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Szymon Ołtarzewski, la mia vita è il marmo

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È venuto in Italia per il marmo nel 2003 e oggi non può immaginare di vivere altrove. Collabora stabilmente con due gallerie italiane a Firenze e Pietrasanta. Ha esposto in Inghilterra, Polonia e Turchia. Fin da bambino la sua passione è stata il disegno, ha studiato pittura, disegno e scultura privatamente e inoltre all’Accademia di Belle Arti di Carrara ed è anche diplomato in scienze ambientali.

Perché vivi in Italia?

La risposta è semplice: marmo! All’età di 25 anni ho inserito la parola ”marmo in Europa” su Google. Sono saltate fuori due opzioni: Carrara in Italia e Tassos in Grecia. Ho scelto l’Italia, considerando che l’autostop mi avrebbe reso più facile tornare se qualcosa non avesse funzionato. E così sono finito a Carrara.

Sei finito in Carrara e….

E da lì sono stato reindirizzato a Pietrasanta. Sono venuto qui per il marmo. Alla fonte. Ho cercato una qualsiasi occupazione collegata al marmo. Inizialmente ho lavorato su varie pietre in laboratorio, producendo elementi decorativi e architettonici. Il passo successivo è stato quello di trovare impiego allo Studio Forma, dove sotto la supervisione di Antonio Luchinelli ho avuto l’opportunità di lavorare con molti artisti di più o di meno famosi. Il nostro cliente principale era l’artista giapponese Kan Yasuda. Allo stesso tempo ho creato una serie di 12 sculture di marmo. Nel 2009 ho avuto la mia prima mostra personale dal titolo ”Non Toccare” all’Aria Art Gallery di Pietrasanta ed ha avuto un successo tale che da allora in poi mi sono dedicato solo alla mia passione.

Pietrasanta è il tuo luogo d’elezione?

Sì, qui ho creato la mia famiglia, ho incontrato molti colleghi, ho fatto amicizie. E credo che nei prossimi anni di certo non cambierò il mio luogo di residenza. Mi piacciono le metropoli del mondo e le grandi città piene di caos, ma difficilmente riesco a rimanere in questi luoghi per più di 2 settimane. Penso che chiunque passi Pietrasanta capirà il mio amore per questo luogo.

Come lavori?

Dedico circa mezzo anno per ciascuna scultura. È uno sforzo mentale, serve una concentrazione costante. Ma è anche un duro lavoro fisico. La pietra non è argilla, non c’è l’opzione ”undo” cioè ”annulla”. Inizio la mia scultura con schizzi strutturali, cercando il baricentro, distribuendo il peso in base alle dimensioni del blocco. Solo allora comincio a pensare alla forma e al contenuto. Per quanto la materia me lo permetta, nel corso del mio lavoro cambio completamente la mia idea iniziale, ottenendo a volte effetti che mi sorprendono. Di solito dopo aver terminato il mio lavoro faccio una sessione fotografica professionale e scansiono la scultura in 3D, creando un archivio virtuale con la possibilità di riprodurre le mie opere utilizzando moderne tecnologie in qualsiasi dimensione e materiale.

Scolpisci solo il marmo?

In realtà sì. L’ultima volta ho lavorato in un blocco di marmo, che pesava 4 tonnellate. Dopo aver realizzato una scultura con dimensioni di 130x180x80 cm sono rimasti circa 400 chili. Di solito il 70% del materiale viene eliminato. E non è economico. Mi piace lavorare con la pietra, perché è un lavoro diretto sul materiale. Trovo il blocco giusto, inizio a scolpire, completo l’opera, la firmo e fine. Recentemente ho fatto anche 8 copie di edizioni limitate in bronzo.

Come arrivano i clienti?

Il marketing e la promozione sono di solito gestiti dalle gallerie d’arte con cui collaboro. Aria Art Gallery Firenze, guidata da Antonio Budetta e Futura Art Gallery di Pietrasanta, guidata da Claudio Francesconi. Stabilisco anche contatti diretti con i collezionisti in varie situazioni sociali e professionali.

Ultimo ordine ricevuto?

Una commessa da una società di sviluppo di Rotterdam, su questa scultura ci lavoro già da sei mesi ma non è ancora finita.

Hai esposto in Italia, Turchia, Inghilterra e Polonia?

Nel 2016 c’è stata una mia mostra presso l’ambasciata polacca a Roma. Sono stato invitato dall’ambasciatore Tomasz Orłowski dopo che aveva visto le mie sculture ad Aria Arte a Firenze. In seguito la mostra è stata esposta a Varsavia, presso la galleria Apteka Sztuki.

Su richiesta dell’ambasciata, prendendo spunto dalla caricatura di Zdzisław Przeździecki, fatta un secolo fa da Zdzisław Czermański, ho realizzato un bassorilievo che commemora Przeździecki che è stato il primo ambasciatore polacco in Italia. È stata posta sulla facciata dell’ambasciata polacca a Roma. Un altro ordine dell’ambasciata polacca sono state le medaglie in marmo per commemorare il centenario delle relazioni diplomatiche tra la Polonia e l’Italia.

Come mai ti sei laureato in ingegneria?

Una coincidenza. Disegno da quando ero bambino, proprio come mia madre, mia nonna e le mie zie. Mio padre faceva sculture. Da adolescente disegnavo la natura anche per 30 ore alla settimana. Volevo diventare un pittore. Nello studio dell’artista di Zabrze, Witek Berus, mi sono preparato per 2 anni agli esami di ammissione dell’Accademia di Belle Arti. Tuttavia, prima di farli, ho dovuto fare il servizio militare che ho svolto presso l’unità corazzata di Danzica, ai carri armati, perché ero laureato presso una scuola tecnica meccanica. Per evitare il servizio militare mi sono scritto ad una università. La scelta della facoltà di scienze ambientali è stata casuale, doveva essere solo per un anno, a gli studi mi hanno interessato e così li ho finiti. Oggi sono molto soddisfatto delle mie conoscenze in materia di biotecnologia, ragionamento tecnico e abilità meccaniche apprese alla scuola tecnica. È stato solo quando sono venuto qui in Italia che ho iniziato a studiare all’Accademia di Carrara.

Torni spesso in Polonia?

Non ho molti contatti con la Polonia. Probabilmente perchè non sono mai rimasto in Polonia per troppo tempo. Fino all’età di 5 anni, abbiamo vissuto nelle montagne di Bieszczady, dove i miei genitori hanno fatto un esperimento di vita agricola dopo la laurea. Poi siamo stati in Masuria. Avevo 8 anni quando, dopo la morte di mio padre, ci siamo trasferiti in Slesia. Dai laghi e dalle foreste masuriane mi sono trovato in una triste città annerita di carbone. Cambiavo le scuole e quindi le amicizie. Quando ero adolescente ero piuttosto indisciplinato, avevo i capelli lunghi, e mi hanno cacciato dalla migliore scuola superiore della città. Poi ho conosciuto un altro nuovo ambiente nella scuola tecnica meccanica. C’erano anche alcuni studenti di cui avevano paura perfino gli insegnanti. In qualche modo sono sopravvissuto, ma non era il mio mondo. Sono andato via e non so individuare in Polonia un luogo che possa definire ”mio”.

traduzione it: Karolina Wróblewska

 

Tour de Pologne: il ciclista Fabio Jakobsen è in coma farmacologico

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

La prima tappa del Tour de Pologne di quest’anno si è conclusa con un drammatico incidente. Al traguardo il ciclista olandese Dylan Groenewegen ha spinto il connazionale Fabio Jakobsen sulla ringhiera; Jakobsen ha perso il casco ed è caduto a terra, procurandosi una grave ferita. I medici sono immediatamente giunti sul posto. Jakobsen è in coma farmacologico. Le lesioni più gravi riguardano lo scheletro facciale: sono presenti lesioni intorno all’orbita dell’occhio, alla mascella e alla mandibola. Alle 5:30 è stato sottoposto a un intervento di chirurgia cranio-facciale nel reparto di terapia intensiva. “Oggi ci sarà un tentativo di svegliarlo” ha dichiarato il dottor Paweł Gruenpeter, vicedirettore dell’Ospedale di Sosnowiec. L’annuncio sulle condizioni di salute durante la notte è stato diffuso anche dal gruppo a cui Jakobsen appartiene il Deceuninck-Quick Step. “Gli esami diagnostici non hanno evidenziato lesioni al cervello o alla colonna vertebrale. Grazie per tutto il vostro supporto” si legge sul sito ufficiale della squadra.

Cartoline da Milano

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Milano è una città cambiata. Molto più di quanto si potesse immaginare solo cinque anni fa quando il traffico, l’inefficienza e la scarsa qualità della vita erano sulla bocca di tutti: cittadini, pendolari, turisti e lavoratori di passaggio. Oggi è cambiato tutto, lasciando sbalorditi, prima di tutti, gli stessi abitanti. I luoghi emblematici della Milano di oggi sono molti, ma tra questi segnaliamo:

Darsena/Naviglio

Milano nasce sull’acqua, ma nel primo Novecento i navigli furono interrati. Ne rimangono pochi ma caratteristici, popolati da una movida notturna molto chiassosa e vivace. La Darsena è la convergenza di due di questi Navigli, oggi destinazione e luogo di eventi che si susseguono in un calendario fittissimo.

Brera

La Pinacoteca, i vicoli, i ristoranti e le botteghe della “vecchia Milano” che rivive oggi, forse un po’ finta, ma comunque suggestiva.

Porta Nuova/Gae Aulenti

Un nome che è un destino. La nuova porta che Milano apre verso l’Europa più innovativa, coraggiosa, ricca ma comunque accogliente. Un progetto urbanistico discusso, ma non discutibile, novella Potsdamer Platz, con idee celebrate in tema sviluppo sostenibile. Su tutto il celebre “bosco verticale”, grattacielo pluripremiato dagli esperti di architettura.

Duomo

A Milano il detto “fabbrica del duomo” evoca i lavori interminabili. E in effetti il Duomo, sesta chiesa più grande del mondo, è perennemente oggetto di restauri e manutenzione con le sue innumerevoli guglie, statue e decorazioni. Capolavoro indiscusso di architettura gotica.

Teatro alla Scala

Per i milanesi semplicemente la “Scala”. Per i musicisti e direttori d’orchestra il “traguardo” di una carriera. La stagione lirica si apre il 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio patrono di Milano con una soirée scintillante. L’edificio è stato recentemente rinnovato con un progetto piuttosto ardito ma riuscito di Mario Botta.

Castello Sforzesco/Parco Sempione

Un parco straordinario, ricco di elementi meravigliosi, di epoche diverse, che non ha nulla da invidiare a parchi europei assai più celebrati. Al suo interno il Castello Sforzesco, roccaforte degli Sforza, ma anche il Palazzo della Triennale, l’Arco della Pace e l’Arena di Milano. Una mezza giornata di visita, è perfetta per farsi un’idea della eterogeneità artistica di Milano.

Quadrilatero della moda

La moda è Milano, e viceversa. Le grandi maison, le sfilate, i negozi, un connubio indissolubile. Nella sua espressione più raffinata, lussuosa, ma anche nel pret-à-porter. La destinazione più glamour dello shopping è un quadrilatero che si sviluppa idealmente tra Corso Venezia, Via Spiga, via Manzoni e la celeberrima Via Montenapoleone. Un itinerario che dà vita a un percorso di ispirazioni e tentazioni compulsive.

Cimitero Monumentale

Un luogo inusuale, forse, per un itinerario turistico. Ma di una bellezza che non lascerà delusi. Una rassegna di architettura e di storiografia, attraverso monumenti, cappelle, e tombe espressione di molteplici stili, periodi e identità multiculturali.

Triennale

La Triennale di Milano è il tempio di culto del design. Come per la moda, il design è Milano e viceversa. La Triennale è un luogo di eventi ed esposizioni, ma anche un ente che coltiva, celebra e protegge l’arte e il design milanese e internazionale. Sul terrazzo un ristorante spettacolare sullo skyline della città.

San Siro: Milan-Inter

Il calcio in Italia è una religione, e lo stadio di San Siro è uno dei templi più noti di questo “culto”. In questo stadio giocano Milan e Inter. Milano è l’unica città d’Europa che può vantare il successo di entrambe le squadre nella Champions League.

Autodromo di Monza

Il tempio della velocità motoristica, l’autodromo più famoso del mondo con Indianapolis. È all’interno di un Parco smisurato alle porte di Milano, nel quale si trovano anche la Villa Reale e un meraviglioso campo di golf 18 buche, il più antico d’Italia.

L’Ultima Cena

All’interno del refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie si trova un’opera di Leonardo che di fatto possiamo ritenere il dipinto più celebre di ogni epoca: l’ultima Cena. Ogni aggettivo è superfluo. Utile segnalare che la visita è possibile solo su prenotazione, da pianificare con largo anticipo.

foto: Catilina Sherman

La Cappella di Sigismondo eccezionalmente aperta ai turisti

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

La Cappella di Sigismondo, considerata un capolavoro dell’architettura rinascimentale polacca da sabato per un mese sarà aperta per i turisti in occasione della celebrazione dei cento anni della nascita del re polacco Sigismondo II Augusto. La Cappella reale si trova a Cracovia nella Cattedrale del Wawel e di solito è chiusa ai visitatori. La Cappella fu costruita nel 1519-1533 dall’architetto italiano Bartolomeo Berrecci come cappella funeraria per la dinastia Jagellonica. Il segno distintivo della Cappella è il tetto placcato d’oro e la lanterna. All’interno si trovano le tombe reali di marmo e l’altare creato da Hans Durer. Il re Sigismondo Augusto, unico figlio di Sigismondo I e di Bona Sforza, fu l’ultimo dei Jagelloni, il suo regno fu nel periodo della massima fioritura della cultura rinascimentale polacca.

La memoria fissata nell’opera d’arte

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L’epitaffio fiorentino di Stanislao Bechi di Teofil Lenartowicz

A Firenze nella chiesa Santa Croce, più precisamente nel suo chiostro, si trova un’opera d’arte  interessante quanto dimenticata. Opera che non è dentro la chiesa, accanto alle grandi opere di Giotto o di Donatello o alle sculture di Dante Alighieri, di Michelangelo e di Galileo Galilei. Solo di tanto in tanto viene menzionata nelle guide turistiche, raramente  notata dai turisti. Anche i polacchi che visitano la chiesa, concentrati sui monumenti polacchi, guardano soprattutto le sculture di Michele Borgio-Skostnicki o di Zofia Zamoyska Czartoryski, figlia della famosa collezionista  Izabela Czartoryska. È tra tutte queste opere che si trova l’epitaffio dedicato alla memoria del colonnello Stanislao Bechi (1828-1863).

Bechi ha avuto un ruolo importante nella storia delle relazioni polacco-italiane entrando  nel novero degli eroi nazionali. Tutto questo grazie al suo eroismo durante la rivolta di gennaio. Nel 1863 Bechi ha ricevuto da Giuseppe Garibaldi lettere raccomandate e si è rivolto al Comitato Nazionale di Parigi per prendere parte alla insurrezione di gennaio. Come comandante del gruppo di insorti nelle vicinanze di Włocławek è stato denunciato dalla tenutaria del villaggio in cui si nascondeva. La donna temeva la severa  pena  da parte dei russi nel caso in cui avessero trovato  gli insorti nelle sue terre. Per ordine del tribunale Bechi fu  fucilato pubblicamente il 17 dicembre 1863. Gli ultimi tre giorni prima dell’esecuzione li ha trascorsi con le donne membri del Comitato per la cura dei prigionieri.

Dopo la morte di Bechi, Garibaldi in una lettera ha ringraziato Izabela Zbiegniewska, la presidente del Comitato per la cura dei prigionieri, per aver cercato di chiedere la grazia per il   soldato italiano e per aver preso cura di lui fino alla sua morte.  Prima dell’esecuzione Bechi ha lasciato all’attivista il libro Voyages historiques et littéraires en Italie con una dedica (custodito al Museo di Varsavia), lettere alla famiglia, fotografie e oggetti personali: questi ultimi sono stati rimandati alla famiglia insieme ad  una manciata di terra dalla tomba del colonnello. Zbiegniewska insieme ad  altre due  membri del Comitato per la cura dei prigionieri ha scritto una lettera commovente a Julia  Pagani, la vedova di Bechi, in cui ha raccontato gli ultimi giorni della vita del colonnello. Nel dicembre 1863 Zbiegniewska ha cominciato a organizzare l’aiuto finanziario per la vedova e i suoi due figli, Guido di 6 anni e Luisa di 4 anni. Quest’azione di supporto è continuata  fino alla morte della presidente del Comitato nel 1914.

Zbiegniewska ha raccontato la storia dell’insorto italiano a Maria Konopnicka e Teofil Lenartowicz, che hanno deciso di commemorare Bechi. Konopnica ha scritto una semplice ma commovente poesia, di cui un frammento dice :

E tu non sia dimenticato,
Stanislao, bravo Bechi,
che in Polonia dall’Italia arrivi,
Tra monti e mari.

Combattevi come un leone con coraggio
Il nostro caso è anche il tuo,
Fino a quando non ti hanno sparato,
Fratello nostro…

A Firenze, lo scalpello di un canzoniere
Ti ha commemorato:
Questa tua morte eroica
È forgiata nel marmo…

La poetessa prima di tutto voleva commemorare Bechi sottolineando la sua provenienza, il coraggio, la dedizione  e la morte prematura in nome degli ideali. Scriveva anche del bassorilievo realizzato Lenartowicz che da qualche anno viveva a Firenze. Lenartowicz è stato poeta, scultore, in seguito professore dell’Accademia Adam Mickiewicz di Bologna e anche amico di molti  italiani. Lo scultore ha deciso di commemorare Bechi in modo simbolico ed ha realizzato un epitaffio a forma di bassorilievo, che il 4 gennaio 1882 è stato inserito nel chiostro della Basilica Santa Croce a Firenze.

Come dichiara Zbiegniewska, l’artista ha creato presumibilmente due versioni del monumento. Della prima sappiamo, da una fotografia andata persa, che presumibilmente era un modello in terracotta. L’artista ogni tanto  inviava tale lavoro ai suoi committenti prima della versione finale. Sulla fotografia c’è una scena che rappresenta l’addio di Bechi e sua moglie. Un motivo di questo tipo era, inoltre, usato nell’iconografia italiana. Non siamo sicuri  se l’artista abbia fatto un disegno prima di realizzare il modello, ma sapendo come Lenartowicz lavorava è molto probabile.

Infine il poeta-scultore ha deciso di scegliere un’altra variante ed ha mostrato sotto forma di rilievo il momento culminante della morte del colonnello. A sinistra, a cavallo, è possibile intravedere un soldato russo che legge la sentenza. Più vicino al centro, accanto al palo a cui deve essere legato, si trova Bechi che ascolta la sentenza e ai suoi piedi si trova un berretto militare, simbolo della rivolta. Il colonnello scaccia un soldato che deve bendargli  gli occhi, accanto a lui  un prete che consola  il condannato. Nelle sue vicinanze il becchino scava la tomba e l’intera composizione è chiusa da un plotone di esecuzione di dodici uomini con il colonnello a destra. Sullo sfondo si possono intravedere donne, che guardano l’intera scena, disperse da un cosacco. Lenartowicz in  modo realistico ha rappresentato gli ultimi momenti della vita di Bechi. L’opera è stata sottolineata da una cornice in marmo chiaro, sebbene prima fosse stato previsto  il nero. Nel classico tipo di inquadratura sono stati rappresentati quattro personaggi. In alto si trova probabilmente Chronos semidisteso che legge il libro della vita. In basso, sotto il rilievo, è possibile intravedere un leone che è simbolo di immortalità e coraggio. A sinistra l’artista ha rappresentato l’Angelo dell’Eternità sopra un globo che indica il simbolo dello Spirito Santo. A destra della composizione, sull’emisfero si trova una personificazione della giustizia che si toglie la benda dagli occhi e tiene in mano una bilancia. Il tutto è incoronato da una croce sull’acroterio con volute su due lati e un’iscrizione in basso.

Prima quest’opera doveva essere collocata nel muro della basilica di  San Lorenzo , accanto alla tomba della famiglia Bechi, probabilmente era stata consigliata all’artista un’altra, più prestigiosa localizzazione: la Basilica di Santa Croce. Il rilievo in bronzo e la cornice in marmo sono stati realizzati in laboratori italiani. L’opera non ha un carattere tragico, è una rappresentazione di un certo momento storico. Il significato simbolico è rafforzato dalle figure della cornice che hanno lo  scopo di sottolineare la memoria eterna, le virtù dell’insorto, la protezione divina e la pace dell’anima, nonché la giustizia storica, perché il sacrificio non è stato invano. Vale la pena ricordare che è l’unica opera scultorea di Lenartowicz legata alla rivolta di gennaio. L’artista non ha preso alcuna retribuzione per il suo lavoro, i soldi per i materiali sono stati ottenuti da una raccolta fatta apposta per questo scopo.

Questa storia ha anche il suo epilogo. Nel 1923 le autorità di Firenze hanno deciso di regalare agli abitanti di Włocławek una copia del rilievo di Santa Croce. Il 28 settembre 1924, per iniziativa del Cerchio polacco-italiano, è stato esposto in uno dei parchi di Włocławek un monumento di Bechi, la cui targa principale è stata costruita basandosi sull’opera di Lenartowicz. Tuttavia, durante la seconda guerra mondiale l’opera è stata distrutta, ma è stato salvato il bassorilievo. Il rilievo salvato è diventato una parte principale del monumento, che è stato ricostruito nel 1965 a Włocławek. Nel 2003 il monumento è stato spostato vicino al luogo dove il colonnello venne fucilato.

La Grande Passione di Elisabetta Franchi

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fot. Baranowski/AKPA

L’articolo è stato pubblicato sul numero 78 della Gazzetta Italia (dicembre 2019-gennaio 2020)

Elisabetta Franchi è di sicuro uno dei volti più noti della moda italiana dell’ultimo anno. La storia della stilista e proprietaria del marchio omonimo è la dimostrazione che il “sogno americano” si può realizzare anche in Italia. Circa due milioni di seguaci su Instagram, cento milioni di euro di entrate e quasi novanta negozi in tutto il mondo sono cifre che parlano da sole. Tuttavia il successo non sarebbe stato possibile senza la passione, il sacrificio e il duro lavoro che la stilista ha messo nella creazione del suo marchio da oltre vent’anni.

La storia di Elisabetta Franchi ha avuto inizio a Bologna, città dove è nata e dove vive tutt’ora nonché sede centrale della sua casa di moda. Elisabetta ha ereditato la determinazione dalla madre, la stessa persona che ha cresciuto lei e le sue quattro sorelle. Ancora in gioventù, la Franchi già immaginava lo stile del suo marchio e la sua amata bambola Betty fu la sua prima modella. E fu proprio così che chiamò la sua prima attività. Durante gli studi lavorò come assistente in un negozio di vestiti, dove imparò ad ascoltare con attenzione i gusti dei suoi clienti. La stessa Elisabetta ha affermato che questo periodo le si rivelò fondamentale e costituì la base del suo successo. <<Mentre disegno, non penso soltanto all’aspetto creativo o alla realizzazione artistica nel mio campo. L’importante è reagire in tempo alle richieste e agli sfizi dei miei clienti>> ha ammesso. 

La Franchi aprì il suo primo atelier nel 1996 con l’aiuto di altre cinque persone. Appena due anni dopo sorse la Betty S.p.A., dove la stilista progettò la linea di abbigliamento CELYN b, in riferimento allo stile parigino. Nel 2012 decise di cambiare nome alla società che da quel momento porta il suo nome e cognome. Attualmente il marchio conta 300 dipendenti, ma i punti vendita Elisabetta Franchi si possono trovare nelle grandi metropoli quali Parigi, Milano, Madrid, Mosca, Varsavia, Hong Kong e Dubai. I capi del marchio Elisabetta Franchi sono, come la loro progettista, estremamente femminili. Sottolineano i valori della figura della donna e ne nascondono i difetti. Nonostante i vent’anni, la base di ogni collezione rimane lo stesso taglio, cioè aderente, con pantaloni lunghi, giubbotti in pelle e vestiti lunghi dalle forme ben inquadrate. 

L’ultima collezione di Elisabetta Franchi per la stagione primavera-estate 2020 è stata presentata alla Settimana della Moda di Milano, e appena un mese fa a Varsavia nella sontuosa cerimonia organizzata da GPoland, in occasione del centenario delle relazioni diplomatiche italo-polacche. Fra i più importanti sponsor di questo indimenticabile galà troviamo l’Ambasciata Italiana in Polonia, Generali, ENIT, Inalca, Cisowianka Perlage e naturalmente GPoland. Il tema principale della sfilata è stato il mare, presentato con un innovativo stile marinaresco con tessuti attillati e trasparenti. <<Volevo conferire allo stile un’atmosfera spensierata, ma prima di tutto reinterpretare le caratteristiche della moda marinaresca. Il rosso intenso e il blu non sono sfumature che indossiamo volentieri ogni giorno. Tuttavia sono i primi colori a cui pensiamo quando ci immaginiamo l’estate>> ha spiegato la stilista.

Si potrebbe definire Elisabetta Franchi la regina dell’Instagram italiano. Il suo profilo è seguito da quasi due milioni di utenti. Quasi ogni giorno Elisabetta intrattiene i suoi ammiratori non solo con collezioni di moda, ma anche con avvenimenti della sua vita privata. Sia dalle storie di Instagram, sia dal film documentario “Essere Elisabetta”, trasmesso quest’anno nelle televisioni italiane, si comprende la dedizione e il duro lavoro dietro lo sviluppo del marchio. Nonostante i grandi successi in questi vent’anni nel campo della moda, la Franchi non ha intenzione di riposare sugli allori: il lavoro è per lei una grande passione e senza di esso non immaginerebbe la sua vita. 

traduzione it: Filippo Fattori
fot: Podlewski / AKPA, Baranowski/AKPA

L’Ucraina ha inserito la Polonia nell’elenco dei paesi a rischio COVID-19

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Questa notizia è tratta dal servizio POLONIA OGGI, una rassegna stampa quotidiana delle maggiori notizie dell’attualità polacca tradotte in italiano. Per provare gratuitamente il servizio per una settimana scrivere a: redazione@gazzettaitalia.pl

Chi entra in Ucraina dalla Polonia all’Ucraina dovrà sottoporsi ad una quarantena di quattordici giorni. Alla quarantena non dovranno sottoporsi i bambini sotto i dodici anni, le persone che viaggiano attraverso l’Ucraina per meno di 48 ore, i camionisti, i conducenti di autobus, i membri degli equipaggi di aerei, treni e navi. Non sarà anche applicata verso gli istruttori della NATO e gli impiegati delle missioni diplomatiche e consolari. La quarantena in Ucraina avviene nel luogo di residenza. La conferma del luogo di quarantena avviene tramite l’app “stay at home”. Chi è in quarantena dovrà scattare una foto del viso che corrisponda alla foto scattata all’inizio della quarantena. L’applicazione potrà essere utilizzata soltanto da persone con un numero ucraino. La quarantena potrà concludersi dopo aver ricevuto un risultato negativo del test per il coronavirus, effettuato entro e non oltre le 48 ore dopo l’arrivo in Ucraina. Negli ultimi giorni la Polonia ha registrato un alto livello di nuovi casi di COVID-19. 548 nuove infezioni sono state registrate domenica e 10 persone sono morte entro 24 ore.

Coppa meringata estiva

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Ingredienti:

Per la meringa: 

  • 80 g di albume a temperatura ambiente
  • 160 g di zucchero semolato 

Per la chantilly:

  • 500 ml di latte 
  • 5 tuorli 
  • 200 g di zucchero semolato
  • 50 g di farina 00
  • 10 g di amido di mais
  • Vaniglia in bacca 
  • La scorza di 1/2 limone biologico
  • 200 ml di panna fresca 

Per la guarnizione: 

  • 100 g di lamponi freschi
  • 100 g di mirtilli freschi

PROCEDIMENTO:

Innanzitutto preparate la meringa: in una terrina capiente o nella planetaria montate gli albumi con metà della dose di zucchero previsto. Quando il composto è montato (ci vogliono circa 5 minuti) aggiungete a mano la restante parte dello zucchero e amalgamate con una spatola gommata.

Trasferite il composto in una sac a poche e formate su una teglia rivestita di carta forno un cerchio di meringa fino ad esaurire il composto. Cuocete in forno ventilato a 100°C al massimo per circa 3 ore.

Preparate poi la crema pasticciera: mettete il latte sul fuoco, nel frattempo amalgamate con una frusta i tuorli con lo zucchero, aggiungetevi la farina, l’amido e la vaniglia e mescolate bene. Versate il latte caldo sul composto, miscelate, rimettete nel pentolino e cuocete a fuoco medio fino a rassodamento della crema.

Togliete dal fuoco, aggiungetevi la buccia del limone grattugiata, trasferite in un contenitore basso e largo e coprite con pellicola da cucina a contatto con la superficie della crema.

Una volta fredda la crema (potete anche prepararla il giorno prima, come la meringa) montate la panna ben fredda e amalgamatela alla crema con delicatezza, mescolando dal basso verso l’alto.

Prendete delle belle coppe da dessert di vetro, spezzettate la meringa e fate con questa il fondo delle coppe. Versate la chantilly in una sac-a poche e riponetevi uno strato di crema sopra la meringa, decorate con qualche frutto di bosco e procedete con i vari strati. Concludete con un ciuffo di chantilly, lamponi e mirtilli.

Servite ben freddo.

Buon appetito!

Orsigna, conversazioni nel silenzio 

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“Orsigna (…) resta il mio amore e il mio rifugio. Dovunque sono stato nel mondo, qualunque cosa succedesse, tranne l’incontro con la signora dal mantello nero, avrei potuto rifugiarmi all’Orsigna…”
Tiziano Terzani

Nascosto tra le braccia dell’Appennino pistoiese, circondato dal verde rigoglioso dei boschi, un paesino di meno di 100 abitanti, infatti, è un’oasi di pace; una piccola cassetta armonica, la cui musica porta calma e tranquillità. 

All’altezza di 800 metri spuntano una dozzina di case e una piccola piazza con una cappella. Oltre a noi, quasi nessuno. Lì, la presenza dell’uomo è in secondo piano e le poche persone incontrate per strada ci regalano un sorriso, allegria e auguri di una buona giornata. Grande invece è la natura che circonda il paese. La foresta ci fa entrare fra le sue braccia come una madre benevola, che aspetta il ritorno dei suoi figli da un viaggio lontano. Ci mostra dei sentieri calpestati che conducono, come se fossero un denso labirinto, sempre più in alto verso le cime coperte dalla nebbia, come da una morbida coperta. Il vento porta con sé il profumo delle foglie di conifere e di resina e fa venire in mente le raccolte autunnali di castagne. Il fruscio dei faggi e delle betulle annuncia l’arrivo di una tempesta e un attimo dopo ogni rumore si calma completamente, anche il canto degli uccelli, e Orsigna momentaneamente diventa silenzio.

Comprendo pienamente l’amore che Tiziano Trrzani provò per questo posto. Questo scrittore e giornalista italiano (“In Asia”, “Un indovino mi disse”, “Buonanotte, signor Lenin!”, “Un altro giro di giostra”) era legato in modo particolare all’Orsigna, dove ogni anno, per anni, ritornava insieme alla famiglia. Il paese e i suoi boschi diventarono per l’autore un tranquillo rifugio ed alla fine anche il luogo in cui morì. 

Tiziano Terzani
1938-2004
Viaggiatore

Tutto qui. Così dice la scritta sulla pietra posata ai piedi dell’albero, davanti alla casa della famiglia Terzani. Tiziano non si autodefiniva un giornalista ma un viaggiatore; costantemente alla ricerca, curioso di ciò che era nascosto sotto le apparenze; sempre al centro degli eventi, sempre presente dove avvenivano degli importanti cambiamenti.

Mi vengono in mente le parole dello scrittore che disse rivolgendosi alla figlia Saskia: “E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vorrai parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio”. Respiro profondamente e approfittando del privilegio di trovarmi in questo luogo magico, decido anch’io di scambiare con lui due parole, e le foglie dell’albero ricominciano a sventolare, come se il loro fruscio fosse la risposta. 

“Se tu (…) cominci a percepire questo bosco come una cosa che vive, con una sua storia, tutto diventa più bello.”
T. Terzani, La fine è il mio inizio

Un percorso in montagna spesso seguito dallo scrittore nel corso della sua vita, oggi è chiamato con il suo nome. “Il sentiero di Tiziano Terzani” quando lo attraversiamo è vuoto e silenzioso. Solo da qualche parte in lontananza il cucù ci fa ricordare della sua presenza. Quasi nessuna traccia della pioggia torrenziale che abbiamo osservato poco prima sorseggiando il tè in un salotto accogliente. Solo sotto i nostri piedi sguazza un suono umido, e l’erba alta tocca i nostri polpacci, lasciando dei segni bagnati. Il verde del bosco invece sembra essere ancora più intenso. Anche il cielo si è avvicinato a noi, per darci il benvenuto. Le nuvole si sono abbassate, coprendo completamente le cime delle montagne e rendendole ancora più maestose. E quando poche ore dopo la nebbia sparisce, si svela la vetta più alta che, sullo sfondo di un cielo nuvoloso ma allo stesso tempo molto chiaro, appare in tutta la sua gloria come un essere modesto ma allo stesso tempo consapevole del suo valore. 

Equilibrio

Troviamo delle numerose torrette di sassi messi l’uno sull’altro in montagna, in una radura davanti all’Albero con gli occhi, da dove si vedono i tetti rossi delle case sottostanti di Orsigna. Lì, nel posto dove lo scrittore riposava e rifletteva, emergono oggi le pietre in equilibrio, simbolo dell’armonia, posate dai viandanti, arrivati qui prima di noi. Probabilmente saranno le stesse persone che hanno appeso all’albero una varietà di sciarpe, ricordi, biglietti di messaggi ed i cosiddetti lung-ta, ovvero bandiere di preghiera tibetane, spesso presenti nell’Himalaya. 

“Orsigna sono le mie Himalaya”, disse Terzani, e in questa frase le montagne dell’Asia assumono un significato completamente nuovo, diventando sinonimo di un rifugio, dove torniamo per riprendere il fiato o le distanze. Dal numero di lettere ed oggetti lasciati sotto l’albero, si può arrivare alla conclusione che questo posto è diventato un rifugio anche per molte altre persone arrivate qui dopo di lui.

L’albero con gli occhi a cui si dirigono gli amanti delle passeggiate in montagna e dei fedeli lettori di Terzani non è l’unico nelle montagne di Orsigna su cui Tiziano incollò gli occhi di ceramica portati dall’India. Un occhio simile bellissimo, lucido, come se commosso osservasse il mondo, è attaccato al tronco dell’albero, ai cui piedi poggia la pietra commemorativa. In questo modo, l’autore voleva mostrare a suo nipote che ogni cosa, inclusa la natura apparentemente immobile, è un essere vivente.

E infatti la foresta e il ruscello della montagna vivono e ci circondano dai loro suoni, e gli spazi di montagna riecheggiano del canto degli uccelli e della melodia del bosco. Orsigna è un’Italia diversa dal solito. Mentre nelle antiche città italiane, le vecchie mura raccontano storie e ci guidano attraverso angoli misteriosi e vicoli affollati dove nell’aria si sente l’aroma del caffè, ad Orsigna regnano i profumi del bosco ed è la natura stessa a farci da guida. Qui il passare del tempo è scandito non dagli orologi ma dal canto del cuculo che, timidamente, ogni tanto, ricorda la sua presenza. 

foto: Magda Karolina Romanow-Filim

Le conversazioni su Orsigna che si è rivelata, infatti, non solamente un luogo ma anche uno stato d’animo. Sulla foto l’autrice con Folco Terzani, fi glio di Tiziano

Da ciao a pizza

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La lingua italiana viene associata in tutto il mondo allʼallegria, al cibo, al mare e alla spensieratezza. Appare come una lingua facile da imparare, fatta di parole semplici e poco impegnative, che non richiedono al parlante particolare sforzo o esperienza. In realtà, però, si tratta di una lingua molto più complessa di quanto non sembri. Il lessico italiano, infatti, attinge a numerosissime fonti, legate alla ricca e stratificata storia linguistica della penisola. E molte parole d’uso comune hanno unʼorigine più antica e sorprendente di quanto ci si potrebbe aspettare.

Tomasz Skocki, l’autore dell’articolo

Pensiamo a una parola semplicissima e universalmente nota, forse la prima parola italiana che tutti nel mondo imparano: ciao. Si tratta di un termine di origine veneziana, diffusosi poi, a partire dallʼOttocento, nel resto dʼItalia e successivamente, nel Novecento, nel mondo, dalla Germania al Sudamerica. Lʼorigine di questa parola può apparire sorprendente: essa deriva infatti dal veneziano sʼciao, ovvero “schiavo”. In origine si trattava infatti di un saluto estremamente formale e reverenziale (“sono vostro servo” o “al vostro servizio”). È curioso come la stessa cosa sia accaduta con il termine latino servus, usato come saluto informale in Polonia o in Germania. Altrettanto interessante è lʼorigine della stessa parola schiavo, che proviene dal latino medievale sclavus o slavus. Nellʼalto medioevo, infatti, il termine usato per definire i prigionieri di guerra di origine slava finì per designare gli “schiavi” per antonomasia. Come si vede, già lʼetimologia di una parola “semplicissima” come ciao ha alle spalle una storia a dir poco lunga e complessa.

Lo stesso si potrebbe dire del termine ragazzo, di origine araba (anche se alcuni ipotizzano che provenga invece dal greco), probabilmente entrato in italiano attraverso il siciliano. Del resto le parole dallʼetimologia araba sono tuttʼaltro che rare in italiano e in altre lingue europee: basti pensare a molti termini legati al mondo militare, marinaresco o commerciale, quali ammiraglio, arsenale (arzanà in veneziano) o magazzino, per non parlare della matematica (algebra, algoritmo e altro ancora).

Provenienza araba avrebbe, secondo alcuni studiosi, anche la parola mafia, anche se altri cercano la sua origine addirittura nel nome dellʼapostolo Matteo. Il ghetto, parola diffusa in tutte le lingue del mondo, è di origine veneziana. La pizza, ovviamente, è napoletana, ma il suo nome deriva molto probabilmente dal latino pinsa (“schiacciata”), anche se alcuni ricollegano tanto la pizza quanto la piadina romagnola alla pita comune nei Balcani e nei Paesi islamici. Nellʼambito culinario, ovviamente, non sono rare parole dialettali diffusesi poi in tutto il territorio nazionale: si pensi anche solo ai grissini piemontesi, al panettone milanese oppure allʼarancino o arancina siciliana.

Già questi pochi esempi fanno capire che, se è vero che lʼitaliano che conosciamo oggi ha le sue radici nel volgare fiorentino del Trecento, il suo lessico ha comunque unʼorigine più composita e le singole parole provengono dalle più diverse regioni dʼItalia. Non di rado a farne le spese sono stati gli stessi termini toscani, sostituiti da quelli provenienti da altri dialetti: un buon esempio è la parola giocattolo, tratta dal dialetto veneto, che nel Novecento è andata a sostituire il termine toscano balocco, oggi sentito come decisamente arcaico. Unʼaltra parola legata allʼinfanzia è il diminutivo di padre: nella maggior parte dʼItalia prevale il termine papà, di origine francese, mentre in Toscana è tuttora comunemente usata la parola babbo. Unʼeccezione di non poco conto è Babbo Natale, così chiamato in tutta Italia.

Altre parole comunemente usate in Toscana, ma sentite ormai come desuete in altre regioni, sono per esempio uscio per porta o ancora termini colloquiali e offensivi come bischero o grullo. Un caso interessante è quello delle parole in -aio e –aro: da un lato abbiamo la parola marinaio, dallʼaltro la pizza alla marinara, così come il salvadanaio in cui teniamo il denaro o danaro. Le parole in -aio, dal latino -arius, sono tipicamente toscane. Spesso sono nomi di professione: altri esempi, oltre a marinaio, sono fornaio, notaio o ancora libraio.

Nel resto della penisola, tanto al Sud quanto al Nord, è invece comune il suffisso -aro o -ero. Spesso però, come i già citati denaro o marinaro/a, lʼitaliano standard ha accolto, caso per caso, la forma napoletana, romana ecc. A Roma, del resto, sono estremamente diffuse le parole in -aro, da notaro a gelataro, fino a molti termini colloquiali e volgari del dialetto romanesco. Spesso i termini in -aro definiscono particolari gruppi o subculture giovanili: del resto un appassionato di musica heavy metal si chiama, in italiano, metallaro, mentre chi pratica la street art è un graffitaro

Lʼorigine così composita e stratificata del lessico italiano dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, la grande ricchezza e bellezza di una lingua davvero senza eguali.

Riva degli Schiavoni

Famosissimo punto panoramico sul Bacino di San Marco. È la lunga riva che va dal ponte della Paglia fino al rio della Ca’ di Dio nel cuore del sestiere di Castello. La riva prende il suo nome dalle popolazioni della Dalmazia, che ai tempi della Repubblica di Venezia era chiamata anche Slavonia o Schiavonia. La Dalmazia, insieme a molte città e isole della lunga costa orientale dell’Adriatico furono per secoli parte della Repubblica di Venezia, tant’è che per secoli sulle carte geografiche l’Adriatico era chiamato Golfo di Venezia. La riva costituiva parte integrante dell’allora porto commerciale di Venezia e rivestiva una notevolissima importanza grazie alla sua prossimità con piazza San Marco e con il centro del potere politico veneziano. In questa riva approdarono per nove secoli le navi dei mercanti schiavoni che spesso avevano qui dei banchi in cui vendevano le loro merci.