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La risposta di Morawiecki alle affermazioni revisionistiche di Putin
Palkiewicz, oltre ogni confine
“Avanzo nella foresta tropicale, bella e mostruosa, incombente e primordiale. Una straordinaria varietà di alberi, piante parassite, radici, liane, felci e rovi graffiano senza tregua. L’aria è calda, umida e soffocante, la vegetazione è putrescente, gli odori stordiscono. In questa natura, tanto fuori misura per l’uomo, qualche scimmia lancia urla di richiamo, un serpente striscia silenziosamente, degli uccelli esercitano l’ugola, una fila serrata di milioni di formiche rosse attraversa la strada.”
Inizia così il reportage di Jacek Palkiewicz su Angkor Tom l’antica città khmer in Cambogia, il luogo più affascinante del mondo secondo questo straordinario esploratore che sembra uscito da un libro di Joseph Conrad. La storia di Palkiewicz è una ininterrotta sequenza di avventure, emozioni, coraggio, ma anche tanto cuore e capacità diplomatiche. Nato in un campo di prigionia tedesco Palkiewicz ha fatto della sua vita un inno alla libertà, quella di muoversi continuamente per conoscere il mondo e i popoli, toccando e superando i confini geografici e umani, fisici e mentali, come quando nella condizione di “naufrago volontario” ha attraversato l’Oceano Atlantico, 44 giorni da Dakar a Georgetown in Guyana, da solo in una scialuppa con l’unico supporto di una bussola. Una tensione al vivere senza confini che l’ha portato a viaggiare in tutto il mondo anche in tempi in cui varcare una frontiera europea significava finire in prigione. Arrestato due volte dalla polizia della ex Jugoslavia, ed espulso in Polonia, mentre cercava di entrare in Italia dalla parte di Gorizia. Ma le catene non hanno impressionato Palkiewicz che proprio in Italia ha trovato la sua seconda patria. “In Italia ho lavorato al porto di Rimini, ho fatto l’inviato per riviste polacche e italiane, tra cui vent’anni di collaborazioni con il “Sette” e il Corriere della Sera, e soprattutto…ho conosciuto Linda,” racconta Palkiewicz.
In quel di Sandrigo nel 1972 incontra la bellissima Linda, una donna che fece girare la testa a Bing Crosby tanto per capirci, da cui ha avuto Konrad e Maximilian-Viktor, oggi entrambi a Shangai per lavoro, mentre Patrizia figlia del primo matrimonio lavora a Varsavia nell’azienda italiana Partnerspol, a conferma che in un modo o nell’altro l’Italia è sempre parte della vita di Palkiewicz che ha vissuto a lungo a Cassola, nell’area di Bassano del Grappa e che ai 1300 metri di Pieve Tesino fondò e diresse una Scuola di Sopravvivenza. Un luogo duro e magico in cui Palkiewicz ha insegnato a centinaia di persone come comportarsi negli ambienti più difficili e nelle circostanze più estreme, con stage in Amazzonia e nei deserti del Sahara, Atacama, Taklamakan, Gobi. Una scuola estrema che ha dato spunto ed è stata usata nel film “Noi uomini duri” di Maurizio Ponzi, con Renato Pozzetto, Enrico Montesano e Alessandra Mussolini.
Ma Palkiewicz ha superato anche i confini politici infrangendo diffidenze e cortine di ferro e diventando insegnante di sopravvivenza per i cosmonauti russi che poi a Roma accompagnò in visita da Giovanni Paolo II. Un uomo fuori dal comune che invita a cena il presidente Komorowski, chiama al telefono il ministro della difesa russo, addestra reparti europei antiterrorismo e riceve, dal presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, il riconoscimento di Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Così lo definisce “Newsweek”: Palkiewicz appartiene all’ultima generazione di esploratori di stampo vittoriano, un uomo che ha utilizzato le carovane del deserto, i sampan cinesi, gli elefanti nelle foreste dell’Indocina, e gli yak sugli altopiani del Bhutan.” Ma torniamo alla natia Polonia dove nel 2010 Palkiewicz è stato nominato ambasciatore della Regione Masuria nel concorso mondiale “7 nuove meraviglie della natura”, quando i grandi laghi della Masuria furono giudicati uno dei 5 più bei siti naturali d’Europa. Delle sue innumerevoli spedizioni quella che lo farà passare alla storia è sicuramente la missione dell’estate 1996 quando Palkiewicz a capo di una spedizione scientifica internazionale, patrocinata dal governo peruviano, ha localizzato la fonte del più grande fiume del mondo, ovvero la sorgente del Rio delle Amazzoni scrivendo così un nuovo capitolo della geografia mondiale. “A sei anni mi chiesero: cosa ti piacerebbe fare da grande? Sarò un esploratore, risposi secco”, racconta Palkiewicz i cui occhi sprigionano ancora desiderio di scoperte insieme alla soddisfazione per aver realizzato i suoi sogni.
Esploratore, giornalista, dottore in scienze geografiche Jacek Palkiewicz è anche membro della esclusiva Royal Geographical Society di Londra, dove si può essere ammessi solo su proposta di almeno altri due membri, ma per questo indomito polacco è bastata la raccomandazione di un altro personaggio mitico l’esploratore e scrittore norvegese Thor Heyerdahl protagonista della famosa avventura del Kon-Tiki.
Un dinosauro altamurano in Polonia
Altamura, cittadina di circa 70 mila abitanti, sorge nell’entroterra della provincia di Bari, quasi al confine con la Basilicata. La Cattedrale donata alla città da Federico II di Svevia e il famoso pane dop, unico nel suo genere, l’hanno resa famosa in Italia e nel mondo. Ma non c’è solo questo.
La presenza dell’uomo ad Altamura è antichissima come dimostrano i resti dell’Uomo di Altamura, unici resti di scheletro umano integro risalenti al paleolitico medio-inferiore e vissuto quindi circa 200 mila anni fa, ritrovati nella grotta di Lamalunga da un gruppo di speleologi il 7 ottobre 1993. Ed è del 1999 il ritrovamento, presso la Cava Pontrelli, delle impronte che testimoniamo il passaggio dei dinosauri in questa zona. Il sito di Altamura è “uno dei giacimenti a impronte più importanti e più spettacolari del mondo”. È stata stimata la presenza di 30 mila impronte di dinosauri erbivori che risalgono ad un periodo tra gli 83,5 e gli 85,8 milioni di anni fa (era Cretacica, stadio Santoniano). La Valle dei dinosauri è anche iscritta nella “lista delle indicazioni” (tentative list) dell’Unesco, l’organismo mondiale che iscrive i patrimoni dell’umanità come lo sono, ad esempio, i Sassi di Matera o i trulli di Alberobello e più recentemente le Dolomiti. Questa pre-lista è un passo ufficiale importante ma non decisivo se l’Italia non presenta anche un dossier di candidatura completo. La voce riportata è “Le Murge di Altamura” che comprende anche l’Uomo di Altamura. Un “sito diffuso”, scrive l’Unesco, in grado di “essere una testimonianza unica o eccezionale di una civiltà” e di “contenere superlativi fenomeni naturali”. Quindi, tra gli “eccezionali esempi della storia del pianeta”.
Ed ecco il “dinosauro federiciano” di Altamura. Dalle orme vere lo hanno riprodotto a grandezza naturale. Due metri di altezza per quattro di lunghezza. È un anchilosauro, il rettilone corazzato e quadrupede. Attenzione, però. Anche se nel nome porta le origini della città e della Puglia, non è qui che si può ammirare, bensì in Polonia! Si trova infatti, insieme a più di 100 modelli di dinosauro, nel JuraPark del piccolo Comune di Solec Kujawski, nella regione della Pomerania. Il parco, inaugurato nel 2008, occupa un’area di oltre 12 ettari ed è uno dei più grandi in Europa . Il modello altamurano è stato ricostruito sulla base degli studi fatti alla cava Pontrelli, sulla via per Santeramo, da Umberto Nicosia, paleontologo icnologo (esperto di impronte) dell’Università La Sapienza di Roma, che ne diede il nome “Apulosauripus federicianus”. Era l’inizio della primavera di quindici anni e mezzo fa, quando due geologi marchigiani, Massimo Sarti e Michele Claps, misero piede nella cava mentre facevano indagini per conto di una compagnia petrolifera per individuare possibili siti dove fare prospezioni. Cercavano l’oro nero, trovarono un patrimonio. Quella che fu ribattezzata la “Valle dei dinosauri”.
Nicosia mise in luce e pulì dai detriti sei piste, i camminamenti mano-piede dei dinosauri. Fino a poco tempo fa era possibile vedere, con non poca emozione, queste impronte che quasi ne fotografavano il passaggio perché quelle tracce belle e nitide riportavano anche il rialzo di fango che si era creato nel momento in cui la zampa era stata sollevata. E poi quella traccia fugace è rimasta per sempre grazie all’azione delle alghe che l’hanno impressa nella roccia. Quando l’orma era ben pulita era possibile vedere persino le pieghe della pelle. Quel lavoro ormai da molto tempo è cancellato. Sulla paleosuperficie le impronte ci sono ancora ma adesso il luogo è diventato una distesa indistinta di detriti di roccia, pietrisco e pozzanghere che nascondono tutto. Un po’ proteggono certo, ma preoccupa la lenta e inesorabile azione di erosione perché la pioggia qui batte forte. Inoltre dalla cava scende tutto giù perché è il punto più basso.
Si può quindi ben immaginare la grande sorpresa quando un turista altamurano ha scoperto nel parco giurassico di un Paese straniero il dinosauro di Altamura. Chi lo avrebbe mai detto….il modello in scala 1:1 in Polonia, a 2.200 chilometri di lontananza!
Riviste femminili, specchio della condizione della donna
Vivo in Italia già da tre anni e questo mi aiuta a cogliere alcune differenze culturali. Non è il classico discorso sugli uomini italiani donnaioli, o su il loro modo di fare e di corteggiare. Un paese mediterraneo come l’Italia è impossibile da paragonare alla Polonia slava, ma si può comunque registrare la grande differenza sul ruolo della donna nella società. E ho deciso di approfondire questo tema nella mia tesi di laurea triennale all’università di Bologna. Ho analizzato e studiato il contesto femminile tramite tre testate giornalistiche italiane: “Lidel” edizione del 15 gennaio 1927, “Grazia” edizione del 2 febbraio 1939, “La domenica della donna” edizione del 26 giugno 1949; e tre polacche: “Bluszcz” edizione del 5 giugno 1926, “Moja przyjaciółka” edizione del 25 giugno 1939 e “Przyjaciółka” edizione del 30 gennaio 1949. Volevo capire a fondo, attraverso una ricerca storica, da dove provengono queste differenze.
Al giorno d’oggi Polonia e Italia sono vicine più che mai, e rappresentano importanti paesi dell’Unione Europa. Invece nel periodo tra gli anni 20-40 del XX secolo l’Italia e la Polonia vivevano due situazioni completamente differenti. Anche la condizione delle donne era diversa, un ottimo esempio è il diritto di voto: le polacche possono votare dal 1918, mentre le italiane dal 1946.
In Italia prevale da sempre la cultura patriarcale, tipica del mediterraneo. In Polonia, invece, il ruolo della donna è opposto: la donna è stata da sempre una figura importante nella società. Anche l’odiato comunismo polacco stimolava le donne all’emancipazione e al lavoro, mentre all’opposto il fascismo spingeva le donne ad essere soprattutto le mamme di futuri fascisti.
Ma da dove vengono queste differenze sul ruolo della donna?
Ho iniziato la mia analisi da due periodici: “Bluszcz”, uno di primi giornali per donne in Polonia e “Lidel”, senza dubbio il suo equivalente italiano. Perché? Oltre al fatto che tutti e due cominciano ad avere una certa importanza giornalistica intorno agli anni Venti del secolo scorso, entrambi trattano le loro lettrici come casalinghe, potente target delle pubblicità, mantenendo al contempo un buon livello letterario. Dopo aver analizzato le riviste, ritengo che nonostante la ricchezza delle nobil donne italiane negli anni Venti (di cui parla “Lidel”), “Bluszcz” offra un contenuto più elevato e di maggior rispetto verso la donna. Sembra quasi che le donne polacche di quegli anni, nonostante le più umili condizioni economiche, non mostrino interesse solo verso la cura del proprio copro, della casa e del marito. Ma ambiscano ad avere una vera istruzione ed essere informate sulla politica, sulla situazione del proprio paese e soprattutto sull’emancipazione femminile. Temi che in “Lidel”, occupano poco spazio poiché la maggior parte delle pagine viene dedicata a gossip mondani, pubblicità, consigli su bellezza e moda.
La stessa tendenza si può notare paragonando “Moja przyjaciółka” e “Grazia” del 1939. “Grazia” si rivolge alle casalinghe o a giovani fanciulle ma senza offrire loro nessun contenuto pratico, non tratta dei problemi delle donne, di psicologia, e neppure consiglia su come mantenere la casa. Offre piuttosto alle proprie lettrici articoli sostanzialmente ingenui ad esempio: Come avere un vero sorriso? “Non il sorriso in serie di Hollywood, non il sorriso a freddo delle commesse che vi invitano ad acquistare ma il vero sorriso che parte dal cuore, caldo e spontaneo: questo deve essere il vostro sorriso”. Invece in “Moja Przyjaciłółka” la maggior parte dei testi tratta delle donne lavoratrici, degli eventi delle organizzazioni femminili, di libri, d’arte, ma anche dei lavori a maglia, dell’educazione dei bambini e delle ricette. “Przyjaciółka” e “La domenica della donna” sono un’altra occasione di paragone tra Polonia e Italia. Entrambi i periodici nascono negli anni 1948-1949 e sono dei popolari settimanali femminili di otto pagine. In entrambe le pubblicazioni non ci sono molti articoli di alto livello, ma le differenze si notano lo stesso. “La domenica della donna” non tratta minimamente il tema dell’emancipazione delle donne e come gli altri giornali italiani precedentemente citati non ha dei testi di valore letterario. In “Przyjaciółka” non mancano invece gli articoli di stampo femminista, culturali e seri, anche se non è una rivista libera, la propaganda comunista è ostentata.
Comunemente sappiamo che i giornali spesso rispecchiano il livello dei propri lettori oltre ad essere un mezzo fondamentale della comunicazione. Nella mia tesi attraverso l’analisi dei periodici ho scoperto che fin dagli anni Venti le donne polacche erano più emancipate e libere rispetto alle donne italiane, anche se nella vita quotidiana di polacche e italiane c’erano molte cose in comune come la cura per la casa e per se stesse e l’interesse per la moda e la cucina. Uguale come al giorno d’oggi anche novanta anni fa le donne volevano essere belle. Volevano piacere agli uomini, cucinavano il cavolfiore e mettevano il rossetto. Ritengo che nel progettare un giornale per le donne si dovrebbe innanzi tutto fare una scala di priorità tematiche. Come dev’essere un giornale per le donne? É soltanto un passatempo o dovrebbe contenere qualche “idea importante”? É solo una rivista ingenua, carta straccia dedicata alle casalinghe o un’importante testimonianza di un quadro sociologico dei tempi nei quali il giornale viene stampato? Provando a rispondere a queste domande sono convinta che i giornali femminili dovrebbero sempre più trattare temi importanti per le donne, e soprattutto rispettare le lettrici, considerandole come persone e non solo come oggetti di bellezza. Con dispiacere noto invece la tendenza delle riviste femminili ad inserire sempre meno contenuti di valore intellettuale. Dalla mia ricerca ho capito che le differenze culturali che mi colpiscono come polacca che vive in Italia provengono anche dalla storia, ovvero le donne italiane si sono emancipate molto più tardi rispetto alle donne polacche. Ancora oggi noto molte differenze sociali come la mancanza in concreto di eguaglianza di diritti tra uomini e donne oltre ad un diffuso maschilismo. Non posso che augurarmi che il futuro riservi a tutte le donne del mondo uno status migliore dell’attuale, magari rispecchiato da riviste femminili di alta qualità. Perché citando Oriana Fallaci:
“La rivoluzione più grande è, in un Paese, quella che cambia le donne e il loro sistema di vita. Non si può fare la rivoluzione senza le donne. Forse le donne sono fisicamente più deboli ma moralmente hanno una forza cento volte più grande.”
Vigilia al cinese o rigorose tradizioni? Il groviglio natalizio tra Polonia e Italia
Tra le tante affinità che notiamo tra italiani e polacchi, una cosa che invece ci distingue nettamente è il modo di celebrare le due feste cattoliche più importanti: Natale e Pasqua. Di questa seconda, non ne parliamo neanche, perché mentre noi polacchi solennemente decoriamo i cestini riempiti di vari ingredienti da benedire, cuciniamo żurek (tipica zuppa polacca fatta dalla fermentazione della farina) e dipingiamo con vari metodi le uova sode, gli italiani organizzano al massimo una grigliata fuori città.
Il Natale invece lungo la Penisola è, senza ombra di dubbio, celebrato con serietà ma diversamente rispetto alla Polonia. Ai miei amici italiani spiego spesso le tante tradizioni complicate della Vigilia che si ripetono invariabilmente tutti gli anni nelle case di 40 milioni polacchi. D’un fiato cito tutti gli esempi: l’inizio della cena con la prima stella in cielo, i dodici pasti, l’ostia, la paglia sotto la tovaglia, un posto in più apparecchiato per un viandante disperso, il repertorio delle canzoni natalizie conosciute da tutti fin da bambini… Potrei andare avanti ancora a lungo ma i miei amici italiani, sorpresi da tutte queste usanze, stanno già guardandomi con gli occhi spalancati. Non scorderò mai quando ho chiesto ad un’amica di Padova che cosa faceva per la Vigilia e lei mi rispose: “Vado a mangiare al cinese con il mio ragazzo” provocandomi un mezzo attacco cardiaco! Le nostre usanze natalizie polacche sono abbastanza omogenee nel Paese mentre in Italia cambiano come il dialetto (ogni tre chilometri!).
La Vigilia è un po’ meno importante in Italia perché nella Patria di Dante con molta serietà si organizza il pranzo del 25 dicembre. Nel Lazio non può mancare il capitone e in Calabria la frittura di carciofi e zeppole. Generalmente, al contrario dalla nostra universale carpa e crauti, in Italia possiamo mangiare tortellini, lasagne, pollo arrosto, agnello, tartufi e tante altre cose che cambiano quasi di casa in casa. Secondo un mio amico il motivo per cui si dà più importanza al pranzo natalizio che alla Vigilia, è dovuto al fatto che abitualmente queste feste coinvolgono nella preparazione nonne e zie di non prima giovinezza. Per rispetto per la loro età invece di organizzare una cena che durerà fino a tardi è meglio celebrare insieme il pranzo.
Un’altra differenza è quella di chi porta i regali ai bambini. Mentre in Italia i principali donatori di regali sono Babbo Natale e la Befana, in tutta la Polonia invece il 6 dicembre per tutti bambini arriva Babbo Natale-San Nicolò, che a quelli bravi porta i regali, mentre a quelli cattivi la verga. Le usanze sono diverse anche se parliamo dei regali sotto l’albero di Natale. Anni di regime comunista hanno spinto a convincere i bambini polacchi che i doni natalizi li porta “Nonno Gelo”, inventato in Russia perché il suo equivalente polacco “Il piccolo Gesù” in Unione Sovietica suonava troppo religioso. Ma anche in Italia ci sono aspetti natalizi che uniscono tutti: il presepe, spesso bellissimo e dettagliatissimo, e il panettone, anche se in competizione storica con il pandoro, che possiamo comprare fin da novembre impacchettati negli enormi cartoni che creano piccole piramidi nei negozi. Mentre il Natale (ma intendo anche la Vigilia) in Polonia è più coeso, abbastanza monotono, con variazioni meramente cosmetiche, in Italia troviamo un groviglio di usanze, tradizioni e modi di celebrarlo. È bello essere diversi, ma io sono contenta di poter condividere gli stessi sapori, il profumo dei funghi secchi, il gusto di bevanda alla frutta secca e l’imbarazzo intimidito di scambiare gli auguri con l’ostia con tutti i polacchi. Gli italiani possono invece apprezzare il fatto che le loro tradizioni sono uniche e in un certo modo intime per ogni regione, città e famiglia.
Il grammelot di Dario Fo
Nel 1969 con “Mistero buffo” il futuro premio Nobel per la letteratura Dario Fo metteva in scena uno spettacolo recitato in una lingua mescidata che univa, contaminandoli e fondendoli, diversi dialetti lombardo-veneto-friulani con la sua personale memoria della lingua dei giullari medievali. Il testo, pubblicato per la prima volta nello stesso anno a Cremona, con il sottotitolo di “Giullarata popolare in lingua padana del ‘400”, in realtà introduceva nella storia del teatro e della lingua italiana non una ripresa del padano tardo medievale, bensì quello che lo stesso Fo chiamò grammelot, cioè un discorso completamente agrammaticale e asemantico, eppure fortemente comunicativo nella sua realizzazione scenica, reso tale grazie alle doti mimiche e vocali dell’attore, costruito sulla imitazione della cadenza e della sonorità di una lingua o di un dialetto, che va a realizzare un discorso, senza però articolare frasi di senso compiuto.
Un linguaggio scenico, dunque, che non si fonda sull’articolazione in parole, ma riproduce alcune proprietà del sistema fonetico di una determinata lingua o varietà, come l’intonazione, il ritmo, le sonorità, le cadenze, la presenza di particolari foni, e le ricompone in un flusso continuo, che assomiglia a un discorso e invece consiste in una rapida e arbitraria sequenza di suoni: non solo, essendo dotato di una forte componente espressiva mimico-gestuale che l’attore esegue parallelamente alla vocalità, l’attribuzione di senso a un brano di grammelot è perciò resa possibile dall’interazione tra i due livelli che lo compongono, quello sonoro e quello gestuale.
Certamente se prodromi ed esempi di quello che oggi chiameremmo gramelot sono rinvenibili pure in precedenza nel teatro popolare europeo ma anche nel cinema, come nello straordinario monologo di Adenoid Hynkel nel film “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin, in Italia la parola però comincia ad essere testimoniata solo dopo il successo di “Mistero buffo”, nonostante lo stesso Fo abbia amato costruire una leggendaria origine storica di questa tecnica recitativa, facendo passare la vulgata che questo artificio fosse utilizzato da giullari, attori itineranti e compagnie di comici della commedia dell’arte già in epoca tardo medievale, quando questi professionisti dello spettacolo sarebbero stati indotti a recitare usando intrecci di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, affidando alla gestualità e alla mimica quel tessuto connettivo che rendeva la comunicazione possibile a prescindere dalla lingua parlata dal loro uditorio.
Ma in verità, progettando il suo “Mistero buffo”, aveva con ogni evidenza invece in mente ed evocava le narrazioni di quei fabulatori contadini che aveva avuto la fortuna di udire ed ammirare durante la sua infanzia, piegando inoltre chiaramente la sua scelta linguistico-teatrale verso un ben orientato senso ideologico, volto a valorizzare il recupero di una cultura popolare allora già in via di estinzione.
In effetti affascina il mito di queste immaginarie compagnie teatrali sempre in viaggio, che, muovendosi per l’Europa, senza poter fare affidamento su lingue franche per farsi intendere, oppure sulla conoscenza di lingue straniere da parte del pubblico, per la comunicazione non potevano che basarsi su lingue che il sito unaparolaalgiorno.it definisce “chimeriche, intrecci fra dialetti”, ipotizzando il grammelot come uno strumento capace di superare qualunque difficoltà di comprensione, pur possedendo una base linguistica al discorso e denotando la provenienza geografica del personaggio in scena. Ma anche il termine stesso grammelot o gramelot, che parrebbe una voce presa in prestito dal francese, è in realtà pure esso di origine imitativa e forse derivata dal veneziano: pensato come strumento recitativo, col suo assemblamento di suoni, onomatopee, parole e foni privi di significato in un discorso, ha trovato comunque nelle capacità gestuali di Fo la perfetta quadratura.
In “Mistero buffo” è soprattutto nella parte intitolata “La fame dello Zanni” che Dario Fo oltrepassa la mescidanza dialettale per raccontare in una lingua inventata, e soltanto risonante delle cadenze dialettali, la fame onnivora di un contadino inurbato nella Venezia del Cinquecento, Zanni, appunto: un povero che preso dalla fame si addormenta e sogna di mangiare qualsiasi cosa, immaginando di possedere tre pentoloni nei quali cucinar polenta, cinghiale e verdure; ma poi, non ancora sazio, di iniziare a mangiarsi parti del suo stesso corpo, lasciandosi alla fine solo la bocca a masticare; per poi svegliarsi e capire drammaticamente che si trattava solo di un sogno, disperandosi prima, per infine, sempre in preda ai morsi della fame, gratificarsi e saziarsi catturando e mangiando di gusto una mosca che lo stava infastidendo.
Ma a rendere efficace il grammelot serve un grande interprete, come appunto Dario Fo, capace di improvvisare un grammelot, con il quale lo spettatore si accorge di aver capito tutto, pur senza aver capito nulla. E sulla sua scia, anche un istrionico cantante come Adriano Celentano ha lasciato un esempio di grammelot musicale, imitando i suoni dell’inglese cantando nel 1972 la sua “Prisencolinensinainciusol”.
Le emozioni nostre alleate
“Abbiamo due menti, una che pensa, l’altra che sente.
Queste due modalità della conoscenza,
così fondamentalmente diverse,
interagiscono per costruire la nostra vita mentale.”
(Daniel Goleman)

Le emozioni accompagnano diversi momenti della nostra esistenza. A volte però vengono vissute come difficili, negative, complicate da affrontare e da gestire. La vita ci pone davanti a prove, imprevisti spesso complessi che hanno necessariamente un impatto a livello emotivo. Riconoscere le emozioni e saperle governare permette di gestire al meglio la propria vita. In psicologia, le emozioni sono generalmente definite come uno stato complesso che si traduce in cambiamenti fisici e psicologici che influenzano il pensiero e il comportamento (L. Mecacci 2001). Sono il segnale che si è verificato un cambiamento, nel mondo interno o esterno, percepito soggettivamente come saliente. Le emozioni sono un costrutto multicomponenziale. È possibile infatti rintracciare la componente cognitiva da parte dell’individuo circa l’antecedente emotigeno, la componente fisiologica dell’organismo (ad esempio, variazione della frequenza cardiaca, sudorazione, pallore, etc.), le espressioni verbali (il lessico emotivo) e non verbali (postura, espressioni facciali, gesti, etc.), la tendenza all’azione ed infine il comportamento vero e proprio, finalizzato a mantenere o modificare il rapporto tra individuo e ambiente in un dato momento (Scherer1984).
Perché proviamo emozioni e perché è così importante saperle decifrare? Le emozioni non devono essere confuse con i “sentimenti” e gli “stati d’animo”. Le emozioni sono caratterizzate da reazioni affettive intense, con insorgenza acuta e di breve durata determinate da uno stimolo interno o esterno. Mentre i sentimenti e gli stati d’animo presentano un’insorgenza meno acuta e tendono ad essere più durevoli nel tempo (Gordon 1985).
Inoltre le emozioni possono essere distinte in: emozioni primarie ed emozioni secondarie (Silvian Tomkins 1962, 1970).
Le emozioni primarie sono emozioni innate e sono presenti in ogni popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali. Le emozioni secondarie, invece, originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo, con l’interazione sociale (Legrenzi, 1994). Non solo, la loro percezione e manifestazione è largamente influenzata dalla Cultura di riferimento.
Quali sono quindi le emozioni primarie o universali?
Secondo Ekman e Izard possono essere classificate come segue:
- rabbia, generata dalla frustrazione, può manifestarsi attraverso l’aggressività;
- paura, risposta innata ad un pericolo che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;
- tristezza, si manifesta a seguito di una perdita o da un scopo non raggiunto;
- gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti i propri desideri;
- sorpresa, origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;
- disprezzo, mancanza di stima e/o rifiuto verso persone o cose;
- disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.
Tra le emozioni complesse è possibile considerare: allegria, invidia, vergogna, ansia, noia, rassegnazione, gelosia, speranza, perdono, offesa, nostalgia, rimorso, delusione, sollievo (Ekman 2008; Izard 1991).
Spesso, quando ci si riferisce alle emozioni, si tende a distinguere tra emozioni positive ed emozioni negative. Questa visione è di per sè fuorviante perché induce a pensare che esistano emozioni “giuste” ed emozioni “sbagliate”. Tale convinzione innesca un meccanismo di repressione che porta ad inibire le emozioni considerate negative. È importante invece considerare che le emozioni possono essere adeguate ad una situazione specifica o possono non esserlo, possono essere piacevoli o spiacevoli ma non sono sbagliate o negative.
Ma cosa succede quando reprimiamo le emozioni?
Secondo Freud “Le emozioni represse non muoiono mai. Sono sepolte vive e prima o poi usciranno nel peggiore dei modi.”
La mente e il corpo costituiscono un’unità, non è quindi insolito che le emozioni represse finiscano per manifestarsi attraverso problemi psicosomatici.
Uno studio condotto presso l’Università di Aalto ha rivelato come la rabbia repressa, ad esempio, è associata al doppio del rischio di subire un infarto. È inoltre noto che lo stress innesca la produzione di cortisolo, un ormone che genera processi infiammatori che risultano dannosi per le cellule del nostro corpo e che possono quindi innescare gravi malattie.
Le persone che hanno la tendenza a reprimere le loro emozioni reagiscono con una maggiore eccitazione fisiologica alle situazioni difficili rispetto alle persone che soffrono di ansia, come infatti emerso in uno studio classico condotto presso la Stanford University.
Dunque, quali sono le funzioni delle emozioni?
Le emozioni hanno un ruolo fondamentale a livello evolutivo e sono indispensabili per la sopravvivenza fisica e psicologica: servono a proteggerci, a riconoscere i pericoli e a difenderci da essi. Sono degli importanti indicatori, ci segnalano come stiamo e se stiamo raggiungendo gli obiettivi che ci siamo prefissati. Ci indicano se siamo soddisfatti o se abbiamo bisogno di un cambiamento nella nostra vita.
Tutte le emozioni sono quindi utili ed indispensabili. Senza paura per esempio non ci fermeremmo al semaforo rosso, senza la tristezza non riusciremmo ad elaborare i lutti e le perdite della nostra vita, ecc.
Quando però viviamo un’emozione troppo intensamente o quando non riusciamo a riconoscerla e decifrarla, corriamo il rischio che questa si rivolti contro di noi. Fattori culturali inoltre possono incidere sulla nostra capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni.
Capita di sentir dire per esempio ai bambini di non piangere o di non arrabbiarsi. Questo modo di agire fa sì che alcune persone in età adulta non siano in grado di gestire i loro stati emotivi e quindi tendano a reprimerli.
Dire invece come ci sentiamo o come gli altri ci fanno sentire, senza timori, ci permette di sviluppare relazioni interpersonali più mature e autentiche, aiutandoci a stabilire dei limiti sani e necessari per il nostro benessere. Si tratta quindi di dire le cose nel modo giusto, ma anche di farlo al momento giusto.
Non c’è una regola prestabilita che definisca cosa determini o meno una corretta espressione emotiva. Tuttavia, esiste un principio guida, quello di esprimere le emozioni quando sentiamo il desiderio di farlo, quando si ha la sensazione che ne va del proprio benessere.
Saper esprimere le proprie emozioni al momento giusto, in maniera chiara e senza ferire gli altri è la chiave per raggiungere il proprio benessere psico-fisico.
Rendere le emozioni nostre alleate migliora la consapevolezza di sé, orienta le proprie scelte e migliora le relazioni interpersonali.
www.virginiapatrizi.com Dott.ssa Virginia Patrizi
+48 532 829 605
Fonte dell’immagine: https://www.consorziofarsiprossimo.org/
Il film “Corpus Christi” nella lista dei candidati all’Oscar
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Vacanze da sogno a Reggio Calabria
Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine, scriveva Giovanni Pascoli su Reggio di Calabria. In effetti la città di Rhegion, come la chiamavano nell’età antica, è stata fondata nel VIII secolo a.C. sul territorio che all’epoca apparteneva alla Magna Grecia ed era una delle sue più importanti città con un grande pregio artistico-culturale grazie alla scuola filosofica pitagorica e alle scuole di scultura e di poesia. Tutta la città di Reggio e il suo territorio metropolitano sono finora un parco archeologico a cielo aperto. Dalle evidenze archeologiche presenti in città come l’Ipogeo di Piazza Italia (antica Agorà di Reggio), le Mura Greche e le Terme Romane sul Lungomare Falcomatà, agli scavi dell’antica Locri Epizefiri e dell’antica Kaulon. Celebri anche due statue in bronzo di uomini greci, dette Bronzi di Riace, ritrovate dopo due millenni in fondo al mare e diventate subito un simbolo della città, adesso sono custodite al Museo nazionale della Magna Grecia.
È situata esattamente sulla punta dello “Stivale”, a nord riparata dalle pendici dell’Aspromonte e a sud bagnata dalle acque del Mar Ionio, accanto dello stretto di Messina dove gli studiosi collocano l’incontro di Ulisse con i mostri mitologici Scilla e Cariddi. Si trova inoltre nel centro esatto del Mediterraneo e gode di un suggestivo panorama sulla Sicilia e sull’Etna. Infatti, la Sicilia è a portata di mano a soli 20 minuti di aliscafo. Con un alloggio a Reggio in giornata si può fare una gita a Taormina, al Parco dell’Etna, a Messina o alle Isole Eolie. Però non è solo un posto ideale per gli amanti della storia e delle vacanze attive. La città offre anche una bellissima spiaggia gratuita in centro dove passare le giornate in pieno relax e di sera, sul lungomare, non mancano le discoteche o i concerti soprattutto nella stagione estiva. Grazie al clima mite ogni stagione è ideale per visitare la Calabria.
Dalla primavera all’autunno sarà un ottimo periodo per tutti quelli che amano trascorrere il tempo tra la spiaggia e il mare, l’inverno invece sarà perfetto per chi preferisce concentrarsi sulla scoperta degli itinerari turistici. Da non perdere inoltre le prelibatezze della regione come gli agrumi, l’olio d’oliva o il gelato artigianale che qui ha gusti che sicuramente non avete mai assaggiato. Un alloggio ideale per sfruttare a pieno la ricca offerta di questa magnifica località meridionale è la casa vacanze Mare Blus situata in pieno centro di Reggio e gestita da Grażyna Zagórska, una polacca che da oltre trent’anni abita in Calabria. “È un posto magico ed indimenticabile. Tutte le persone che vengono sono entusiaste perché trovano il silenzio e la tranquillità, sono a due passi dal mare e da tutti i monumenti della città. Ho ospiti da tutte le parti del mondo ma mi fa sempre piacere accogliere i turisti polacchi,” dice la signora Grażyna che ai suoi ospiti offre un monolocale con un letto matrimoniale (è possibile aggiungere un lettino per bambini) e due splendidi terrazzi con una vista meravigliosa sull’Etna. Sul terrazzo più piccolo, nella stagione estiva, è possibile dormire sul divano riparato da un tetto. Quello più grande invece è munito di un comodissimo gazebo dove si trova un ampio divano e un tavolo per otto persone. E si possono fare, previo accordo, anche piccole feste.
La casa vacanze si trova a soli 8 km dall’aeroporto, a 4 km dalla stazione centrale, a 5 min. dall’autostrada e a 10 minuti a piedi dal porto. Ad ogni ospite è offerta una deliziosa e abbondante colazione mediterranea. Inoltre la signora Grażyna è sempre disponibile a dare delle informazioni utili: come risparmiare sui biglietti, dove mangiare le migliori specialità calabresi oppure quali monumenti e musei meritano la visita. Non è finita qui! Chi vuole avere un ricordo memorabile delle vacanze può chiedere alla signora Grażyna una sessione fotografica in spiaggia o per le strade della città. La prenotazione si può fare sul sito ufficiale di Mare Blus oppure su booking.com. A richiesta è possibile un passaggio da e all’aeroporto/stazione.
CONTATTO:
Sito web: www.casavacanzamareblus.com
E-mail: grazynazagorska@yahoo.it
tel. 0039 3204252861
Booking.com: Casa Vacanze Mare Blues