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Home Blog Page 3

“Corte Polacca” Sebastiano Giorgi

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Appena ci si addentra nella raccolta di racconti di Sebastiano Giorgi Corte Polacca. Avventure oniriche tra Venezia e Varsavia, pubblicata dalla casa editrice Austeria, il mondo sembra diventare più leggero e anche un po’ più instabile. O, almeno, più ricco di sorprese. E tale sensazione diventa più che mai intensa quando ci si lascia irretire da questa successione di singolari vicende abbozzate con tratto sincero e ironico dal protagonista, il fumettista Checco, a cui fanno da sfondo la Varsavia contemporanea e settecentesca, ma che sono intrinsecamente connesse con Venezia.

Il contrasto tra stabilità e instabilità si percepisce bene a bordo di un vaporetto veneziano. Allo stesso modo, in un ritmo cadenzato e ipnotico, i diversi spazi temporali rimangono collegati in una sequenza di storie in cui riflessioni preoccupate sull’attualità sociale si mescolano a descrizioni di situazioni private che portano consolazione in questo mondo difficile mondo contemporaneo. Una casa e una persona cara danno un senso di stabilità (I genitori di Agata), altrimenti difficile da trovare nello spazio dominato dai problemi attuali che vacilla sull’orlo di un precipizio; come la Venezia spettrale di Agamben. I racconti del volume di Corte Polacca, infatti, pur mantenendosi in una poetica ironica e leggera, sono – come sottolinea anche Alessandro Baldacci nella sua brillante introduzione – rivestiti da un tono malinconico, analizzato da Giorgi nel racconto da me preferito Nostalgie. La nostalgia, sentimento tipicamente veneziano, viene ritrovata dall’autore nei polacchi: «Per lungo tempo sono stato convinto che il veneziano di mezza età […] detenesse una sorta di record mondiale, o almeno europeo, di grado nostalgico. Lo pensavo finché non ho scoperto […] i sentimenti che pervadono l’animo di molti polacchi» (Nostalgie). Ci sono altre affinità inaspettate tra Venezia e Varsavia, che si completano a vicenda come lo yin e lo yang (Compro casa), come il confronto tra la riva destra Varsavia e la Giudecca.

A ciò si aggiunge un sentore di assenza spettrale: le passeggiate con gli assenti (Nostalgie) si amalgamano alla vita quotidiana veneziana e varsaviana. Così un altro piano su cui il protagonista cerca un’alternativa alla realtà odierna è la Varsavia dei Lumi, in cui viene trasportato in base all’azione di psicofarmaci assunti involontariamente che hanno un effetto distopico. Non a caso ho invocato qui la teoria classica della narrazione fiabesca, poiché il mondo di queste storie potrebbe essere descritto facendo riferimento alla struttura di una fiaba magica. Una fiaba e un fumetto allo stesso tempo, come già suggerisce l’eccellente copertina di Guido Fuga, fumettista che ha lavorato con Hugo Pratt su Corto Maltese.

Fare jogging nel Parco Łazienki diventa così un’occasione per tornare all’epoca di Stanisław August Poniatowski (Risveglio) e per incontrare i veneziani Giacomo Casanova e Canaletto (Francesco de Futuris; Camera oscura). Checco peraltro prende il nome da un italiano realmente esistito, l’assistente di Bellotto. Di lui e di altri numerosi italiani presenti in Polonia all’epoca dell’ultimo re polacco mi sono occupata in una pubblicazione, per cui ho letto con maggiore curiosità i dialoghi condotti con essi dal loro connazionale narratore. Dialoghi in cui compaiono sia la famiglia veneziana Bragadin, sia Sweet Dreams degli Eurythmics in formato mp3.

I racconti di Giorgi sono caratterizzati da un innegabile tratto fantastico e comico, da un lato, e da un impegno giornalistico nei confronti dell’attualità, dall’altro. Non mancano quindi critiche aperte della percezione contemporanea dell’Italia dominata dagli stereotipi, della Venezia–Disneyland, come nei ricordi della blogger del racconto Tutto bene! La ricetta per risolvere i problemi di Venezia contenuta nel racconto di Veneasy, inoltre, tiene conto proprio della superficialità con cui moltitudini di turisti si avvicinano alla città lagunare.

Ricerca di soluzioni e azione, attività: sono queste le caratteristiche del protagonista, affiancato da una compagna di vita, «una donna meravigliosa», capace di reagire con vero entusiasmo ai progetti di vita anticonvenzionali del suo amato (Catarsi). Agata, inoltre, è in effetti la vera protagonista di questi racconti, il punto di riferimento stabile per tutti gli altri personaggi femminili – contemporanei e del secolo dei Lumi – che compaiono nelle storie.

Poiché, sebbene il ritmo di questi testi sia dato dall’incertezza incalzante dell’esistenza, dell’identità e del futuro, le escursioni, i viaggi e le esplorazioni sono sempre accompagnati da un gesto di ritorno a un mondo stabile definito dal vero sentimento. Un ritorno a Varsavia, un ritorno a Venezia.

Lamborghini 350 GT – C’era un uomo

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traduzione it: Wojciech Wróbel

Ferruccio Elio Arturo Lamborghini aveva solamente 32 anni, quando nel 1948 fondò l’azienda di trattori: Lamborghini Trattori. Poco prima aveva costruito un trattore molto più leggero e piccolo, il ”Carioca”, che era anche molto più economico rispetto alle macchine offerte dalla concorrenza. Lamborghini aveva brevettato una soluzione interessante che ha permesso di avviare il motore con l’uso della benzina e poi passare alla modalità operativa con petrolio greggio che, ovviamente, era molto più economica. I minori costi di produzione furono anche il risultato dell’acquisto di motori dopo il loro uso nell’esercito, fornendo presto alla nuova società numerosi clienti. Negli anni successivi, le seguenti versioni di trattori, cingolati comprese, iniziarono a conquistare i mercati non solo italiani, ma quelli mondiali. All’inizio degli anni 60 del secolo scorso, Ferruccio era già abbastanza ricco da permettersi di guidare le auto di Maranello, che gli piacevano moltissimo e ne possedeva diverse. Ce n’erano anche altre, come due Maserati 3500GT, che acquistò il giorno dopo essere stato sorpassato da questa particolare macchina in autostrada. Tuttavia si lamentava sempre del fatto che tutte queste auto sportive potevano essere migliorate e, soprattutto, andare più veloce. Comunque su una di queste aveva serie obiezioni: si trattava della Ferrari 250GT 2+2 [1962], e più precisamente, sul funzionamento della sua frizione. Vedremo ora una storia che alcuni appassionati di motorizzazione considerano una leggenda metropolitana, altri invece un fatto storico. Quest’ultima versione è confermata da suo figlio Tonino nel libro ”Ferruccio Lamborghini: la storia ufficiale”. Ebbene, durante un incontro con Enzo Ferrari, lo informò che la macchina era fantastica, ma purtroppo tutto il piacere di usarla era rovinato da una frizione difettosa. Ferrari, notoriamente insofferente alle critiche, rispose: ”Caro ingegnere, abbi cura dei suoi trattori e lascia a noi le macchine”. La leggenda vuole che l’orgoglio ferito di Ferruccio fu la molla per fargli fondare il nuovo marchio Automobili Lamborghini. È possibile che questa sia stata la ”scintilla che ha acceso la miccia” di un industriale così esperto, che non aveva paura ad affrontare delle nuove sfide in vari settori [ad esempio la sua azienda Lamborghini Bruciatori produceva caldaie a gas e condizionatori dal 1959], ma a stimolarlo, visto che era un esperto meccanico, fu forse anche il fatto che la frizione del suo trattore aveva le dimensioni che si adattavano perfettamente a questo modello di Ferrari. Tuttavia, funzionava in modo molto più efficiente dell’originale e, particolarmente, era 10 volte più economica. In effetti la possibilità di guadagnare producendo auto sportive è stato per l’intraprendente Lamborghini un incentivo molto maggiore a investire in questo settore rispetto al desiderio di far dispetto a Enzo Ferrari. Le persone intorno a Ferruccio, i dipendenti, le banche… erano molto scettici nei confronti della nuova attività. Anche la sua seconda moglie Anita [la prima, Clelia Monti, morì nel 1947 dando alla luce Tonino] era terrorizzata dall’idea. Ferruccio convinse tutti dichiarando: ”Se costruisco una macchina che soddisferà le mie aspettative, sicuramente soddisferà anche tutti gli altri”. Per calmare Anita, che gestiva il bilancio familiare, ebbe un’idea perversa: finanziò una nuova fabbrica fondata nel 1963 a Sant’Agata Bolognese, abbastanza vicino alla sua città natale, rinunciando a una costosa campagna pubblicitaria per i suoi trattori, che sarebbero apparsi sui cartelloni pubblicitari di tutta Italia. Rischiò un miliardo di lire, sostenendo che le sue macchine sarebbero state una pubblicità molto migliore per i prodotti con il logo Lamborghini. Quanto è stato profetico, basta chiedere oggi agli agricoltori che cosa usano per lavorare nei campi… alcuni risponderanno ”un trattore”, altri invece diranno con orgoglio e sorriso…Lamborghini. Il marchio sui trattori era una scritta semplice e molto leggibile “Lamborghini”, mentre il nuovo marchio di supercar aveva bisogno di qualcosa di unico. Un altro colpo di genio del marketing di Ferruccio, nato sotto il segno zodiacale del Toro e appassionato di corride, imitando un po’ i successi della Ferrari o della Jaguar, anche lui ha scelto per il logo un animale, un toro andaluso: tenace, forte e carico. Lamborghini non era superstizioso, anche se dopo un combattimento nell’arena di solito sopravvive il torero, ma fortunatamente, come dimostra l’ulteriore storia dell’azienda, non questa volta. Nel 1963 Corrado Carpeggiani, braccio destro di Ferruccio, fu incaricato di coinvolgere i migliori specialisti del settore per il nuovo progetto. In soli 6 mesi venne realizzato il prototipo della 350 GTV, per il quale Bizzarrini progettò un motore non tanto sportivo, quanto competitivo. Secondo Ferruccio era un’esagerazione. Si decise di tranquillizzare la potenza e le prestazioni, al che Bizzarrini protestò e abbandonò il progetto. I lavori successivi sulla meccanica sono stati realizzatii da Giampaolo Dallara e Paolo Stanziani. Il prototipo della GTV, carrozzato da Franco Scaglione, fu presentato alla fiera di Torino, dove suscitò grande interesse, ma il modello di produzione, che debuttò pochi mesi dopo a Ginevra come 350 GT, per il quale era responsabile la società Touring, era notevolmente diverso dal suo predecessore. La macchina, per dimensioni e carrozzeria, una coupé 2+2, somigliava ad una Ferrari 250, quella con la famosa ”frizione sfortunata”. Potrebbe essere questo il ”guanto di sfida” lanciato da Lamborghini ai piedi del re di Maranello? Il nuovo marchio viene accolto con entusiasmo e si può solo pensare che se Enzo avesse tenuto conto del consiglio datogli dal costruttore dei trattori due anni prima, forse non avrebbe perso un cliente leale, e negli anni successivi ne avrebbe perso molti. Allora però prevalse l’orgoglio. Pensate a cosa successe a Maranello quando Frank Sinatra, la più brillante star di Hollywood dell’epoca, guidando il nuovo modello di Sant’Agata, l’iconica Miura del 1967, disse: ”Se vuoi essere qualcuno, comprati una Ferrari, ma se sei già una persona così, guida una Lamborghini!”. La Miura [Gazzetta Italia 68 o sul sito Gazzetta Italia] fu la macchina che obbligò tutti i grandi, partendo dalla Benz, passando per Ford, Porsche, Ferrari, ecc.., a fare spazio a Ferruccio ”sull’Olimpo dell’automobilismo”. Quando tutti volevano la Miura, all’improvviso ne interruppe la produzione [762 esemplari], sostenendo che un’opera d’arte non dovrebbe essere troppo comune ma dovrebbe invece essere desiderata. Sorprese ancora nel 1971 con il surreale prototipo Countach LP500, ma il contratto non realizzato per i trattori per la Bolivia ridusse notevolmente anche le finanze di Automobili Lamborghini. Nel 1972/73, frustrato dagli scioperi e dalle perdite subite durante l’implementazione del modello P250 Urraco, decise di vendere l’azienda a imprenditori svizzeri. Poi Ferruccio Lamborghini cambia nuovamente settore tornando alle radici familiari, ovvero l’agricoltura, e fonda vicino a Panicale in Umbria il vigneto ”Tenuta Fiorita”, che è ancora gestito da sua figlia Patrizia, e il loro vino di punta si chiama ”Sangue di Miura”. Ferruccio muore il 20 febbraio 1993 a Perugia, esattamente 30 anni dopo aver creato una delle aziende più note al mondo. Lamborghini ha gestito la sua azienda per soli 11 anni. I modelli che nacquero sotto la sua egida sono: 350GT, 400 GT 2+2, Islero, Espada, Jarama, Urraco, ma soprattutto Miura e l’allora concettuale Countach LP500, furono le fondamenta e la solida base per la leggenda di questa azienda e la sua forza contemporanea. C’era una volta un Uomo!

Tutti gli appassionati di Lamborghini probabilmente vorranno visitare il museo della fabbrica di Sant’Agata Bolognese, attualmente chiamato Mudetec [sic!], cioè Museo delle tecnologie, un’idea strana, lo ammetterete anche voi. Quest’anno celebrano il 60° anniversario della fondazione dell’azienda, esponendo soprattutto gli ultimi modelli, ma nell’ambito di questo testo vi consiglio quello forse meno elegante e sterile, il Museo Ferruccio Lamborghini, gestito da Tonino, situato 25 km a est in località Casette di Funo. Qui si possono ammirare tutte le passioni di Ferruccio, ovvero i trattori, l’originale Carioca, le barche, come ad esempio l’Offshore Fast 45 Diablo, il cui motore vinse 11 volte il campionato del mondo, un prototipo di elicottero e ovviamente le automobili, tra cui la Miura SV rossa di Ferruccio con ciglia come nel prototipo, e questa è solo una dei 12 oggetti unici su scala globale.

Il modello Ricko è con me da oltre 10 anni e non presenta scolorimenti o altri segni del tempo. Forse il suo interno non è fatto su misura, forse le cromature sono troppo lucide, ma i dettagli del motore sono molto soddisfacenti. Recentemente è apparso un modello della società KK Scale, la Lamborghini 400GT, il successore della 350GT. Originariamente l’auto aveva una cilindrata maggiore e prestazioni migliori, ma esternamente non è stato modificato quasi nulla. Dato che è un modello chiuso, preferisco restare con il mio Ricko. 

 

Anni di produzione: 1964 – 66
Esemplari prodotti: 135 esemplari
Motore: V-12 60°
Cilindrata: 3464 cm3
Potenza/RPM: 276 KM / 6500
Velocità massima: 249 km/h
Accelerazione 0-100 km/h (s): 6,4
Numero di cambi: 5
Peso: 1451 Kg
Lunghezza: 4640 mm
Larghezza: 1730 mm
Altezza 1220 mm
Interasse: 2548 mm

La ragazza e gli scacchi. Il gioco magistrale di Sofonisba Anguissola

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traduzione it: Oliwia Domaszewska

Dipingeva quasi solo ritratti. Aveva cinque sorelle e un padre umanista che, in un’epoca in cui il dovere primario della donna era quello di sposarsi e partorire, fornì alle figlie un’istruzione accurata. I suoi dipinti furono conosciuti da Michelangelo, Peter Paul Rubens, Caravaggio e Anton van Dyck. Sofonisba Anguissola usava colori puri e forti, disegnava con perfezione e riusciva a cogliere il carattere della persona ritratta. Oggi i suoi dipinti costituiscono un tesoro indiscusso di molte collezioni. Abbiamo la fortuna di avere due opere di Anguissola nelle collezioni polacche. Nel 2020 vi abbiamo parlato dell'”Autoritratto al cavalletto” della collezione del Castello di Łańcut. Questa volta vi presentiamo la sua “Partita a scacchi”, un dipinto della collezione della Fondazione Raczyński esposta permanentemente al Museo Nazionale di Poznań.

L’opera è stata realizzata nei primi anni della carriera di Sofonisba, quando l’artista aveva solo ventitré anni. Raffigura tre sorelle a un tavolo da scacchi e una bambinaia che osserva la scena. Sappiamo esattamente chi è nel quadro perché l’artista lo ha firmato in modo affascinante. Sul lato della scacchiera c’è un’iscrizione in latino: “Sofonisba Anguissola, vergine figlia di Amilcare, dipinse dal vero tre sue sorelle e una servante”. 

La “Partita a scacchi” è descritta come un ritratto di gruppo di donne disposte come una scena di genere, ma anche un’opera con una narrazione metaforica. Inoltre, si tratta di un quadro dipinto da una donna, il che permette di collocarlo nel campo della ricerca storico-artistica femminista. Nell’Italia del Cinquecento, come nel resto d’Europa, le donne non avevano accesso alle università e, se venivano istruite, era solo per decisione dei padri, come nel caso di Sofonisba. Tuttavia, questo non era così raro come si crede comunemente. Le donne istruite in Italia erano apprezzate, imparavano nelle botteghe dei padri oppure ottenevano riconoscimenti dai mecenati o un posto all’università grazie al proprio lavoro. È il caso di Elisabetta Sirani, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi. Sofonisba si adeguò alle regole dell’epoca, ma grazie al suo talento e al duro lavoro guadagnò con la pittura fino alla fine della sua vita. A questo contribuì anche suo padre.

Amilcare Anguissola mandò consapevolmente la figlia a studiare pittura e presto si interessò intensamente alla sua carriera. Inviò lettere, raccomandò i dipinti di Sofonisba alle corti degli aristocratici, sollecitò commissioni e vendette quadri. Si impegnò con tutto il cuore e questo diede presto i suoi frutti. Grazie ai suoi sforzi, la giovane pittrice fu assunta dalla corte di Madrid. Ai suoi tempi, tuttavia, come donna pittrice e vivendo del lavoro delle proprie mani, era una curiosità. Tutti i documenti d’epoca dimostrano che la pittrice era rispettata dalla corte reale, così come da tutta la cerchia, soprattutto aristocratica, con cui aveva rapporti. I suoi dipinti erano apprezzati per la capacità di cogliere l’emozione nei volti delle persone ritratte, per la scelta deliberata dei colori, l’eleganza e il realismo.

La “Partita a scacchi” è una calda scena domestica che documenta un frammento della vita familiare del pittore. Cosa possiamo dedurne? Innanzitutto, il dipinto mostra le ragazze di una famiglia aristocratica, come testimoniano gli abiti, le acconciature, la presenza di una servante e le attività che svolgono. Da sinistra siede Lucia, al centro la più giovane Minerva e a destra Europa. La vecchia nutrice è raffigurata mentre si sporge da dietro il bordo destro del dipinto. È interessante notare che l’artista aveva originariamente previsto la sua figura sul lato opposto, come risulta dalle ricerche conservative. Tuttavia, la servante è stata dipinta sopra e poi la sua immagine è stata creata dalla parte destra che copre il paesaggio. Ciascuna delle ragazze ha un abito alla moda di seta, velluto, damasco di seta, batista. Modestamente appuntati e raccolti dolcemente dalla fronte, i capelli sono ornati da fasce di perle e il collo da catene d’oro. 

Alcuni studiosi suggeriscono che il dipinto possa essere considerato un’allegoria delle diverse fasi della vita di una donna. Sembra più appropriato, però, considerare un altro significato del dipinto. Giovani ragazze che giocano a scacchi, cioè che mostrano chiaramente le loro capacità intellettuali? Fino a pochi decenni prima, gli scacchi erano un gioco destinato essenzialmente agli uomini. Alla fine del XV secolo, durante le spedizioni esplorative e di colonizzazione finanziate dalla regina cattolica Isabella, gli scacchi erano diventati un passatempo intellettuale diffuso negli ambienti aristocratici. Ciò è dovuto alle modifiche introdotte nelle regole di questo antico gioco. Il pedone della regina ottenne la massima libertà di movimento, il che va forse visto simbolicamente come un onore per la regina Isabella. Il gioco degli scacchi divenne più dinamico e, probabilmente per questo motivo, godette di una crescente popolarità. Si trattava di un gioco che richiedeva abilità intellettuali, quindi mostrare nel dipinto le sorelle che conoscevano le regole e passavano il tempo a giocare a scacchi era probabilmente un atto attentamente ponderato. Simbolicamente, gli scacchi sono associati alla saggezza, alla strategia e alla logica, qualità che non erano attribuite alle donne. La scacchiera era paragonata al mondo e Sofonisba, cresciuta in una città in cui la cultura dei Paesi Bassi era ben nota, riconosceva certamente elementi di emblematica. Sebbene gli emblemi si svilupparono principalmente nei Paesi Bassi all’inizio del XVI secolo, le loro origini risalgono già all’antichità e all’Italia nella prima metà del XV secolo.. Erano opere in tre parti costituite da un motto, un disegno e un epigramma, di solito sotto forma di poesia di quattro righe. Erano comunemente utilizzati da artisti come Dosso Dossi e Johannes Vermeer. Alcuni dei loro dipinti possono essere letti come complesse narrazioni erudite. Oltre al suo significato emblematico, Sofonisba potrebbe essersi ispirata a un modello letterario, in particolare al poema “Scacchi” pubblicato a Cremona nel 1527 dal vescovo e umanista Marco Girolamo Vida. Descrisse una sfida tra le divinità olimpiche, in cui la scacchiera diventava un campo di morte. In linea con la natura emblematica del poema sugli scacchi di Vida, richiamò l’attenzione sul significato metaforico. Il dio raccolse le pedine in un sacchetto al termine della partita. Simbolicamente, quindi, le figure sconfitte dovevano trovarsi in mano alla morte. Gli scacchi, in quanto intrattenimento di corte che indicava la saggezza del giocatore, erano quindi associati anche alle questioni finali.

Amilcare e sua moglie Bianca si impegnarono molto per garantire l’istruzione di tutte le loro figlie, alle quali diedero nomi che si riferivano alla storia dell’antica Cartagine. Sofonisba prende il nome da una donna di illustre famiglia cartaginese, illuminata e di grande bellezza, come scrive Boccaccio nelle sue biografie di donne famose. La famiglia Anguissola si basava su umanisti, persone colte, creatori, autori di scritti filosofici e didattici, eminenti nel loro tempo. Molti nella comunità erano convinti della necessità di istruire le donne. Le ragazze, quindi, crebbero con autostima, ma consapevoli che ogni aspetto della vita, al di là del matrimonio e della maternità, avrebbe dovuto essere conquistato. Sofonisba ne era ben consapevole e ritraeva le sue sorelle come donne istruite appartenenti a un ambiente familiare elevato. Probabilmente è per questo che i costumi sono così elaborati, con le ragazze che si dedicano all’intrattenimento pomeridiano, indossando perle, oro e costosi damaschi. Il tavolo è coperto da un tappeto orientale con un tipico motivo ad ottagoni dell’Anatolia. Tutti questi elementi testimoniano l’elevato status della famiglia. Cremona era allora sotto gli Asburgo, che mantenevano relazioni economiche e culturali con i Paesi Bassi in via di sviluppo. L’influenza dell’arte del Nord Europa, dove i pittori prestavano particolare attenzione alla pittura dei tessuti, è evidente anche in questo dipinto. Possiamo riconoscere gli intricati motivi di tessitura, il tipo di tessuto, i ricami, i pizzi, i merletti e persino il tipo di cucitura. Avendo visitato le case degli illuminati e le tenute degli aristocratici italiani, l’occhio attento di Sofonisba deve aver individuato molti dipinti di maestri olandesi.

L’opera è presente nelle collezioni polacche dal 1823, quando il principe Athanasius Raczynski la acquistò a Parigi per tremila franchi. 

La “Partita a scacchi”, oltre ad essere una scena intima di vita familiare, è quindi un’opera di valore multiplo per gli studiosi contemporanei dell’arte rinascimentale. Considerando ogni aspetto come pittoricità, realismo, scena quotidiana, significato allegorico, testimonianza del periodo, storia del femminismo, contenuto erudito e probabilmente molti altri, Sofonisba Anguissola ha magistralmente interpretato il dipinto.

Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, 1555, olio e tempera su tela, dimensioni 72 x 97 cm, Fondazione Raczyński presso il Museo Nazionale di Poznań

 

Durante il processo di scrittura ho utilizzato il libro di Daniela Pizzagalli “Sofonisba. La prima donna della pittura” e il catalogo della mostra “Brescia. Rinascimento nel Nord Italia”.

Alla scoperta dell’Asti e delle “cattedrali” di Canelli

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Dalle “cattedrali” sotterranee di Canelli alle bollicine che hanno conquistato il mondo, l’Asti è la prima denominazione spumantistica italiana e oggi gioca anche con la mixology

Il vino è parte della storia di un territorio e di una comunità, entrando così a fondo nelle pieghe del paesaggio da modellarne il volto e la conformazione. Ci sono però in Italia luoghi che hanno visto trasformarsi non solo la superficie, ma anche il sottosuolo.

Canelli è uno di questi luoghi, perché l’avvento della spumantistica – l’Astigiano è sicuramente un’area che ha scritto la storia delle bollicine italiane – ha portato alla realizzazione di autentiche “cattedrali sotterranee” in cui ancora oggi viene affinato il vino Docg che porta il nome del borgo. 

Vero e proprio tesoro nascosto, le cattedrali sono un luogo che incanta e affascina. Questi spazi, intrecciati con la storia e la cultura della regione, emanano un’atmosfera suggestiva con le maestose volte in pietra, le navate oscure e gli intricati passaggi che conducono in un mondo sospeso nel tempo, unendo passato e presente. Esplorarle è come intraprendere un viaggio nel cuore stesso della tradizione e della vocazione vinicola di Canelli.

Oggi protetti come patrimonio Unesco, i grandi spazi cavi nel sottosuolo furono scavati per conservare il vino scendendo sino a 32 metri di profondità e attraversando l’intera collina canellese, in un reticolo che si estende sotto la cittadina per oltre 20 km. Nel corso dei secoli, le cattedrali sotterranee sono state ampliate e decorate, diventando autentiche opere d’arte architettoniche. 

Molte delle cattedrali sono aperte al pubblico e oggi le case spumantistiche ne fanno un vanto per la proposta enoturistica, in primis le cantine Bosca e Gancia (dove nel 1865 fu creato il primo spumante italiano), ma anche le cantine Contratto e Coppo.

MILIONI DI BOLLICINE ASTIGIANE NEL MONDO

Le “cattedrali” patrimonio Unesco sono emblema di un territorio e dei suoi vini, perché in quelle caverne scavate da mani umane è nato lo “champagne” italiano (al tempo si chiamava così). L’Asti spumante è infatti un vino nato come metodo classico, grazie all’intraprendenza di Carlo Gancia che nel 1865 andò a “rubare” i segreti enologici in Champagne e portò in Piemonte la tecnica della doppia fermentazione, ma trasformato a fine Ottocento da Federico Martinotti, allora direttore dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia di Asti, che brevettò la seconda fermentazione in autoclave.

Da allora sono passati fiumi di Moscato nei calici, con l’universo Asti che ha invaso il mondo di bollicine, con le grandi case spumantistiche che hanno fatto la storia della comunicazione pubblicitaria nel settore vitivinicolo.

Oggi la denominazione spumantistica più antica d’Italia produce 100 milioni di bottiglie, per il 90% esportate sulle tavole di tutto il mondo. E se Canelli è la culla del Moscato d’Asti, da giugno 2023 è anche una Docg. Le uve da vigneti composti esclusivamente dal vitigno Moscato bianco che entrano nella nuova Denominazione provengono da 17 comuni attorno alla cittadina, punto di passaggio tra Langhe e Monferrato. 

Nel frattempo i costumi si evolvono e l’Asti, mentre celebra i fasti di una storia secolare, guarda al consumo contemporaneo e gioca la carta della mixology. Da anni, infatti, il Consorzio spinge sulla proposta di un vino aromatico e leggero come ingrediente fresco nella miscelazione di cocktail che possono raccontare il territorio in modo nuovo, magari in abbinamento con il Vermouth, altra specialità a base vino che in Piemonte ha trovato un’identità peculiare.

Settima edizione del Premio Gazzetta Italia 08/02/2024

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Gazzetta Italia 103 (gennaio-febbraio 2024)

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Marco Polo forever! Con il numero 103 iniziamo il 14° anno di Gazzetta col botto! Marco Polo blogger in copertina e all’interno un approfondimento dello storico Pier Alvise Zorzi, dedicato al più famoso dei viaggiatori a 700 anni dalla sua morte, ed un articolo che sottolinea la differenza culturale tra il comportarsi da viaggiatori o da turisti quando si viaggia. Ancora una volta Gazzetta vi sorprenderà offrendovi interviste con lo scenografo italiano Luigi Scoglio che lavora a Lodz, articoli sull’inventore degli spaghetti western Sergio Leone, e poi ancora raccontiamo il poco noto viaggio di Maria Sklodowski Curie in Italia, e ancora articoli su Palermo, Vercelli, l’approfondimento linguistico del professor Tucciarelli sulle comunanze linguistiche tra italiano e polacco e poi naturalmente tutte le nostre rubriche. Questo e tanto altro nel numero 103 e quindi volate negli Empik a prendere la vostra copia di Gazzetta Italia!

Apple pie

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Per la base: 

225 g di burro freddo

450 g di farina 00

100 ml di acqua ghiacciata

1 pizzico di sale

Per il ripieno:

1 kg di mele renette già pulite

100 g di zucchero

1 limone

2 cucchiai di acqua

1 cucchiaino di cannella in polvere

1 pizzico di noce moscata

Qualche noce di burro 

Latte intero per spennellare

Per guarnire:

200 g di panna fresca da montare

1 cucchiaio di zucchero semolato

2 pizzichi di cannella

Procedimento:

In planetaria o in una grande ciotola se lavorate a mano, mettete il burro freddo a pezzetti con la farina e un pizzico di sale e iniziate ad impastare. Aggiungete poco per volta l’acqua ghiacciata e continuate a lavorare l’impasto prima in planetaria e poi a mano, su un piano infarinato, per circa 10 minuti, fino ad ottenere un impasto liscio ed elastico. Coprite con pellicola e mettetelo a riposare a temperatura ambiente per circa 20 minuti. Nel frattempo occupatevi delle mele. Pulitele, sbucciatele e riducetele in quarti. Ricavatene poi delle fettine da circa 5 mm di spessore. Mettetele in ammollo in acqua fredda e succo di limone per evitare che anneriscano. In una padella antiaderente con fondo doppio mettete lo zucchero, la cannella e la noce moscata, fate sciogliere a fuoco lento, aggiungendo due cucchiai di acqua. Aggiungete anche una noce di burro morbido. Unite poi le mele a pezzetti e cuocetele per circa 5 minuti, finché non risultino croccanti fuori e morbide dentro. Fate intiepidire. Riprendete la pasta e dividetela in due parti, una più grande dell’altra. Stendetela con il matterello su un piano infarinato e ricavate una sfoglia dello spessore di 4 mm.

Stendetela dentro una tortiera dai bordi scanalati (tipica dell’Apple pie americana) imburrata, e fate aderire bene la pasta al fondo e ai bordi. 

Versate le mele tiepide, tenendo la parte centrale del ripieno più alto e abbondante, per dare la classica forma della torta americana, arricchite il ripieno con qualche fiocco di burro morbido.

Stendete anche l’altro pezzo di pasta e coprite il ripieno. Tagliate con un coltello affilato l’impasto in eccedenza e unite sui bordi i due strati di pasta pizzicandoli con le dita.

Incidete il “coperchio” di pasta con piccoli tagli a raggiera. Spennellate la superficie con il latte. 

Cuocete a 200° in forno statico per 20 minuti, spennellate di nuovo con il latte e infornate nuovamente abbassando la temperatura a 180° per circa 20 minuti, poi spennellate di nuovo e cuocete a 170° per gli ultimi 20 minuti. Spegnete il forno e fate raffreddare la torta all’interno.

Servite direttamente dentro l’apposita tortiera accompagnando la fetta di torta con panna leggermente montata aromatizzata con zucchero e cannella.

Papalina, pennette uovo e zucchine

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Ci sono molte storie su questa pasta, la più antica è quella secondo cui nel 1796, durante la campagna  di Napoleone in Italia, alcuni generali francesi furono accolti in Vaticano. Fu offerto loro di mangiare con il Papa Pio VI, ma visto che i francesi non gradivano la carne lo chef papale propose una pasta a base di uova e zucchine. Ci sono altre storie legate a questa ricetta, una risale al 1933 quando un oste romano realizzò questa pasta per il futuro Papa Clemente Pio XII che non voleva mangiare la già “famosa” Carbonara perchè troppo pesante e poco raffinata. Si può dire che è un piatto saporito ma delicato e indubbiamente aristocratico.

Per cortesia non chiamatela carbonara di zucchine, di carbonara ce n’è una sola! 

Ingredienti della mia versione per 2 persone:   

200 g di pennette rigate

2 tuorli grandi

300 g di zucchine

1 cipolla piccola

50 g provola o parmigiano

Origano, pepe nero, olio evo, burro, q.b.

Preparazione:

Tagliare la cipolla molto sottile e brasarla dolcemente in una padella con un po’ d’olio evo e burro, mettere da parte. Tagliare le zucchine a rondelle di ca. 4 mm metterle su una padella con un po’ d’olio evo e cuocere a fuoco vivace, 2-3 minuti prima della fine cottura aggiungere l’origano e il sale, mettere da parte. Nel frattempo mettete a bollire l’acqua, salate e versate  la pasta. Mettete in una ciotola i tuorli d’uovo, un pizzico di sale, il pepe a piacere e la provola o parmigiano grattugiati. Mescolare energicamente per ottenere una crema, aggiungendo un po’ di acqua di cottura della pasta. Unire la cipolla nella padella delle zucchine, accendete il fuoco molto basso, solo per intiepidire, quando la pasta sarà pronta, scolatela e mettetela nella padella con le zucchine e cipolla, mescolate delicatamente e di seguito unite la salsa d’uovo, amalgamare bene senza scaldare troppo l’uovo, impiattare, aggiungete ancora un po’ di provola grattugiata e servite.

Buon Appetito!

Venezia, il Vino e il Vetro: Una degustazione emozionale attraverso la grande pittura rinascimentale

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fot. Marta Buso

La storia della Serenissima si interseca in modo indissolubile con le culture del vino e del vetro tra vicissitudini, conquiste e commerci preziosi. Ripercorriamo le tappe di questo legame profondo, celebrandolo con un evento tra gusto, arte e bellezza nel contesto di The Venice Glass Week 2023 di cui Nexa Event&Travel Designers è partner ufficiale.

La location prescelta è un Palazzo del 1200 con affaccio sul Canal Grande; anticamente “fondaco”, luogo in cui i mercanti forestieri depositavano le loro merci e esercitavano i loro traffici. Il palazzo ospita ora il The Venice Venice Hotel dove ogni spazio, in perfetto equilibrio tra modernità e tradizione, è testimone delle tendenze più rimarchevoli nel campo dell’arte contemporanea internazionale.

Alla luce soffusa delle candele di questa cornice storica dal gusto irriverente, Nicola Sabbatini, mentore d’eccezione, cultore del vino e sommelier, ci guida in un viaggio seducente  ripercorrendo la storia del vino e le trasparenze dei suoi contenitori in vetro.

Tra il 1200 e il 1700 Venezia è il più grande mercato del vino nel mondo.

La scintilla che accende l’avventura risale agli eventi della IV crociata in cui la valenza religiosa si trasforma ben presto in sete di conquista. L’obiettivo è Costantinopoli, capitale del ricchissimo impero romano-bizantino. Venezia guida la conquista di Costantinopoli, acquista crediti nei confronti dei crociati, ed è ricompensata con isole e territori della Grecia.

In Grecia, a Monemvasia (in greco “porto con una sola uscita”) parola in seguito storpiata dai veneziani in “Malvasia”, viene scoperto un vino dolce, intenso, pregiato e adatto al trasporto via mare. Da quel momento tutti i vini che arrivano a Venezia e provengono dall’Oriente, sono chiamati Malvasie; sono vini leggendari, legati a storie affascinati, pregiati, ricercati e costosi. Diventano l’oro liquido della Serenissima. Venezia è capitale mondiale del vino, ed esporta il nettare “navigato” nelle corti di tutta Europa. 

Contemporaneamente, e sempre a seguito dei commerci con l’Oriente, Venezia è una delle poche città in cui si fa uso del vetro sulle tavole della nobiltà mercantile. Nell’isola di Murano, a partire dal 1300, si cominciano a produrre manufatti in vetro. Ma è a seguito del lavoro di Angelo Barovier, nella seconda metà del ‘400, che il vetro, reso non solo trasparente, ma addirittura cristallino, diventa di moda sulle tavole dei ricchi commercianti veneziani.   

fot. Marta Buso

Questo mutamento si nota nei dipinti della scuola veneziana del 1500; d’un tratto è possibile ammirare il colore, la trasparenza e la luminosità del vino attraverso i calici cristallini di squisita fattura, prodotti a Murano. A testimonianza di quanto ormai sia di moda il vetro nelle tavole e nei banchetti del Rinascimento, troviamo i calici trasparenti nella Cena in Emmaus del Tiziano, nel Convito in Casa Levi del Veronese, nell’Ultima Cena del Tintoretto, e anche Caravaggio, (sul finire del secolo) nel suo celebre Bacco, dipinge una squisita coppa troncoconica, di chiara fattura veneziana. Questo significa che anche a Roma, dove il Caravaggio all’epoca operava, si degusta “alla moda di Venezia”. 

Attraverso i dipinti di questi grandi maestri abbiamo intrapreso un percorso inesplorato, con la degustazione di quattro vini provenienti da cantine d’eccezione. Il percorso, fluido ed emozionale, è iniziato con il Durello dei Monti Lessini Borgo Rocca Sveva, proseguendo con il Malvasia Venica&Venica e il Venusa Venissa, per concludersi con il Raboso del Castello di Roncade. Durante la narrazione, abbiamo gustato i signature bites della cucina, ispirati alla tradizione veneziana con un twist innovativo: sposalizio perfetto. 

Un’esperienza unica, divertente e utile, un evento lungo un tramonto, che, quasi come un sogno, è svanito quando le ultime luci del giorno hanno lasciato spazio alla notte.

fot. Marta Buso