In Polonia è appena uscito il suo film Io sono l’abisso, tratto dall’omonimo libro, e nello stesso tempo è stata pubblicata la traduzione del secondo romanzo del ciclo su Pietro Gerber: La casa senza ricordi. Lei è più contento per la traduzione del libro, oppure per il film?
È come chiedermi se voglio più bene il mio primo figlio o il mio secondo figlio, non è facile rispondere. È strano uscire contemporaneamente con un film e con un libro, però sono i due lati di Donato Carrisi.
Sicuramente è abituato al successo che ottengono le sue opere in Italia e all’estero. Come è arrivato a questo punto: come è cominciata la sua carriera di scrittore?
Tutto iniziò nel 1999 grazie ad un libraio che mi consigliò di leggere Il ragno di Michael Connelly. All’inizio mi rifiutavo di leggere thriller, poi però ho dato una chance a Connelly e ho capito che il thriller era la mia strada. All’inizio avevo scritto delle sceneggiature e la mia ambizione era quella di fare il regista. Però nessuno credeva che si potesse scrivere un vero thriller italiano. Mi sentivo un po’ come Sergio Leone quando ha cominciato a fare i western, perché non c’erano scrittori di thriller italiani. E allora che cosa ho fatto? Ho trasformato la prima sceneggiatura in un romanzo: Il suggeritore. E da lì è cominciato tutto. Dopo aver pubblicato una serie di romanzi sono tornato al cinema ed è stato più facile a quel punto fare anche i film. La cosa incredibile è che Connelly proprio nel 1999 vinse, in Italia, il Premio Bancarella e dieci anni dopo, nel 2009, l’ho vinto io con Il suggeritore.
Quali sono state le altre fonti di ispirazione per quanto riguarda il thriller?
Tutti i maestri che mi hanno ispirato poi sono diventati miei amici: Ken Follet, Dan Brown, oppure Michael Connelly, Jeffery Deaver, Stephen King. All’inizio li leggevo e quando poi li ho conosciuti, ho capito che eravamo molto simili. E sono stato accolto molto bene da questo circolo di scrittori di thriller.
E lei si aspettava di ottenere un successo mondiale?
In parte sì, ma è come se avessi un sesto senso. E come se una vocina dentro di me mi dicesse: “scrivi questo libro, perché questo libro piacerà”. E non so come spiegarlo, era un’ispirazione più che una presunzione. Mi sentivo veramente ispirato.
Il grande tema delle sue opere sembra quello della responsabilità del male. Nel Suggeritore, così come nel ciclo su Gerber e in Io sono l’abisso, il male viene, in un certo senso, ispirato. Chi è quindi responsabile del male?
Noi tutti siamo responsabili del male. Però la nostra tendenza è quella di volerci liberare dalla responsabilità: se succede qualcosa, noi ci assolviamo. Anzi, quando vediamo il mostro, questa cosa ci solleva; additandolo, chiamandolo appunto “mostro”, lo rendiamo immediatamente diverso da noi. Invece i mostri ci assomigliano. Il serial killer, il protagonista di Io sono l’abisso che è un mostro per eccellenza, non è affatto mostruoso, anzi, è un uomo invisibile che sembra innocuo. Se non fosse così, non sarebbe seriale, non potrebbe uccidere così tanto in una corsa del tempo.
In Io sono l’abisso c’entra anche la responsabilità sociale. La situazione patologica nel nucleo familiare, la mancanza dell’effettivo aiuto da parte della società formano un serial killer. Il male si può spiegare o giustificare?
Giustificare no, spiegare sì: anzi, abbiamo il dovere di spiegare il male, perché l’unico modo di prevenirlo è conoscerlo. Soltanto avvicinandoci e guardandolo meglio riusciamo a riconoscerlo in futuro. Il male è sempre il frutto di un’educazione, di un ambiente. È difficile che una persona che è nata in un ambiente protetto poi diventi malvagia, a meno che non sia una malvagità patologica.
In Io sono l’abisso affronta il problema della violenza femminile: nel libro il tema è ancora più approfondito che nel film. L’arte può contribuire alla sensibilizzazione della società verso certi temi?
Certo. A me è successo dopo quel libro e dopo il film di ricevere molti messaggi da parte di donne che non si erano rese conto di essere le vittime di violenza, soprattutto psicologica. Mi scrivevano: “io sto con un uomo che non ha mai alzato un dito ma tutte le volte che litighiamo io temo che lo faccia, ho paura che lo faccia, ma non l’ha mai fatto”. Ecco, quella paura è sufficiente, è già violenza l’incutere in qualcun altro quel timore.
Nelle sue ultime opere la violenza viene mostrata in contesti meno ovvi, come la violenza da parte della madre in Io sono l’abisso, oppure da parte dei bambini nel ciclo sull’ipnotista, soprattutto ne La casa delle luci. Considera la violenza intrinseca alla natura umana?
Non parlerei di violenza, parlerei di male. Il male è intrinseco alla natura umana e non è detto che si manifesti sotto forma di violenza. La violenza è solo la forma più riconoscibile. Non c’è bisogno che una madre picchi un bambino per fargli del male, è più che sufficiente che lo respinga.
In Io sono l’abisso si mostra il contrasto tra menzogna e verità. La verità è crudele, come la madre, che si chiama, forse non a caso, Vera. Quale sarebbe la relazione tra verità e menzogna dal punto di vista di uno scrittore?
Bella domanda. Allora partiamo da una considerazione psicologica. Ogni essere umano mente almeno cinquanta volte ogni giorno: piccole bugie, piccoli atteggiamenti, questo fa parte proprio della natura umana. È una cosa quasi inconsapevole. Ha diverse sfaccettature la menzogna. A volte è uno strumento di difesa, altre volte uno strumento d’attacco o un atteggiamento sociale. Per esempio, la famiglia della ragazzina con il ciuffo viola utilizza la menzogna come strumento sociale. Ecco, è questo che fa il thriller: si serve delle menzogne per raccontare delle storie, da lì nasce il mistero, da lì nasce la suspence: dal disvelamento di una bugia.
Da dove è nata l’ispirazione per il ciclo su Pietro Gerber? Perché si è interessato all’ipnosi?
Era molto tempo che pensavo di scrivere qualcosa sull’ipnosi. Ho capito che la strada giusta era utilizzare un ipnotista di bambini, perché si pensa sempre che la mente dei bambini sia piuttosto elementare, semplice da esplorare; invece è un labirinto in cui ci si può perdere. E poi mi sono sottoposto all’ipnosi, appunto, per capire come funzionasse il meccanismo. E sono andato nello studio di una bravissima ipnotista di Milano, che adesso è diventata una dei miei consulenti. Era un bel pomeriggio di primavera, c’era un bel sole fuori e lei guidava la mia trance. Io però pensavo: “ma quand’è che finisce tutto questo”, ero pienamente cosciente. E dopo mezz’ora ho aperto gli occhi e ho scoperto che fuori dalla finestra era buio. Non era passata mezz’ora, erano passate tre ore e io non me ne ero accorto. L’ipnosi è proprio questo: è un viaggio dentro sé stessi. Aumenta il contatto con sé stessi e invece svanisce il contatto con la realtà che ci circonda.
Il ciclo su Gerber è ambientato a Firenze.
Sì, ma ho tolto da Firenze i turisti. Li ho tolti tutti e così Firenze è proprio autentica.
Perché Firenze?
Perché Firenze è una città magica. Adesso è diventata un lunapark, un po’ come Venezia, invasa dai turisti e quasi irriconoscibile. Firenze dietro ogni angolo nasconde un segreto, ogni piccolo pezzo di pietra ha una storia, è incredibile. Bisogna inoltre capire se l’ambiente è semplicemente una scenografia o un personaggio: Firenze nel ciclo su Gerber è una protagonista. Non credo che questa storia avrebbe la stessa efficacia se non fosse ambientata a Firenze.
Esiste un legame tra l’ipnotista e il narratore? Il compito di uno scrittore è anche quello di incantare la gente?
Beh, si spera di sì. Non è detto che ci si riesca tutte le volte, però la speranza è fondamentalmente quella.
Come scrive di solito? Secondo un’agenda rigida oppure in modo più indisciplinato?
Non credo che esista lo scrittore che si metta lì a scrivere dalle sette del mattino per dieci ore. Sarebbe come essere un impiegato. No, io esco molto di casa per andare a cercare le storie, i personaggi. Questo è molto importante: viaggiare e sentire. Infatti, ci sono due anni di ricerca dietro ogni mio libro. Il punto di partenza è sempre una storia reale, metto insieme più storie di solito. E poi la scrittura è l’ultima cosa. Sono molto indisciplinato quando scrivo, posso scrivere a qualsiasi ora del giorno. Quando vengo colto da un’idea, da un’ispirazione, devo scrivere.
Le letture, invece? Quanto e cosa legge?
Leggo di tutto. Io dico sempre agli aspiranti scrittori: “dovete leggere almeno (!) centotrenta libri l’anno”. È proprio il minimo indispensabile. E leggo veramente di tutto. Sono onnivoro, non leggo solo thriller, chiaramente. Leggo saggi, romanzi d’amore, cose del passato, cose molto recenti, non ho limiti.
In Polonia i suoi libri sono molto amati. Qual è il suo rapporto con il pubblico straniero?
Ottimo, perché i libri uniscono. Le storie sono universali quindi possiamo venire da culture diverse, però le emozioni umane sono sempre quelle. Il cinema, la letteratura sono dei ponti che uniscono i popoli.
Come si sente vedendo i suoi libri tradotti in varie lingue?
È molto gratificante. Immaginare che in questo momento quando noi parliamo c’è qualcuno dall’altra parte del mondo che sta leggendo il mio libro è un bel pensiero. Come se ci fosse qualcosa che va al di là di me. Perché le storie non mi appartengono. Una volta che le ho rinchiuse in un libro, è come se non fossero più mie. Appartengono a chi apre quel libro e decide di sfogliarlo.
Ha un messaggio da trasmettere al pubblico polacco?
Sì: che vorrei essere lì, vorrei entrare nelle sale cinematografiche, sedermi accanto agli spettatori, così come faccio in Italia. Vorrei entrare nelle librerie per cercare quelli che sfogliano i miei libri. È un gran rammarico questo, infatti, spero di venire presto e rimediare. Vorrei venire in Polonia anche perché ci sono stato un paio di volte in passato, ma veramente di sfuggita. Quindi vorrei approfondire la conoscenza della Polonia. E sarebbe interessante ambientare qualcosa in questo Paese.
Ottima idea! Così potremmo diventare anche dei suoi consulenti, per quanto riguarda Varsavia per esempio che secondo me si presta bene ad essere l’ambiente per un thriller.
È perfetto [ride, n.d.r.]. Io trovo che abbiate delle ambientazioni thriller straordinarie. Non ancora esplorate poi, tra l’altro. Quindi sì, sono convinto che si possa fare. Sarebbe una cosa interessante mettere l’Italia e la Polonia in contatto: questi due mondi che sembrano diversi ma secondo me sono veramente molto simili.
Speriamo quindi che venga presto. La ringrazio.
Grazie. Ci vedremo a Varsavia l’anno prossimo. Che tempo fa oggi a Varsavia?
C’è il sole.
Ah, bene!
Credo che tra un anno sarà già pubblicata la traduzione polacca del terzo volume del ciclo su Pietro Gerber uscito ultimamente in Italia, La casa delle luci. A me è piaciuto tanto.
Ha già letto La casa delle luci?
Sì, certo.
Benissimo. Arriveranno poi altre Case, in futuro.














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Questa è una storia che, di primo acchito, riguarda solo il “mondo vegetale”, ma che ha delle incredibili assonanze con un’altra pandemia che di lì a pochi anni avrebbe colpito il “mondo umano”. La narrazione di questo disastro ambientale però è stata spesso frammentaria e poco chiara. Soprattutto per me che non vivo più in quei luoghi. Le notizie arrivavano, ma le spiegazioni no. L’unica cosa chiara era vedere il rapido procedere dell’essiccamento degli ulivi, in direzione contraria rispetto al mio ritorno a casa. I campi un tempo verdi, pian piano si dipingevano di nero, dal Salento fino alla provincia di Bari. Per capire allora come sia possibile che un albero così longevo stia velocemente sparendo, mi sono dovuto informare leggendo il libro “La morte dei Giganti” del giornalista salentino Stefano Martella. Andiamo però con ordine. Per capire come siano andate le cose bisogna per prima cosa fare un passo indietro.
È l’estate del 2013 e nelle campagne del Salento i contadini e gli imprenditori agricoli da qualche mese osservano con ansia qualcosa di inusuale e mai visto fino ad allora: gli alberi di ulivo stanno seccando ad una velocità impressionante. Gigantesche sculture di legno improvvisamente stanno vedendo le proprie chiome diventare marroni e appassire. Nel giro di poco il tronco secca e gli alberi muoiono. Intanto nella sede dell’Istituto del Cnr di Bari alcuni ricercatori, guidati dal Direttore Donato Boscia, analizzano i rami degli ulivi essiccati. Dalla diagnosi molecolare risulta la presenza di un patogeno da quarantena: la Xylella Fastidiosa; tutto ciò è molto strano perché questo tipo di batterio non ha mai colpito l’ulivo. I ricercatori pensano ad un errore e ripetono le analisi. Il risultato però non cambia. La Xylella è un batterio che intacca gli xilemi degli alberi, vale a dire le vene che portano la linfa, e inibisce la circolazione di acqua e minerali. L’albero senza linfa non fa la fotosintesi e in poco tempo secca e muore. Questo batterio però ha bisogno di un insetto per passare da una pianta all’altra: una cicala chiamata “Sputacchina” perché, per proteggersi dai predatori, produce bava. La cicala si nutre della linfa degli ulivi, portando con sé il batterio da una pianta malata ad una sana. La Xylella si sta diffondendo a macchia d’olio e non si fermerà se non si agisce in tempi brevi. Lo stato d’emergenza viene dichiarato.
Viene nominato un commissario straordinario per la gestione dello stato di emergenza: Giuseppe Silletti, comandante della Regione Puglia del Corpo forestale dello Stato, il quale propone, sotto le direttive dell’Unione Europea, un piano di eradicazione di tutte le piante malate nella zona infetta, il trattamento con diserbanti e insetticidi per eliminare l’insetto vettore in una zona cuscinetto e il monitoraggio delle zone limitrofe per capire se il batterio si sta diffondendo. Sono misure drastiche che servono per arginare il diffondersi della Xylella. Misure che assomigliano a quelle prese per frenare il diffondersi del Covid. Ma le analogie non si fermano qui. Una volta annunciate le misure si scatena uno psico-dramma collettivo. La gente scende in piazza chiedendo di fermare lo sradicamento, fanno barricate per fermare le ruspe e dal mondo della cultura e dello spettacolo si alzano moltissime voci in difesa degli ulivi. Il risultato è che il piano viene bloccato, a causa anche dell’atteggiamento ondivago della politica, che sulla carta accetta il piano dell’Unione Europea, ma nei fatti non le attua, appoggiando le opinioni della piazza per un semplice tornaconto elettorale. In più serpeggia tra la popolazione l’idea di un complotto ai danni di quella pianta centenaria simbolo dell’identità della Regione. Tra le varie idee complottiste quella più accreditata è che il batterio, qualche anno prima dell’inizio della pandemia, sia stato introdotto da una società di ricerca scientifica di nome Allelyx (Xylella scritto al contrario) durante un convegno scientifico organizzato a Bari per studiare i pericoli di questo batterio. Il batterio inspiegabilmente è scomparso dai laboratori. Si è diffuso nell’ambiente. Secondo la vulgata dietro a tutto ciò c’è un deus ex machina, con un nome noto a tutti: la Monsanto. La multinazionale avrebbe intenzione di eradicare gli ulivi autoctoni per impiantare i suoi ulivi geneticamente modificati. E per fare questo diffonde un batterio attraverso una sua società satellite che si chiama come il batterio stesso ma al contrario. Il complotto è servito: peccato però che il batterio portato al convegno sia di un ceppo diverso da quello trovato nel Salento e che il focolaio, Gallipoli, sia a 200 km da Bari. Infine, Allelyx in effetti esiste veramente ed è stata acquisita dalla Monsanto. È una società brasiliana formata da un gruppo di ricercatori che studia la Xylella da sempre, da prima che la Monsanto l’acquisisse, ed è proprio per questo che si chiama così.
La popolazione però non può accettare che quella pianta secolare possa morire. Tra i primi a farne le spese è il gruppo di ricerca che ha scoperto la presenza del batterio nell’ulivo. La lista dei capi d’accusa è lunghissima: va dalla diffusione colposa di una malattia delle piante, all’inquinamento ambientale, fino alla distruzione o il deturpamento di bellezze naturali. Tutti capi andati in archivio. In archivio invece non è andato il costante avanzamento dell’infezione sanitaria, che ha colpito ventuno milioni di piante, con oltre ottomila chilometri quadrati di territorio, pari al 40% del territorio regionale. La produzione di olio è calata da venti tonnellate a tre tonnellate. Si stima che le perdite economiche relative a tutta la filiera siano intorno a oltre 1,6 miliardi di euro. Se si fossero messe in atto quelle misure forse non avremmo questi numeri sottomano.
Ma allora se non è un complotto da dove arriva questa Xylella? Il batterio è sbarcato in Europa attraverso una pianta di caffè proveniente dal Costa Rica ed è arrivata al mercato florovivaistico di Taviano, un paesino vicino a Gallipoli, l’epicentro dell’epidemia. Qui ha trovato terreno fertile per diffondersi rapidamente: un clima temperato, un territorio votato alla monocoltura e delle piante indebolite da anni di uso di diserbanti hanno fatto deflagrare la bomba. Bomba che ha creato un cortocircuito nel “mondo umano”: la fiducia è venuta meno e la ricerca delle responsabilità ha preso il posto della ricerca delle soluzioni. L’Unione Europea è colpevole per non aver mai adottato una politica di controllo sulle piante venute da altri continenti, la politica locale ha mostrato incapacità di prendere dei provvedimenti malvisti dall’opinione pubblica e i coltivatori e gli imprenditori agricoli sono responsabili di non essersi presi cura di quella pianta secolare in maniera organica in quanto interessati solo al profitto. Inoltre la scienza è stata vista dall’opinione pubblica come un nemico, come qualcosa di contro natura. In una fantomatica età dell’oro in cui l’uomo è tutt’uno con la natura, la scienza è vista come un elemento di rottura. Anche la scienza stessa però ha delle grosse responsabilità in tutto ciò: pensa che la sua verità sia auto-evidente e che questo credito di verità le debba essere elargito in maniera fideistica. Ma così non è: la scienza è solo uno dei linguaggi che l’uomo usa per abitare il mondo. Il linguaggio però è ciò che rende umano l’uomo. Se il leone ruggisce, la pianta fa la fotosintesi, l’uomo parla. Quindi il linguaggio è l’uomo e la scienza è uno dei linguaggi. Da sempre. L’uomo però è natura. Pensare l’uomo fuori dalla natura solo perché possiede il linguaggio, crea solo delle catastrofi. Quindi anche la scienza è, e deve pensarsi, come natura. Forse è necessario ripensare l’uomo in questi termini per superare la divisione tra uomo e natura e recuperare la fiducia tra gli stessi uomini.




Il 2023 dell’Associazione è stato particolarmente intenso e ricco di eventi che hanno messo al centro la costruzione di ponti economici, sociali e culturali tra la Polonia e l’Italia. Le iniziative dell’Associazione hanno spaziato da eventi legati a specifici settori economici, come il recente “Work Smart: il lavoro che cambia in periodi di sfide”, durante il quale sono stati esplorati i principali trend legati al mondo del lavoro, fino a progetti legati alla beneficenza e al dialogo tra la cultura italiana e quella polacca. Grande attenzione è stata inoltre data all’attualità: i temi legati agli sviluppi della guerra in Ucraina e, in particolare, dell’apporto delle imprese italiane nel futuro processo di ricostruzione del territorio ucraino sono stati al centro di incontri e conferenze durante le quali Confindustria Polonia è stata parte attiva.





Olio dell’albero del tè (Melaleuca alternifolia)
Il Tea Tree Oil si ottiene da un arbusto sempreverde dal nome botanico Melaleuca alternifolia, che cresce fino a 7 metri di altezza, ma non è il cosiddetto Tè cinese (o di fatto: camelia), che viene bevuto in tutto il mondo e da cui si producono essenze per profumi o cosmetici e che viene chiamato “olio di tè”. Le foglie di melaleuca sono state utilizzate dagli aborigeni per migliaia di anni per curare ferite e infiammazioni e loro hanno anche notato gli effetti curativi dell’acqua in cui cadevano le foglie dell’albero del tè. Le foglie dell’albero del tè furono scoperte anche dall’esploratore James Cook, che iniziò a prepararle e ad aggiungerle alla birra, da qui il nome della pianta dell’albero del tè. Attualmente esistono diversi tipi di
L’olio dell’albero del tè è sicuro da usare sulla pelle anche senza diluizione, ma vale sempre la pena controllare la reazione della pelle diluendolo in 


















