi in Slesia e Baviera. Nel 1945, l’esercito americano denominato Difensori del tesoro recuperò l’opera e la riportò a Cracovia. Durante due mostre – nel 1952 a Varsavia e nel 1961 a Cracovia – sono state pubblicate ricerche riguardanti l’abito cucito secondo la moda spagnola e la collana realizzata con l’allora popolare ambra nera. L’anno 1490 fu stabilito come la data della realizzazione del dipinto. L’attenzione è stata anche prestata ai ricami neri e ai nodi sulle maniche dell’abito. Il motivo ispirato all’arte orientale è stato ripetuto nei disegni di Leonardo che adornano le sue note dal 1480.
Tecnica di esecuzione
Il dipinto misura 54,8×40,3 centimetri ed è stato composto con colori ad olio su una tavola di noce con primer bianco. Leonardo ha usato il metodo dello smalto, che consiste nell’applicare ripetutamente strati sottili di vernice con lo scopo di ottenere infine una superficie liscia, spesso con una traccia del pennello visibile di sopra. Il blu è il costoso ultramarino, le tinte derivate dal bronzo sono di origine organica, mentre gli altri colori sono composti da ossidi di ferro. Numerosi studi hanno dimostrato che Leonardo dipinse il quadro con due mani.
Diversi studi del disegno possono essere considerati schizzi per il ritratto. Lo studio delle mani e lo schizzo del torso di una donna disegnato con il gesso rosso dalle collezioni della biblioteca di Windsor e lo studio della testa di un angelo delle collezioni torinesi con un caratteristico, morbido tocco del corpo si possono considerare i tentativi più probabili di Leonardo. Lo sfondo nero è l’effetto della riverniciatura, probabilmente negli anni 1799-1800. In origine, c’era un paesaggio sullo sfondo e le sovraesposizioni dell’immagine indicano il contorno delle finestre o loghi, che fanno riferimento in qualche modo all’architettura del dipinto di Madonna Benois dalle collezioni dell’Ermitage. I numeri dell’inventario sul retro e la scritta nell’angolo in alto a sinistra: LA BELLE FERONIERE. LEONARD D’AWINCI risalgono ai preparativi per la mostra a Puławy. Esiste anche un’ipotesi che la riverniciatura sia stata fatta da Eugene Delacroix, un caro amico di Adam Czartoryski.
Una posa unica, l’accettazione della vita
Leonardo creò una posa unica, con il torso che dolcemente segue il movimento della testa, un corpo organico, etereo e vivace, non statuario come molti altri ritratti delle donne del Rinascimento. Lo sguardo della giovane Cecilia è serio, più maturo rispetto al suo corpo. Nei suoi occhi si riflette l’accettazione della vita, per l’ambiente circostante. Sappiamo che viveva nelle perfette condizioni di una corte benestante e che era amata ed ammirata, ma nonostante ciò basta guardarle gli occhi. È una donna senza pretese alla vita, qualcosa nella sua faccia mi fa pensare che avrebbe gli stessi dolci movimenti e il consenso anche se la sua vita fosse andata diversamente. L’armonia, uno dei canoni del Rinascimento, tanto desiderata oggi e ricercata nello yoga, nella meditazione, nella musica dei gong tibetani si riflette nella posa e nello sguardo di Cecilia. Guardatela e imparate a vedere, non solo a guardare. L’arte è meditazione e un sollievo.
Come si traduce in polacco la parola “magari”?
Partiamo con il dire che questo termine non ha una traduzione fissa, il suo significato dipende molto dal contesto. A volte basterebbe un’intonazione particolare per far sì che la traduzione in polacco cambi. Vediamo gli esempi principali nei quali viene usata questa espressione.
1.”Vuoi venire al cinema con me”?
“Non posso, devo studiare, magari un’altra volta”. Ecco il primo esempio; in questo caso “magari” ha la funzione di avverbio, significa “forse, probabilmente”. Facciamo un altro esempio dello stesso tipo: “Domani farà bel tempo; magari vado a fare una passeggiata al mare”.
2. “Magari” può introdurre l’intenzione di esprimere un forte desiderio. Qualcosa che vorremmo molto che accadesse. “Marco, è tua quella bella macchina”? Marco risponde: “Magari! Io giro in bicicletta”. In questo caso dopo la parola “magari” si sottintende “magari fosse così”. Quindi quando usiamo questo termine in questo senso ci dobbiamo ricordare, se vogliamo dire tutta la frase, che dobbiamo usare il modo congiuntivo. Facciamo un altro esempio: “Devo lavorare con questa bella giornata, magari potessi andare al mare”! Quando lo usiamo da solo (nel senso di aby tak było) dobbiamo anche stare attenti all’intonazione. Se il tono della voce va a salire, vogliamo esprimere entusiasmo nella possibilità che ci viene proposta (“Mangiamo una pizza”? – “Magari!”). Se l’intonazione va verso il basso, vogliamo esprimere impossibilità, ironia nella proposta che ci viene fatta (“Domani è domenica, possiamo dormire fino alle 11” – “Eh, sì. Magari!” [mentre rispondo so bene che io devo lavorare e che non ho la giornata libera]
3. Infine “magari” inserito in alcuni contesti può significare: perfino, addirittura, anche. Prendiamo l’esempio: “Domani andiamo tutti insieme a mangiare dalla nonna” – “E stavolta magari viene nostro cugino”? Altro esempio: “Giorgio è stato scoperto con le mani nel sacco” – “Vediamo, lui è capace magari di negare tutto, anche l’evidenza”.
Caponata con Riso Rosso selvaggio
per 3 persone
Ingredienti:
- 130/150 gr. di Riso Rosso selvaggio (riso integrale)
- 1 Cipolla gialla grande
- 4 Cipolle Borettane piccole
- 2 Peperoni gialli
- 1 Melanzana grande
- 50 gr. di olive di cerignola
- 50 gr. di olive nere
- 20 gr. di Capperi possibilmente sotto sale
- 10 gr. di erba cipollina
- 1 Cucchiaio di zucchero
- Mezzo bicchiere di aceto balsamico
- 2 foglie di alloro
- Olio quanto basta per friggere e condire il tutto.
- Sale, pepe quanto basta
Procedura:
Mettere in una pentola 1 ½ di acqua portare a ebollizione, salare e versare il riso che cuocerete per c.a. 40 min. Contestualmente tagliare le cipolle a julienne e passitele dolcemente in olio evo a fuoco medio; a metà cottura aggiungere lo zucchero e l’aceto; continuare la cottura affinché sia consumato tutto l’aceto; unire le olive e i capperi, desalati precedentemente in acqua tiepida; continuare la cottura per 5/6 min., o fino a quando le cipolle saranno ben cotte; prendere e mettere da parte.
Tagliare a dadini le melanzane e friggerle in abbondante olio bollente, eventualmente in più riprese; appena iniziano a dorare toglierle e adagiarle nella carta assorbente; salare leggermente.
Tagliare a triangolini i peperoni, stendeteli in una padella, con un po’ d’olio evo, possibilmente con la polpa rivolta verso il basso; cuocere a fuoco moderato e salare leggermente.
Prendere le cipolle con le olive e i capperi, le melanzane ed i peperoni e versateli in una padella condite con alloro e pepe, aggiustate di sale, mescolare e amalgamare il tutto delicatamente per qualche minuto.
Nel frattempo si sarà cotto il riso, scolare e condire con olio evo ed erba cipollina sminuzzata e un po’ di pepe. Impiattare tenendo separati il riso dalla caponata, decorare a piacere.
Questo è un piatto fresco, estivo, molto saporito e va servito a temperatura ambiente. Peculiarità non contiene proteine animali, non contiene glutine. Ottimo per i celiaci e vegani (il riso rosso selvaggio è anche integrale). Consiglio in abbinamento un vino giovane bianco fruttato, si accompagna bene con formaggi freschi saporiti.
Amedeo Piovesan, con le sue ricette firmate “Amex Chef”, coltiva l’arte culinaria fin da giovanissimo, all’età di 9 anni era già davanti ai fornelli sperimentando nuove proposte, come il risotto alle fragoline di bosco all’aceto di vino rosso. Per Amex la cucina è rimasta sempre un hobby nonostante le molte proposte di aprire un ristorante. Ogni qualvolta che gli chiedono “allora quando apri un ristorante?…” la risposta era sempre la stessa “ forse quando andrò in pensione, la cucina per me è un passione se dovessi chiudermi in un ristorante 300 giorni all’anno non lo sarebbe più!”. In quarant’anni ha organizzato ed eseguito cene a tema, sfide culinarie in ville venete e ristoranti come Osteria Speroni a Padova, da Alfredo a Treviso, Harry’s Bar di Asiago. Negli anni Novanta ha creato e gestito per un lungo periodo un club enogastronomico “Il Club del Gambero Allegro” che univa oltre 200 associati appassionati e cultori di enogastronomia italiana. Da qualche tempo in Polonia, proponendo con Del-Italy prodotti gastronomici italiani di eccellenza, collabora con gli Chef di importanti ristoratori polacchi nella realizzazione di menù rigorosamente italiani. Alcuni giorni fa l’ultima proposta a Slow Food di Lodz, Cucina Innovativa, prodotti polacchi con metodologia culinaria italiana.
Essere Giulietta Masina
Il 20 gennaio festeggeremo il centenario del compleanno di Federico Fellini. In questa occasione, in Kino Iluzjon a Varsavia presenterà il monodramma “Nie lubię pana, panie Fellini” (Non mi piaci, signor Fellini) diretto da Marek Koterski, che darà il via a una retrospettiva dei film FeFe. La parte di Giulietta Masina, moglie del grande regista è stata interpretata da Małgorzata Bogdańska, con la quale parliamo del fascino dell’attrice italiana e sulla missione di un teatro in cui tutto il materiale di scena entra in una piccola valigetta.
Ma cos’è veramente il Teatro nella Valigia? Chi l’ha ideato?
L’idea è nostra, direi, in comune.
Cioè tua e di tuo marito, Marek Koterski?
Si. Però forse più di Marek. Dopo venticinque anni di lavoro nel Teatro di Ochota, sono rimasta, ad un tratto, una freelancer e allora mio marito iniziò a convincermi a lavorare su un monodramma. Una volta, in vacanza, Marek iniziò a leggere il libro “Mia cara B.”, di Krystyna Janda e lo ha visto come un ottimo materiale per un monodramma: un viaggio per la vita, un racconto sulla donna che vive al 100%. Quando abbiamo iniziato a viaggiare con lo spettacolo con il Teatro nella Valigia subito ho iniziato a rappresentare lo spettacolo in luoghi speciali: carceri per donne, riformatori per ragazze, centri per tossicodipendenti, ospedali psichiatrici (nell’ospedale di Pruszków c’è una grande scena). Viaggiando per la Polonia ho capito che dare è per me più importante che prendere. Molto spesso ho recitato in luoghi senza un palcoscenico, dove recitavo direttamente tra la gente, distante venti centimetri dagli spettatori. Ho capito di voler arrivare ovunque con il Teatro nella Valigia anche dove la gente non ha possibilità di contatto con l’arte o con la letteratura, con tutto ciò che è un teatro, e il teatro invece non esiste senza lo spettatore.
Dunque il Teatro nella Valigia è un teatro itinerante, ma compatto come una pillola? Nella valigia tieni tutto il materiale di scena?
Si. Una volta Marek disse: una scena vuota, una donna con la valigia e tutto l’universo chiuso nel quotidiano. Quindi è il quotidiano chiuso nelle pillola. Nella “Mia cara B.” la valigia è rossa, nel “Lei non mi piace, signor Fellini” è bianca, perché tutto il monodramma è fatto nella convenzione bianconero come il cinema di una volta. Ma presentiamo lo spettacolo anche nei teatri veri e propri. Siamo particolarmente legati con il Teatro Druga Strefa e con Dzika Strona Wisły.
Perchè Fellini? o meglio Giulietta Masina?
Avevo una grande voglia di fare uno spettacolo sulla mia amatissima attrice italiana.
Ho iniziato a cercare i materiali. Ho coinvolto nel mondo di Giulietta mio marito. Abbiamo fatto un viaggio seguendo le tracce della Masina. Abbiamo visitato Roma, Rimini, il cimitero dove ho depositato fiori sulla tomba di Federico e Giulietta, siamo stati nelle chiese dove si erano tenuti i funerali dei coniugi, abbiamo fatto una passeggiata per Via Margutta, Via Veneto.
Volevo vedere tutti i luoghi legati a Fellini e alla Masina. Tutto questo è stato un modo di avvicinarsi. Essendo a Rimini ho fatto un happening in un piccolo circo da strada. Ho indossato un naso da clown.
Ti sei presentata nei panni di Gelsomina?
Si! Da sempre sono affascinata dalla figura del pagliaccio.
Avevi un approccio positivo verso il pagliaccio?
Si! Da sempre mi piaceva l’idea di lavorare al circo e fare il clown. Preparandomi al ruolo volevo prendere qualche lezione in una scuola circense di Varsavia ma mi hanno detto che da qualche anno la classe di clown non c’era per mancanza di candidati. Studiando il monodramma ho scoperto che Fellini era affascinato dai pagliacci. Affermava che il pagliaccio è l’artista più grande tra gli attori.
Mi par di capire che la creazione di questo monodramma è stato un processo molto arricchente.
Per essere Giulietta ho imparato di suonare la tromba, ho iniziato a studiare anche l’italiano e il tip tap. Ho iniziato una ricerca su materiali che sono diventati per Marek la base per fare l’adattamento teatrale. Ho visto il documentario “Giulietta Masina: la forza di un sorriso”. Cercando le informazioni su internet, nei libri, ho iniziato a conoscere i fatti dolorosi della sua vita. Leggendo un’intervista con Sandra Milo ho saputo che in un certo momento della sua vita la Masina è stata presa da una forte gelosia. E ne aveva tutti i motivi. Immaginiamoci cosa deve provare un’attrice, premiata con due Oscar, moglie di un regista, mandata nel dropout perché suo marito, genio del cinema si dedica ai film con delle dive dal fisico statuario come protagoniste. Mi disturbava la domanda: come doveva sentirsi lei come donna, moglie e attrice. Il dramma della sua figura va integrato dalla storia della sua maternità, perché la Masina ha perso la prima gravidanza dopo essere caduta dalle scale e il suo secondo figlio morì quando aveva solo tre settimane. Lo spettatore viene a conoscenza di tutti questi fatti seguendo il monodramma.
Masina vive con un genio, il loro rapporto lo vede come l’amore perfetto e praticamente, sin dall’inizio, raccontando la storia del suo amore si pone un gradino sotto rispetto a Fellini, giustificandolo.
Quando si sono conosciuti lui era già un noto scrittore, autore di radiodrammi (in uno di questi appunto recitò la Masina). Fellini ripeteva sempre che sua moglie è sempre stata la sua ispirazione più grande e che senza di lei lui i suoi film non li avrebbe mai fatti e che lei aveva dentro di sé quella forza di bambina, un animaletto sincero, una verità per la quale era tanto apprezzata.
La Masina era amata dal pubblico. Si dice addirittura che Fellini era geloso, perché per strada tutti la riconoscevano e la fermavano.
Ma non noti un certo deficit di femminilità nella sua figura? Nello spettacolo si sentono addirittura le parole: “Da sempre avevo quell’aria da bambina e tutti mi trattavano proprio come una bambina e da sempre mi chiamavano Giulietta”.
Masina soffriva vedendo le bellezze statuarie, le icone della sensualità italiana come protagoniste dei film di suo marito. Mentre a lei assegnava sempre i ruoli delle donne spaventate, represse. Invece di scarpe decoltè Fellini le faceva indossare le scarpe da ginnastica e i calzini. Credo che ogni donna possa capire come si sentisse. Anche da attrice che non recita più deve stare a vedere il marito circondato dalle bellezze. Io, da moglie di un regista, posso dire che per me sarebbe stata una situazione… molto difficile. Lei lo giustificava sempre affermando che Federico è come un ragazzino. È stata una donna molto intelligente. Laureata in filosofia era anche molto credente. A volte ci penso: all’epoca i divorzi non erano una soluzione tanto comune, ma anche se fossero stati un po’ più facili non è che Mesina avrebbe divorziato da Fellini. Ma sono soltanto delle divagazioni. In verità sono stati insieme 50 anni.
Hai parlato delle forte emozioni nel contatto con lo spettatore. Anche se comunemente il monodramma si associa con un monologo, secondo me in questo tipo di rappresentazione teatrale si costruisce un dialogo intenso tra l’attore e lo spettatore. Cosa dici nello spettacolo “Non mi piace, Signor Fellini”?
Creando questo spettacolo ci rendevamo conto del fatto che la metà del pubblico non saprà neanche chi era Giulietta Masina, e magari una parte più piccola non conoscerà neppure chi era Fellini… Credo che ognuno deve tirare fuori da questo spettacolo ció che lo toccherà in maniera più forte. Per me è di sicuro una storia dolorosa di una donna che amava tanto, con molta devozione ed era tanto sofferente nel suo matrimonio. Ascoltando il racconto della protagonista sulla sua vita molto ricca, seguendo la sua metamorfosi da fanciulla spensierata a donna matura e ferita che deve mettersi in confronto con la verità sulla sua vita di sicuro molte persone riusciranno a riconoscere un frammento della loro storia e ad identificarsi con questa.
I tuoi programmi professionali sono legati con l’Italia?
Si. Ho una scatola magica, ci ho messo dentro una copia del film “Ginger e Fred”, una foto fatta in Italia, il Teatro nella Valigia e in un certo momento tutto ha iniziato ad avvicinarsi. Ho conosciuto l’attrice Karolina Porcari che mi ha invitato alla partecipazione nello spettacolo “La cattiva madre”. In maggio lo presenteremo a Lecce, nell’ambito del progetto “Strade Maestre”.
Abbiamo anche programmi legati con Torino e il tutto mi dice che realizzerò uno dei mie sogni più grande, presenterò “Lei non mi piace, Signor Fellini” in Italia, sebbene non in italiano, avrei dovuto conoscere la lingua molto bene per rendere tutte le emozioni e anche se ho un temperamento italiano, mi piace gesticolare, sono aperta, l’italiano rimane per me sempre una lingua straniera, ma chissà forse riesco a preparare alcune parti, ad esempio le citazioni dai film durante il monodramma, prese da “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “Ginger e Fred”.
E allora la prossima tappa è Torino?
Si, al Cinema Massimo di Torino a settembre di quest’anno nell’ambito del festival si svolgerà anche una rassegna dei film di mio marito, Marek Koterski e dei film di Federico Fellini. I loro nomi si incontrano non per la prima volta nel contesto del festival. Nel 2004 Marek è stato premiato con il Grande FeFe alla carriera durante il festival del cinema dedicato appunto a Fellini.
Sono una vostra spettatrice fedelissima e molto volentieri farei un viaggio a Torino per vederti sul palcoscenico!
Firenze, ovvero come essere in una macchina del tempo!
Le città italiane evidentemente non sono banali. Si possono definirle una specie di macchina del tempo che ci permette di spostarci nel passato, oppure uno specchio che ci mostra le epoche passate sullo sfondo del moderno presente. E’ chiaro però che a tutti coloro che le visitano, esse danno l’opportunità di immergersi in una splendida e completamente diversa realtà, in cui ognuno desidera restare. Passeggiando per Firenze vale la pena rendersi conto che tra i milioni di piedi che hanno calpestato il selciato fiorentino, ci furono anche quelli di Dante Alighieri e Michelangelo che secoli fa camminavano in quelle strade, tanto che se ci fermiamo, respiriamo a pieni polmoni e ci guardiamo intorno, quasi quasi, sentiamo la loro presenza. In questo modo percepiamo Firenze con uno sguardo completamente diverso, e la nostra visita in questa città assume un carattere totalmente insolito.
Una cosa incredibile in tutte le città italiane è che sempre, uscendo dalla stazione ferroviaria, guidati solamente dalla propria intuizione, si è in grado di raggiungere la meta turistica più importante, ovvero il pieno centro della città. La mecca turistica di Firenze è soprattutto la Piazza del Duomo, dove si trova la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, una delle più grandi chiese cristiane, costruita al posto dell’antica cattedrale di Santa Reparata del IV secolo. L’immensità della cattedrale fa impressione su qualsiasi visitatore e nonostante i numerosi tentativi e il tanto impegno mi è stato difficile avvolgerla tutta con l’inquadratura della macchina fotografica. Vale anche la pena notare i dettagli della facciata (originariamente progettata in stile gotico, ma il suo aspetto attuale in stile neo-gotico è il risultato di rielaborazioni ottocenteshe), fatta di marmo. L’elemento che costituisce la copertura della crociera della Santa Maria del Fiore è un’enorme cupola progettata da Filippo Brunelleschi, sulla quale si può salire per ammirare un incantevole panorama di tutta la città, alla quale si ispirò Michelangelo stesso progettando la cupola della Basilica di San Pietro. Sulla piazza, accanto al Duomo, si trova anche il campanile di Giotto e il Battistero di San Giovanni, con la sua celebre, Porta del Paradiso, (chiamata così da Michelangelo, creata però da Lorenzo Ghiberti nella prima metà del Quattrocento), fatta di bronzo e dorata, sulla quale sono presenti i bassorilievi che raffigurano le scene del Vecchio Testamento.
Invece il punto più importante sulla mappa di Firenze, senza il quale la visita a questa città non può essere terminata, è la Piazza della Signoria, chiamata anche il cuore di Firenze. Ci si trovano infatti, il famoso Palazzo Vecchio e la Galleria degli Uffizi, uno dei musei più famosi, dove si possono ammirare, tra l’altro, le opere di Leonardo Da Vinci, Caravaggio, Cimabue, nonché di Rubens e Rembrandt. Davanti al Palazzo Vecchio si erge una copia della scultura del David di Michelangelo, che ci fa capire un potenziale infinito delle capacità umane nella creazione delle opere d’arte, che, a quanto pare, al giorno d’oggi è impossibile ritrovare. Dalla Piazza della Signoria solo pochi passi ci dividono dal ponte più famoso della Toscana, ovvero il Ponte Vecchio.
Attraversando il Ponte Vecchio mi sento quasi come sul Ponte di Rialto (il che era probabilmente solo un’illusione causata da un cieco amore che provo per Venezia ed a causa del quale ho l’impressione che tutte le altre città siano create a sua immagine e somiglianza). Camminando in mezzo del ponte, su entrambi i lati, si inchinano verso di noi e si moltiplicano le gioiellerie, invece se scegliamo di attraversare il ponte su uno dei lati esterni possiamo ammirare il fiume Arno e i palazzi fiorentini che lo accompagnano lungo le rive. Questa vista è straordinariamente bella e romantica al tramonto quando sia l’acqua sia i palazzi vengono illuminati da una calorosa luce arancione.
Alla fine, una perla per gli amanti della letteratura, in particolare quell’antica e in particolare quell’italiana. In Via Santa Margherita, nel palazzo dove probabilmente è nato uno dei più famosi scrittori della letteratura italiana, si trova il museo Casa di Dante, dedicato alla vita e all’opera dell’autore della “Divina Commedia”. Una curiosità ulteriore è il fatto che sul marciapiede vicino al palazzo è stato scolpito il volto di Dante stesso, il quale, però, può essere intravisto solo dopo averlo prima bagnato con acqua.
Per completare la visita a Firenze, vale la pena recarsi al Piazzale Michelangelo (collocato un po’ distante dal centro), dedicato a Michelangelo, al quale, a quanto pare, i fiorentini si sono affezionati. Sul Piazzale si può ammirare un’altra copia della famosa scultura del David, circondato dalle copie delle quattro allegorie delle Cappelle Medicee. Ma la cosa che fa trattenere il fiato è il panorama su tutta la città che si estende davanti agli occhi dei visitatori. In questo modo, dando un ultimo sguardo alla città, mettete in conto di considerare la promessa di un ritorno imminente, visto che Firenze è una delle città, che si scopre lentamente ed a volte per caso, e un giorno solo non certo è sufficiente per vederla tutta e apprezzare pienamente questa città che ogni amante dell’arte, dell’architettura, della letteratura e di tutto quello che è italiano dovrebbe visitare.
Non si guarda, si entra dentro l’opera di Alex Urso
Alex Urso – artista marchigiano, classe 1987, vive e lavora tra Milano e Varsavia.
Solidea Ruggiero racconta così la sua arte:
Avvertire l’esigenza continua di percorrere linguaggi differenti, con la consapevolezza che la distanza da essi racchiuda una credibilità artistica proprio nella sua totalità, come se ogni salto tecnico fosse legato all’altro. Vertere il senso e piegare l’interno a evoluzioni interpretative. L’avvertimento che quello a cui si assiste non può essere vissuto solo frontalmente, ma esige un movimento attorno ad esso, pretende attenzione da tutti i lati. Non si guarda, non basta osservare, si entra dentro l’opera di Urso.
La sceneggiatura principale che è l’alcova del contenuto, si esprime attraverso una scenografia tappezzata da oggetti che gli altri chiamano “scarto” e che Alex recupera, pulisce, rianima, costruendo nuove dinamiche di suggestione che invitano a sottotesti disarmanti, surreali, dissacranti, rifiniti con una minuzia ai limiti della più patologica precisione. Tutta l’opera di Urso è la messa in scena di un’indagine cucita con un lirismo altissimo che ricolloca ogni volta i personaggi in una nuova autonomia. L’artista, che è la somma di una formazione filosofico-letteraria e artistica complessa e necessaria alle sue evoluzioni (prima laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Macerata, poi diplomato in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera), si è appropriato di tutte le tecniche che si distanziano dalla iniziale e pura pittura, la quale, come dice lo stesso: “mi blocca, mi circoscrive, mi obbliga ad un limite, ad uno spazio, un formato. La tela mi respinge. Gli oggetti mi chiamano ”. Ed è proprio nell’assemblaggio, nel collage, nella ricerca spasmodica di materiali poveri, arrugginiti e abbandonati semplicemente perché hanno esaurito il loro utilizzo iniziale, che Alex monta, mescola, piega e scolpisce visioni che fanno da ponte tra la quotidianità e il suo intimo e familiare, tra il personale e il pensiero universale.
Dai micro-mondi delle scatole in cartone di Vanitas (2012) ai boxes in legno di Become Nature (2013) o Escape from a picture (2014), dagli assemblaggi di Born to fly away (2014), all’installazione di I’m a bird now (2014), dove ricrea attraverso una serie di rami scelti come bellezza compiuta e indipendente, curati e levigati, un bosco di uccelli di carta ritagliati a mano, per denunciare paradossalmente di fronte a questo scenario leggero, l’incompatibilità della natura sull’uomo, la repulsione tra la finzione e la realtà. L’artista costruisce significati e contesti che tendono ad allontanarsi da tutto il Sistema, attraverso delle composizioni di strati su strati di materiali distratti e di consistenze diverse, per affondare e ribaltare il concetto rubando infine la profondità alla tradizione del mondo dei teatrini, ottenendo così una tridimensionalità estetica rinnovata, con un surrealismo sempre evocativo e votato alla soggettività dell’interpretazione.
Alex, seppur inseguendo un filone preciso, ama giocare con le citazioni di ritagli di cultura o omaggi di figure dei grandi maestri, quasi per esorcizzare e creare discussione sull’importanza statica del passato, aspirando così ad un varco nuovo che capovolge sempre il concetto originario e che tributa con un microscopio l’importanza degli “altri”, quelli di cui non ci si era accorti (come nella serie di collage Musée de l’oubli (2014), in cui omaggia un ignoto artista francese dimenticato o mai conosciuto dal sistema culturale istituzionalizzato). Il senso della ricerca con lui diventa fisica metafora, e il suo sguardo una lente che è carica d’interesse e di pathos, di una naturalezza spontanea e semplice ed è il principio fondante del suo lavoro. Urso riesce a caricare di significati ulteriori gli oggetti ritrovati attraverso un accostamento continuo di rimandi che vanno dal reale all’immaginario, dallo scrutare gli stereotipi canonici al suo personalissimo pensiero, invitando attivamente lo spettatore ad un dialogo, una partecipazione, all’avvicinamento, all’incontro con l’opera che è sempre innanzitutto una esperienza.
Lo stabilimento Tesla a Berlino cerca dipendenti di lingua polacca

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