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40 anni del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Varsavia

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Nel febbraio del 2022, il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Varsavia ha compiuto 40 anni. Tuttavia, prima che la più longeva italianistica in Polonia diventasse un Dipartimento autonomo, ha fatto molta strada seguendo i sogni e realizzandoli, ovvero sviluppando l’indipendenza e costruendo la maturità.

La storia del Dipartimento risale ai primi anni Settanta quando, nel 1971, fu istituito il Dipartimento di Filologia Italiana presso l’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Varsavia. A quel tempo, gli studi si svolgevano in condizioni che potremmo definire intime, quasi casalinghe, dato che il gruppo di studenti era composto da una decina di persone e le difficoltà da affrontare in quel periodo erano ben diverse dalla realtà odierna: inizialmente si tenevano poche ore di insegnamento d’italiano e, a causa della carenza di materiale didattico, gli strumenti di base erano solo lavagna e gesso. Tuttavia, grazie alla collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura, studenti e dipendenti già allora poterono usufruire delle borse di studio in Italia per migliorare le loro competenze grazie a cui la comunità di italianisti varsaviani si sviluppò in modo dinamico.

Nel 1982 il Dipartimento di Filologia Italiana è stato trasformato nell’autonomo Dipartimento di Italianistica. Questo è avvenuto per iniziativa del professor Krzysztof Żaboklicki, che precedentemente era il capo del Dipartimento di Filologia italiana e poi il direttore del Dipartimento di Italianistica.

Fin dall’inizio le lezioni si sono svolte in via Oboźna 8, nel palazzo ben noto a molte generazioni di italianisti, dove il Dipartimento aveva a disposizione (ed ha ancora) aule al terzo piano. Negli anni successivi alcune delle lezioni e delle conferenze si svolgevano anche a Bednarska 2/4, Karowa 18, nel Palazzo Tyszkiewicz-Potocki, nell’ex Biblioteca Universitaria, in Krakowskie Przedmieście 1 e nell’inestistente oramai edificio in via Browarna 8/10. Dal febbraio del 2017, parte delle lezioni si svolgono nella nuova sede della Facoltà di Lingue Moderne in via Dobra 55, dove, a partire dall’anno accademico 2022/23, saranno trasferite tutte le unità della facoltà.

Sotto la guida del prof. Krzysztof Żaboklicki, poi del prof. Piotr Salwa, della prof.ssa Joanna Ugniewska-Dobrzańska, della prof.ssa Elżbieta Jamrozik e adesso della prof.ssa Hanna Serkowska, il Dipartimento di Italianistica ha creato e continua a sviluppare costantemente nuove reti di ricerca, impegnandosi in programmi scientifici e didattici internazionali. Una pietra miliare nella formazione degli italianisti è stata l’adesione nel 2000 al programma Socrates-Erasmus che promuove lo scambio della comunità accademica dei paesi europei. Il ricco numero di università partner del Dipartimento di Italianistica (nell’anno accademico 2021/22 sono 45 le convenzioni con centri accademici, sia in Italia che in altri paesi europei) permette a tutti gli italianisti interessati di viaggiare e approfondire le proprie competenze.

Erasmus+ non è l’unico programma che permette agli studenti di filologia italiana di Varsavia di conoscere istituzioni esterne o straniere. Nel novembre del 2014, il Dipartimento di Italianistica ha iniziato la collaborazione con l’Università di Siena nell’organizzazione di formazione ed esami DITALS, un certificato che conferma la competenza in didattica dell’italiano a stranieri, sottolineando così l’importanza della formazione delle future generazioni di insegnanti della lingua italiana.

Dal 2018 il Dipartimento organizza Summer School dove, oltre ai docenti di Italianistica, sono invitati a collaborare specialisti italiani dell’ambiente socio-economico. Inoltre, nell’anno accademico 2020/21 nell’ambito dell’Alleanza 4EU+, gli studenti del Dipartimento hanno collaborato con l’Università degli Studi di Milano, la Sorbonne Université e l’Università Carolina di Praga, prendendo parte a un programma pilota volto a sviluppare e sperimentare un approccio innovativo all’apprendimento della cultura e della lingua straniera.

Durante le celebrazioni del 40° anniversario, si è deciso di rinunciare alla tradizionale forma del convegno scientifico a favore di un incontro che ha riunito la comunità degli italianisti polacchi. Nel suo discorso di apertura, la prof.ssa Hanna Serkowska ha sottolineato che:

Oggi il nostro Dipartimento è in buona salute soprattutto perché stiamo costantemente mettendo in atto il principio
della dinamica della regina di cuori di Alice nel Paese delle Meraviglie. “Qui, per restare nello stesso posto, devi correre più velocemente che puoi”. Rimanendo in costante movimento per anni e, inoltre, correndo il più possibile, siamo riusciti a cambiare magnificamente. Qui è già in atto un’altra legge della dinamica della relatività, grazie a cui la nostra italianistica è riuscita sia a maturare che a diventare saggia – il Dipartimento e i suoi studenti sono infatti ben noti tra gli italianisti nel mondo e benvenuti negli scambi internazionali – che a ringiovanire: il nostro team è ora composto prevalentemente da giovani e giovanissimi.

Durante l’incontro, organizzato in forma ibrida, sono stati condivisi i ricordi legati alla storia del Dipartimento e gli ospiti intervenuti hanno preso parte ad una discussione sulla condizione dell’italianistica polacca. Dove stiamo andando? A questa domanda risponderanno le prossime generazioni di italianisti.

tekst: Patrycja Stasiak
tłumaczenie it: Agata Pachucy

Piotr Salwa: la modernità delle Artes Liberales

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Nel fervore economico e architettonico di Varsavia, simbolo dello straordinario recente sviluppo della Polonia, incontrare il professor Piotr Salwa equivale a concedersi una pausa culturale, un’oasi intellettuale nel mezzo dell’efficientismo materico che aleggia in città. Già professore di scienze umanistiche presso il dipartimento di Italianistica e poi della facoltà Artes Liberales, Piotr Salwa, apprezzato studioso della letteratura italiana, è stato anche per sette anni direttore dell’Accademia Polacca delle Scienze di Roma.

Com’è nato il suo rapporto con la lingua e la cultura italiana?

In modo assolutamente casuale! Vicino a casa mia, in via Nowowiejska, negli anni Sessanta aprirono una sala di lettura italiana. All’epoca in Polonia i paesi occidentali non potevano avere dei veri e propri istituti di cultura, prerogativa concessa solo ai paesi socialisti. Un’amica di mia madre mi mandò in quella sala di lettura a chiedere delle informazioni. Lì lavorava Renata Machulec che con grande entusiasmo mi parlò delle attività che facevano ed in particolare dei corsi gratuiti di italiano. Così mi iscrissi, eravamo in pochi perché allora nessuno pensava di viaggiare fuori dal paese e l’interesse per la lingua del Bel Paese era piuttosto limitato, dato che l’italiano non veniva insegnato nelle scuole e i libri e i giornali italiani non si trovavano. Come insegnante avevamo Ludovico Tulli uno di quegli italiani che negli anni incerti del dopoguerra preferirono emigrare. Tulli scelse la Polonia e ci rimase a vita. Dopo l’esperienza alla sala di lettura in via Nowowiejska, conclusi gli studi liceali, scelsi la facoltà di lingue romanze, dato che Italianista ancora non c’era.

La prima volta in Italia?

A Siena nel 1970 grazie ad una borsa di studio. Fu una bella esperienza in una scuola in cui insegnavano italiano agli stranieri con i docenti dei licei senesi. Ci tornai due anni dopo per dare l’esame fi nale. Invece a Torino, anzi in giro per il Piemonte, passai circa un anno dopo la laurea, facevo da interprete ai polacchi che andavano ad imparare i processi produttivi della Fiat per lavorare poi negli stabilimenti della Slesia. Dal punto di vista culturale e linguistico è stata un’immersione totale: altri polacchi non ce n’erano e se non parlavi italiano semplicemente non mangiavi. Tornato a Varsavia feci il dottorato e poi nel 1976 ottenni il posto di docente all’università.

Dopo anni tanti anni di docenza ad Italianistica è passato alla facoltà di Artes Liberales.

La facoltà di Artes Liberales è nata da un’idea di Jerzy Axer un classicista innamorato tra l’altro del Rinascimento che ha voluto riproporre il concetto di studi umanistici interdisciplinari e col tempo unire materie letterarie con studi scientifi ci. All’inizio Artes Liberales era solo un istituto ma ora è una vera e propria facoltà all’interno dell’Università di Varsavia in cui si può fare anche il dottorato. Il concetto alla base di Artes Liberales è bellissimo: approcciare il mondo avendo attenzione alla sua complessità. Gli studi si concentrano tra l’altro sui paesi mediterranei valorizzando la cultura classica, il latino, il greco antico e moderno.

Ovvero l’esatto opposto della recente moda dello spingere, e quasi del costringere, lo studente a dedicarsi subito a una qualche specializzazione che gli faciliti l’entrata diretta nel mondo del lavoro. Mi pare si tratti di un approccio produttivo che sì è diffuso a cascata anche in Europa, con forme di insegnamento che rincorrono la scorciatoia di un profitto immediato, trasformando le università in esamifici e il processo di valutazione in una fredda sequela di test e di quiz.

Nella costruzione del patrimonio intellettuale individuale bisogna partire dalle basi: la conoscenza verso le culture antiche, l’apertura mentale, l’approccio dialettico che stimola la capacità di ragionare. La specializzazione è importante ma deve innestarsi su una base culturale solida perché le necessità del lavoro, e quindi le specializzazioni, cambiano, mentre la cultura resta e ci consente di essere sempre al passo con i tempi. Oggi si sta riscoprendo l’importanza della capacità di ragionamento individuale, lo dimostra anche il fatto che tante aziende multinazionali sono pronte a fare dei corsi di specializzazione ai nuovi assunti che invece devono mostrare capacità dialettiche, idee, fantasia e apertura mentale. Quindi studi fino a pochi anni fa bistrattati, come filosofia, ora sono rivalutati e molto apprezzati perché
formano nel profondo gli studenti. Studiare Artes Liberales è quindi una scelta di grande modernità.

Lo studio della lingua e della letteratura italiana è una scelta moderna?

Direi di sì, verso l’italiano c’è sempre un grande interesse e nel tempo le facoltà si sono moltiplicate. Negli anni Settanta del secolo scorso c’erano solo corsi a Varsavia, Cracovia e per un periodo Wroclaw, poi l’attenzione verso l’italiano è esplosa e oggi per studiarlo a Varsavia si può scegliere tra Italianistica, Linguistica Applicata, Artes Liberales e l’Università Wyszynski, a Cracovia la Jagellonica e la Pedagogica, e poi c’è Italianistica a Wroclaw, Stettino, Danzica, Poznan, Torun, Lublino, insomma l’offerta è ampia per lo studio di una lingua che, anche se si parla praticamente solo in Italia, rimane il verbo della cultura artistica, musicale, architettonica, ragione per cui è la quarta più studiata al mondo.

L’autore che preferisce insegnare?

Sicuramente Boccaccio e la novellistica in genere anche se naturalmente parlare di Dante e Petrarca è sempre molto gratificante.

Gli autori moderni che consiglia?

Umberto Eco naturalmente e poi alcuni meno noti e diversi tra di loro come Giorgio Bassani e Achille Campanile. Di attuale consiglio anche la lettura del libro “Storia dell’Adriatico, un mare e la sua civiltà” di Egidio Ivetic che apre una finestra su questa straordinaria parte d’Europa, un mare in cui da secoli si confrontano popoli e culture. Libro che ora potete leggere anche in polacco.

E se dovesse scegliere una città italiana?

Quando gli studenti mi chiedono consigli su dove fare l’Erasmus o una esperienza di lavoro consiglio le medie città come Padova o Pisa, e magari un’azienda a gestione familiare, è in questa dimensione che si capisce meglio la cultura italiana. Io, ad eccezione di Sardegna e Basilicata, ho visitato tutta l’Italia. Le mie esperienze di studio e professionali mi hanno fatto conoscere bene Siena, Torino, Firenze dove c’ho passato due anni di studio, Venezia dove andavo spesso alla Fondazione Cini e poi naturalmente Roma dove ho lavorato sette anni. Vivevo nel quartiere Nomentano e ogni giorno andavo all’Accademia Polacca delle Scienze in Piazza Venezia. Ma sono sincero, se dovessi scegliere una zona in cui vivere direi il Veneto che è pieno di città meravigliose come Vicenza e Verona, secondo me è la regione in cui la gente è più gentile e poi adoro l’accento veneziano e veneto. Tante volte ho chiesto al professore veneziano Alberto Rizzi, che ha lavorato sei anni a Varsavia, dove poter fare corsi di dialetto, ma lui mi ha sempre risposto che non ho speranza, perchè se non ci nasci non riesci ad impararlo!

Caccia italiani intercettano jet russi nei cieli di Polonia e Svezia

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl.

Quattro caccia russi sono decollati senza preavviso da Kaliningrad e hanno violato lo spazio aereo di Polonia e Svezia. Gli Eurofighter italiani sono immediatamente decollati da Malbork e hanno intercettato gli aerei russi. Gli Eurofighter sono parte integrante del sistema di Baltic Air Policing. Il comando italiano ha informato che anche la settimana scorsa erano intervenuti per un avvicinamento di un caccia russo al confine polacco. La missione Baltic Air Policing è in corso dal 2004, vale a dire da quando Lituania, Lettonia ed Estonia hanno aderito all’Alleanza del Nord Atlantico. Si tratta di una sorveglianza militare dello spazio aereo degli Stati baltici, effettuata in un sistema di servizio rotazionale svolto dai vari paesi alleati. Attualmente, gli italiani prestano servizio nella base di Malbork.

https://polskieradio24.pl/5/1223/artykul/3048329,rosyjskie-mysliwce-naruszyly-przestrzen-powietrzna-polski-i-szwecji-zareagowaly-wloskie-typhoony

Pasolini, la vita dopo la vita

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Il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, una delle figure più importanti dell’Italia del dopoguerra, scrittore, poeta, drammaturgo, pubblicista, pittore e regista, è una buona occasione per riflettere su come mantenere vivo il ricordo di questo intellettuale e della sua richissima produzione artistica.

Come parte del mio corso di Storia del Cinema Italiano che tengo all’Università di Varsavia, ho chiesto a studenti e studentesse di scrivere un breve saggio su uno degli argomenti selezionati. Tre persone su qualche decina hanno deciso di dedicare

Anna Osmólska-Mętrak

il proprio lavoro all’opera di Pier Paolo Pasolini: due hanno scritto di Salò o le 120 giornate di Sodoma, e uno ha condiviso le sue riflessioni sul film Mamma Roma. Tutti e tre i testi hanno ricevuto il punteggio più alto possibile. Perché scrivo di questo? Ebbene, è per me un’altra prova che la figura e l’opera di Pasolini attirano costantemente l’interesse e l’attenzione delle generazioni di giovani dalle menti aperte, critiche e riflessive. Non solo in Italia, che sembra più ovvio, ma anche in Polonia. Peraltro, i gruppi italiani sui social media dedicati a Pasolini non solo sono numerosi ma anche molto attivi. La celebrazione del centesimo anniversario della nascita dell’artista ha accresciuto ulteriormente questo interesse verso Pasolini che non mostra battute d’arresto. Ciò accresce la mia profonda convinzione che Pasolini è vivo! Se potessi scegliere una figura del passato con la quale vorrei e potrei parlare, senza esitazione sceglierei proprio Pasolini. Allo stesso modo deve aver pensato Davide Toffolo nato a Pordenone, in Friuli, quando nel 2002 ha scritto il suo romanzo a fumetti intitolato semplicemente Pasolini. Si tratta, in poche parole, della storia di un giovane giornalista che segue le tracce di un uomo che si presenta come “signor Pasolini”. Quest’uomo ha tutte le caratteristiche del nostro tempo, come un indirizzo di posta elettronica, e vuole rilasciare un’intervista al giovane giornalista, presentando le sue opinioni, che sono fatte di citazioni dai testi di Pasolini. Ricorrendo a tale rappresentazione, Toffolo dimostra chiaramente che il pensiero di Pasolini non solo non è invecchiato, ma anzi ha acquisito attualità, a volte rivelandosi profetico. Toffolo non è solo un autore di fumetti, ma anche un chitarrista della band “I tre allegri ragazzi morti”. Il gruppo, da sempre interessato a Pasolini, gli ha dedicato gran parte della sua attività, e nel 2011 ha fatto una tournée in molte città italiane, dove oltre alle proprie canzoni, hanno presentato progetti artistici dedicati all’artista friulano.

Tornando ai fumetti, la prima storia di questo tipo è stata scritta dal giornalista Graziano Origa pochi mesi dopo la tragica morte di Pasolini. Il suo titolo, Le ceneri di Pasolini, rimanda chiaramente al celebre volume di poesie Le ceneri di Gramsci (1957). Un’altra storia, pubblicata in Francia, Pasolini di Jean Dufaux e Massimo Rotundo, è del 1993. Nel 2008 è uscita la graphic novel Il delitto Pasolini di Gianluca Maconi, ricostruzione delle ultime ore che hanno preceduto il brutale omicidio del poeta. L’ultimo pezzo è Diario segreto di Pasolini del 2015 di Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis, ipotetico diario/autobiografia dell’artista. Dedico tanto spazio alle opere appartenenti alla cultura popolare, e non a quelle più monumentali, come Vita di Pasolini di Enzo Siciliano, o numerosi studi scientifici sull’artista, perché mi sembrano essere la migliore prova di quanto il personaggio e l’opera di Pasolini uniscano diversi ambiti della cultura e si inseriscano in vari registri della sua ricezione.

La memoria di Pasolini resta ancora altrettanto forte tra i registi, non solo in Italia. Nel 1991 il regista inglese Derek Jarman, nel suo poco conosciuto cortometraggio intitolato Ostia, ricostruisce le ultime ore della vita di Pasolini. È proprio questo un

P.P. Pasolini, Anna Magnani, Ettore Garofolo, Franco Citti, Mostra del Cinema di Venezia, 1962 / fot. Gianfranco Tagliapietra

aspetto che gli artisti trovano più interessante, per le circostanze tragiche della morte del poeta. Possiamo qui ricordare il film Pasolini (2014) di Abel Ferrara con Willem Dafoe nel ruolo di protagonista, o La macchinazione (2016) di David Grieco, dove l’ideatore di Salò… è stato interpretato dal popolare attore e cantante italiano Massimo Ranieri. Marco Tullio Giordana invece (Pasolini, un delitto italiano, 1995) ha dedicato il suo film alle indagini sull’omicidio del regista. Vale la pena ricordare anche il film Un mondo d’amore (2002) di Aurelio Grimaldi, non tanto per il suo valore artistico, ma perché l’autore affronta un periodo precedente della vita di Pasolini, ovvero la fine del suo soggiorno a Casarsa e l’inizio della sua vita a Roma. Nel 2006 Giuseppe Bertolucci realizza il documentario Pasolini, prossimo nostro, che è la trascrizione di un’intervista con l’artista, fatta durante i lavori sull’ultimo film. L’artista, con la sua voce pacata ed equilibrata, sferra un attacco alla società contemporanea e lancia l’allarme. L’intervista, inframmezzata dalle foto del set del film, è una drammatica accusa, fatta da chi sa di più, da chi vede più lontano. Straordinario omaggio al regista è stato reso dal collega più giovane, Nanni Moretti, che conclude la prima parte di Caro diario (In Vespa, 1993) con un viaggio ad Ostia, sul luogo dell’omicidio di Pasolini, commemorato lì con un monumento. Questi sono solo alcuni esempi di un lungo elenco di opere cinematografiche ispirate al personaggio e all’opera di un grande italiano.

Anche i musicisti ricordano Pasolini. Il primo brano è quasi un “instant-song”, composto pochi giorni dopo il 2 novembre 1975. Lamento per la morte di Pasolini è una ballata di Giovanna Marini ispirata all’Orazione di San Donato, canto popolare

F.Citti, PP.Pasolini / fot. Gianfranco Tagliapietra

della tradizione abruzzese. Marini è ritornata a questo pezzo nel 2002 con l’uscita dell’album Il fischio del vapore, firmato insieme a Francesco De Gregori. Nel 1985 lo stesso De Gregori dedica a Pasolini il brano A pa’, definendolo durante un suo concerto “il più grande poeta del Novecento”. Cinque anni prima il brano Una storia sbagliata era stato dedicato a Pasolini dal più grande cantautore italiano, Fabrizio De André. Il testo fa riferimento alla morte del regista, ma anche alla seconda vittima della cosiddetta Prima Repubblica, una giovane romana Wilma Montesi: “È una storia da dimenticare, è una storia da non raccontare, è una storia un po’ complicata, è una storia sbagliata”. In occasione del 40° anniversario della morte del poeta è stato realizzato un documentario della giornalista Emanuela Audisio Pasolini, maestro corsaro. L’album L’alba dei tram è la colonna sonora del film e allo stesso tempo una sigla composta da Remo Anzovino su un testo di Giuliano Sangiorgi, interpretato da Mauro Giovanardi. Il giovane cantautore Enrico Nigiotti (1987) nella canzone Pasolini canta: “Ma come si fa nel mondo che c’è a starci dentro, a respirare”. Lo stesso autore dice così: “Pasolini è una canzone in cui descrivo la società di oggi attraverso le parole di Pier Paolo Pasolini”. Anche nella musica l’elenco dei riferimenti alla figura e all’opera di Pasolini potrebbe essere più lungo.

E c’è anche il teatro. Il già menzionato Giuseppe Bertolucci realizza nel 2004 uno spettacolo basato su testi di Pasolini e Giorgio Somalvico, intitolato ‘Na specie de cadavere lunghissimo, il cui ideatore e interprete è l’attore Fabrizio Gifuni, che fino ad oggi porta in scena questo monodramma nei teatri di varie città italiane. Ma ci sono molti altri eventi simili.

Qual è il motivo di una presenza così forte e costante di PPP non solo nella cultura italiana, ma nella memoria italiana in generale? Per rispondere, si possono scrivere lunghe dissertazioni, organizzare conferenze e seminari. La ricchissima eredità dell’artista è soggetta a nuove interpretazioni. Se, però, cerchiamo di dare una risposta breve, la chiave per comprendere il fenomeno di Pasolini è qualcosa di molto semplice, e allo stesso tempo così raro e prezioso nel mondo moderno: l’onestà intellettuale, che ci dice di testimoniare, di chiamare le cose con il loro nome. Coraggio di provocare, intransigenza, riprendere i temi più difficili, spesso oscuri. Tutto questo lo ha portato a scrivere il famoso testo Io so, originariamente pubblicato sul “Corriere della Sera” del 14 novembre 1974 con il titolo Cos’è questo golpe? Io so, inserito poi come Il romanzo delle stragi negli Scritti corsari. Pasolini spiega come conosce i nomi dei responsabili degli attentati che all’epoca sconvolsero l’Italia: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. È questa consapevolezza della responsabilità e del dovere intellettuale che costituisce la forza più grande nella vita e nell’opera di Pasolini.

Tra gli innumerevoli libri sull’artista ne ho scelto uno: PPP. Pasolini, un segreto italiano di Carlo Lucarelli, una storia personalissima su ciò che ha portato l’autore ad innamorarsi di Pasolini. Scrive che ricorda bene quel momento: guardava un estratto da Comizi d’amore. Questo mi ha spinto a pormi la stessa domanda, ma non posso dare una risposta diretta. Mi sono innamorata di Pier Paolo gradualmente e continuo ad innamorarmi ancora ad ogni frase, poesia riletta, ad ogni film guardato per l’ennesima volta.

tłumaczenie it: Magdalena Grochocka

I viaggi a fumetti di Federico Fellini e Milo Manara (I)

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Il fumetto era una delle passioni di Federico Fellini, che iniziò la sua carriera proprio come disegnatore. Tra il 1938 e il 1946 il giovane Federico collaborò con varie riviste, realizzando caricature e storielle a fumetti, e anche da regista non smise mai di disegnare. Il suo più importante contributo alla nona arte, però, furono le opere create insieme a uno dei più famosi e celebrati disegnatori italiani, Milo Manara.

Nel 1984 Fellini, appassionato di magia ed esoterismo, pensò di adattare per il cinema una delle opere di Carlos Castaneda, controverso scrittore e “sciamano” di origine peruviana. Nell’autunno del 1985 il regista italiano partì per il Messico per incontrare Castaneda, accompagnato, tra gli altri, dallo scrittore Andrea De Carlo (che aveva lavorato con lui al fi lm “E la nave va”) e dall’attrice americana Christine Engelhardt. Il viaggio, costellato da strani eventi e situazioni, segnò la fi ne dell’amicizia tra Fellini e De Carlo. Quest’ultimo pubblicò, nel 1986, il romanzo “Yucatan”, ispirato proprio al loro viaggio messicano. La cosa infastidì non poco Fellini, che in quello stesso anno pubblicò la propria versione della storia (inizialmente intitolata “Viaggio a Tulun”) sul “Corriere della Sera”, presentandola come un’anteprima del suo prossimo film. Un film che però non venne mai realizzato.

Nel 1988 Milo Manara, che aveva conosciuto Fellini qualche anno prima, contattò il regista per proporgli un adattamento a fumetti del racconto pubblicato sul “Corriere”. All’epoca Manara, nato nel 1945, era già un artista affermato, conosciuto soprattutto per opere di genere erotico come “Il gioco” (1982) o “Il profumo dell’invisibile” (1985). Fellini accettò la proposta del disegnatore e quel fi lm incompiuto divenne “Viaggio a Tulum”, un fumetto onirico, divertente e sensuale come i suoi migliori film. La trama, in parte rimaneggiata rispetto al soggetto originale, è carica di mistero, magia e suggestioni legate alle civiltà precolombiane, in particolare i Toltechi.

I protagonisti del “Viaggio”, oltre a Fellini stesso, sono il regista Snàporaz, la bellissima e misteriosa Helen e il goffo e simpatico Vincenzone. Snàporaz, che all’inizio del fumetto viene scelto da Fellini come suo alter ego per il viaggio, ha le fattezze di Marcello Mastroianni ed è omonimo del personaggio che il grande attore aveva interpretato ne “La città delle donne”, film di Fellini del 1980. La figura di Helen è vagamente ispirata alla Engelhardt, mentre appare curiosa la presenza di Vincenzone, ovvero il giornalista Vincenzo Mollica, che non aveva accompagnato Fellini nel suo viaggio in Messico. La decisione di farlo apparire nel fumetto al posto di De Carlo può essere interpretata come una cattiveria ai danni dello scrittore, un’ironica vendetta per aver “rubato” la storia di Fellini. Tra gli altri personaggi possiamo ricordare Sibyl, una versione oscura di Christina/Helen, o lo stregone messicano Hernandez, ma il “Viaggio” è pieno di fi gure pittoresche e originali che talvolta compaiono solo per poche vignette. Nelle prime pagine del fumetto Helen e Vincenzone, alla ricerca di Fellini, si recano a Cinecittà, dove incontrano personaggi provenienti da vari film del regista italiano, che Manara raffi gura con grande precisione e realismo. Più avanti Fellini e Manara inseriscono nella storia il regista e scrittore cileno Alejandro Jodorowsky e il celebre disegnatore francese Jean “Moebius” Giraud, autori di uno dei capolavori del fumetto mondiale, “L’Incal” (1981-1988).

In “Viaggio a Tulum” Fellini e Manara si divertono spesso a rompere la “quarta parete” tra finzione e realtà: i protagonisti sono consapevoli di essere personaggi di un fumetto e più di una volta commentano l’assurdità della trama e la mancanza di una successione logica degli eventi. La scena più interessante è forse quella in cui Snàporaz parla al telefono con il regista, esprimendo la propria frustrazione per la storia bislacca di cui è protagonista. Ma è proprio questo il motivo, risponde il regista, per cui non ha mai girato il fi lm che da tempo aveva in mente: la sceneggiatura era semplicemente troppo assurda. E così, l’unico mezzo che Fellini aveva per portare a compimento un progetto così folle e fantastico era il fumetto. A controbilanciare la storia, decisamente surreale e onirica, abbiamo i disegni estremamente dettagliati e realistici del maestro Manara. Come in altre opere dell’artista italiano ha un ruolo di primo piano la rappresentazione del corpo femminile, ma sarebbe certamente sbagliato liquidare “Viaggio a Tulum” come un banale e volgare fumetto erotico. La raffigurazione dei volti, soprattutto quello di Mastroianni, rasenta il fotorealismo, così come nel caso dei paesaggi, edifici e scenari urbani, disegnati con un incredibile livello di dettaglio e un respiro autenticamente cinematografico.

“Viaggio a Tulum” uscì a puntate sulla rivista “Corto Maltese” nel 1989. Qualche anno più tardi, nel 1992, Fellini e Manara crearono la versione a fumetti di un altro film mai realizzato dal regista riminese, stavolta davvero leggendario: “Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet”.

Foto: Sławomir Skocki, Tomasz Skocki

Brescia leonessa della cultura

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fot. Febo Films

Antica città le cui origini risalgono a oltre 3 200 anni fa, Brescia possiede un cospicuo patrimonio artistico e architettonico: i suoi monumenti d’epoca romana e longobarda sono stati dichiarati dall’UNESCO Patrimonio mondiale dell’umanità dal 2011, è conosciuta nel mondo anche per la celebre corsa d’auto d’epoca Mille Miglia e per la produzione del Franciacorta. La città di Brescia è soprannominata “La Leonessa d’Italia”, così definita per la prima volta da Aleardo Aleardi, nei suoi Canti Patrii. La fortuna dell’espressione si deve però a Giosuè Carducci, che volle rendere omaggio a Brescia per la valorosa resistenza contro gli occupanti austriaci durante l’insurrezione delle Dieci Giornate, nell’ode “Alla Vittoria”.

Le origini di Brescia risalgono al 1200 a.C., quando una popolazione, probabilmente di

fot. Febo Films

Liguri, costruì un insediamento nei pressi del Colle Cidneo. Nel VII secolo a.C. si insediarono i Galli Cenomani, che fecero di Brescia la loro capitale. Successivamente, a cavallo tra III e II secolo a.C., Brixia iniziò il percorso di annessione alla Repubblica romana, culminato nel 42 a.C. quando gli abitanti ottennero la cittadinanza romana. Dalla caduta dell’impero fu dominata da diverse popolazioni barbariche fino a diventare un importante ducato del regno longobardo.

Proclamatosi comune autonomo già nel XII secolo, finì sotto la dominazione viscontea e poi si diede ai Domini di Terraferma della Repubblica di Venezia a cui rimarrà legata fino al 1797. Annessa al Regno Lombardo-Veneto, durante il Risorgimento fu teatro delle dieci giornate di Brescia, per poi arrivare all’annessione al Regno d’Italia nel 1860.

fot. Febo Films

La città vanta un patrimonio storico artistico di tutta rilevanza, conservato in parte nei suoi splendidi musei, che sono gestiti dalla Fondazione Brescia Musei, presieduta da Francesca Bazoli e diretta da Stefano Karadjov.

Brixia. Parco archeologico di Brescia romana
Il Parco archeologico di Brescia romana offre un viaggio a ritroso nel tempo tra i resti monumentali dell’antica Brixia: dal santuario di età repubblicana (I secolo a.C.), monumento unico nel panorama archeologico dell’Italia settentrionale, con i suoi affreschi sorprendenti per grado di

fot. Alessandra Chemollo

conservazione e qualità al Capitolium, tempio principale della città, eretto dall’imperatore Vespasiano, dedicato al culto della “Triade Capitolina”, Giove, Giunone e Minerva. Al suo interno troviamo ancora i pavimenti originali in lastre di marmi colorati del I secolo d.C. oltre agli altari in pietra e frammenti di statue di culto e di arredi. Nella cella orientale è ospitata La Vittoria Alata, raro capolavoro bronzeo del I secolo d.C., vero e proprio simbolo di Brescia, recentemente restaurato, in un allestimento museale curato dall’architetto spagnolo Juan Navarro Baldeweg, concepito per esaltare le caratteristiche materiche e formali del bronzo.

fot. Fotostudio Rapuzzi

Il percorso termina al Teatro romano, costruito e ampliato tra I e III secolo, sorge accanto al Capitolium. La cavea imponente suggerisce le emozioni delle antiche rappresentazioni. Il teatro venne utilizzato sino all’età tardoantica (fine IV-inizio V secolo d. C.). Tra il XI e il XII secolo, la scena crollò e l’edificio divenne una cava a cielo aperto. Nel XII secolo era utilizzo come luogo per pubbliche udienze, ma lo stato di abbandono in cui versava ne determinò il progressivo e definitivo interro.

Museo di Santa Giulia
Unico in Italia e in Europa, il Museo della città è allestito all’interno di un complesso

fot. Fotostudio Rapuzzi

monastico di origine longobarda e consente un viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità di Brescia dall’età preistorica ad oggi, in un’area espositiva di circa 14.000 metri quadrati. In una successione continua di luoghi straordinari si incontrano due abitazioni di età romana (I-III secolo d.C.), dette Domus dell’ortaglia parte di un quartiere residenziale, che conservano ancora oggi mosaici e affreschi su modello di quelli di Roma e Pompei; la basilica longobarda di San Salvatore (VIII secolo d.C.), testimonianza tra le più importanti dell’architettura religiosa longobarda. Eretta per volontà di re Desiderio nel 753 d.C. come cuore del monastero, la chiesa-mausoleo aveva la funzione di simbolo del potere dinastico della monarchia e dei ducati longobarda, preziosissimo scrigno ricco di colonne romane di reimpiego, stucchi a motivi ad intreccio,

fot. Fotostudio Rapuzzi

affreschi e testimonianze degli antichi arredi lapidei. Si prosegue nel Coro delle monache (inizio del XVI secolo) ambiente sontuoso destinato alle monache dedite alla clausura. Articolato su due livelli presenta le pareti del piano superiore interamente decorate da affreschi di Floriano Ferramola e di Paolo da Caylina il Giovane, che raccontano la vita di Cristo. Infine l’Oratorio romanico di Santa Maria in Solario (XII secolo), nel quale le monache custodivano il tesoro; di forme romaniche, venne costruito verso la metà del XII secolo come luogo di culto privato delle monache con massicce murature nelle quali sono inseriti frammenti d’iscrizioni romane. Edificato su due livelli collegati conserva oggetti

fot. Fotostudio Rapuzzi

appartenenti all’antico tesoro come la Lipsanoteca, cassetta d’avorio decorata (IV secolo d.C.) e la crocetta reliquario in oro, perle e pietre colorate (X secolo d.C.) fino alla monumentale Croce di Desiderio , rara opera di oreficeria della prima età carolingia (IX secolo d.C.), decorata da 212 gemme, cammei e paste vitree databili dall’età romana al XVI secolo, conservata nel piano superiore sotto uno straordinario cielo blu di lapislazzuli tempestato di stelle d’oro.

Pinacoteca Tosio Martinengo
Completamente rinnovata nel 2018, accoglie una preziosa e scelta collezione d’arte nell’elegante sede di Palazzo Martinengo da Barco, con i suoi splendidi saloni rivestiti da preziosi velluti cangianti e ornati da soffitti affrescati. Il percorso espositivo prende avvio dal Trecento e affianca ai dipinti

fot. Fotostudio Rapuzzi

mirabili oggetti di arte decorativa, in un susseguirsi di capolavori da Vincenzo Foppa, capostipite del naturalismo lombardo a Vincenzio Civerchio che si ispira a Leonardo, passando per testimonianze di assoluta fama come l’Angelo e il Redentore di Raffaello Sanzio e l’Adorazione dei pastori di Lorenzo Lotto. Il cuore della collezione è costituito dalla pittura bresciana del Rinascimento con Savoldo, Romanino e Moretto, fino ad arrivare all’umanissima stagione dei “pitocchi” di Giacomo Ceruti. Il percorso si conclude con l’Ottocento che offre capolavori di maestri assoluti come l’Eleonora d’Este di Canova e il Ganimede di Bertel Thorvaldsen, fino al potentissimo Laocoonte di Luigi Ferrari e alla struggente tela I profughi di Parga di Francesco Hayez. Un patrimonio inestimabile formatosi tra Ottocento e Novecento grazie alla generosità di privati cittadini come il Conte Paolo Tosio, di cui il

fot. Fotostudio Rapuzzi

museo porta il nome, che donarono le loro raccolte e alla cura posta dal Comune nel raccogliere e conservare opere d’arte.

Castello e Museo delle armi “Luigi Marzoli”
Arroccato sul colle Cidneo, il Castello costituisce uno dei più affascinanti complessi fortificati d’Italia e il secondo più grande d’Europa, in cui si possono leggere ancora oggi i segni delle diverse dominazioni. Protagonista di numerosi eventi drammatici in cui la città fu coinvolta, tra cui le celebri Dieci Giornate, il Castello è oggi una delle aree più suggestive di Brescia, in cui convivono più elementi: le testimonianze della presenza romana, come i magazzini dell’olio, gli edifici medievali e una locomotiva del 1909, esposta all’interno del “Falco d’Italia” per la gioia dei visitatori più piccoli. All’interno del trecentesco Mastio Visconteo, il Museo delle Armi “Luigi Marzoli”

fot. Fotostudio Rapuzzi

ospita una delle più pregiate raccolte europee di armature e armi antiche, che raccontano la lunghissima tradizione armiera bresciana, documentandone l’evoluzione tecnologica e artistica tra il XV e il XVIII secolo. Nel 2023 verrà riaperto, dopo un lungo restauro, il Museo del Risorgimento con una nuova splendida veste, che permetterà in maniera innovativa di conoscere uno dei capitoli fondamentali della storia italiana moderna.

Anticipazioni 2023
Il 2023 sarà l’anno di Bergamo-Brescia Capitale Italiana della Cultura, tanti saranno dunque gli eventi che si susseguiranno: siinizia il 23 giugno di quest’anno con la mostra “Isgrò cancella Brixia” che terminerà l’8 gennaio 2023 che intende porre l’accento sul dialogo che s’instaura tra l’archeologia e l’arte contemporanea, tra la cultura classica e la sua persistenza nel nostro tempo. Dal 29 ottobre 2022 fino al 28 febbraio 2023 sarà la volta di “La città del Leone: Brescia nell’età dei Comuni e delle Signorie”, mostra che attraverso materiali eterogenei, intende indagare in modo originale questo periodo. E ancora dal 10 febbraio al 10 maggio 2023 si terrà la mostra “Ceruti. Pittore europeo” un’occasione per celebrare questo pittore che, con le sue toccanti rappresentazioni dei ceti umili e i suoi ritratti penetranti, si impose come una delle voci più originali della cultura figurativa del XVIII secolo, e di cui la Pinacoteca Tosio Martinengo accoglie il più importante corpus di opere, al mondo. Dal 24 marzo al 23 luglio 2023, per la sesta edizione del Brescia Photo Festival, “Luce della Montagna” sarà la più importante mostra sulla fotografia di montagna realizzata negli ultimi decenni, con opere di Vittorio Sella, Martin Chambi, Ansel Adams, Axel Hutte.

 

Il Ghetto di Łódź

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Fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Łódź era una delle città più importanti della Seconda Repubblica di Polonia. Era abitata da oltre 230.000 ebrei, che costituivano il 33% della popolazione della città. Łódź era un centro importante della vita sociale, culturale, economica e politica degli ebrei.

Tutto cambiò con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. L’esercito tedesco occupò la città l’8 settembre 1939. Fin dai primi giorni dell’occupazione, gli ebrei di Łódź furono sottoposti a severe repressioni. Le repressioni assunsero forme diverse, a volte molto brutali: dalla costrizione a eseguire lavori di pulizia duri e umilianti, ad essere privati dei loro beni fino a subire violenze ed essere uccisi. Furono sanzionati dalla legge di occupazione introdotta dalle autorità tedesche attraverso ordinanze. Le repressioni riguardavano quasi ogni ambito della vita. Gli ebrei furono cacciati dal lavoro e fu loro vietato di gestire attività commerciali, privandoli così dei loro mezzi di sostentamento. Fu vietato loro di celebrare le festività, di utilizzare i trasporti pubblici, fu introdotto il coprifuoco e alla fine del 1939 fu vietato loro di lasciare la città.

L’isolamento sociale fu aggravato dall’ordine a tutti gli ebrei di indossare segni di riconoscimento: inizialmente bracciali gialli sul braccio destro, dall’11 dicembre furono sostituiti da Stelle di Davide cucite sugli abiti. Nello stesso tempo, tutti i negozi e le attività commerciali di proprietà di ebrei furono contrassegnati da una Stella di Davide gialla posta in un luogo visibile.

La fase successiva fu l’isolamento fisico nel ghetto creato nel febbraio 1940. Il piano di creare un “quartiere chiuso” a Łódź fu infine attuato l’8 febbraio 1940 con un ordine del presidente della polizia Johannes Schaefer, pubblicato sul quotidiano più importante: Lodzer Zeitung. I reinsediamenti nel “quartiere ebraico” iniziarono immediatamente e durarono fino all’inizio del marzo 1940, culminando nel cosiddetto “giovedì di sangue” del 7 marzo, quando i tedeschi uccisero centinaia di persone che opponevano resistenza.

In poco più di 4 km2 furono stipate oltre 163.000 persone. Due strade di passaggio, Zgierska e Limanowskiego, dove passava la linea del tram, furono escluse dall’area del ghetto. Per rendere possibili gli spostamenti tra le diverse parti del ghetto, furono costruite tre passerelle di legno sulle strade: due su via Zgierska (presso via Podrzeczna e Lutomierska) e una su via Limanowskiego (presso via Masarska). Ben presto divennero uno dei simboli del ghetto. Nell’aprile del 1940, il nome di Łódź fu cambiato in Litzmannstadt, quindi il ghetto viene spesso indicato come il ghetto di Litzmannstadt.

Chaim Mordechaj Rumkowski, il capo nel ghetto, si prefisse di creare il maggior numero possibile di posti di lavoro che dovevano giustificare l’esistenza del “quartiere chiuso”. Rumkowski convinse i tedeschi che c’era bisogno di persone impiegate nell’industria tedesca; aderì alla politica della “salvezza attraverso il lavoro”. Con la deportazione di gruppi sempre più ampi di persone, divenne chiaro quanto fossero illusorie queste speranze.

Le condizioni del ghetto – mancanza di cibo, di medicinali e lavoro duro – portarono a un tasso di mortalità estremamente elevato tra i suoi abitanti. La situazione era aggravata da condizioni sanitarie disastrose. Quando il ghetto fu liquidato nell’estate del 1944, si contarono oltre 43.000 morti che furono sepolti nella parte occidentale del cimitero, in via Bracka, nel cosiddetto campo del ghetto.

Nell’autunno del 1941, prima che si stabilisse il piano per la “soluzione finale della questione ebraica”, le autorità tedesche decisero di reinsediare gli ebrei che vivevano nel Vecchio Reich nei territori occupati, compreso il ghetto di Łódź. In ottobre un gruppo di 20.000 ebrei del Reich e del Protettorato e 5.000 rom dell’Austria orientale furono deportati nel ghetto. I reinsediati non conoscevano lo scopo del loro viaggio e questo gruppo comprendeva molte persone per le quali il contatto con il ghetto fu uno shock. C’era un numero non trascurabile di cattolici e protestanti riconosciuti come ebrei sulla base delle leggi razziali di Norimberga. Il loro arrivo fu uno dei momenti più importanti della storia del ghetto. Quasi del tutto non abituati alle condizioni del ghetto, incapaci di parlare la lingua e scollegati dalla loro vita precedente, i reinsediati provenienti dall’Ovest sono stati collocati nei cosiddetti alloggi collettivi.

Le deportazioni dal ghetto di Łódź a Chełmno iniziarono nel gennaio 1942: dapprima fu trasportato a Chełmno un gruppo di rom del cosiddetto campo zingari, seguito dai detenuti del ghetto. Le deportazioni continuarono fino all’autunno del 1942.

Il 3 settembre i tedeschi chiesero che tutti i bambini sotto 10 anni e gli anziani sopra 60 fossero deportati dal ghetto. Rumkowski decise di informare di persona gli abitanti del ghetto delle richieste delle autorità, organizzando a tal fine un discorso pubblico nella piazza dei pompieri. Il 5 settembre, per ordine delle autorità tedesche, fu annunciata una “szpera” (dal tedesco Gehsperre – chiusura) nel ghetto. A nessuno fu permesso di lasciare la propria casa sotto la minaccia delle punizioni più severe. Gruppi speciali della polizia tedesca e del Servizio d’ordine ebraico visitarono i successivi quartieri di strada, dove, dopo aver raccolto gli abitanti, i funzionari tedeschi selezionavano quelli in grado di lavorare e gli altri destinati allo sfollamento. La gente disperata nascondeva i propri figli e gli anziani nella speranza di salvargli la vita. Fino al 12 settembre, più di 15.500 persone furono catturate e deportate dal ghetto verso la morte.

In totale, più di 77.000 ebrei e 4.300 rom furono deportati e uccisi tra il gennaio e il settembre 1942 e nel giugno 1944.

Il 15 giugno 1944, quando nel ghetto c’erano ancora circa 75.000 persone, Heinrich Himmler ne ordinò la liquidazione. Tra il 23 giugno e il 14 luglio 1944, oltre 7.100 persone furono deportate dal ghetto e uccise nel sito di Chełmno nad Nerem. Il 15 luglio le deportazioni furono brevemente interrotte e dopo la loro ripresa i trasporti andarono direttamente al campo di Auschwitz-Birkenau. Dal 5 al 28 agosto 1944 furono deportate quasi tutte le persone rimaste nel ghetto.

Dopo la liquidazione del ghetto, un gruppo di circa 1,5 mila persone fu lasciato nei suoi locali come un cosiddetto “commando d’ordine”, il cui compito era preparare i macchinari, le materie prime e i beni di maggior valore, che si trovavano nel ghetto, per il trasporto nel Reich. Quelli che rimasero nel ghetto liquidato dovevano essere uccisi in fosse comuni precedentemente preparate nel cimitero ebraico. Tuttavia, i tedeschi non riuscirono a farlo prima che l’Armata Rossa entrasse in città. Il 19 gennaio 1945, circa mille persone furono liberate dall’ex ghetto.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Łódź era una città diversa. Edifici, case, fabbriche sopravvissero (utilizzate durante la guerra per il bene del Reich). Un gran parte degli abitanti non c’era più, sparita dallo spazio cittadino. Rimasero gli edifici e la memoria.

Tłumaczenie it: Vanda Asipenka

Il vino della pace

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In Friuli, nei pressi della città di Gorizia dove si respira l’aria della Mitteleuropa c’è una terra ricca e baciata dalla fortuna, situata vicino al fiume Isonzo, protetta dalle Alpi Giulie e riscaldata dalle acque dell’Adriatico.

Una terra dalla vocazione internazionale che da sempre ha mantenuto la sua essenza e la volontà di essere ponte e non ostacolo al dialogo e all’accoglienza.

Proprio qui a Cormòns nel 1983 nacque un’idea rivoluzionaria. Un pacifismo enoico che spinse gli allora soci delle Cantine Produttori di Cormòns a mettere nero su bianco un’idea visionaria e affascinante. Il “manifesto” su cui hanno vergato la loro idea è ancora lì, nel grande salone di degustazione della cantina sociale. Quei soci, quasi tutti anziani, avevano vissuto anche sulla propria pelle le ferite di due guerre mondiali e vollero mettere a loro modo fine alle divisioni d’Europa in un’epoca in cui c’era ancora il muro di Berlino.

Non esisteva un progetto, un simbolo simile e così. Un sogno reso possibile dall’unione di quei vignaioli friulani guidati da Adriano Drius e dal Maestro di Cantina Luigi Soini.

In quel 1983 iniziarono a piantare, nei due ettari intorno alle cantine sociali, la Vigna del Mondo.

Centinaia di varietà provenienti da ogni parte del mondo. L’elenco dei vitigni utilizzati non è statico, ma è in “work in progress”, dato che se ne aggiunge sempre qualcuno di nuovo e la vinificazione avviene in bianco. La produzione si attesta, a seconda delle annate, dalle 5 alle 15 mila bottiglie e queste bottiglie sono contese oltre che dagli appassionati di vino anche dai collezionisti d’arte. Quella di Cormòns è senza dubbio la più grande collezione di vitigni del mondo con le sue oltre 650 varietà provenienti da oltre 60 paesi; ma ciò che è straordinario è che da questa vigna dal 1985 è nato un vino unico: il Vino della Pace. Un vino nato come simbolo, che viene commercializzato in bottiglie da collezione disegnate in edizione limitata da grandi artisti. Arnaldo Pomodoro, Enrico Bay e Zoran Music furono gli autori delle prime tre etichette.

Nel corso degli anni si sono succeduti nella realizzazione i più grandi nomi dell’arte mondiale. Da Luciano Minguzzi a Salvatore Fiume da Giacomo Manzù ad Aligi Sassu da Ernesto Treccani a Yoko Ono, da Emilio Tadini a Dario Fo a Fernando Botero a tanti altri ancora.

Il “Vino della Pace” dal 1985 al 2012 è stato inviato ai potenti della terra e ai Capi di Stato di tutto il mondo “quale segno di pace e fratellanza fra i popoli”, impreziosito appunto dalle etichette disegnate da grandi artisti di fama internazionale. Fin dall’originele tre bottiglie che ogni anno compongono la “collezione” vengono inviate ai capi di stato civili e religiosi del mondo.

A riportare nelle bottiglie questo vino della Cantina Produttori Cormons è stata la vendemmia 2017 che, alla fine di settembre, ha celebrato il ritorno, sulle colline del Collio, di questo simbolo di pace e fratellanza.

In quelle bottiglie ci sono tutte le “razze” enoiche: Yuvarl Cakird, Tsirah, Tulilah, Shurrebe, Pedral, Maizy, Zinfandel, Terrano, Merlot Bianco, Gamay, Ucelut, tanto per elencarne solo alcuni di quelli che convivono nel vigneto più cosmopolita del mondo.

All’inizio dell’autunno anche il rito della vendemmia si fa speciale. In questo abbraccio simbolico di unione e fratellanza le mani che raccolgono i grappoli sono quelli delle 500 persone e 70 ragazzi del Collegio del Mondo Unito di Duino (Trieste) che rappresentano le 60 nazioni del mondo. Sono loro fin dalla prima vendemmia del 1985 a chiudere questo cerchio magico di simbologia di Pace.

Esercitiamoci!

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Non scoprirò l’America se dico che non serve a niente un modo di studiare la lingua che non prevede le ripetizioni. Vi propongo di fare quindi tre esercizi che ci aiutano a ripassare i temi ed il lessico degli articoli precedenti: Esprimere l’intraducibile, del perfetto imperfetto, Verbi pronominali, L’italiana lingua dell’amore, Il mondo dei colori. Buon lavoro!

I. Traduci le frasi in italiano
1. Kropi, więc weź parasol.
Wczoraj wieczorem lało.
2. Idę się przejść.
3. Najpierw ogarnę trochę dom.
4. On nie chce pracować na czarno.
5. Jej córka ma rękę do kwiatów.
6. On jest śmiertelnie zakochany.
7. Ludzie nic nie zrobili.
8. Wolę ciemne winogrona.
9. Musisz się zdecydować.
10. Zeszłej nocy miałam koszmar.

II. Abbina la colonna A con le espressioni della colonna B
A
a) essere al verde
b) che bello
c) ho infl uenza
d) era tutta nera
e) un principe azzurro
f) la settimana bianca

B
1. książe z bajki
2. tydzień na nartach
3. ale super
4. mam katar
5. być spłukanym
6. bardzo wkurzona

III. Completa il testo con le parole qui sotto
bel
le fa il fi lo
si sono divertiti
ci prova
sorriso (x2)
ha litigato
Maria è uscita con Luca che ……………… da un ……… po’. Lei non si fida di lui perché la sua amica Paola dice che è un tipo che …………… con tutte. A Maria però Luca piace molto ed ………………. con Paola. L’ha conosciuto ad una festa, lui le ha ……………. e lei si è innamorata di quel ……………….. Sono andati a mangiare e
……………………… molto.

LE RISPOSTE:

I.
1. Pioviggina quindi prendi un ombrello. Ieri sera ha
piovuto a dirotto.
2. Vado a fare 2 passi/ a fare un giro.
3. Prima sistemo un po’ la casa.
4. Non vuole lavorare in nero.
5. Sua fi glia ha il pollice verde.
6. E’ innamorato cotto.
7. La gente non ha fatto niente.
8. Preferisco l’uva nera.
9. Ti devi decidere/ Devi deciderti.
10. La notte scorsa ho fatto un brutto sogno.

II.
a 5, b 3, c 4, d 6, e 1, f 2

III.
Maria è uscita con Luca che le fa il fi lo da un bel po’. Lei non si fida di lui perché la sua amica Paola dice che è un tipo che ci prova con tutte. A Maria però Luca piace molto ed ha litigato con Paola. L’ha conosciuto ad una festa, lui le ha sorriso e lei si è innamorata di quel sorriso. Sono andati a mangiare e si sono divertiti molto.

Aleksandra Leoncewicz – lektorka języka włoskiego, tłumaczka, prowadzi własne studio językowe Pani Od Włoskiego.

Appena sfornati

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Viaggio onirico attraverso sogni che affondano nelle profondità della nostalgia e della malinconia. Ecco come si può in breve definire la musica che ci è stata proposta nell’album del debutto di Tommaso Paradiso.

Finora, Tommaso era conosciuto quale componente della band The giornalisti fondata nel 2009 insieme a Marco Antonio Musella e Marco Primavera. Qualche canzone di successo e tournée in tutta Italia è quello di cui potevano vantarsi per un decennio della loro esistenza. Però Tommaso Paradiso, nato nel quartiere romano Prati Paradiso, ha sempre desiderato suonare da solista, un po’ meno il suonare la chitarra come nella band madre che era la conseguenza di un sogno apparso dopo aver ascoltato “Definitely Maybe” degli Oasis. Allora, all’età di 11 anni sognava di diventare un musicista. C’è molta meno chitarra in “Space Cowboy”, ma è pieno di atmosfera spensierata in cui il musicista sembra intraprendere un viaggio introspettivo. Si possono catturare un gran numero di citazioni e ispirazioni musicali, da cui l’artista non scappa. Tocca Carlo Verdone, Vasco Rossi, The Strokes, The Beatles o Arctic Monkeys nel singolo “Silvia” con un caratteristico modo di suonare la chitarra. Nell’album si sente il synth-pop che unisce sintetizzatori, batteria e tastiere nello stile degli anni Ottanta. Dal punto di vista dei testi è un viaggio intimo, che già nella traccia di apertura annuncia che Tommaso non si vergogna delle sue emozioni. Rivela i sentimenti personali come la paura, la solitudine, l’insicurezza, la perdita e la ricerca della pace. Un’esperienza particolarmente piacevole!

Sangiovanni “Cadere Volare”
Una volta i riccioli folti, un’altra i capelli tagliati molto corti. Oggi le unghie bianche, domani di colore rosa. Uno stile che va oltre l’ordinario abbigliamento dell’adolescente medio e supera i limiti della virilità nel senso ampio del termine. Nessuna stranezza, ma con un pizzico di follia e carattere. Ecco Sangiovanni, una speranza della musica italiana, un cantante che quest’anno ha pubblicato un atteso album di debutto intitolato “Cadere Colare”. Alcuni possono associare questo gioioso ragazzo al programma Amici che scopre nuovi talenti. È quanto è accaduto con il cantante diciannovenne nato a Vicenza. Il risultato del successo televisivo prima è stato un EP e ora un album di dimensione piena promosso dal singolo di ballo “Farfalle” (quinto posto al festival di Sanremo). L’album è solo apparentemente creato per quegli adolescenti che ascoltano un pop poco impegnativo. È un disco particolarmente maturo e saggio, pieno d’amore. Molte canzoni sono dedicate a storie più o meno importanti, a sentimenti più o meno maturi. È il primo contatto con l’età adulta, una voce importante su argomenti come affrontare le emozioni, il rifiuto causato dall’orientamento sessuale o i tentativi di suicidio. In seguito è un racconto di un giovane che vuole essere leggero e libero. Sangiovanni rappresenta una nuova generazione che scappa dal moralismo ed è eccezionalmente affidabile. Nella musica mescola le profondità del pop con l’elettronica e l’hip-hop. In una delle interviste ha confessato: “A prima vista, la mia musica può sembrare leggera nel senso più superficiale del termine, ma è anche la mia forza”. Con questa onestà e sincerità di emozioni vince. Un ragazzo altamente dotato da cui possiamo imparare ad assaporare la vita e un modo leggero di vivere i momenti difficili!

Ditonellapiaga “Camouflage”
Ecco è nata una nuova regina della musica italiana che potrebbe arditamente salire sul palco con leggende globali come Dua Lipa, Roisin Murphy o Beyonce. Non a caso elenco artisti di diverse aree e generi musicali, dato che la giovane cantante romana non intende porsi limiti e assumere nuovi ruoli e recitare, come a teatro, le viene facilmente. Ditonellapiaga l’abbiamo conosciuta per esempio quest’anno al festival di Sanremo, dove insieme a Donatella Rettore, icona degli anni 80, ha eseguito una canzone accattivante, “Chimica”, rendendo omaggio alla musica da ballo e alle sue varie sfumature nel modo migliore. Nell’album di debutto “Camuflage” si trasforma in un camaleonte. Ci inonda di elementi disco, house, eurodance dei primi anni 2000, a suoni più delicati con gli elementi di soul come nella canzone “Come fai”. È in grado di sorprendere non solo con l’atmosfera retrò degli anni 60, ma anche con il suono completamente astratto come nella canzone di apertura del disco “Morphina”, il momento migliore dell’album. C’è anche un buon disco di chiusura “Carrefour Express” che parla di sentimenti non reciproci, del desiderio di possedere ciò che non si può avere. Considerando tutte queste luci e ombre, colori e suoni che non vogliono essere etichettati, otteniamo un pensiero coerente e Ditonellapiaga entra sulla scena musicale con un passo audace che non può essere dimenticato.

Tłumaczenie it: Joanna Jachimek