Ferzan Özpetek, un po’ italiano, un po’ turco, innamorato di Kieślowski e Szymborska

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Ferzan Özpetek, turco d’origine e italiano d’adozione. Dopo alcune esperienze in teatro si avvicina al cinema lavorando come aiuto regista. Debutta nel 1997 con “Il bagno turco” che ottiene un grande successo di critica e di pubblico. Da lì inizia la sua carriera contrassegnata da successi continui. In questo mese d’agosto esce nelle sale polacche il suo dodicesimo film “Napoli velata”.

Non tutti sanno che Lei in realtà doveva studiare negli Stati Uniti, poi all’improvviso è sbarcato a Roma…
Stavo andando in America e poi di punto in bianco ho cambiato idea e sono andato a Roma, non so perchè. Mi piaceva molto il cinema italiano ma amavo anche il cinema francese, inglese, americano quindi non è stato un motivo fondamen­tale. È stata una cosa abbastanza strana. Sono quelle decisioni che non sai come spiegare. Nella vita facciamo tante volte delle scelte d’istinto, senza motivo credo.

Sente una forte appartenenza alle sue radici?
Mi definisco come un regista italiano quello di sicuro perché dal punto di vista professionale sono cresciuto in Italia. Poi per quanto riguarda la nazionalità…forse mi sono un bel po’ allontanato dalla Tur­chia perché da quarantadue anni abito in Italia. Ma adesso che Lei mi ha fatto questa domanda mi sono reso conto che non sento un’appartenenza a un solo paese. Penso che conti molto essere delle persone prima di tutto.

E questo si vede anche nei suoi film che si concentrano sulle persone, relazioni ed emozioni. Tante volte nel Suo lavoro con gli attori si vede il richiamo ai grandi Maestri del cinema…
Ci sono tantissimi registi che amo ma il mio preferito rimane Vittorio De Sica per il suo rapporto con gli attori. Ho sempre ammirato proprio la sua virtù di dirigere gli attori per tirarne fuori l’essenza. Questa è la cosa che conta di più per me. Poi ci sono tanti altri straordinari registi come Michael Powell, Stanley Kubrick, Antonio Pietrangeli. Potrei continuare l’elenco all’infi­nito perché i registi che ammiro sono tanti.

Oltre ai protagonisti anche l’ambientazione svolge un ruolo importante nelle Sue opere, diventa essa stessa protagoni­sta al pari degli attori. Lei è un esperto nel far vedere il volto nascosto delle città note…
Le persone contano molto ma i posti altrettanto credo. “Le fate ignoranti” l’ho ambientato al Gasometro a Roma. Gra­zie al clamoroso successo del film in Italia, il quartiere ha avuto un boom di vendite degli appartamenti e gli immobiliaristi mi hanno ringraziato. Quando ho fatto il mio primo film “Il bagno turco” tanti amici, non riconoscendo le location, sono venuti da me chiedendo dove avevo girato. Erano invece posti che tutti vedevano ogni giorno. Spesso è una questione d’inquadratura, di ripresa, dell’angolazione che dai al luogo. Ma la cosa che conta più di tutto sono le persone e il loro rapporto con l’am­biente. Quando scrivo la sceneggiatura e poi comincio a fare le prove con gli attori e vado con loro sul posto, le idee iniziali possono cambiare.

Dopo sedici anni è tornato a Istanbul a girare un film basato sul Suo libro „Rosso Istanbul”, il rapporto con l’ambiente cambia anche quando gira in Turchia?
La mia formazione è italiana e non si riesce a svincolare da un certo meccanismo che si è imparato. A Istanbul sono stato benissimo, ho lavorato con una troupe meravigliosa e di grande passione. Ambientare e girare nella mia città ha avuto un grande significato per me. L’ho vista con altri occhi. Mi ha emo­zionato. Volevo girare nella casa dove ho vissuto da bambino, ma non esisteva più, al suo posto c’era un grattacielo. Ho girato comunque sul Bosforo dove trascorrevo le estati. A Roma ulti­mamente ho avuto molte difficoltà perché comunque è una città che soffre le riprese. I romani non sopportano quando si ferma il traffico, ma il prossimo film lo farò sicuramente a Roma.

Ha già qualche idea?
Ho quasi finito la sceneggiatura di un nuovo film che racconta una persona che non riesce mai a stare ferma. Non perché è agitata ma perché i suoi interessi e la sua creatività la por­tano a fare sempre cose diverse. Io stesso sono così: il pros­simo aprile faccio Madame Butterfly all’opera di San Carlo a Napoli, ho scritto il nuovo film, forse comincio a scrivere il terzo romanzo. La mia vita è condividere le cose che amo e che mi piacciono e per questo faccio cinema, per questo condivido le foto e altro sui social. L’idea del condividere cioè vedere o par­tecipare insieme, offrire del proprio ad altri, vedere insieme la stessa cosa ma ognuno a modo suo è molto affascinante. Mi piace una frase di Marco Ferreri che dice “i film senza gli altri non esistono, gli altri sono insieme a noi autori dei film”. Gra­zie alla condivisione istantanea mi sono avvicinato molto ai miei spettatori, li faccio partecipi della mia creazione e se la gente poi mi dice che ha visto diverse volte i miei film, se mi racconta che qualcosa gli è piaciuto in modo particolare questa è una grande soddisfazione per me.

Invece a Napoli ha girato per la prima volta, dopo Lecce e Roma è arrivata l’ora di raccontare Napoli?
Sei anni fa, mentre curavo la messa in scena di La Traviata al San Carlo, ho vissuto un mese e mezzo a Napoli, ho conosciuto tante persone, sono entrato nelle case, mi sono documentato sulla storia della città, ho visto la vita. Sono stato rapito e da lì è nata l’idea di farci un film.
Racconto la Napoli che ho amato subito quando ci sono arrivato per la prima volta: la Napoli del centro storico, una Napoli antica e borghese, Piazza del Gesù, Piazza dei Martiri, Piazza San Domenico Maggiore e su e giù per Spaccanapoli. Anche gli interni li ho scelti con cura. Ai due principali sono legato anche affettivamente. La casa di Adele (Anna Bonaiuto) è un’antica casa nobiliare piena di opere d’arte usata dal cinema due volte sole: da Rossellini per Viaggio in Italia e da De Sica per L’oro di Napoli. La casa di Adriana (Giovanna Mezzogiorno) è quella di Flora, una mia carissima amica.

La Sua Napoli è misteriosa ma anche piena di simboli…
Giusto, ci sono simboli attorno ai quali fin dalle prime scene gira il film. All’inizio ho pensato di aprirlo con la vista di Napoli. Poi invece parlando con la mia scenografa abbiamo comin­ciato a riflettere su cosa di preciso voglio raccontare di questa città. Siccome mi piacciono molto le scale mi ha fatto vedere la scala del Palazzo Mannajuolo. Sono rimasto colpito. Era il destino in qualche modo perché tutto il film è basato sull’oc­chio e sull’utero e questo palazzo sembrava tutte e due. Per un’apertura era perfetto. Un altro simbolo che ritorna è il velo. Mi è capitato di assistere alla “figliata”, un rito arcaico legato alla cultura napoletana dei femminielli, la rappresentazione di un parto maschile. Tra attori e pubblico c’è un telo semitraspa­rente, perché la verità va più sentita che guardata. E appunto perché “Napoli velata” mi chiedevano sempre? Perché il velo non nasconde ma svela, grazie al velo ci si vede più dettaglia­tamente tante sfumature del viso. Così come nel Cristo velato il velo rivela, coprendole, le forme del viso. Lo spettacolo mi ha conquistato a tal punto che ho deciso di usarlo in parte per l’apertura del film ma ho cambiato tante cose e l’ho fatto a modo mio.

Abbiamo parlato di Italia e Turchia, spostiamoci un attimo in Polonia. Nel 2015 è stato ospite del Forum del Cinema Euro­peo Cinergia a Łódź…
Sono andato a Łódź insieme a Kasia Smutniak che è una mia amica, oltre al fatto che abbiamo fatto un film insieme. Sono stato anche a casa dei nonni di Kasia e quindi ho visto la cam­pagna polacca. La Polonia mi ha fatto molto effetto. Ho notato tante somiglianze con gli altri paesi ma dall’altro canto ci sono anche le cose sottili che fanno la differenza. La luce, un piatto, uno sguardo che ti fa pensare di essere proprio in Polonia.

Quando Lei parla delle piccole cose, dell’attenzione ai det­tagli mi vengono in mente i film di Kieślowski oppure le poe­sie di Szymborska…
Sono pazzo di Kieślowski! È stato un attento osservatore della vita. I suoi film invitano alla riflessione e anche con il racconto semplice sono profondi e toccanti. Della Szymborska invece sono stato amico. Sono incantato delle sue poesie. Ci siamo incontrati per la prima volta alla Fiera del Libro di Torino e dopo ci siamo rivisti in diverse occasioni. Le ho dedicato “Magnifica presenza” e l’ho citata ne “Il cuore sacro” nel momento in cui dalla borsa della protagonista cade il libro delle poesie. È stata una presenza forte nella mia vita. Tra le mie ispirazioni polacche ci sono anche Pawlikowski e Polański. Regista che la gente con­testa ultimamente ma che io apprezzo molto. È un grande arti­sta ma non con tutti se ne può parlare apertamente a causa del clima molto duro oggi e dell’atmosfera di scandalo perenne che lo circonda. Per me lui rimane un regista straordinario.